Contr'Uno
Pazzo fu sempre
De’ molti il regno. Un sol comandi, e quegli
Cui scettro e leggi affida il Dio, quei solo
Ne sia di tutti correttor supremo
Con questi versi di Omero si apre uno dei più celebri classici del
pensiero antiautoritario, il Discorso sulla servitù volontaria di La
Boétie, studio pionieristico sulle cause che inducono l’essere umano a
rinunciare alla propria libertà per sottomettersi a decisioni prese da
qualcun altro. Meno noto è il titolo originale di quest’opera:
Contr’Uno. La data della sua stesura, la metà del Cinquecento, ha
permesso a molti di delimitare l’ambito storico di questa analisi e del
suo significato, disinnescandone in tal modo la carica detonante.
Per i professionisti della cultura, ovvero gli specialisti del sapere
separato, così come per i militanti della politica, ovvero gli
specialisti dell’agire separato, il Contr’Uno è solo un’ammirevole
critica della monarchia e un vigoroso appello alla democrazia. L’Uno
contro cui si combatte è il Re; i Molti non possono che essere i suoi
sudditi, il Popolo. Il che equivale a dire che il posto giusto per La
Boétie è sugli scaffali polverosi delle biblioteche o su quelli forse
più lindi di qualche scuola-quadri. Come se l’interrogativo da lui
sollevato — perché obbedire al potere? — non attraversasse tutta la
storia fino ai giorni nostri.
Una rimozione cui ovviamente non si è
dedicato chi non sogna di conquistare Palazzi d’Inverno e chi ha a cuore
la libertà. L’antropologo libertario Pierre Clastres ad esempio, che a
La Boétie ha dedicato un saggio, vedeva nello stesso concetto di Stato
quell’Uno che pretende di comandare, dirigere e regolare la vita dei
Molti. Uno Stato che per sua essenza — qualsiasi siano il sistema
politico adottato, il modello economico seguito e il livello tecnologico
raggiunto — è sinonimo di sfruttamento e di massacro. Nel definire
tiranno l’Uno che impone la propria volontà a coloro che accettano di
sottomettersi, La Boétie non fa altro che scagliarsi contro la riduzione
del Molteplice diverso, contro la sua dissoluzione nell’uniforme
seriale identico a se stesso.
Ora il problema che si pone è il
seguente: ha senso limitare questo processo di costituzione dell’Uno,
con relativo sterminio della differenza, al solo contesto istituzionale?
Quando Clastres dichiara che «lo stato si vuole e ostentatamente
proclama: il centro della società; in una da sempre ribadita
rappresentazione antropomorfa, cervello che controlla le varie parti del
corpo sociale: il “tutto” dove le parti si ricapitolano; luogo delle
decisioni ultime: alle quali tutte devono allinearsi», non è certo
difficile concordare che di fronte ad esso «ci si trova sempre davanti a
una volontà di riduzione progressiva, e finale cancellazione del
molteplice, trasformando le diversità delle differenze in una identità,
(…) pratica del gusto dell’identico: culto dell’Unità». Ma se, oltre che
allo “Stato”, applicassimo lo stesso ragionamento al “partito”?
Probabilmente, solo gli stalinisti più accaniti troverebbero da
obiettare. E se poi, proseguendo nella riflessione, lo rivolgessimo alla
“assemblea”? Qui ci troveremmo di fronte a una levata di scudi
generale: esiste una notevole difficoltà ad abbandonare la consolante
idea che l’Uno indossi sempre e soltanto una divisa sporca di sangue.
Come affrontare le prospettive spalancate da una critica il cui vortice
mette in discussione il fondamento stesso del legame sociale, nonché il
destino della cosiddetta “convivenza civile”?
Eppure, a ben
guardare, anche nell’assemblea viene operata una riduzione della
differenza ad una medesima identità, indipendentemente dal formalismo
decisionale. Se ciò non viene percepito, è perché la consistenza
quantitativa della realtà è più immediata di quella qualitativa. Lo
Stato con il suo esecutivo, e per lo più anche il Partito col suo
comitato centrale, possono essere facilmente distinti e riconosciuti
come singole parti che pretendono di rappresentare il tutto. Viceversa
l’Assemblea, che è (o dovrebbe essere) lo spazio comune aperto a tutti,
viene considerata la forma per eccellenza del confronto diretto e
orizzontale, garante della libertà di ciascuno.
Ma le cose stanno proprio così, oppure si tratta di una delle tante arguzie della ragione?
Cominciamo col rilevare che la differenza — il Molteplice — non esprime
affatto una quantità, bensì una qualità. Un gran numero di persone che
pensano allo stesso modo, che si riconoscono negli stessi valori, che
condividono una stessa visione della vita, che hanno in bocca lo stesso
slogan, sono assai più vicini ad esprimere l’Uno che il Molteplice. Il
fatto che si possano ritrovare periodicamente a confermare la loro
omogeneità, tutt’al più prendendo atto di tanto in tanto dell’esistenza
di qualche minima dissonanza, non apporta modifiche. Però il dato
numerico è ciò che più colpisce l’occhio, alimentando un equivoco
talvolta intenzionale. La Moltitudine evocata ininterrottamente da certi
consiglieri a corto di Principi ne è un perfetto esempio. A che serve
prendersela con un Popolo riflesso collettivo dell’istituzione statale,
se poi lo si sostituisce con un riverbero collettivo dell’intellighenzia
di sinistra? In cosa consiste il rispetto della diversità, se poi chi
non si conforma alla collettività viene bollato in un certo senso come
“agente provocatore”?
In realtà la Molteplicità trova maggiore
espressione proprio in ciò che, apparentemente, la contraddice:
l’unicità dell’individuo. Ancorati come siamo a false dicotomie, a chi
verrebbe mai in mente di considerare Stirner un filosofo della
Molteplicità? Eppure, è proprio la singolarità dell’essere umano, la sua
irripetibilità, a costituire e garantire la Molteplicità. Più gli
esseri umani sono diversi tra loro, più rifiutano le identità collettive
offerte dalle convenzioni sociali e politiche (quelle che «di molti
tristi e miseri tutti, un popol fanno lieto e felice...», per dirla alla
Leopardi) per andare alla scoperta e alla creazione di se stessi, e più
creano nuovi desideri, nuove sensibilità, nuove idee, nuovi mondi.
Ragion per cui bisognerebbe stimolare e difendere le differenze
individuali, invece di appannarle in un comune accordo. Il governo che
invita ad un paese coeso, il comitato centrale che invita ad un partito
unito, l’assemblea che invita ad un movimento compatto, cercano di far
accettare una uniformità (di metodi e prospettive) che nella realtà non
esiste. Evocano interessi superiori e intanto irreggimentano. Mal
sopportano le critiche e sono sempre pronti a prendere provvedimenti nei
confronti di chi non si adegua (il governo attraverso le ispezioni, il
partito attraverso l’espulsione, l’assemblea attraverso l’ostracismo).
Con ciò dimostrando bene il loro intento politico, legato più all’arte
di governare che a quella di vivere. Questo aspetto viene considerato
scontato in ogni governo, presente nel partito, ma solo possibile
nell’assemblea. Benevolenza comprensibile, ma nient’affatto meritata, se
ci si sofferma su quello che può ben essere definito mito assembleare.
Ciò che affascina e distingue l’assemblea dagli altri organi
decisionali è che non ordina dall’alto, ma convince dal basso. L’ordine è
un’imposizione, inevitabilmente sgradita. Nulla a che vedere con una
scelta liberamente presa dopo una discussione. L’origine storica
dell’assemblea risale all’antica Grecia ed è inseparabile dalla nascita
della democrazia. Qui esisteva uno spazio sociale in cui tutti gli
individui occupavano una posizione “simmetrica”, «il centro di uno
spazio pubblico e comune. Tutti quelli che vi penetrano si definiscono
con ciò degli eguali... con la loro presenza in questo spazio politico,
essi entrano in rapporti di perfetta reciprocità gli uni con gli altri»
(J.P. Vernant). La democrazia greca era perciò il regime del
convincimento, entro cui il ruolo principale era occupato dall’elemento
più permanente e fondamentale: la parola. Il suo predominio faceva sì
che «all’oratore che sapeva cogliere e trascinare con la parola questa
folla ardente e capricciosa, e sempre così innamorata dell’arte, che fin
nei dibattiti più tempestosi voleva trovare uno spettacolo di eloquenza
così come un combattimento, a questo parlatore abile apparteneva il
governo dello Stato e l’impero della Grecia» (C. Benoît).
L’istituzione della parola al fine di convincere, della parola quale
fondamento dell’azione e modalità della decisione, della parola come
legame sociale, è concomitante alla separazione del mondo dei vivi da
quello dei morti. Da oracolo che manifesta il sapere degli dèi — e per
questo oscura ed enigmatica — la parola si fa portavoce del volere degli
uomini, sempre più chiara e persuasiva. Dalla sapienza si passa alla
filosofia, dalla dialettica si passa alla retorica. Nel suo saggio sulla
nascita della filosofia Giorgio Colli illustra come la dialettica
greca, non appena entrata «nell’ambito pubblico», si sia presto
«adulterata». Questo perché «gli ascoltatori non sono scelti, non si
conoscono tra di loro, e la parola viene rivolta a profani che non
discutono, ma ascoltano solamente». L’antica dialettica, se pur limitava
il numero dei partecipanti, ne garantiva almeno la reciprocità. Tutto
il contrario della retorica, «la volgarizzazione del primitivo
linguaggio dialettico», che sebbene sia nata indipendentemente dalla
dialettica si è sviluppata innestandosi su quella. Scrive Colli che «La
retorica è anch’essa un fenomeno essenzialmente orale, in cui tuttavia
non c’è più una collettività che discute, ma uno solo che si fa avanti a
parlare, mentre gli altri stanno ad ascoltare... mentre nella
discussione l’interrogante combatte per soggiogare il rispondente, per
avvincerlo con i lacci delle sue argomentazioni, nel discorso retorico
l’oratore lotta per soggiogare la massa dei suoi ascoltatori... Nella
dialettica si lottava per la sapienza; nella retorica si lotta per una
sapienza rivolta alla potenza», il che significa che il pensiero,
abbandonando l’astratto, «con la retorica rientra nella sfera
individuale, corposa, delle passioni umane, degli interessi politici».
L’inizio della democrazia in Grecia risale a un periodo storico, quello
a partire dal VII secolo, ricco di trasformazioni sociali, quali: la
nascita della polis, la scrittura della legge, l’introduzione della
moneta di conio, la fondazione delle colonie. Tutte queste novità
accompagnano l’avvento della società mercantile, in cui il controllo
delle proprie passioni, la prudenza, l’uso della ragione e la violenza
subdola delle norme di comportamento prendono il sopravvento sull’aperta
espressione dei propri desideri, sull’emozione violenta, sul conflitto,
che caratterizzavano l’antica società guerresca.
La figura del
filosofo nasce contemporaneamente a quella del commerciante. Entrambi
fondano la loro abilità sull’uso della parola, sulla sua forza
attrattiva e dimostrativa. Entrambi devono riuscire a convincere il
pubblico che li ascolta. Non è certo un caso se il luogo dove operano è
il medesimo, l’agora, che vuol dire al tempo stesso piazza e mercato.
Questo perché il centro della polis era riservato alle chiacchiere di
chi doveva vendere la propria merce, di chi argomentava per persuadere.
La dimostrazione è convincimento violento col linguaggio, è persuasione
che ci si può autoconvincere della verità di un argomento. Dimostrare
significa convincere che il comportamento che si vuole ottenere è
vantaggioso per la controparte. Il filosofo, come il mercante, deve
ingannare, ingannare con la persuasione.
La tanto vantata simmetria
dei partecipanti alle assemblee, la loro reciprocità, è una menzogna. Un
sotterfugio per meglio indurli ad acquistare quanto viene loro offerto,
ad approvare quanto viene solo da qualcuno sostenuto. Pericle, il cui
celebre discorso agli Ateniesi riesce a far lacrimare dalla commozione
perfino qualche ammiratore contemporaneo della democrazia diretta, aveva
un bell’assicurare che perfino chi apparteneva ai ceti meno abbienti
poteva «operare un ufficio utile allo Stato», giacché ad Atene vigeva
«l’assoluta equità di diritti nelle vicende di valori fondata sulla
stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui, eccellendo in un
determinato campo, può conseguire un incarico pubblico, in virtù delle
sue capacità reali, più che dell’appartenenza a questa o a quella
fazione politica». Resta il fatto che, pur tralasciando l’esclusione
degli schiavi e delle donne dalla vita pubblica ateniese, c’è da
dubitare che nella polis greca un cittadino povero possedesse le stesse
«capacità reali» dell’aristocratico Pericle. In democrazia tutti sono
uguali, certo, ma qualcuno è sempre più uguale degli altri.
Nelle
assemblee non si discute affatto tutti assieme, si ascoltano gli
interventi di chi è più abile ad esporre le proprie ragioni facendole
così passare per Ragione collettiva. Chi parla meglio, ovvero possiede
la favella più persuasiva, controlla l’assemblea (il più delle volte è
anche colui che la organizza). Chiunque abbia frequentato le assemblee
ne ha ben chiaro l’andamento. Quando la composizione è più omogenea, si
assiste al rimbalzo fra due/tre voci che incanalano docilmente verso la
decisione sovente già presa in separata sede. Gli spettatori, in
silenzio, prendono mentalmente appunti su cosa dovranno dire nel caso in
cui qualcuno dovesse interrogarli circa le loro idee. Chi dovesse
nutrire dubbi e perplessità si guarderà bene dall’esporli, per paura di
venir confutato da una brillante risposta. Se le assemblee sono più
allargate, allora è scontro fra le opposte fazioni per ottenerne
l’egemonia. Amplificati dai rispettivi gruppi di sostegno, i parlatori
più abili si danno battaglia. Qua i numeri possono fare la differenza,
perché non è affatto detto che la parola più abile sia anche l’ultima.
Bisogna fare i conti pure con le ambizioni personali ed i rapporti
affettivi, tutto il groviglio di simpatie, antipatie, pregiudizi,
calcoli strategici, rancori, vanità, e via intristendo.
Un’assemblea, per essere davvero un luogo di incontro fra eguali,
dovrebbe vedere la partecipazione di individui aventi le stesse
conoscenze e le stesse capacità espressive. Altrimenti è solo una
mistificazione, uno strumento per far apparire comune una decisione che
in realtà non lo è. Per questo l’assemblea è il luogo prediletto del
ceto politico di movimento, questa microburocrazia a caccia perenne di
una massa di manovra da coordinare e organizzare. Un teatrino dove si
danno appuntamento primedonne, semplici spalle e comparse a recitare lo
spettacolo del dialogo e del confronto, melensa finzione che trasforma
le idee contrastanti in opinioni divergenti per consentire il gioco
della conciliazione. Poco male, si potrà dire; che pastori e pecore si
diano rituale convegno per scambiarsi aspirazioni e rassegnazione,
rimane pur sempre affare loro. Chi non gradisce il tanfo da gregge non
deve far altro che starsene alla larga. Infatti. Rimangono però almeno
due nodi irrisolti.
Il primo è che disgraziatamente l’assemblea non
ha la natura privata di un club sadomaso, i cui membri sanno bene che la
loro passione è faccenda intima. No, l’assemblea pretende di
manifestare una ragione universale a cui tutti devono adeguarsi. E
questo è insopportabile. Come è stato più volte fatto notare (e
altrettante volte fatto dimenticare), la parola assemblea deriva dal
greco ecclesia. I fedeli vanno a messa per trovare Dio, i democratici
vanno all’assemblea per trovare la Ragione. Siamo tutti fratelli perché
siamo tutti figli di Dio, siamo tutti compagni perché siamo tutti figli
della Ragione (quella rivoluzionaria, ovviamente). Per gli uni come per
gli altri, fuori dalla Chiesa non c’è salvezza. Nell’antica Grecia il
linguaggio filosofico ruotava attorno alla nozione di una legge
universale e stabile, dominatrice della vita umana: il logos. Il logos
rappresenta il pensiero razionale, il pensiero normativo e astratto,
immanente non più alla natura ma agli uomini. Ma la ragione non è ciò
che appare, è bensì un principio permanente nascosto e difficilmente
accessibile: solo la filosofia può guidare alla sua scoperta. Il logos è
la legge universale che riconduce il molteplice all’unità, è la norma
generale che riconduce il divenire all’essere. «Se non sono io che voi
ascoltate ma il logos, è saggio riconoscere che tutto è Uno», sosteneva
Eraclito il quale, dopo aver preso atto a malincuore che il conflitto è
il principio primo del divenire, era stato costretto a ricorrere ad un
principio normativo prendendo ad esempio le leggi scritte della città:
«Chi vuole parlare sensatamente deve fare assegnamento su ciò che è
comune a tutti, come una città fa assegnamento sulla legge anzi, molto
più saldamente, giacché tutte le leggi umane si nutrono di un’unica
legge, la legge divina... Perciò si dovrebbe seguire ciò che è comune.
Ma quantunque il logos sia comune, vivono in molti come se avessero un
pensiero loro proprio».
Se bisogna seguire ciò che è comune a tutti,
se l’assemblea è il luogo in cui viene svelata grazie alla parola
questa essenza comune, allora la partecipazione all’assemblea diventa un
dovere, un obbligo, e la sua trasgressione va sanzionata. L’assente è
chiamato in qualche modo a rispondere della propria mancanza, a
presentare una giustificazione plausibile. Nel caso in cui un
partecipante cominci a dare segni di insofferenza e ad avanzare
critiche, è preferibile il suo allontanamento (l’ostracismo, che
nell’antica Grecia durava dieci anni) per salvaguardare l’integrità
dell’istituzione. Se poi c’è addirittura chi ha l’ardire di non mettervi
piede in maniera esplicita, magari deridendo questi momenti sacri
collettivi, allora per punire questa “tracotanza” vanno prese le misure
peggiori che ognuno dei partecipanti sarà in grado di adottare. Contro i
“qualunquisti”, i “menefreghisti”, gli “arroganti”, i “provocatori”,
quelli “che si isolano”, quelli “che non vogliono fare niente” (giacché è
l’assemblea che decreta il tutto da dire, fare e baciare), ogni mezzo è
consentito. Ed è così che, poco alla volta e senza nemmeno il bisogno
di un’autorità riconosciuta, il Molteplice viene ridotto alle dimensioni
dell’Uno.
Il secondo problema è che i momenti di incontro e di
confronto sono pur sempre indispensabili perché danno l’occasione di
scoprire nuovi complici, altri individui che ardono del medesimo fuoco.
In realtà la maggior parte di coloro che si recano in un’assemblea non
lo fa con lo scopo di farsi tosare, giacché non nutre grande interesse
né per l’ordine del giorno né per quanto verrà detto e deciso. Più o
meno segretamente, si è attratti soprattutto da quanto accade fuori
dall’assemblea. Ecco perché questa diventa inutile se non dannosa, un
peso morto che si trascina con noia. E non basta più togliere
all’assemblea il compito decisionale. Quel che voleva essere un
tentativo di superarne alcuni limiti, è diventata una di quelle buone
intenzioni da ostentare ma che servono solo da foglia di fico con cui
celare le vergogne dei piccoli compromessi e delle grandi alleanze.
Sarebbe meglio pensare ad altri pretesti per trovare momenti in cui
diventi possibile trovarsi, scoprirsi, prendersi o lasciarsi, senza
alimentare le ambizioni di chi vorrebbe essere «di tutti correttor
supremo».
Considerando che l’anarchismo si è sempre
caratterizzato per una coerenza fra i mezzi e i fini, per la sua ferma
convinzione che non si possa arrivare alla libertà attraverso
l’autorità, appare strana questa venerazione da parte degli anarchici
dello strumento assembleare. Come se l’Uno potesse partorire il
Molteplice. In fondo, l’origine del movimento anarchico è già una sfida
al principio centralizzatore, nella teoria come nella pratica.
Innumerevoli sono coloro che hanno immaginato l’anarchia come un insieme
di piccole comuni autosufficienti che, pur federandosi fra loro per
affrontare talune necessità o arricchire la propria esistenza, avrebbero
mantenuto comunque la propria indipendenza e le proprie peculiarità.
Liberi gli individui di vivere nella comune a loro più congeniale,
oppure di crearne di nuove. Liberi anche di vivere in solitudine, al di
fuori, appoggiandosi qua e là, se lo si desidera. Questo perchè la
libertà ha bisogno di spazio, ha bisogno di un altrove in cui possa
trovare rifugio chiunque non sia soddisfatto di ciò che esiste. «Non è
possibile una società comunistica se essa non sorge spontanea dal libero
accordo, se essa non è varia e variabile come la vogliono e la
determinano le circostanze esteriori ed i desideri, le volontà di
ciascuno», ammoniva Malatesta. Altrimenti la libertà soffoca per
mancanza d’aria e la sua declamazione perde di sostanza per divenire
ipocrita slogan. E se questo era il fine, i mezzi non potevano che
essere conseguenti. Basti pensare a colui che viene considerato il primo
anarchico italiano, Carlo Cafiero. Staccatosi dal pensiero autoritario
marxista, Cafiero sosteneva la costituzione di «circoli indipendenti
l’uno dall’altro», giacché «allo Stato accentratore, disciplinatore,
autoritario e dispotico, bisogna opporre una forza decentrata,
antiautoritaria e libera. Abbiamo bisogno di enumerare i vantaggi del
nuovo sistema? Oltre alla maggior forza di attacco e di resistenza,
l’azione procede di gran lunga più facile e spedita, ognuno sacrifica
più volentieri averi e vita per l’opera di sua propria iniziativa,
difficili e di danno limitato diventano i tradimenti, le sconfitte molto
parziali, tutte le attitudini e tutte le iniziative trovano il loro
pieno sviluppo... Non più centri dunque, non più uffici di
corrispondenza o di statistica, non più piani generali precedentemente
combinati, che ognuno cerchi di formare nella propria località un gruppo
intorno a sé, costruire un manipolo che impegni senz’altro l’azione.
Dieci uomini, sei uomini possono compiere in una città fatti che
troveranno un’eco in tutto il mondo... Ogni manipolo si farà da per sé
un centro d’azione, con un piano tutto suo proprio; e dalle molteplici e
svariate iniziative armonico ed uno risulterà il concetto di tutta la
guerra: la distruzione degli oppressori e degli sfruttatori». Al di là
delle considerazioni sui vantaggi pratici di una simile prospettiva
d’azione, viene qui ribadita la necessità di sviluppare ogni singola
tensione, di rifiutare l’illusione quantitativa, di difendere la propria
autonomia — la negazione dell’assemblea, piuttosto protesa a
sintetizzare tensioni, a ricercare il numero che si presume dia la
forza, a barattare l’autonomia singolare in cambio di un’efficienza
collettiva (per altro tutta da dimostrare).
Il tempo di Cafiero e
delle sue bande, però, non durò a lungo. Decimato dalla repressione, il
movimento si suddivise fra Andrea Costa con la sua organizzazione in
Partito ed Errico Malatesta con il suo partito dell’Organizzazione. La
politica, con tutti i suoi calcoli produttivi, prendeva il posto della
vita con tutti i suoi eccessi dispersivi. Dare piena licenza
all’individuo è pericoloso, potrebbe risvegliare il demone che cova
dentro di noi. La selva oscura va rasa al suolo e trasformata in società
civile, i selvaggi vanno educati e trasformati in cittadini. La
democrazia, in tutte le sue forme, esprime il bisogno di porre un argine
al disordine delle passioni attraverso l’ordine del discorso. Le buone
maniere, innanzitutto, per scongiurare quel caos che, essendo
impresentabile, è irrappresentabile. Da allora l’ossessione di limitare
attraverso la ragione l’esplorazione delle possibilità umane non ha più
lasciato l’essere umano, intimorito di andare ad urtare contro il muro
dell’assurdo.
[da Machete n. 6, settembre 2010]
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