giovedì 31 ottobre 2013

IL NICHILISMO LIBERTARIO DI MAX STIRNER



Nichilismo: manca il fine; manca la
risposta al “perché”;
che cosa significa nichilismo?
Che i valori supremi si svalutano.

Nietzsche, 1887




“Io ho fondato la mia causa su nulla”, afferma Goethe nella poesia “Vanitas! Vanitatum vanitas”, offrendo una plastica ricostruzione di cosa comporti la presa d’atto della in-giustificabilità del procedere logo-centrico.

L’uomo, si rende conto di non essere in grado di offrire una valida giustificazione per le sue pretese “fondative”.

Bene, male, giusto, sbagliato, tutto è “vano” in quanto privo di giustificazione ultima. I valori vanno in frantumi. Resta un’unica consapevolezza: “tutto è vano” in quanto in-giustificato.

Ciò che Goethe ha così ben trasmesso trova “eco” nell'opera anarchica di Max Stirner, che “rabbiosamente”, come ebbe a dire Franco Volpi, grida l’arbitrarietà di ogni tentativo volto all’assegnazione di un orizzonte di “senso” trascendente alla vita dell’uomo.

Chi può “giustificare” le grandi “costruzioni di senso” attraverso le quali l’umanità cerca di perimetrare il non-senso nel quale è gettata?

Stirner, ovviamente, ha di fronte a sé la “grandiosa impalcatura hegeliana” e davanti ad essa grida il suo sdegno per l’arbitrarietà di simili teorizzazioni.

Spirito in cammino, Ragione che fa la storia? Ma chi ha mai fatto esperienza di ciò?

Riprendendo il Kant trascendentale, Stirner, che espone il”suo sdegno” in “l’unico e la sua proprietà”, del 1844, è consapevole di quanto l’uomo possa “balbettare” soltanto di ciò di cui fa esperienza e, sottoponendo ad esame il proprio “ragionare discorsivo”, di quanto sia costretto ad ammettere di non avere valide giustificazioni per pretendere di dire qualcosa in più.

Dio, Anima e mondo, le tre “entità” della metafisica classica restano “fuori” da ogni affermazione che si pretenda razionale nell’accezione di giustificata, quindi procedente per inferenze necessarie.

Ciò di cui posso essere certo, e qui il richiamo è al Descartes che “apre la modernità”, è il mio esser-ci, afferma Stirner in quanto Unico.

L’esistenza originaria e individuale dell’Unico è la sola consapevolezza di cui possediamo certezza.

In tale ottica ogni costruzione di senso si origina su “nulla”.

Un “nulla” creatore che coincide con l’Unico che sono, questa affermazione lascia “vibrare”, per pagine e pagine Stirner.

Solo nella mia unicità, per affermare qualcosa del mondo, sono costretto a “costruire” affermazioni delle quali non posso offrire giustificazioni, in quanto è soltanto in virtù di una pretesa antropocentrica che assumo per postulato che il “mio discorrere” sul Reale equivalga a dire qualcosa di ciò che sta fuori di me.

In verità, questa, è proprio una pretesa che do’ per scontata, che non metto in discussione, quella secondo la
quale esista un mondo di cui discorrere, un mondo del quale “scoprire” leggi, movimenti, essenze.

Striner in queste affermazioni non fa che riprendere motivi da sempre presenti all’interno delle riflessioni filosofiche, almeno da Gorgia in poi.

La particolarità Stirneriana è legata alla consapevolezza che ogni “discorso” sull’ente non esaurisce la possibile gamma di verità sull’ente stesso.

Questa coscienza è ben esemplificata dal parallelismo che Striner fa con l’indicibilità di Dio.

Come dell’Ente sommo nulla si può affermare che ne esaurisca la realtà, così dice Stirner, nessun concetto può esaurire la mia “unicità”, sempre al di là dal poter essere “esaurita”.

Le assonanze di queste affermazioni con quelle Nietzschiane sono chiarissime, soprattutto in relazione al prospettivismo nietzschiano, che afferma, secondo la lettura Deleuziana, non che non ci siano verità ma che ce ne siano troppe, una per ogni piano di immanenza dal quale produciamo i nostri concetti. Una per ogni singolarità individuale.

Ora questa affermazione, che come risulta chiaro rimanda a certe intuizioni del”costruzionismo”, lungi dal negare il concetto di “verità”, ci sembra frantumarlo nella multiforme panoramica delle “differenze”, sempre cangianti e singolari.

Quelle stesse differenze dall’uomo linguisticamente ridotte al silenzio quando, “nominando” il reale, dapprima ne fa un “oggetto continuo” per poi oggettivarlo in generi, ordini e categorie sempre arbitrariamente contrassegnati, proprio come il gesto di chi osservando le foglie di un albero riduce l’insieme singolare e diverso di ogni singolo “mondo foglia”, abitato e innervato da vita singolare, ad un insieme denotato di senso in quanto parte di un tutto, per l’appunto, de-nominato “foglia”.

Stirner, in questa esaltazione dell’Unico, pone le basi per una critica radicale delle istituzioni sociali che reggono il nostro stare in comunità.

Afferma infatti che è una pretesa il-libertaria quella di costringere l’uomo in regole, istituti, leggi, che co-stringono la sua naturale propensione verso la libertà.

Questa costrizione lo aliena “zittendo” il suo anelito verso l’auto-determinazione.

Di tutto questo Stirner coglie e fa sue le istanze più esplicitamente legate al valore esistenziale di una ricerca del “paradiso perduto”, momento dopo cui l’uomo risulta infelice in quanto “dimentico” della sua originaria unità con una natura pre-sociale.

Il “Giardino delle delizie” di Bosch, ben rappresenta ciò che Stirner ha in mente per “felicità” pre-caduta, un libertario fluire di forme pre-individuali che, come il sangue nelle vene, vivono la pura identità con sé stessi.

Fabio Milazzo

mercoledì 30 ottobre 2013

...e gli altri predicatori della morte!






Due sono le categorie dei predicatori della morte. Alla prima appartengono i religiosi, coloro che credono ad una seconda vita, ad una vita eterna fatta di gioia. Costoro, naturalmente, cercano di dimostrare la vanità e la mediocrità della nostra vita terrena, per esaltare la vita che troveremo al di là della nostra morte fisica. La gioia è un peccato! La lotta, la rivolta, il piacere, la conoscenza sono peccati; vanità è ogni nostro sforzo per elevarci, vanità e peccato è ogni nostro tentativo per liberarci dalla schiavitù, per appropriarci del benessere.
L'umiltà, la rassegnazione, la rinuncia a tutti i piaceri, il disprezzo per la vita sono dei requisiti indispensabili per chi aspira alla vita eterna.
Alla seconda categoria appartengono i pessimisti e, in una certa misura, i fatalisti, coloro che in ogni azione umana vedono il dito del destino.
Per i pessimisti l'umanità è un solo immondezzaio ed essa è arrivata ad un tale grado dì abiezione e di corruzione, che più nessuna via di salvezza e di rigenerazione le rimane: essa si avvia fatalmente alla sua tomba. La cancrena che la divora è inguaribile!

Ed allora perché lottare per sanarla o per ritardare la sua fine? Non è, ciò, prolungare le sofferenze d'un moribondo? Sì!... Meglio dunque affrettare la sua morte! Meglio non dire agli uomini: disgraziati! perché vi sprofondate sempre più nel vizio? perché non cercate di sottrarvi al male che mina la vostra esistenza per incominciare una nuova vita più semplice, più buona, più in armonia colla natura? perché non vi liberate dal pantano in cui soffocate per salire sulle alture ove l'aria pura guarirà i vostri polmoni malati?

Uomo! Là è la nuova vita che devi incominciare, perché là è purezza, è gioia. Perché là è luce, è la sconfinata libertà, è il cielo azzurro, è la misteriosa musica e l'immensa bellezza delle foreste; è il verde ed il profumo dei campi in fiore, è, insomma, il figliol prodigo ritrovato, l'uomo riconciliato colla natura, che ritorna a vivere nelle sue braccia generose.

Ma no! Il pessimista — il vero ammalato cronico dell'umanità — non dirà parole buone e consolatrici; non dirà una parola d'amore e d'incoraggiamento verso il suo vicino sofferente; non prenderà né una goccia d'acqua per bagnare il suo labbro arso dalla febbre, né stenderà la pomata benefica sulla sua piaga dolorante.

No!... Egli non predicherà neppure il verbo della rivolta contro il male, ma la morte che è il male dei mali, e per guarire l'uomo di qualche tumore che ha sul suo corpo, ne consiglierà il taglio della testa. Così, dice qualche pessimista, potrà ricominciare una nuova... vita.

Distruggere l'umanità perché la vita ricominci ancora da capo? E si crede che l'umanità che sorgerà dalle rovine di questa sarà migliore e non ricadrà negli stessi vizi e negli stessi errori? E si crede che l'uomo si può distruggere e creare come si può distruggere e creare la vita delle società?

E poi, milioni d'anni ha impiegato l'uomo per divenire ciò che è, e noi, che non possiamo leggere nel passato che per qualche migliaio d'anni, come possiamo negare che vi fu progresso, miglioramento della sua vita? Prendiamo solo qualche esempio.

Non costituisce un progresso l'uomo che ha saputo liberarsi dai pregiudizi sociali e religiosi in confronto all'uomo che ne è ancora dominato? Non costituisce un progresso l'anarchico disertore, o colui che preferì la galera piuttosto che sottostare alle violenze del militarismo, in confronto all'anarchico che per vigliaccheria — o debolezza, se ciò consola di più — si lasciò sottomettere e contento di farsi strumento d'una causa che è contro la propria causa?

Cerchiamo, ora, di vedere che cosa siamo noi in confronto all'umanità. Sapremmo noi, almeno noi che abbiamo la pretesa di giudicare l'umanità e che lanciamo l'anatema contro la vita, vivere liberi e felici? Sì? Che cosa si vuol distruggere allora? Tutto? Leggi, morali, società, l'uomo, oppure si vuol distruggere l'umanità ma esclusi noi che ci riteniamo superiori ad essa? Siamo noi degli esseri più liberi, più perfetti della media del genere umano; abbiamo noi saputo liberarci dai pregiudizi, oppure siamo ancora schiavi d'essi e viviamo nella corruzione? Se sì, con quale diritto giudichiamo gli altri e mostriamo il nostro disprezzo contro l'«ignobile» folla? Se no, come possiamo con qualche frase sentenziosa (accidenti, che giudici arcigni ed infallibili siamo!) sostenere che altri individui, che la maggior parte del genere umano non possa arrivare a quel grado d'evoluzione e di perfezione a cui noi già siamo arrivati?

Si sostiene che l'umanità è troppo ammalata e che non vale la pena di curarla, che tanto la sua guarigione è impossibile. Bisogna affrettarne la fine, distruggerla fin nelle sue basi. E poi? Sarà il nulla, si dice!

Interessante e consolante questo nulla! Confesso la mia ignoranza per non essere ancora riuscito a comprendere come si riesce a concepire questo... ma come posso esprimerlo se è...

Il vuoto, il nulla, il niente non esiste. Provate ad immaginarvelo e dappertutto troverete qualche cosa.

Ma se non mi sbaglio, i novelli suicidisti teorici intendono dire la sola distruzione del genere umano, e non credo nemmeno che arrivino fino a quella di tutta la specie animale, perché sono convinto che se andassimo presso le cosiddette bestie a dir loro che sono corrotte marce ed a predicare la necessità della loro distruzione, queste ci si «sganascerebbero» sul muso (pardon! sotto il naso) e se potessero esprimersi a parole, ci direbbero con compatimento e dandoci un colpettino di zampa sulla spalla: uomo! E questo, come se noi dicessimo: bestia!
E se è a supporre che le bestie — almeno quelle che non sono torturate, massacrate e divorate da noi — non sono dispiacenti di vivere, perché non lo potremmo essere anche noi che pur siamo dotati di maggiori capacità sia fisiche che intellettuali?

È necessario che l'uomo ritorni alla vita animale, libero nel mezzo della natura libera, per essere felice? Ebbene: se la nostra evoluzione fu un male incominciamo l'involuzione verso il bene. Ritorniamo alla semplicità, devastiamo il nostro cervello; insomma, distruggiamo tutto ciò che l'uomo in millenni di vita sociale ha creato e ritorniamo alla vita primitiva e selvaggia, all'uomo armato di randello, vigoroso, sano, audace ed in lotta contro tutta la natura.
Ma ciò è necessario per trovare la felicità? Io non esito a rispondere: no! 
Ed esaminiamo le diverse cause dei nostri mali.

Una delle cause che procura all'uomo le maggiori, o meglio, l'illusione delle sue sofferenze fisiche e morali, è — e parrà strano — uno dei beni più apprezzabili che ha acquistato dal progresso nelle scienze e nelle industrie: la comodità.
La comodità ha ucciso nell'uomo la capacità alla lotta; la soppressione della lotta quotidiana ne ha distrutto il coraggio, e da qui la nostra vigliaccheria di fronte al pericolo, alla fatica, al dolore.

L'uomo primitivo che si trovava solo e disarmato a lottare contro mille pericoli: le belve, gli uomini, il vento, il gelo, la tempesta, le malattie, la fame, era dotato d'un coraggio sicuramente sconosciuto ai nostri giorni, e mantenuto ed aumentato dalla lotta quotidiana incessante; il suo fisico continuamente in azione era robusto e sano e sapeva sopportare le più grandi fatiche e sofferenze. Non temeva la lotta anche colle belve perché ciò entrava nel quadro e nella necessità della sua esistenza, ed il suo coraggio e la sua forza dovevano averlo reso tanto temibile, che le bestie anche più feroci, quand'egli s'internava nel folto della foresta, dovevano scansarsi piene di rispetto e di timore di fronte ad un nemico così deciso e pericoloso.
Questa pratica quotidiana di coraggio, questa lotta senza tregua, questo sfidare ad ogni istante la morte per procacciarsi gli alimenti necessari alla sua esistenza, rendeva l'uomo primitivo agguerrito contro tutte le fatiche e le sciagure.

La difficoltà ed il pericolo della lotta per la vita e le sofferenze che ne conseguivano non lo gettavano nella disperazione. Essendo la vita per lui il suo bene maggiore ed arrestandosi il suo ideale a se stesso, la difendeva fino all'estremo con denti ed artigli. Non avendo, poi, ideali metafisici da raggiungere, e tenendosi nel cerchio del reale e del possibile, senza lasciarsi troppo trasportare dall'immaginazione, è da supporre ch'egli non conosceva lo scoraggiamento, perché tutto ciò che pensava poteva essere realizzato nel corso della sua vita e da lui stesso.

La vita dell'uomo moderno, invece, si differenzia essenzialmente da quella dell'uomo primitivo?
Se è vero che per una gran parte dell'umanità la lotta per l'esistenza non è cessata, pur tuttavia essa è ridotta ai minimi termini, e le probabilità di procacciarsi il fabbisogno per l'esistenza senza grandi fatiche e pericoli, sono enormemente aumentati ed hanno raggiunto una certa stabilità.

L'uomo moderno, grazie all'arma da fuoco, è riuscito a dominare il regno animale, che con lui competeva nella lotta per la vita e l'ha soggiogato in parte ai suoi voleri ed ai suoi bisogni. Inoltre si è messo al riparo dalle tempeste e dal freddo costruendosi comode case e vestimenta; contro quasi tutte le malattie fisiche ha trovato dei rimedi che ne diminuiscono in gran parte le sofferenze.

Rimane la lotta fra gli uomini per ideali metafisici come quello di patria, ma anche qui delle convenzioni internazionali hanno già diminuite in gran parte le probabilità di guerre, e man mano che la cultura dilagherà dalle classi privilegiate a quelle del popolo, facendogli comprendere l'insensatezza di tali guerre, anche tali probabilità andranno rapidamente diminuendo fino a scomparire.

E vi è la lotta per il pane, lotta per strappare alla terra i suoi prodotti, ed in seguito lotta d'uno strato della società contro l'altro che cerca di accaparrarsi questi prodotti stessi.
Ma malgrado che questa lotta continui sorda e violenta, raramente i contendenti mettono in gioco la loro vita, come invece era obbligato a fare l'uomo primitivo ogni giorno, anzi, ogni istante, ed all'infuori di questa lotta esiste fra le parti contendenti un tacito accordo, che vale ad assicurare anche alla classe meno favorita il pane quotidiano, se non in misura sufficiente per soddisfare tutti i suoi bisogni fisici e morali, almeno sufficiente per non morire di fame.

Se l'operaio di cento anni fa avesse posseduto ad un tratto ciò che l'operaio d'oggigiorno possiede, è certo che avrebbe benedetta la vita. Ma ciò non è di noi, che abituati ad una maggior somma di benessere, ne rivendichiamo un altro superiore, come del resto la nostra capacità di produzione ce ne dà il diritto.

È indiscutibile che, per l'uomo moderno, le fatiche ed i pericoli per procacciarsi il suo nutrimento sono grandemente diminuiti e che le basi della sua vita sono andate divenendo sempre più tranquille, stabili e comode.

Ma man mano che la tranquillità e la stabilità della vita dell'uomo si va formando e che la lotta per l'esistenza diviene meno dura, il suo fisico perde d'agilità e di forza, il suo coraggio diminuisce: l'uomo si ammala di pigrizia, malattia che deriva dalla comodità. Così, se i suoi mali sono diminuiti, è diminuita pure in ugual misura la sua resistenza contro il male.

Se per l'uomo primitivo arrampicarsi sopra un albero era forse uno dei suoi divertimenti più facili e preferiti, per l'uomo moderno riuscirebbe ben penoso, e se il capogiro non viene a... trasportarlo rapidamente a terra, il suo coraggio almeno sarà messo a dura prova.

Se il primo colto improvvisamente in aperta campagna dalla tempesta e senza... ombrello, se ne ritornava tranquillamente alla sua caverna, il secondo ne sarebbe talmente terrorizzato, che ancora dopo parecchie settimane di una sì straordinaria avventura, sarà dominato dalla paura di malattie misteriose contratte e non ancora manifestatesi.

Infine: se per il primo restare due o tre giorni senza mangiare doveva essere per lui la cosa più comune e che non diminuiva né il suo coraggio né grandemente la sua energia, per il secondo — eccettuati gli anarchici che sono un po'... abituati a questi tiri birboni del... destino — restare un solo giorno crederà di morirne e costituirà un avvenimento così eccezionale che se ne rammenterà per tutta la sua vita, ed il solo ricordo lo farà rabbrividire.

Non son quindi le sofferenze e le fatiche che hanno rese le condizioni della vita dell'uomo moderno più dure, ma è la sua diminuzione di resistenza che gliele fa sembrar tali.
Se mi fosse permesso un paradosso, direi che la nostra mancanza di coraggio e la nostra cedevolezza di fronte al male, ci fa sembrare una eternità di gioia un attimo, ed un attimo di dolore un'eternità.

È la conquista sempre maggiore di benessere, di piaceri, di soddisfazioni materiali e spirituali che ce li rende comuni e ce ne fa deprezzare il loro valore; ed è il desiderio sempre insoddisfatto dell'uomo verso più grandi possessi che gli fa considerare con disprezzo ciò che già possiede.

Dovremo, quindi, arrestarci al punto in cui siamo e dichiararci soddisfatti di ciò che già è in nostro dominio?
Giammai! Evolvere è perfezionarsi e perfezionarsi è completare la nostra vita eliminandone le tare; è, infine, vivere maggiormente.

Soltanto che dobbiamo saper godere di ogni possesso nuovo considerandolo nel suo valore intrinseco e non lasciar menomare questo nostro godimento dal veleno de' desideri di cose non ancora entrate in nostro potere.
E sopratutto sappiamo resistere al dolore e non lasciamoci vincere dallo scoramento per le piccole lotte quotidiane.
Fortifichiamo il nostro coraggio; costruiamo la diga di resistenza contro il male, e che il nostro volere sia: vincere il dolore!

Se non riusciremo a distruggerlo interamente, saremo però riusciti a debellare il suo potere sulla gioia. Ancora, non lasciamoci impossessare dalla disperazione perché vediamo le cattive leggi che gli uomini si sono imposte e le malefiche abitudini che hanno contratto. Ricordiamoci solo che tutto ciò che l'uomo ha creato può essere dall'uomo distrutto.

Ai folli amanti esaltatori della morte, contrapponiamo l'equilibrio mentale, la gioia della vita!
Distruzione! Distruzione! Morte! Morte! È il verbo in special modo di un gruppo d'individualisti-nichilisti milanesi. E se qualcuno li accusa di amar la vita, arrossiscono di vergogna e protestano indignati contro sì infamante sospetto; e per addimostrare l'infondatezza di essa, aumentano il loro verbalismo-suicidista, pietoso.

Il mio individualismo anarchico, invece, non è soltanto distruttore, ma anche costruttore. Se tendesse solo a distruggere non sarebbe che nichilista ma non anarchico, perché l'anarchia non è una filosofia negativa ma costruttiva. Essa è nata per ricostruire la vita nella sua interezza e nella sua perfezione, ed a tale scopo — che può essere irrealizzabile nel suo assoluto — essa lavora e combatte contro la società presente che la vita sminuisce, corrompe, devasta, distrugge.

Il mio individualismo-anarchico crede nell'evoluzione verso il meglio e non ritiene che l'uomo è inesorabilmente perduto, ma che egli è un ammalato che può essere ancora guarito.
Se non fossi convinto di ciò, saprei senza tante parole il da farsi: una mezza parabola dalla più alta vetta non mi farebbe certo paura, perché la riterrei una vera liberazione. Chi ha paura della vita non deve aver paura della morte!
Ma io sono innanzitutto «anarchico» precisamente perché ritengo che la lotta dell'uomo contro il male non è vana, perché l'«anarchismo» (e picchio espressamente sul motto «anarchismo» perché mi sembra che parecchi compagni l'hanno dimenticato, per ricordarsi solo d'essere «individualisti») è filosofia di vita; è l'antidoto contro il male che cerca di minare la nostra esistenza; è la reazione violenta e tenace delle parti sane del nostro essere contro l'invasione feroce della morte; è, infine, movimento incessante verso la liberazione e la perfezione dell'individuo, ciò che significa: verso la vita e non verso la morte!
 Enrico Arrigoni


[Nichilismo, anno I, n. 9-10 dal 24 agosto al 9 settembre 1920]

martedì 29 ottobre 2013

TEMPO DELL'INFAMIA, TEMPO DEL SILENZIO




Il tempo decalato
dolce, lento e ingannevole
che assopisce le coscienze.

Il tempo rude
pressante e senza maschere,
che esige risposte.

Stretto tra alterni tempi,
l'uomo dignitoso
si chiude in silenzio.

I metronomi del potere,
nei recinti delle catalogazioni,
propongono archiviazioni del passato.

Esigono segni, parole, presenze sconfitte,
per seppellire per sempre
l'antichissima storia della rivolta.

Tempo della dissociazione
tempo dell'irriducibilità
tempo di dignitoso silenzio.

Chi non parla non esiste.

Ma è desiderabile esistere
per questi catalogatori
delle pulsioni sovversive?

ANDATE TUTTI A FARVI FOTTERE!


Horst, maggio 1987

martedì 22 ottobre 2013

L’INDIVIDUO E IL SUO BENE



  Che l’individuo erri o che sia nella giusta direzione, è sempre la ricerca del suo bene a condurne i passi e tutto ciò che si trova a portata della sua mano o del suo intelletto gli è indifferente se non sembra servirgli a procurargli questo bene, sia in un modo positivo, sia risparmiandogli una pena. Quando nel mondo antico lo vediamo moltiplicare i riti e i sacrifici propiziatori; sottomettersi con la minuziosità più estrema alle formalità di un culto i cui dèi sono tanto più esigenti quanto più sono numerosi e vicini all’uomo; vivere nell’angoscia di aver destato per una negligenza involontaria la collera di una potenza occulta che vuole la sua parte di omaggi – capiamo perché Epicuro, figlio di un’indovina ed esorcista, abbia avuto pietà di questa schiavitù e tentato di liberarne lo spirito umano. Ma non è affatto per amore degli dèi che l’uomo antico vincolava il suo pensiero e i suoi gesti a mille intralci ed assentiva ad ecatombi rovinose. Per amore di se stesso chiedeva al mondo esterno, di cui divinizzava, non conoscendola, la potenza benefica e maligna, di accordargli il bene e di risparmiargli la sofferenza. Senza arrivare sino alle nostre campagne più sperdute, dove sopravvive così fortemente questa condizione spirituale, non vediamo intorno a noi persone impregnate della cultura moderna fare delle offerte al santo che assicura il successo agli esami, a quello che fa ritrovare gli oggetti perduti o alla tal vergine che guarisce i malati? Nonostante gli sforzi generosi di qualche grande mistico per elevare l’umanità alla concezione dell’amore disinteressato, nonostante le esortazioni verbali del catechismo, smentite del resto dalle stesse pratiche del prete che le insegna, l’immensa massa dei credenti non agisce che per attirarsi i favori del dio o per scongiurare le sue collere.

   La speranza e la paura sono sempre state la solida base dell’emozione religiosa, che in sé non è mai esistita se non in qualche cuore d’eccezione e che nella maggior parte delle coscienze non sussiste se non per le promesse di felicità e le minacce di tormenti non solo ultraterreni, ma temporali, che la fondarono e che la fanno persistere. Quando un certo generale romano, malgrado tutti i vantaggi che gli si offrivano, rifiutava di intraprendere la battaglia e si esponeva ad essere vinto con una manovra del nemico, e ciò perché il volo degli uccelli non era stato favorevole, è in quanto considerava una battaglia persa meno dannosa di una disobbedienza nei confronti degli dèi. Anche quando sacrificava la sua armata, la sua propria gloria e il suo interesse personale, non compiva un atto di pietà pura e disinteressata. Tra la sconfitta e la collera degli dèi, sceglieva il male minore, in quanto era persuaso che i mali peggiori spettassero all’empio. Il fatto è che, se l’uomo può sbagliarsi su ciò che gli è utile o nocivo, non preferisce mai ciò che crede nocivo a ciò che crede utile. Ben lontane dal fare eccezione a questa regola, le religioni ne sono l’eclatante giustificazione e si può dire che esse siano, a dispetto o piuttosto a causa dei sacrifici personali che esigono, le più utilitarie fra le istituzioni umane.

   Trovare il suo bene, evitare la sua pena (il che è tutt’uno, non essendo il bene, più comunemente, che l’assenza di pena): ecco, per l’individuo, non l’unico segreto, ma il segreto essenziale. E se noi penetriamo il secondo segreto, messo così bene in luce da Guyau, se noi vediamo l’individuo, uomo o animale, compiere spontaneamente atti disinteressati che arrivano fino al sacrificio assoluto senza che intervenga un calcolo dei valori, è perché l’individuo non è un essere assolutamente autonomo e la specie, con i suoi istinti generali di conservazione collettiva, vive in lui, a sua insaputa, di una vita attiva e permanente.

   Del resto, nessun individuo può cercare il suo bene in se stesso e tirarlo fuori dal suo intimo fondo. Egli è autonomo in un certo senso, ma non esiste e non constata la sua autonomia personale che tramite il suo contatto e la sua relazione con ciò che lo circonda, cose e individui. Senza di essi sarebbe un punto nel vuoto, un punto che si ignorerebbe. Egli è certamente scopo a se stesso, le cose e le persone non sono per lui che dei mezzi; ma è precisamente perché queste cose e questi individui esistono come mezzi e le loro azioni e reazioni sono così in contatto, per conflitto o per accordo, con le sue proprie azioni e reazioni, che può realizzare questo fine, che è lui stesso. E le cose, come gli individui, non sono solamente fuori di lui, ma anche in lui, come idee e come realtà. Il mondo esterno è in lui come idea solo quando ha imparato a conoscersi e a penetrare un poco l’universo; mentre è in lui, come realtà immediata, per i caratteri etnici che gli consegna il suo ambiente e i caratteri morali che gli consegnano gli antenati che in lui sopravvivono.

   Il secondo segreto scoperto da Darwin e precisato da Guyau, che l’ha definitivamente introdotto nella filosofia, cioè il segreto della simpatia per i suoi simili, si trova dunque nella parte più profonda dell’individuo. La psicologia sommaria dei metafisici non poteva evidentemente scoprirlo lì, dove avrebbe sonnecchiato ancora a lungo senza l’intervento benefico dei naturalisti. Esso non si oppone, tutto il contrario, a che l’individuo cerchi soprattutto e prima di tutto il suo bene, a che si consideri come il suo proprio fine e non consideri i suoi simili che come suoi propri mezzi. Nell’incessante scambio che è la vita di relazione – e nessun’altra forma della vita è concepibile –, ogni individuo sente bene di essere se stesso ed è a se stesso che egli pensa attraverso gli altri individui. Egli sviluppa coscientemente la sua simpatia verso di loro per il bene che vi troverà e la sua antipatia è da commisurare al male che egli ne teme. Può sbagliarsi nelle sue simpatie e nelle sue antipatie, come può errare nella ricerca del suo bene ed intossicarsi con dei frutti velenosi credendo di nutrirsi; ma non lo si vede mai andare volontariamente contro il suo fine, che è se stesso, in tutte le circostanze per mezzo delle quali si conserva, si preserva e si accresce.

   L’individuo vive dunque essenzialmente per sé, ma non vive grazie a sé, poiché non è in se stesso che trova le condizioni della sua vita. Nemmeno l’attitudine ironicamente contemplativa dello scapolone che pretende di vivere da filosofo realizza quella vita autonoma dichiarata così eccellente dai teorici letterari dell’egoismo. Per quanto puramente intellettuale, per quanto completamente distaccato dalle agitazioni mondane e politiche, dagli affetti, dalle sofferenze e dalle pietà che ci oppongono o uniscono nell’immensa mischia umana, questo atteggiamento è solo un atteggiamento, non una regola di vita. Lasciamo poi perdere il brutto ruolo che interpreta colui che assume tale attitudine lasciandosi nutrire, vestire ed ospitare da persone che egli onora del suo disprezzo superiore: poiché l’individuo è il suo proprio fine e poiché il resto dell’universo – cose e persone – non è che il mezzo tramite cui egli si realizza, si sviluppa e si mantiene, si può ammettere per un istante che l’egoista si soddisfi ricevendo tutto e non dando nulla. Fintantoché gli altri individui, per ignoranza, acconsentono a donargli tutto ciò che gli permette d’essere e a non ricevere niente in cambio se non il suo disprezzo, è una questione fra lui e loro. Bene o male, ognuno di essi concepisce così il proprio bene; è sicuramente uno dei numerosi errori in cui cadiamo durante la ricerca del nostro bene, ma poco  importa per il momento.

   Ma la vita intellettuale di questo egoista non è formata, come tutto il resto, dai morti che sono in lui e dai vivi che gli sono attorno? La sua ironica contemplazione non trae unicamente il suo valore dallo strumento interiore donatogli dai morti e dagli oggetti che gli forniscono i vivi? – E sia, lui dirà. Ciò lo ricevo ancora con la stessa sprezzante serenità con cui ricevo il vitto e l’alloggio. Anche in questo senso il mondo esterno mi appartiene senza reciprocità. Le cose e gli individui sono per me dei mezzi, per me che, come ogni individuo, seguo il mio proprio obiettivo, rifiutandomi di essere un mezzo per gli altri individui; quanto alle cose, faccio del mio meglio per farne a meno, limitando i miei bisogni allo stretto necessario. In questo modo il mondo esterno mi fornisce lo spettacolo gratuitamente. Esso non ha che un mezzo per sfuggire alla mia osservazione poco benevola: è quello di sparire; lo sfido a farlo! Invano mi si minaccerà di privarmi delle gioie positive destinate a coloro che instaurano con esso un rapporto di simpatia. Queste gioie non esistono per me, io le ritengo un raggiro sentimentale: esse complicano la vita e vi introducono dei tormenti superiori per intensità alle gioie stesse.

   L’errore di questo egoista, il quale si crede un individualista, deriva dall’immaginare che ogni differenza sia una superiorità. Egli non è simile agli altri uomini, dunque è loro superiore. Non ha donato loro nulla e da loro ha ricevuto tutto, dunque è più ricco. Egli dimentica solo questo: che se la differenza è uno dei caratteri della superiorità, è anche uno dei caratteri dell’inferiorità. Per quanto riguarda la sua ricchezza, che si degni di farne un inventario sincero e sarà terrorizzato dalla sua povertà. Crede di averci preso tutto ed eccolo ridotto a ricevere l’elemosina della nostra pietà. Crede di averci spogliati ed è lui stesso che si è spogliato di tutti i mezzi per gioire e comprendere. La suprema ricchezza di questo povero pazzo è una suprema miseria. Per aver misconosciuto la gioia che c’è nel diffondersi, nel donarsi, nel prodigarsi, si è infine richiuso su se stesso. Non è lui che ha dominato su di noi, ma noi che abbiamo dominato su di lui. Abbiamo iniziato a coltivare un terreno che si è esteso attorno a lui a mano a mano che lui stesso si riduceva. Credeva di possederci nello spirito e di noi è arrivato ad ignorare tutto. Poiché egli non possiede che delle apparenze in ciò che esse hanno di più strettamente soggettivo. Ci scorge attraverso lo specchio alterato della sua coscienza ridotta e, quando crede di farsi beffe delle nostre imperfezioni, è della propria deformità che ride. Fa proprie le nostre aspirazioni all’ideale e, impedendogli il suo realismo inferiore di comprendere i nostri sforzi per avvicinarci ad esso, è la sua propria impotenza che diffama in noi. È condannato a non conoscerci se non per i nostri aspetti animali più bassi e brutti, e la sua pretesa scienza senza illusioni non si nutre che dello spettacolo incompleto di alcune delle nostre azioni, essendo essa divenuta incapace di intravederne la coesione e di distinguerne il senso. Egli assomiglia a un maniaco che trascorre le sue serate dietro le quinte di un teatro, che dello spettacolo non vede che attori ansiosi prima della loro entrata e sudati alla loro uscita, e che non ode che il rumore degli applausi e dei fischi attraverso i teloni chiusi. Sull’opera recitata un tale spettatore ne saprebbe meno del pompiere di servizio.

   È d’altronde inutile che il nostro egoista creda di sfuggire alla legge dello scambio universale. Non solo, credendo di ingannarci, si inganna allo stesso modo dell’avaro che muore di fame sul suo tesoro inutile, ma inoltre, suo malgrado, ci restituisce più di quanto non ci abbia preso, pur avendoci preso così poco. Crede che noi gli regaliamo uno spettacolo, mentre è lui che ce lo regala. È uno sconcio sociale, un ilota filosofico, e serve, comunque sia, al nostro apprendimento. Siccome lo si ignorerebbe se lui stesso non si curasse di esporsi ai nostri sguardi, è lui che si incarica di presentarci la sua miseria. Accanto al profitto che la letteratura ne ricava, nella misura in cui le opere soggettive sono sempre le più letterarie, lo sorprendiamo nel flagrante delitto di scambio con il mondo esterno. Così che egli non può affermare il suo egoismo se non negandolo.


Eugène Fournière, 
Essai sur l’individualisme, Alcan, Paris 1901, pp. 17-24

lunedì 21 ottobre 2013

POLITICA O ETICA


Dunque, la tecnica ha ucciso l'etica. Davanti ad una qualsiasi questione, l'essere umano non si chiede più cosa è giusto, ma cosa funziona. Non se lo chiede più perché ormai, nel nostro mondo dominato in ogni suo aspetto dalla tecnica, viene dato per scontato che giusto è ciò che funziona. Le idee diventano strumenti, da valutare non per il loro significato ma per il loro modo d'uso, per la funzionalità, per l’efficienza. Tutto ciò, come è stato più volte denunciato, è sicuramente una delle conseguenze dell'intromissione in ogni ambito dell'esistenza umana della tecnica. Ma sarebbe un errore credere che ciò sia riscontrabile solo in questi ultimi decenni infestati da computer e telefoni cellulari, schermi al plasma ed immagini tridimensionali.

Cos'altro è la politica se non la tecnica applicata all'azione trasformatrice dei rapporti sociali? E si pensa davvero che nel lontano passato non si sia seguita questa stessa logica? Si pensa davvero che la tara politica infesti solo la classe dirigente, uomini e donne assetati di potere, e non chiunque è pronto a scendere a compromessi con l'etica? Per ricredersi rispetto a queste consolanti certezze basterebbe pensare alla differenza – alla fine dell'Ottocento, all'interno del movimento anarchico, e davanti ad una medesima situazione – nel comportamento di un Errico Malatesta e in quello di un Luigi Galleani. Il primo, era il più noto esponente del cosiddetto Partito anarchico; il secondo, era il più acceso sostenitore di un anarchismo autonomo e informale.

Nel corso dei moti per il pane del 1898, quelli che portarono poi all'eccidio di Milano ad opera del generale Bava Beccaris, Malatesta venne  arrestato fin dal gennaio e processato con altri compagni alla fine di aprile. In quell'occasione la sua autodifesa, come già aveva fatto nei processi di Benevento del 1878 e di Roma del 1884, e come farà in quello di Milano del 1921, fu particolarmente accorta, non provocatoria, volta a chiarire il «vero pensiero» degli anarchici ma anche a strappare una sentenza meno dura possibile per sé e per i suoi compagni coimputati. Così egli iniziò affermando la propria fiducia nella giustizia della Corte, passando poi a controbattere le accuse che gli venivano mosse di essere «il capo degli anarchici», di perseguire la distruzione della famiglia e della società, di aver sobillato i moti del pane.

A questo proposito, poiché nel momento stesso in cui egli parlava – il 28 aprile 1898 – già la rivolta divampava in tutta Italia, Malatesta chiarì che nei suoi comizi aveva precisato che «non assalendo un villino e rubando in un forno si può risolvere la questione sociale... il pane è caro, non perché il sindaco è una canaglia, non perché Rudinì [l’allora presidente del Consiglio] è un malfattore, ma per tutto un complesso di cause sociali che non si possono risolvere se non mediante l'organizzazione delle masse». 

Poi, per meglio apparire sotto una luce bonaria ed edificante, ringraziò l'accusa: «Il PM mi ha fatto un altissimo onore, un onore che se fosse stato fatto sul serio basterebbe ad appagarmi dei tre anni di reclusione che mi vuol dare, ha detto che da quando sono venuto ad Ancona sono diminuiti gli omicidi, i furti, e non si sono più sparate bombe. Ma se questo fosse vero, mandatemi pure alla reclusione, mi ci manderete con un'aureola di gloria».

Ma non fu solo questo a costituire una «aureola di gloria» per Malatesta, il quale difese gli anarchici anche dall'accusa di eccitare all'odio: «domandatelo a quelle madri di famiglia che ci venivano a ringraziare, quando i loro figliuoli erano diventati anarchici e smettevano di ubriacarsi, e diventavano figli più affettuosi e più assidui lavoratori». Gli anarchici, gran brava gente! Dove arrivano loro, calano i furti e gli attentati, i ragazzi scapestrati mettono la testa a posto, moderano gli eccessi, onorano il padre e la madre e vanno a lavorare! Forse persuasa da queste parole, la Corte prese la sua decisione. La sentenza fu straordinariamente mite. Malatesta se la cavò con sette mesi di reclusione, in parte già scontati; gli altri imputati con sei mesi, e con una assoluzione.

Appena quattro anni prima, nel 1894, si era svolto a Genova il grande processo contro Luigi Galleani, Eugenio Pellaco e altri 33 imputati, accusati di «associazione a delinquere». Gli arresti avvennero a dicembre 1893 e all’inizio del gennaio 1894, ed il processo si aprì a maggio in un clima pieno di tensione. Galleani, considerato il «capo» dell'associazione e interrogato per primo, dichiarò fieramente di essere un anarchico rivoluzionario, di non credere ai mezzi legali, e di aver sempre fatto propaganda delle proprie idee.

Ex-studente di giurisprudenza, quindi consapevole delle procedure processuali, nonché grande oratore, Galleani riuscì a dominare il dibattimento rivendicando il proprio anarchismo («Io non son qui altro che a difendere la mia idea, idea che mi ha fatto seder sul banco dell'accusa come malfattore, poco curandomi della condanna che voi giudici borghesi potete infliggere alla mia persona e a quella dei miei compagni») e mettendo in difficoltà il principale teste dell'accusa, l'ex questore di Genova, a tal punto da essere più volte messo a tacere dal Presidente della Corte e dal pubblico ministero. Alla fine, di fronte ai ripetuti tentativi di zittirlo, Galleani alzò la voce: «Non posso fare a meno di osservare che mi aspettavo tutto ciò: sapevo che nella vostra qualità di giudici borghesi, non potevate né più né meno di quello che fate; prevedevo che il PM il quale ha paura della verità, mi avrebbe proibito di parlare perché sapeva infine che io avrei conchiuso col dire che qui, dove io siedo, egli coi giudici avrebbe dovuto sedere, poiché la società presente merita davvero il nome di società di malfattori della quale, consciamente o no, voi fate parte». Il pubblico presente esplose in un'ovazione e il Presidente della Corte fece sgomberare la sala.

Galleani, difeso da Pietro Gori, fu condannato a 3 anni di reclusione, inasprita da un sesto di segregazione cellulare, più 2 anni di sorveglianza, Pellaco a 16 mesi, gli altri a pene minori. Scontati i tre anni di reclusione, Galleani verrà mandato al domicilio coatto col massimo della pena: cinque anni. Altro stile, altro conto da pagare.

La dichiarazione in tribunale di Malatesta aveva funzionato. Ma era giusta? Quella di Galleani era giusta. Ma aveva funzionato? Fu Malatesta in gamba? Fu Galleani un fesso? Fu Malatesta un codardo? Fu Galleani coraggioso? Né una cosa né l'altra. In fondo entrambi fecero in quell'aula di tribunale quello che sempre facevano anche al di fuori. Il primo finì col subordinare le proprie idee alle necessità tattiche del momento, come fa un politico accorto. Il secondo espresse senza peli sulla lingua il proprio pensiero, come fa chi è immune da ogni calcolo politico. Politica o etica?

Siamo certi che Errico Malatesta sia rimasto soddisfatto di come andarono le cose. Ma siamo altresì certi che nemmeno Luigi Galleani se ne sia rammaricato.
Non di scelta strategica si tratta, bensì di scelta di vita.

sabato 19 ottobre 2013

DELLA CONOSCENZA IMMACOLATA


Quando s'alzò ieri la luna immaginai che volesse partorire un sole: tanto appariva larga e gravida su l'orizzonte.
Ma la sua gravidanza era menzogna; e crederei piuttosto ancora all'uomo nella luna, che alla donna.
Certamente, non ha nulla di maschio questo timido astro nottambulo. In verità essa erra sui tetti con malsicura coscienza.
Giacchè è lascivo e geloso l'anacoreta della luna, avido delle voluttà della terra e dell'amore.
No, non mi piace, questo gatto dei tetti! Mi urtano tutti coloro che spiano le finestre semichiuse!
Pio e taciturno esso cammina sui tappeti di stelle – ma io non amo gli uomini dal passo leggero, che non fanno risuonare il loro sperone.
Parla ogni passo sincero; ma il gatto striscia tacito sul suolo. Vedi, falsa s'avanza la luna, come un gatto.
Questa parabola vi dico, o sentimentali ipocriti, voi che volete la «conoscenza pura». Io vi chiamo lascivi!
Anche voi amate la terra e ciò che è terreno: vi lessi nell'anima! – ma nel vostro amore è vergogna e cattiva coscienza – rassomigliate alla luna!
Il disprezzo delle cose terrene persuase il vostro spirito, ma non i visceri vostri: questi sono la vostra parte più forte!
Ed ora vi vergognate del vostro spirito perchè è soggetto ai vostri visceri, e perchè vergognoso, esso va per vie recondite e false.
«Sarebbe per me cosa eccelsa – così dice a sè stesso il vostro spirito mendace – guardare la vita senza desideri e non, come il cane, con la lingua penzoloni:
«Esser felice nel contemplare, con volontà annientata, senza rapacità o invidia egoistica – freddo e grigio come cenere in tutto il corpo, ma con occhi ebbri di luna!
«Sarebbe per me la cosa più cara – così seduce sé stesso chi già fu sedotto – amare la terra come l'ama la luna, e non toccar che con lo sguardo la sua bellezza.
«E io chiamo immacolata questa percezione di tutte le cose, non domandare altro alle cose: che distendersi davanti ad esse come uno specchio con cento occhi».
Oh, voi, ipocriti sensibili e lascivi! Vi manca l'innocenza  del desiderio: ed è perciò che calunniate ogni brama!
In verità, non amate la terra come creatori, generatori, desiderosi dell'avvenire!
Dov'è l'innocenza? Là ove è la volontà di procreare. E colui che vuol creare oltre sè stesso, possiede, per me, la volontà più pura.
Dov'è la bellezza? Là ove con tutta la volontà debbo volere; dove voglio amare e perire, affinchè un'imagine non resti soltanto un'imagine.
Amare e perire: cose che s'accordano dall'eternità.
Volontà d'amare: significa volontà di morire. Così parlo a voi, o vigliacchi!
Ma il vostro ammiccare, vorreste chiamarlo, ora, «contemplazione!». E ciò che può essere guardato con occhi vili, deve esser battezzato «bello!». O voi, insozza tori dei nomi più nobili!
Ma questa dev'essere la vostra maledizione, immacolati cercanti la percezione pura, che non possiate mai generare: sebbene presso l'orizzonte gravidi e gonfi!
In verità, voi avete la bocca piena di nobili frasi: e noi dovremmo credere che il vostro cuore trabocchi, o artefici di menzogna?
Ma le mie parole sono deboli, disprezzate, contraffatte: volentieri io raccolgo ciò che nei vostri pasti cade sotto la mensa.
Questo mi basta ancora sempre – per dire la verità agli ipocriti! Sì, le scaglie, i gusci d'ostrica, le foglie spinose – vi faranno solletico al naso, o ipocriti!
Sempre, c'è un'aria putrida intorno a le vostre mense: vi sono in quell'aria i vostri pensieri lascivi, le vostre menzogne e le vostre dissimulazioni!
Abbiate dunque una volta l'ardire di credere – in voi stessi e nei visceri vostri! Chi non ha fede in sè stesso, mente sempre.
Vi poneste dinanzi la maschera d'un Dio, o uomini «puri»: in una larva divina si ravvolse il vostro orribile verme.
In verità voi ingannaste, col vostro aspetto, o «contemplativi!». Anche Zarathustra fu un dì il folle della vostra larva divina; egli non indovinò di quale groviglio di serpi fosse composta.
Credetti un giorno che si rispecchiasse nei vostri giochi l'anima di un Dio, o voi che cercate la percezione pura! Non conoscevo arte migliore dei vostri artifizi!
La distanza mi nascose il putridume e il lezzo dei vostri serpenti, e l'astuzia della lucertola che vi girava intorno lasciva.
Ma mi accostai: e mi venne la luce – e ora viene anche per voi, – finirono gli amori della luna!
Guardate là dunque! Sorpresa e pallida è là – dinanzi a l'aurora!
Che di già viene, ardente, – il suo amore per la terra s'appressa! L'amore del sole è innocenza e volontà di creare!
Guardate dunque, come l'aurora passa impaziente sul mare! Non sentite voi la sete e l'alito caldo del suo amore?
Essa vuole aspirare il mare e trarlo in alto dalle sue profondità: e il desiderio s'inalza con mille seni.
Vuol esser baciato e bevuto dalla sete del sole; vuol mutarsi in aria e in altezza e in sentiero di luce, e in luce!
In verità, alla guisa del sole, io amo la vita e i mari profondi.
E questa è per me percezione: tutto ciò ch'è profondo deve salire alla mia altezza!

Così parlò Zarathustra.
F. Nietzsche

venerdì 18 ottobre 2013

La ragione collettiva tradizionale è una finzione



  Posta in questi termini, la questione si trova ad avere, al di là del socialismo e del caos inestricabile causatogli dai tanti capiscuola, il merito della chiarezza e della precisione. Io sono anarchico, vale a dire uomo del libero esame, ugonotto politico e sociale, io nego tutto, non affermo che me; perché la sola verità che mi sia dimostrata materialmente e moralmente, con prove sensibili, apprensibili ed intelligibili, l’unica verità vera, sorprendente, non arbitraria e non soggetta ad interpretazione, sono io. Io sono, ecco un fatto positivo; tutto il resto è astratto e cade nel regno dell’X matematico, nell’ignoto: non ho da occuparmene.La società ha tutta la sua ragione d’essere in una vasta combinazione di interessi materiali e privati; l’interesse collettivo o di Stato, in considerazione del quale il dogma, la filosofia e la politica riuniti hanno fino ad oggi reclamato l’abnegazione integrale o parziale degli individui e del loro avere, è una finzione pura, la cui invenzione teocratica ha servito da base alla fortuna di tutti i cleri, da Aronne a Bonaparte. Questo interesse non esiste in quanto legislativamente apprendibile.Non è mai stato vero, non sarà mai vero, non può esser vero che ci sia in terra un interesse superiore al mio, un interesse cui debba il sacrificio, anche parziale, del mio interesse, sulla terra non ci sono che uomini, io sono un uomo, il mio interesse è uguale a quello di chiunque; posso dovere solo ciò che mi è dovuto; non mi si può rendere che in proporzione a quanto io do, ma non devo niente a chi non mi dà niente; dunque, non devo niente alla ragione collettiva, ossia al governo, perché il governo non mi dà niente, e tanto meno può darmi avendo solo quel che mi prende. In ogni caso, il miglior giudice che conosca sull’opportunità dei passi che devo fare e sulla probabilità del loro successo, sono io; non ho, a tal riguardo, nessun consiglio né lezione né, soprattutto, ordine da prendere da nessuno. Questo ragionamento è non soltanto diritto ma anche dovere d’ognuno d’applicarlo o sostenerlo. Ecco il fondamento vero, intuitivo, incontestabile ed indistruttibile del solo interesse umano di cui occorra tener conto: dell’interesse privato, della prerogativa individuale.Voglio con questo negare assolutamente l’interesse collettivo ? No di certo. Solo che, non piacendomi parlare invano, non ne parlo. Dopo aver posto le basi dell’interesse privato, agisco verso l’interesse collettivo come devo agire di fronte alla società una volta introdottovi l’individuo. La società è la conseguenza inevitabile e forzata dell’aggregazione di individui; l’interesse collettivo è, allo stesso titolo, una deduzione provvidenziale e fatale dell’aggregazione di interessi privati. L’interesse collettivo può essere completo solo fintanto che l’interesse privato rimane intero poiché, come si intende per interesse collettivo l’interesse di tutti, basta che, nella società, l’interesse di in solo individuo sia leso perché immediatamente l’interesse collettivo non sia più l’interesse di tutti ed abbia, per conseguenza, smesso d’esistere.E’ così vero che l’interesse collettivo è una deduzione naturale dell’interesse privato nell’ordine fatale delle cose, che la comunità mi prenderà il campo per tracciarvi una strada o mi chiederà la conservazione del bosco per migliorare l’aria solo dandomi un indennizzo. Qui è il mio interesse a governare, è il diritto individuale a pesare sul diritto collettivo; ho lo stesso interesse della comunità ad avere una strada e a respirare l’aria sana, tuttavia abbatterei gli alberi e mi terrei il campo se la comunità non mi indennizzasse, ma poiché è suo interesse indennizzarmi, il mio è di cedere. Così è l’interesse collettivo che risulta dalla natura delle cose. Ve n’è un altro accidentale ed anormale: la guerra, che sfugge alla legge, fa la legge a modo suo; non dobbiamo occuparcene più di quello permanente. Ma quando chiamate interesse collettivo ciò in virtù del quale mi chiudete la fabbrica, mi proibite l’esercizio di un’industria, mi confiscate un giornale o un libro, violate la mia libertà, mi proibite di essere avvocato o medico grazie ai miei studi privati e alla clientela, m’intimate l’ordine di non vendere questo, di non comprare quello; quando infine chiamate interesse collettivo ciò che invocate per impedirmi di guadagnarmi la vita alla luce del sole, nella maniera che preferisco e sotto gli occhi di tutti, io dichiaro di non comprendervi o, meglio, di comprendervi anche troppo.Per salvaguardare l’interesse collettivo, si condanna un uomo che ha guarito un suo simile illegalmente – è male far del bene illegalmente-; col pretesto che non ne ha i gradi, si impedisce ad un uomo di difendere la causa di un cittadino (sovrano) che in lui ha riposto fiducia; si arresta uno scrittore; si rovina uno stampatore; si incarcera un ambulante; si traduce in corte d’assise un uomo che ha lanciato un grido o si è pigliato una scuffia. Che ne ricavo da tutte queste disavventure ? Che ne guadagnate voi ? Corro dai Pirenei alla Mancia e dall’Oceano alle Alpi, e chiedo ad ognuno dei trentasei milioni di Francesi quale profitto abbiano tratto da tante stupide crudeltà esercitate in loro nome su sventurati le cui famiglie gemono, i cui creditori s’inquietano, i cui affari rovinano e che si suicideranno forse per disperazione o diverranno criminali rabbiosi una volta sfuggiti ai rigori che gli si fa subire. E, a questa domanda, nessuno sa ciò che ho voluto dire, ognuno declina la propria responsabilità per quanto avviene; l’infelicità delle vittime non ha fruttato nulla a nessuno: lacrime sono state versate, interessi sono stati lesi in pura perdita. Eh, questa selvaggia mostruosità voi la chiamate interesse collettivo! Affermo, per parte mia, che se questo interesse collettivo non fosse un vergognoso errore, lo chiamerei il più vile dei furti.Ma lasciamo perdere questa furiosa e sanguinosa finzione e diciamo che, poiché il solo modo di curare l’interesse collettivo consiste nel salvaguardare gli interessi privati, resta dimostrato e ampiamente provato che la cosa più importante, in materia sociale ed economica, è di liberare, innanzitutto, l’interesse privato. Dunque ho ragione di dire che la sola verità sociale è la verità naturale, è l’individuo, sono io.


Anselme Bellegarrigue

giovedì 17 ottobre 2013

IL ''PROPRIETARIO''

di Max Stirner



( ... ). Descrivere la figura stirneriana del "Proprietario" solleva tuttavia alcuni problemi particolari perché l'opera L'Unico e la sua proprietà di Stirner, che somiglia piuttosto ad uno scritto di circostanza, non è esente da imprecisioni terminologiche. Bisogna aggiungere a ciò che Stirner si guardò del tutto deliberatamente dal dare al Proprietario dei tratti ben precisi. È per questo che abbiamo a che fare qui, a dir il vero, con una forma senza forma. Dobbiamo dunque cominciare con il mostrare che è pertinente, malgrado tutto, parlare della "forma del Proprietario".

Stirner sviluppò la forma, la figura o la visione del Proprietario in un confronto tanto con Hegel quanto con i suoi critici razionalisti di "sinistra", Ludwig Feuerbach e Bruno Bauer. Conviene sin d'ora caratterizzarli brevemente sotto l'aspetto qui in questione.

Hegel rimproverava al pensiero dei Lumi la sua unilateralità: perché soltanto la natura era secondo esso, dotata di una ragione inerente che si trattava di conoscere -- ma non il "mondo etico", la storia della civiltà, lo stato, la fede, ecc. Per questo motivo egli si fece un dovere di sopprimere la "funesta divisione" dello spirito occidentale generata dai Lumi, attraverso una filosofia universale della "conciliazione" tra il sapere e la fede e un concetto [Begriff] universale della ragione. Pensava così di contribuire a fare ammettere a tutti coloro ai quali mancava la "semplicità naturale dei costumi" che la vera ragione non si manifesta nel modo di ragionare dei Lumi -- che aveva in testa di prescrivere al mondo come esso deve essere -- ma al contrario nella "saggezza di vivere come il proprio popolo", frutto di un paziente lavoro contro la soggettività.

Sapendo quanto fosse difficile per l'intelletto prenderne coscienza, Hegel ritenne indispensabile l'elaborazione di una formazione precoce dell'anima [Gemüt] secondo la formula: "La disciplina costituisce un elemento essenziale dell'educazione: essa ha per scopo quello di spezzare l'intestardimento del bambino ( ... ). L'elemento razionale deve apparire in lui come la sua soggettività più peculiare ( ... ). La vita etica deve radicarsi nel bambino come sentimento". 

La sinistra critica di Hegel, apparsa poco dopo la sua morte, aveva come ambizione la rianimazione delle idee francesi dei Lumi, in particolare le più radicali, di orientamento ateo, sino ad allora mai realmente giunte in Germania e nel frattempo dissoltesi nella stessa Francia. In effetti, essa voleva opporre alla filosofia contemplativa e retrospettiva di Hegel una "Filosofia dell'azione" volta verso l'avvenire e non più interpretare il mondo ma cambiarlo, cioè (secondo uno dei criteri immaginati da essi) migliorarlo, dettargli espressamente come esso doveva essere.

Su questo punto, giustamente, in un campo tanto importante come quello dell'educazione, i critici razionalisti e rivoluzionari di Hegel si accordarono ampiamente con lui senza rendersene conto. Così lo stesso anarchico Bakunin esigeva che i bambini "siano sottoposti al regime ... dell'Autorità sino alla loro età maggiore". Certo, con l'età, la detta autorità doveva addolcirsi, ma soltanto per questo motivo: "affinché questi giovani in divenire, quando fossero affrancati dalla legge, potessero dimenticare come essi furono guidati e dominati durante la loro infanzia da qualcosa d'altro che la libertà". 

Per formare questo uomo "razionale", in Hegel, uomo "morale" e nei razionalisti post-hegeliani, uomo "libero" o "essere generico", i rappresentanti di queste due posizioni fondamentali, d'altronde opposte, fecero dunque appello in modo evidente ad uno stesso principio, uno stesso metodo: l'introiezione nel bambino di pochi anni attraverso la forza bruta e se necessario attraverso la manipolazione -- in ogni caso in modo "irrazionale" -- di questo o quel sistema di valori considerato razionale, buono, giusto, ecc, che sia ereditato dalla tradizione, ritrovato, costruito o semplicemente inventato.

Soltanto Stirner riconobbe in questo tipo di "formazione" predicato da ogni parte il male radicale. I suoi stessi migliori risultati gli apparvero poco attraenti: "Cosa sono, per la maggior parte, i nostri personaggi spirituali e colti? Dei disdegnosi proprietari di schiavi, essi stessi schiavi". Dai "serragli" pedagogici non possono uscire al massimo che degli eruditi e dei "cittadini buoni a qualcosa", ma in definitiva costoro "non sono malgrado ciò che degli esseri assoggettati". Come per Hegel, il metodo di educazione è tanto decisivo per Stirner. È per questo, in un articolo precedente, contro Hegel e gli hegeliani di sinistra, egli dichiarava fermamente: "la volontà, che sino ad oggi si è voluto così violentemente oppressa, non dovrà essere indebolita ulteriormente" affinché appaiano " delle persone libere, dei caratteri sovrani". 

Nella sua opera L'Unico e la sua Proprietà, Stirner non parla più di uomo "libero", "sovrano", "autentico", ecc., ma, volendo fissare la terminologia, di "Proprietario". Là ancora, contemporaneamente contro i sostenitori e gli oppositori dei Lumi, egli considera come male fondamentale che "l'influenza morale [sia] l'ingrediente principale della nostra educazione". "L'influenza morale ha inizio dove comincia l'umiliazione, anzi non è altro che questa umiliazione stessa, cioè lo scoraggiamento del coraggio che, così spezzato e piegato, diventa umiltà". Il male risiede nel fatto che "tutta la nostra educazione riposa sulla volontà di produrre in noi dei sentimenti determinati, cioè di inculcarceli piuttosto che di lasciarcene produrre da noi stessi, come capitano". Soltanto questi ultimi pertanto potrebbero essere detti "miei", autentici sentimenti di cui sarei il "Proprietario"; i primi al contrario, benché innanzitutto estranei a me, mi apparterebbero subito, da questa specie di fondazione, come "sacri"; non ne sarei il loro proprietario, ma, dipendendo da essi, per essi -- "posseduto". 

Il concetto di sacro in Stirner è la chiave per comprendere la figura del suo Proprietario. "Tutto ciò per cui provate rispetto o venerazione merita il nome di sacro." Allorché ogni paura naturale ci spinge a liberarci dal giogo della cosa temuta, "con la venerazione, invece, le cose vanno assai diversamente. L'oggetto del nostro timore viene adesso non soltanto temuto, ma anche onorato: diventa una potenza interiore a cui non posso più sottrarmi ... sono completamente in suo potere ... L'oggetto temuto ed io siamo una cosa sola." Il sacro, secondo Stirner, costituisce dunque la struttura normativa stessa di qualunque società, interiorizzata dal bambino dopo introiezione, benché all'origine a lui estranea. È qui il risultato essenziale sino ad ora di ogni educazione. È "in breve, ogni questione di -- coscienza", è "inavvicinabile per l'egoista, intoccabile, al di fuori del suo [posseduto dal sacro] potere, cioè sopra di lui; è, secondo un'espressione più moderna impiegata dopo Freud (Das Ich und das Es [L'Io e l'Es], 1923) il Super-Io. 

L'idealtipo del "Proprietario" è dunque innanzitutto proprietario di quel che è suo, dei suoi pensieri come dei suoi impulsi; ma è egualmente proprietario del "mondo" (della natura, degli uomini, delle cose, dello stato, ecc.) per poco che non si ponga di fronte ad essi con "rispetto e devozione". Il Proprietario ("il suo io") non vive, non pensa e non agisce sotto il controllo dell'irrazionale, sotto la costrizione inconscia di un Super-Io estraneo. La sua autonomia è vera e non, come in quelle diverse filosofie sostenitrici o oppositrici dei Lumi, una finzione del "come sé", una eteronomia semplicemente integrata in un modo o in un altro. È il vero tipo di maturità, non soltanto una forma vuota evocata e possiede una "propria" comprensione di se stesso tale, che non è utile pregarlo di mostrarsi conseguente.

A proposito del Proprietario non è dunque detto nulla più di questo: non è né influenzato né condotto nei suoi giudizi di valore da un qualunque Super-Io irrazionale. D'altronde, a cosa somiglierebbe un mondo di proprietari, la questione non si pone nemmeno. Stirner nota tuttavia che questo "mondo sacralizzato sino alla minima delle sue parti", con le sue molteplici etiche, religiose o non, esortanti tutte al sacrificio ed alla negazione del sé, "dovrebbe ormai aver perso la sua apparenza attraente, dopo che i suoi effetti millenari non hanno portato ad altro che all'attuale miseria". Rimprovera ai rivoluzionari del suo tempo di conservare essi stessi la suddetta miseria tanto a lungo poiché non combattono che "l'aldilà fuori di noi", e lasciano al contrario intatto l'"aldilà dentro di noi" (il sacro, la coscienza irrazionale, il Super-Io). Essi restano in tal modo, malgrado il loro ateismo, spesso fanatici, prigionieri del "cerchio magico del cristianesimo". 

La fine di questa miseria dell'uomo condotta da qualche Super-Io sarebbe un mondo di proprietari. Questo mondo non saprebbe malgrado ciò essere conquistato da qualche "rivoluzione" perché dei proprietari non apparirebbero che qui o là, in casi particolari di disposizioni favorevoli, sotto forma di autoliberazione individuale ("ribellione"); essi non potrebbero apparire su scala sociale soltanto se gli educatori volessero rinunciare una volta per tutte alla loro "influenza morale" sui bambini e ne accettassero almeno le conseguenze: "Quei monelli insolenti non si lasceranno più abbindolare con chiacchiere e piagnistei e non proveranno alcuna simpatia per tutte le scemenze per le quali voi vi esaltate e di cui vaneggiate da sempre: essi aboliranno il diritto ereditario, cioè non vorranno ereditare le vostre cretinate che voi invece avete ereditario dai vostri antenati; essi cancelleranno il peccato originale". Che una simile evoluzione, se dovesse accadere un giorno, non potrebbe essere che di ampio respiro e si estenderebbe necessariamente su molte generazioni, Stirner ne era cosciente: "Al futuro, invece, sono riservate le parole: 'Io sono proprietario del mondo delle cose e io sono proprietario del mondo dello spirito'". 


Bernd A. Laska