martedì 31 marzo 2020

Dialogo tra un prete e un moribondo

Donatien-Alphonse François marchese de Sade




Il prete: Arrivato infine all’istante fatale in cui il velo dell’illusione non si apre che per mostrare al peccatore il quadro crudele dei suoi errori e dei suoi vizi, non vorrai pentirti, figlio mio, dei diversi disordini in cui la debolezza e la fragilità umana ti hanno trascinato?

Il moribondo: Certamente, amico mio, mi pento.

Il prete: Approfitta quindi di questi fortunati rimorsi per ottenere dal cielo, negli ultimi istanti della vita, la completa assoluzione dei peccati, pensando però che soltanto attraverso il santissimo sacramento della penitenza ti sarà possibile ottenerla dall’Eterno.

Il moribondo: Non credo di capire più di quanto tu non abbia compreso me.

Il prete: Cosa vuoi dire?

Il moribondo: Ti ho detto che mi pentivo.

Il prete: Questo l’ho sentito.

Il moribondo: Sì, ma senza capire.

Il prete: Ma come dovrei interpretare…?

Il moribondo: Ecco… Creato dalla natura con gusti vivissimi e assai robuste passioni, unicamente venuto al mondo per soddisfarli; ed essendo questi effetti del modo in cui fui creato semplicemente necessità relative ai fini essenziali della natura, o se preferisci, derivazioni essenziali dei progetti della natura sul mio conto, sempre in rapporto alle sue leggi; io non mi pento che dell’uso mediocre che ho fatto delle facoltà (secondo te criminali, semplicissime per me) ch’essa m’aveva dato per servirla. Qualche volta io resistetti ai suoi impulsi: ora me ne pento. Accecato dall’assurdità dei tuoi sistemi mi pento di avere contrastato la violenza dei desideri che un’ispirazione ben più che divina mi forniva, limitandomi a cogliere fiori quando avrei potuto cogliere frutti. Ecco i motivi del mio giusto pentimento, ti prego di stimarmi abbastanza da non attribuirmene altri.

Il prete: Dove mai ti portano i tuoi errori, dove ti conducono i tuoi sofismi! Alla cosa creata attribuisci tutta la potenza del creatore, e queste sciagurate tendenze che ti hanno posto sulla cattiva strada, non ti accorgi che sono solamente gli effetti di quella natura corrotta, alla quale attribuisci l’onnipotenza?

Il moribondo: Amico mio, la tua dialettica mi sembra falsa quanto il tuo spirito. O ti sforzi di ragionare esattamente o mi lasci morire in pace. Che cosa intendi per creatore e che cosa per natura corrotta?

Il prete: Il creatore è il padrone dell’universo, colui che ha fatto tutto, che ha creato tutto, e che tutto conserva per un semplice effetto di onnipotenza.

Il moribondo: Un grand’uomo, in fede mia! Ebbene, dimmi allora perché un uomo simile, così potente, ha fatto, secondo te, una natura corrotta.

Il prete: E quale sarebbe stato il merito degli uomini se Dio non avrebbe lasciato loro il libero arbitrio? e quale premio avrebbero potuto godere se sulla terra non vi fosse stata la possibilità di fare il bene e quella di evitare il male?

Il moribondo: Così il tuo Dio ha voluto fare tutto al contrario, unicamente per tentare o provare la sua creatura; ma non la conosceva dunque, non aveva certezza dunque del risultato?

Il prete: La conosceva indubbiamente, ma ancora una volta voleva lasciarle il merito della scelta.

Il moribondo: Ma perché, dal momento che conosceva a priori la sua scelta, non sarebbe dipeso da lui, visto che lo dici onnipotente, non sarebbe dipeso da lui, dico io, costringerla a scegliere il bene?

Il prete: Chi può comprendere le immense ed infinite vedute di Dio sull’uomo, chi può mai capire tutto quello che vediamo?

Il moribondo: Colui che semplifica le cose, amico mio, specie colui che non moltiplica le cause per meglio imbrogliare gli effetti. Perché ti crei una seconda difficoltà, quando non sei capace di spiegarti la prima? e poiché è possibile che la natura, da sola, abbia fatto tutto ciò che attribuisci al tuo dio, perché vuoi andare a cercarle un padrone? La causa che ti sfugge può essere la più semplice del mondo. Approfondisci la tua fisica, e comprenderai meglio la natura; purifica la tua ragione, elimina i pregiudizi e non avrai più bisogno del tuo dio.

Il prete: Disgraziato! ti credevo semplicemente sociniano, e m’ero preparato a combatterti, mi accorgo che sei ateo visto che il tuo cuore rifiuta l’immensità delle prove autentiche che riceviamo ogni giorno circa l’esistenza del creatore, non ho più nulla da dirti. Non si può restituire la vista ad un cieco.

Il moribondo: Amico mio, ammetti un fatto: il più cieco di noi due è quello che si mette la benda sugli occhi non quello che se la strappa. Tu costruisci, inventi, moltiplichi; io distruggo, semplifico. Tu assommi errori ad errori: io li combatto tutti. Chi di noi due è il cieco?

Il prete: Allora non credi per niente in Dio?

Il moribondo: No. E ciò per una ragione assai semplice: non mi è possibile credere in ciò che non comprendo. Tra la comprensione e la fede debbono esserci rapporti immediati; la comprensione è il primo alimento della fede; dove non agisce la comprensione, la fede è morta, e coloro che, in questo caso, pretendessero di averne, sarebbero degli impostori. Io sfido anche te a credere nel dio che vai predicando, in quanto non sapresti dimostrarmelo, in quanto non lo sai definire, e conseguentemente non lo capisci; e poiché non lo capisci non puoi fornire la benché minima dimostrazione. In una parola tutto ciò che è al di sopra dei limiti dello spirito umano, è o chimerico, o inutile; e poiché il tuo dio non può essere che l’una o l’altra di queste cose, nel primo caso sarei un pazzo a credervi, nel secondo un imbecille.
Amico mio, provami l’inerzia della natura, e ti concederò il creatore; provami che la natura non è autosufficiente, e ti permetterò di supporre un padrone. Fino a quel momento non aspettarti nulla da me, mi arrendo solo all’evidenza e questa non la ricavo solo dai miei sensi; dove questi si arrestano la mia fede perde le sue forze. Credo nel sole perché lo vedo e lo concepisco come il centro di riunione di tutta la materia infiammabile della natura; il suo periodico cammino mi dà gioia ma non mi stupisce. Si tratta di un fenomeno di fisica, forse molto semplice come l’elettricità; ma che non comprendiamo. Che bisogno c’è di andare oltre? Quando avrai innalzato il tuo dio al di sopra di tutto ciò, che vantaggio ne ricaverò, non mi ci vorrà forse per comprendere l’artefice uno sforzo altrettanto grande di quello occorrente a definire l’opera?
Non mi hai reso alcun servizio, quindi, costruendo la tua chimera, hai turbato il mio spirito ma non lo hai illuminato, per cui ti devo solo del rancore in luogo di riconoscenza. Il tuo dio è una macchina che hai fabbricato per servire le tue passioni, e tu la fai muovere secondo le necessità di queste; ma non appena essa disturba le mie, adattati a vederla rovesciare. Nell’istante in cui la mia debole anima ha bisogno di calma e di filosofia, evita di disturbarla con i tuoi sofismi, che incutono paura senza riuscire a convincere, che irritano senza rendere migliore. La mia anima, amico mio, è ciò che la natura ha deciso che fosse, cioè il risultato degli organi forniti da essa in funzione dei suoi scopi e delle sue necessità; e, siccome essa ha parimenti bisogno di vizi e di virtù, quando le è piaciuto spingermi ai primi lo ha fatto, quando ha voluto le seconde, me ne ha ispirato il desiderio, ed io mi sono ugualmente abbandonato. Non cercare che le sue leggi come unica causa dell’incoerenza umana, e non cercare a queste leggi principio differente del suo volere e delle sue necessità.

Il prete: Così nel mondo è tutto necessario?

Il moribondo: Assolutamente.

Il prete: Ma essendo tutto necessario tutto soggiace ad una regola.

Il moribondo: E chi dice il contrario?

Il prete: Ma chi potrebbe regolare tutto in questo modo se non una mano onnipotente e saggia?

Il moribondo: Non è necessario che la polvere prenda fuoco quando si avvicina alla fiamma?

Il prete: Sì.

Il moribondo: E quale saggezza ci trovi?

Il prete: Nessuna.

Il moribondo: È possibile quindi che esistano cose necessarie ma prive di saggezza, e per conseguenza è possibile che tutto derivi da una causa prima senza che in questa vi siano ragione o saggezza.

Il prete: Dove vuoi arrivare?

Il moribondo: A provarti che tutto può essere così com’è e come lo vedi, senza che alcuna causa saggia e ragionevole lo guidi, e che effetti naturali debbono avere cause naturali, senza la necessità di supporre per loro una causa soprannaturale come sarebbe il tuo dio,il  quale, come ti ho detto, avrebbe bisogno di spiegazione invece di fornirne; e che per conseguenza non essendo buono a nulla, è perfettamente inutile. Ora essendo assai probabile che ciò che è inutile sia vano e che ciò che è vano sia niente, così, per convincermi che il tuo dio è una chimera, non ho bisogno di ragionamenti diversi da quelli che mi fornisce la certezza della sua inutilità.

Il prete: Su queste basi mi pare superfluo parlarti di religione.

Il moribondo: Perché no? Nulla mi diverte di più della prova degli estremi cui sono giunti il fanatismo e l’imbecillità degli uomini su questo argomento. Si tratta di pervertimenti così straordinari, che la descrizione, secondo me, sebbene terribile, risulta sempre interessante. Rispondi francamente, e soprattutto senza egoismo. Se fossi tanto debole da lasciarmi sorprendere dai tuoi ridicoli sistemi sull’esistenza favolosa dell’essere che rende necessaria la religione, sotto quale forma mi consiglieresti di onorarlo? Vorresti che adottassi le fantasie di Confucio piuttosto che le assurdità di Brama? dovrei adorare il gran serpente dei negri, l’astro dei Peruviani, o il dio degli eserciti di Mosè? a quale setta di Maometto vorresti che mi abbandonassi? o quale eresia cristiana sarebbe secondo te preferibile? Attento alla tua risposta.

Il prete: E puoi avere dei dubbi su questa risposta?

Il moribondo: Ecco allora il tuo egoismo.

Il prete: Assolutamente, è perché ti amo come me stesso che ti consiglio ciò in cui credo.

Il moribondo: Ma il prestare orecchio a simili errori significa amar ben poco tutti e due.

Il prete: Ma chi potrà restare cieco davanti ai miracoli del nostro divino redentore?

Il moribondo: Colui che non vede altro in lui che il più comune dei furbi o il più volgare degli impostori.

Il prete: O dèi, voi lo udite e non tuonate?

Il moribondo: No, amico mio, tutto è in pace, perché il tuo dio, sia per impotenza, sia a ragione, sia tutto quello che vuoi tu, dando per buono quest’essere che accetto per un momento solo per accondiscendenza verso di te, o, se credi meglio, per adattarmi alle tue ristrette vedute, perché questo dio, dicevo, se esiste come tu hai la follia di credere, non può avere scelto per convincerci dei mezzi così ridicoli come quelli che il tuo Gesù suppone.

Il prete: E come, le profezie, i miracoli, i martiri, non sono forse delle prove?

Il moribondo: Come vuoi che in buona logica io possa accettare come prova qualcosa che ha bisogno a sua volta di essere provata? Perché la profezia possa considerarsi come prova occorre anzitutto avere l’assoluta certezza che sia stata fatta. Ora essendo ciò certificato dalla storia, non può avere per me altra validità che quella di tutti gli altri fatti storici, dei quali i tre quarti sono fortemente dubbi. Se a questo aggiungo ancora il sospetto più che ragionevole che questi fatti sono stati tramandati da storici interessati, come vedi sarò bene in diritto di dubitare. D’altra parte chi mi garantirà che quella determinata profezia non sia stata fatta dopo l’avvenimento, che non sia l’effetto di una combinazione di astuzia semplicissima, come quella che prevede un regno felice sotto un re giusto, o un gelo d’inverno? E se tutto sta cosi, come vuoi che la profezia, la quale ha un simile bisogno di essere provata, possa essa stessa diventare una prova?
In merito ai tuoi miracoli, essi non mi convincono di più. Tutti i furbi ne hanno fatti e tutti gli sciocchi li hanno creduti. Per convincermi della verità di un miracolo, dovrei essere sicuro che l’avvenimento che chiamate tale, sia assolutamente contrario alle leggi della natura, in quanto solo ciò che è al di fuori di essa può essere considerato miracolo: ma chi la conosce così profondamente da osare affermare qual è precisamente il punto dove essa si ferma o dove è infranta? Sono sufficienti due sole cose per accreditare un preteso miracolo: un ciarlatano e delle donnette. Va’, non cercare mai altra origine ai tuoi miracoli, tutti i nuovi settari ne hanno fatti, e, cosa più singolare, tutti hanno trovato degli imbecilli che vi hanno posto fede. Il tuo Gesù non ha fatto nulla di più originale di Apollonio di Tiana, eppure nessuno penserebbe di considerare quest’ultimo come un dio. Quanto ai tuoi martiri, essi sono certamente il più debole di tutti i tuoi argomenti. Basta l’entusiasmo e la resistenza per avere dei martiri, e finché la causa contraria ne presenterà quanto la tua, non mi sentirò mai sufficientemente autorizzato a credere l’una migliore dell’altra, ma caso mai spinto a considerarle entrambe discutibili.
Oh, amico mio, se esistesse davvero il dio che predichi, avrebbe bisogno dei miracoli, dei martiri e delle profezie per stabilire il suo regno? E se, come dici, il cuore dell’uomo è opera sua, non sarebbe là il santuario che sceglierebbe per la sua legge? Questa legge, uguale per tutti perché frutto di un dio giusto, sarebbe irresistibilmente impressa in modo identico in tutti, da una punta all’altra dell’universo; così tutti gli uomini accomunati da quest’organo delicato e sensibile, si rassomiglierebbero maggiormente nell’omaggio che renderebbero al dio da cui l’hanno ricevuto; così tutti avrebbero soltanto un modo di adorarlo e di servirlo, e sarebbe per loro impossibile misconoscerlo come pure resistere alla intima attrazione del culto. Invece che cosa vediamo nell’universo? Tante divinità per quanti sono i paesi, tanti modi di servire questi dèi per quanti sono le teste e le immaginazioni. E questa molteplicità d’opinioni, nella quale è materialmente impossibile orientarsi, sarebbe, secondo te, l’opera di un dio giusto?
Va’, predicatore, tu oltraggi il tuo dio presentandomelo in questo modo; lasciamelo negare del tutto, in quanto se esiste lo oltraggio meno io con la mia incredulità che tu con le tue bestemmie. Torna alla ragione, predicatore, il tuo Gesù non vale di più di Maometto, Maometto non vale di più di Mosè, e tutti e tre non valgono di più di Confucio, il quale in ogni caso riuscì a dettare qualche buona massima mentre gli altri farneticavano. In generale si tratta di tutta una genia di impostori, di cui il filosofo si burla, in cui la canaglia ha fede e che la giustizia avrebbe dovuto impiccare.

Il prete: Purtroppo è quello che la giustizia fece con uno dei quattro.

Il moribondo: Era quello che lo meritava di più: sedizioso, turbolento, calunniatore, furfante, libertino, grossolano, buffone e pericoloso mentitore, possedeva l’arte di imporsi al popolo, e conseguentemente diventava passibile di pena in un regno nelle condizioni in cui si trovava allora quello della Gerusalemme dell’epoca. Hanno fatto bene quindi a liberarsene, e questo può essere considerato uno dei rari casi, in cui i miei princìpi, estremamente dolci e tolleranti, ammettono la severità di Temi. Scuso tutti gli errori, eccetto quelli che possono diventare pericolosi per il governo sotto cui si vive; i re e le loro maestà sono le sole cose che mi incutono riverenza, le sole che rispetto: chi non ama il suo paese e il suo re non è degno di vivere.

Il prete: Ma in definitiva ammetterete l’esistenza di qualche cosa dopo questa vita? È impossibile che il vostro spirito non abbia voluto qualche volta penetrare le tenebre della sorte che ci attende; e quale sistema può averlo soddisfatto meglio di quello che prevede una serie di pene per chi è vissuto male e una eternità di ricompense per chi è vissuto bene?

Il moribondo: Quale, amico mio? Quello del nulla. Non mi ha mai spaventato e non vi vedo altro che semplicità e consolazione; tutti gli altri sistemi sono figli dell’orgoglio, questo solo è prodotto dalla ragione. Per altro il nulla non può essere né spaventoso né assoluto. Non ho forse davanti ai miei occhi la perpetua generazione e rigenerazione della natura? Nulla perisce, amico mio, nulla si distrugge nel mondo; oggi uomo, domani verme, dopodomani mosca, non è sempre un esistere? E perché vuoi che venga ricompensato delle virtù che non costituiscono in alcun modo un mio merito o punito dei delitti di cui non ho responsabilità? Puoi accordare la bontà del tuo preteso dio con questo sistema, può avermi creato per prendersi il piacere di punirmi, e ciò solo in conseguenza di una scelta di cui non mi ha fatto padrone?

Il prete: Ma lo siete.

Il moribondo: Naturalmente, lo sono secondo i tuoi pregiudizi, ma la ragione li distrugge; il sistema del libero arbitrio dell’uomo è stato inventato solo allo scopo di costituire il sistema della grazia, che tanto bene favorisce le tue stupidaggini. Qual è l’uomo che commetterebbe il crimine vedendovi accanto il patibolo, se fosse libero di commetterlo? Noi siamo trascinati da una forza irresistibile, mai padroni di noi stessi e soltanto capaci di indirizzarci dove la natura ci spinge. Non esiste una sola virtù che non sia necessaria alla natura, e all’incontro, un solo delitto di cui essa non abbia altrettanto bisogno, nel perfetto equilibrio che riesce a mantenere tra questi estremi consiste tutta la sua abilità. Possiamo quindi essere colpevoli della tendenza che ci inculca? Non di più di quanto lo sia la vespa che viene a trafiggerci con il suo pungiglione nella pelle.

Il prete: In questo modo il più gran delitto non dovrebbe ispirarci alcun orrore?

Il moribondo: Non si tratta di questo; è sufficiente che la legge lo condanni e che la spada della giustizia lo punisca, perché esso debba ispirarci un senso di ripulsa e di terrore; una volta, però, che sfortunatamente sia stato commesso, bisogna sapere prendere una decisione e non abbandonarsi a sterili rimorsi. L’azione del rimorso e vana in quanto non avendoci preservato prima, non può porvi riparo dopo: dunque assurdo avere rimorso, è più assurdo ancora temere la punizione nell’altro mondo, una volta che si è stati tanto fortunati da sfuggire alla punizione in questo mondo. Mi guardo bene però da incoraggiare così il delitto! Bisogna assolutamente evitarlo finché è possibile, ma è con la ragione che dobbiamo sfuggirlo e non tramite falsi timori che non concludono nulla e il cui effetto è tosto svanito in un animo sia pure un poco saldo. La ragione, amico mio, solo la ragione deve avvertirci che nuocere ai nostri simili non potrà mai farci felici, mentre il nostro cuore dovrà avvertirci che il contribuire alla loro felicità è la gioia più grande accordataci dalla natura sulla terra. Tutta la morale umana è racchiusa in questa frase: rendere gli altri tanto felici quanto desideriamo esserlo noi stessi e non fare loro più male di quanto desidereremmo riceverne. Ecco, amico mio, ecco i soli princìpi che dobbiamo seguire, e non c’è bisogno di religione né di dio per apprezzarli e ammetterli: occorre soltanto buon cuore.
Ma mi accorgo di perdere le forze, predicatore; lascia i tuoi pregiudizi, sii uomo, sii buono, senza paura e senza speranza; lascia i tuoi dèi e le tue religioni; tutto ciò non è buono che a mettere la spada in mano agli uomini, e il solo nome di questi orrori ha fatto versare più sangue sulla terra di quanto non abbiano fatto le altre guerre e gli altri flagelli tutti insieme. Rinuncia dunque all’idea d’un altro mondo, esso non esiste, ma non rinunciare al piacere di essere e fare felici in questo. Ecco il solo modo che la natura ti offre di raddoppiare la tua esistenza o di prolungarla… Amico mio, la voluttà fu sempre il più caro dei miei beni, l’ho adorata tutta la vita e ho voluto terminare nelle sue braccia: la mia fine si avvicina, sei donne più belle del giorno sono nello stanzino qui accanto, le serbavo per questo momento; prenditi la tua parte, seguendo il mio esempio cerca di dimenticare sul loro seno tutti i vani sofismi della superstizione e tutti gli sciocchi errori dell’ipocrisia.

Il moribondo suonò, le donne entrarono, e il predicatore divenne tra le loro braccia un uomo corrotto dalla natura, per non aver saputo spiegare che cosa fosse la natura corrotta.

mercoledì 25 marzo 2020

Il miracolo secondo Jùnger

    



    Viviamo in un’epoca in cui è difficile distinguere la pace dalla guerra. I confini tra obbedienza cieca e delitto sono sempre più incerti. E persino l’occhio più esercitato è tratto in inganno perché sempre, in ogni singolo caso, interviene la confusione dell’epoca, la colpa universale. Tutto è poi reso ancora più difficile dall’assenza di prìncipi, nonché dal fatto che non c’è potente che non abbia percorso, un gradino dopo l’altro, la scala ascendente del sistema partitico. È infirmata così fin dall’origine l’idoneità a compiere atti rivolti al bene comune: trattati di pace, sentenze, feste, elargizioni e accrescimenti. Le forze al potere intendono piuttosto vivere a carico della totalità; sono incapaci di preservarla e di arricchirla col dono di un’eccedenza interiore, ossia col dono dell’essere. L’intero capitale è così disperso dalle fazioni vittoriose, a favore di prospettive e iniziative che durano lo spazio di un giorno – proprio ciò che già paventava il vecchio Marwitz.

    In questa scena, l’unico elemento confortante è che si scende in una direzione precisa, verso una meta ben definita. Periodi come il nostro un tempo erano chiamati interregni, mentre oggi si presentano come un paesaggio industriale. La loro caratteristica è quella di mancare di certezze ultime. E sarebbe già molto riconoscere che così deve essere: e che è meglio, comunque, che reintrodurre o conservare elementi logori attribuendogli un valore di certezza. Come l’occhio rifiuta l’inserimento di forme gotiche nel mondo delle macchine – così accade per il mondo della morale.

    È un tema che abbiamo trattato esaurientemente nel nostro studio sul mondo del lavoro. Non si può esimersi dal conoscere le leggi del paesaggio in cui si vive. D’altra parte la coscienza che fonda i valori rimane incorruttibile: da ciò la sofferenza e la percezione, inevitabile, della perdita. La vista di un cantiere non ci può dare lo stesso piacere riposante di un capolavoro e neppure possono essere perfette le cose che vediamo al suo interno. Il prenderne consapevolezza è segno di onestà che indica rispetto verso ordinamenti superiori. Questa onestà crea necessariamente un vuoto che è evidente per esempio nella pittura, e che ha anche dei riscontri nella teologia. Ma la coscienza della perdita si esprime inoltre nel fatto che ogni attendibile giudizio sulla nostra condizione fa riferimento al passato o al futuro. A parte le dottrine cicliche, si arriva così alla critica della civiltà o all’utopia. L’allentarsi dei vincoli imposti dal diritto e dalla morale è anche uno dei grandi temi della letteratura. In particolare, il romanzo americano spazia in territori dove non esiste la benché minima traccia di obblighi morali. Ha toccato la nuda roccia che altrove è ancora ricoperta dall’humus degli strati in decomposizione.

    Nel bosco dovremo essere pronti ad affrontare crisi da cui non usciranno intatti né la legge né i costumi. Potremo fare osservazioni simili a quelle svolte all’inizio del libro a proposito delle elezioni. Le masse seguiranno la propaganda, che le costringe a un rapporto tecnico sia con il diritto sia con la morale. Non così il Ribelle. Quella che egli deve prendere è un’ardua decisione: riservarsi sempre di esaminare ciò per cui è richiesta la sua approvazione o la sua adesione. Non saranno sacrifici di poco conto. Tuttavia ne trarrà un guadagno immediato in fatto di sovranità – anche se solo pochissimi, allo stato attuale delle cose, lo percepiranno come tale. Ma il dominio può venire unicamente da quegli uomini che hanno mantenuto intatta la consapevolezza della dimensione originaria dell’uomo; e che da nessun potere superiore potranno mai essere indotti a rinunciare ad agire da uomini. In che modo ciò sia possibile è un problema della resistenza, che non necessariamente deve risolverlo alla luce del sole. Pretendere che ciò avvenga è una tipica idea di chi sta a guardare, e in pratica equivale a consegnare in mano ai tiranni l’elenco degli ultimi uomini. 
Quando tutte le istituzioni divengono equivoche o addirittura sospette, e persino nelle chiese si sente pregare ad alta voce non per i perseguitati bensì per i persecutori, la responsabilità morale passa nelle mani del singolo, o meglio del singolo che ancora non si è piegato.

    Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice. Abbiamo visto che la grande esperienza del bosco è l’incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l’essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Anche sul piano morale, questo incontro così importante sia nel guarire sia nel fugare la paura ha un valore altissimo. Porta verso quello strato sul quale poggia l’intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E verso quell'essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui s’irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c’è l’identità. È questo che si profila nel simbolo dell’abbraccio. L’io si riconosce nell’altro – secondo la formula antichissima: «Tu sei quello!». L’altro può essere la persona amata, e anche il fratello, il dolente, lo sprovveduto. L’io che gli porge aiuto s’innalza nell'imperituro. Qui si consolida la struttura che è a fondamento del mondo.

    Sono fatti di esperienza. Oggi conosciamo moltissime persone che nella loro vita hanno attraversato i centri dell’ingranaggio nichilistico, gli abissi più profondi del maelstrom. Costoro sanno che lì il meccanismo si rivela sempre più minaccioso; l’uomo si trova al centro di una grande macchina ideata per distruggerlo. Ed essi hanno dovuto sperimentare che ogni razionalismo sfocia nel meccanismo, e ogni meccanismo nella tortura, che è la sua logica conseguenza. Nel diciannovesimo secolo non era ancora possibile rendersene conto. 
    
    Soltanto un miracolo può salvarci da questo gorgo. Un miracolo che si è già ripetuto innumerevoli volte: quando, tra le cifre inerti, l’uomo è comparso a porgere aiuto. Fin dentro le prigioni, anzi lì più che altrove. In ogni situazione e di fronte a chiunque il singolo può diventare il prossimo – rivelando così i suoi tratti originali, la sua nascita principesca. In origine la nobiltà consisteva nell’offrire protezione dalla minaccia di mostri e demoni. È ciò che tuttora distingue un carattere superiore: ed è quanto ancora risplende nella figura del secondino che passa di nascosto al prigioniero un tozzo di pane. Quei gesti non possono andare perduti: il mondo intero ne vive. Sono i sacrifici su cui esso poggia.

Ernst Jünger

martedì 24 marzo 2020

Senna Hoy




La terra è dolce

Dove ora vado in punta di piedi
Passeggio su puri sentieri

O del tuo sangue le rose
Impregnano dolcemente la morte

Non ho più nessuna paura
Di morire

Sulla tua tomba già fiorisco
Con i fiori delle piante rampicanti

Le tue labbra mi hanno sempre chiamato
Ora so che il mio nome non tornerà più indietro

Ogni palata di terra, che ti ha messo al sicuro
Ha seppellito anche me

Quindi è sempre notte per me
E le stelle già al crepuscolo

E io sono incomprensibile per i nostri amici
E sono diventata del tutto estranea

Ma tu stai sul portone della città più silenziosa
E mi aspetti, grande angelo

Else Lasker-Schüler

domenica 15 marzo 2020

Il cane di Dio


A Daniel
e a tutti coloro che sono stati infamati
da chi credevano che li amasse


Piglio le mazzate delle ultime cazzate
Di una giullare che ammazza il padre per poi diventare pazza


Lancia SOS di aiuto nella notte, messaggi codificati per le auto nere
Nella stanza blindata ammicca e accende la miccia


Gendarmi rossi, adesso mentre ti parlo, osservano l'abisso

Armi di fango si celano tra le rovine di Cnosso

Il mare mosso si tinge di rosso come sfondo del quadro
Il mondo impazzisce in una ampolla di vetro

Si nutrono di odio per creare il clamore
Il cono della menzogna esplode in un rosso bagliore

Aspetta l'uno che diventa due ma non ti aspettare il trentuno
Respiro e aspiro gas tossico a digiuno

Un gioco squallido dal pallino pallido di chi munge in modo rozzo
Vince chi si finge barbone con le manette finte al polso

Ei Sam sono a caccia di mostri e suonano il flauto di Pan
Spegni la cam alla faccia di pirla che va in auto con l' iban

Se chiudi gli occhi vedi il fuoco in un vicolo cieco spinto da un cane
Un cane al guinzaglio guidato da luride puttane
Ti punta la pistola alla tempia la puttana mentre ti URLA


"STAI QUA E NON TI MUOVERE 
FAI QUELLO CHE TI DICO IO
STAI ZITTO IN GINOCCHIO E PREGA IL TUO DIO"


Ahahaha ma che cazzo ne sanno Frà
Di chi il NULLA ha da mangiare se non dell'oblio
Di un mondo sfatto a pezzi dai piedi grezzi del loro Dio

Chiù Pac

sabato 14 marzo 2020

Lettera ai cristiani



Voi andate a spasso la domenica
al braccio delle vostre donne,
Gli fate fare
il giro del vostro regno terrestre
Che è fatto di CONSENSO.
Per piacere al CONSENSO
Voi mettete sulle vostre donne oro,
diamanti e perfino croci
Rubati,

Voi togliete loro l’anima
e le prostituite al CONSENSO
Poi con queste prostitute
Voi FATE l’amore,

Ma voi non SIETE mai l’Amore.
Voi andate coi ricchi,
Non andate che coi ricchi,
Non per pietà perché essi SONO poveri
Che lavorano
ogni giorno di più per la loro povertà,
Ma perché voi li credete dei ricchi
E persino degli arricchiti.

Voi andate coi potenti,
Non andate che coi potenti,
Non per gigantesca pietà perché
sono gli irrimediabili prigionieri,
Ma perché credete
che solo loro non sono in prigione,

Loro che non solo sono i soli in prigione,
ma sono LA prigione,
Talmente LA prigione
che la loro presenza estende
ovunque sulla terra le prigioni.

La guerra dei militari, la guerra dei civili,
la guerra dei banchieri,
Voi l’accettate,
La guerra contro le anime,
Voi l’accettate,
Non c’è che il nutriente SCANDALO
Di coloro che non vogliono NESSUNA guerra
Che voi non accettate.

Si possono attaccare i vostri beni terreni
perché voi li difendete,
Si possono prenderveli
Perché li avete messi al centro di voi
al posto della vostra anima.
Vi si può mettere in prigione
perché voi credete alle prigioni,
Vi si può giudicare perché voi giudicate,
Si può fare in modo che voi SIATE
molto umiliati perché
voi temete di APPARIRE umiliati.

È solo con l’Anima che voi non state,
È solo col Cristo che non andate;
Non andate col Cristo
se non nelle vostre chiese
Ricoperte d’oro, del VOSTRO oro
Rubato.

Bisognerà che la salute vi abbandoni,
Bisognerà togliervi l’ostia dalla bocca,
Togliervi dai denti
il VOSTRO Cristo parolaio.

Armand Robin

giovedì 12 marzo 2020

LA GRANDE BURLA DELLA LUNA









È noto, che il signor Arago divertiva, or sono quattro mesi, la dotta Accademia, di cui è membro, sul proposito della pretesa scoperta fattasi nel mondo lunare dal celebre John Herschel, inviato al Capo di Buona Speranza nel 1834. ad osservare il transito di Mercurio sul disco del Sole.


I giornali americani avevano di fatti discorso di bizzarri animali, di monti d’amatista, e di smeraldo, d’uccelli, e di fiori visti dal celebre Astronomo inglese nel satellite della terra, col mezzo di una nuova scoperta telescopica. A tali rivelazioni alludeva il signor Arago; e que’ rumori presentati in sommaria guisa parevano siffattamente inverosimili, che lasciavano libero il corso agli ironici dubbi dell’illustre nostro concittadino.

Ora la quistione non è più la stessa. Le relazioni circostanziate de’ giornali americani furono, non ha guari, tradotte, ed in un libretto di 50 pagine offrono de’ dettagli sì bene ordinati, che d’uopo è riconoscere, che i fatti straordinari narrati in quel libretto hanno pur tutta quella consistenza, che la verità, od il più abile artifizio ponno sol dare ad un racconto.

In fatti una minuta descrizione dell’instrumento ottico, e delle successive ammegliorazioni, che il recarono progressivamente al grado di potenza necessaria per vedere a sì alta distanza gli oggetti più infimi; le indicazioni de’ nomi degli artieri, e manifatturieri inglesi, che costrussero la macchina; un rapporto fra le novelle scoperte, e quelle precedenti nel mondo lunare, tutto insomma è presentato con tanta serietà e semplicità, con un ordine d’idee e di fatti sì compiuti, e sì naturali, e infine tali e tanti caratteri di verosimiglianza sono riuniti in quella relazione, che, se ella è favola immaginata ad ingannare la pubblica curiosità, giova il dire, che non vi ebbe mai mistificazione ordita con tanto artifizio, nè la verità e la menzogna furono mai mescolate con maggior sagacità, e con maggior perfidia.

Noi presentiamo adunque la siffatta relazione tal quale ella venne or ora pubblicata, non già siccome realtà, ma sibbene come un enigma, che non mancherà d’occupar tantosto gl’intelletti tutti, sinchè i dotti, che chiama in giudizio, vorranno risolverlo con una sentenza, la quale non deve punto tardare.

Noi ci limiteremo a estrarre dal libretto i passi più curiosi.

È notissimo, che il telescopio riflettitore d’Herschel padre conteneva un vetro obbiettivo di quattro piedi di diametro, ed un tubo di 40 piedi di lunghezza, e che aveva la potenza d’ingrossare gli oggetti più di seimila volte; ma una debolissima parte soltanto di tale potenza era stata applicata con vantaggio agli oggetti astronomici i più avvicinati; avvegnachè la mancanza di luce sugli oggetti di molto ingrossati li rendesse assai meno distinti di quel che il fossero visti con una potenza equivalente ad un terzo od un quarto d’essa forza. Epperò le potenze, ch’ei applicava generalmente, quando osservava la luna ed i pianeti, e con cui fece le sue più interessanti scoperte, si accomodarono nella serie dei vetri, che ingrossavano l’oggetto di 220 460 750 sino alle 900 volte. Abbenchè per osservare le stelle fisse, doppie, triple, e le nebulose più lontane egli applicasse soventi volte tutta la capacità de’ suoi instromenti, ciò nullameno pareva, che la legge ottica, la quale vuole, che un oggetto divenga torbido in proporzione del suo sviluppamento in grossezza, a seconda de’ suoi effetti, elevasse in quel possente telescopio un ostacolo insuperabile per altre scoperte nel nostro sistema solare. Ciò non pertanto varii anni prima di sua morte quel valente Astronomo concepì la possibilità di construrre una serie perfezionata riflettitori parabolici, e sferici, che, collegando tutti i precipui vantaggi degl’instromenti di Gregory e Newton all’interessante scoperta acromatica di Dolland, ovviasse agli ostacoli che pur ora accennammo. Il suo piano additava le più profonde ricerche nella scienza dell’ottica, ed il più gran genio nelle invenzioni meccaniche; ma la morte gli vietò di farne l’applicazione. Il suo figlio sir John, che era stato allevato nell’osservatorio paterno, e che era astronomo pratico sin dalla prima infanzia, fu siffattamente convinto d’una tale teoria, che risolse di farne lo sperimento. Due anni dopo la morte del padre ei diè compimento al suo apparato, e l’adattò all’antico telescopio con un successo quasi perfetto. Scoperse, che la potenza ingrossante sino alle 6000 volte quando era applicata alla Luna erasi il miglior mezzo a discernere, che sceglier si potesse e che produceva con que’ nuovi riflettitori l’oggetto focale in un modo assai distinto, scevro d’ogni confusione acromatica, e producente quella più intensa luce, di cui il gran speculum fosse capace.

L’ingrandimento dell’angolo visuale, che si ottenne per tal guisa viene provato col dividere la distanza dalla Luna all’osservatorio per la potenza ingrossante dell’instromento. La distanza essendo di 240,000 miglia, e la potenza equivalente a 6000 volte l’oggetto, ne viene una quoziente di 40 miglia (13 leghe e 1/4), come distanza apparente da quel pianeta all’occhio dell’osservatore.

Quel celebre Astronomo si era dunque trovato in grado di segnare, con maggior esattezza e cura de’ suoi predecessori, la geografia generale di quel pianeta, nel suo complesso, che comprendeva capi, continenti, monti, oceani, ed isole; avea potuto dimostrare la differenza, che corre fra la maggior parte di questi tratti locali, e quelli del nostro globo. Le grandi carte, quelle migliori, che noi possediamo, furono delineate dietro la pianta, ch’egli ne ha data. Nè gli Astronomi, nè il Pubblico avrebbero ardito di sperare ulteriori progressi, poichè si erano adoprate tutte le risorse del più gran telescopio del mondo in un modo assai nuovo, e de’ più felici per ottenerli. Imperocchè a meno si pensasse, che il Sole volesse accordare una maggior quantità di luce a que’ corpi, e che dessi consentissero a trasmetterli per accontentare la nostra curiosità, non v’era progresso a sperare. I telescopi non creano la luce, nè possono restituirla sì pura, quale la ricevono. I lavori e le ricerche inudite degli antecessori di sir John gli precludevano ogni speranza di ottener qualcosa di meglio nella costruzione degli instrumenti. Huggens, Gregory, Newton, Hadley, Berd, Short, Dolland e molti altri ottici pratici avevano ricorso a tutte le materie possibili, sia per la formazione delle lenti, sia per quella dei riflettitori, ed avevano esaurite tutte le leggi dell’ottica, che i loro studii avevano sviluppate e dimostrate.

Or sono tre anni all’incirca, che nel corso di una conversazione con sir David Brewster, sul merito di alcune idee ingegnose sull’ottica, state emesse da quest’ultimo nell’Enciclopedia di Edimburgo (pag. 664), le quali indicavano i mezzi a perfezionare i riflettitori di Newton, sir Herschel poneva mente alla comoda semplicità de’ vecchi telescopi astronomici senza tubo, e ’l di cui vetro obbiettivo posto sur un polo elevato slanciava la sua immagine focale alla distanza di 150 ai 200 piedi. Il dottore Brewster convenne di leggieri, cho il tubo non fosse necessario, purchè l’immagine focale venisse diretta in un appartamento oscuro, ove fosse in convenevol modo ricevuta dai riflettitori. Sir John disse allora, che se il gran telescopio di suo padre, il di cui tubo solo, quantunque formato de’ più lievi metalli, pesava З000 libbre, era ciò non pertanto dotato d’una mobilità agevole e sicura, in un col pesante osservatorio, cui era affisso, a più forte ragione sarebbesi potuto rendere mobile un altro osservatorio, il quale non avesse l’imbarazzo dol siffatto tubo. Una tale osservazione venne consentita, e la conversazione si diresse verso l’invincibile nemico, cioè il difetto di luce per l’effetto di più forti vetri ingrossanti. Dopo alcuni istanti di silenzioso riflesso, sir Herschel s’informo con temenza, se non sarebbe stato fattibile di effettuare una transfusione di luce artificiale per l’oculare.... Sir David rimase colpito dall’originalità di siffatta idea; stette un istante sovra pensiero, e quindi quasi esitando mosse parola dell’aberrazione di oscurità dei raggi, e poi dell’angolo d’incidenza. Sir John più confidente, ricordò l’esempio dei riflettitori newtoniani, ne’ quali una tale aberrazione venne corretta dal secondo speculum, e l’angolo d’incidenza restituito dal terzo; e soggiunse: perchè il microscopio non potrebbe illuminarsi? applicandovi l’idro ossigeno non si verrebbe forse a rendere distinto, ed anche ad ingrossare all’uopo l’oggetto focale? Sir David balzò dalla sua sedia col delirio di una gioja di convinzione, e saltando quasi fino al soffitto, gridò: Tu se’ l’uomo... Fu allora a chi più presto de’ due filosofi esprimesse la seguente idea: che se i raggi d’un microscopio idro ossigenato, nell’attraversare una goccia d’acqua, contenente la larva d’un moscherino, o qualsivoglia altro oggetto invisibile all’occhio nudo lo rendono non solo affatto distinto, ma pur anco ingrossato della dimensione di parecchi piedi, così pure la luce artificiale nell’attraversare il più piccolo oggetto focale d’un telescopio lo dovrebbe ingrossare all’infinito. Solo mancava un recipiente per l’immagine focale, onde trasmetterla, senza romperla, alla superficie, su cui ella doveva vedersi sotto la luce cangiante dei riflettitori microscopici. Nelle numerose sperienze, che si fecero nelle seguenti settimane dai due filosofi cooperatori, fu deciso, che un medium dell’argento più puro sarebbe stato il più convenevole, che adoprar si potesse.

Questo medium rispose perfettamente alla loro espettazione, allorchè si valsero d’un telescopio ingrossante di cento volte l’oggetto, e d’un microscopio tre volte al di sopra d’una tale potenza.

Allora sir John Herschel concepì il piano prodigioso del presente suo telescopio. La potenza di quello di suo padre lo lasciava a quaranta miglia di distanza dal favorito suo pianeta; epperò egli risolse di tentare la formazione d’un instromento più possente, che gli facesse guadagnare tutto quello spazio. Il danaro, che impenna le ali alla scienza, ed è nerbo della guerra, pareva solo gli mancasse, e l’acquisto d’un sì gran movente è spesse volte più malagevole della pena imposta a Sisifo. La perseveranza di sir John superò simile difficoltà. Corredato del pieno consentimento di sir David Brewster, di quel luminare della scienza dell’ottica, presentò il suo piano alla Società Reale, ed attrasse la particolare attenzione del presidente S. A. R. Il Duca di Sussex, che fu in ogni tempo generoso fautore delle scienze e delle arti. Il piano d’Herschel fu con entusiasmo approvato dalla Commissiooe nominata per esaminarlo. Il Presidente sottoscrisse per una somma di 10,000 lire sterline, e promise d’accomandare sì importante instromento al tesoro regio; il che fece senza ritardo. Ed il Re udendo, che la spesa era stata valutata a 70 mila lire sterline, chiese ingenuamente, se il costoso instromento avrebbe arrecato alcun progresso nella navigazione. Sulla risposta affermativa il Re concesse ogni cosa.

Sir John Herschel avea fatti i suoi piani, ed i calcoli relativi per un vetro obbiettivo di 24 piedi di diametro, esattamente sei volte più grande di quello di suo padre. Per la formazione di così enorme massa s’indirisse alla famosa vetreria de’ signori Hartly e Grand a Dumbarton. Le sostanze scelte per quel famoso amalgama furono, una metà di crown-glass, ed una metà di flent-glass; il loro impiego nelle lenti separate era frutto della grande scoperta acromatica di Dolland. Si riconobbe prealabilmente per mezzo di accurate esperienze, che un tal miscuglio avrebbe trionfato con felice esito, quanto le lenti separate, di tutti gli ostacoli ad una volta, dell’aberrazione di sfericità e della decolorazione. Cinque fornaci furono riempite di cristalli di queste due specie accuratamente scelti fra le produzioni della manifattura, che sono di qualità pressochè omogenea. I crogiuoli furono legati alla forma col mezzo d’un gran conduttore, e addì 3 di gennajo del 1833 ebbe luogo il primo scolo; fu lasciato raffreddare otto giorni: la forma venne aperta, e fu trovato il vetro alquanto troppo smingolo verso il centro. Non si lasciarono scoraggiare: ed un novello vetro fu scolato con maggior cura addì 27 dello stesso mese. La forma venne aperta durante la prima settimana di febbrajo, e si ebbe la sorte di trovare il secondo vetro perfettamente puro, eccettuatene due lievi macchie, le quali erano però poste sì vicino alla circonferenza, che potevano essere nascoste dal cerchio di rame, che dovea servir di cornice. Il peso di questa prodigiosa lente affazzonata era di 14826 libbre, e la sua potenza ingrossante di 24000 fiate l’oggetto. Epperò si presunse, ch’ella sarebbe capace di rappresentare i corpi del nostro satellite lunare alcunchè al dissopra di 18 pollici di diametro, purchè l’immagine loro focale fosse resa distinta da una transmissione di luce artificiale. Tuttavia non alla semplice potenza illuminatrice del microscopio idro-ossigenato applicato alle immagini focali di quella lente appoggiava sir John Herschel esclusivamente la realizzazione delle sue belle teorie, e delle sue speranze, ma egli pur contava non poco sull’illimitata applicazione dell’istromento a surrogare il secondo ingrossatore dei telescopi riflettenti. Pensava a sorpassare per tal modo di gran lunga le potenze dei loro più grandi ingrossatori.

Una non interrotta corrispondenza seguì durante alcun tempo fra le Accademie d’Inghilterra, di Francia e d’Alemagna colla mira di perfezionare il meglio che si potesse le tavole di longitudine dell’emisfero del sud, le quali erano difatti assai meno esatte di quelle dell’emisfero del nord. Gli Accademici d’Inghilterra, che s’occupeno della scienza delle longitudini, portavano alto concetto della nuova teoria telescopica d’Herschel, e dell’ingegno dell’inventore. Essi determinarono il Governo a sollecitare i di lui servigi per osservare il transito di Mercurio sul disco del sole. Tal passaggio dovea seguire addì 7 novembre 1835: i due astri cominciavano a trovarsi in congiunzione alle ore 7. minuti 47. e secondi 55 di sera, ovvero, termine medio, alle ore otto, 12 minuti e 22 secondi. Un tal fenomeno doveva accadere invisibile a pressochè tutto l’emisfero del nord. Al Capo di Buona-Speranza era stato sino a quel punto generalmente osservato il passaggio di Mercurio e di Venere sul disco solare. Quello di Venere non avendo più avuto luogo dall’anno 1769, e non dovendo succedere di nuovo che al 1874, le osservazioni esatte di quello di Mercurio, che si rinovellavano più spesso  esser dovevano di non lieve importanza per l’astronomia e la navigazione; sovratutto per quest’ultima arte i passaggi di Mercurio sono quasi della stessa importanza di quelli di Venere. Fu riconosciuto essere il Capo di Buona Speranza il luogo più acconcio a tali osservazioni.

Non solo il sig. John Herschel accettava con piacere il siffatto incarico, ma ei chiese pure di partire di assai buon’ora per incominciare le sue operazioni almeno un anno prima dell’epoca del passaggio onde fosse in grado di aggiustare perfettamente l’enorme sua macchina e stendere le sue ricognizioni fra le costellazioni del sud. Si aderì subito alla sua domanda, e compiuti i preparativi ei fece vela da Londra il dì 4 di settembre 1834. Era accompagnato dal dottore Andrew Grand, dal luogotenente Drumond, dagl’ingegneri Reali F. R. A. S., e da un corteo de’ migliori meccanici inglesi. La spedizione giunse a destinazione dopo un’attraversata felice e rapida. Furono immantinente trasportate la famosa lente e la cornice del grand’osservatorio al luogo adatto alle osservazioni; era questo una piattaforma di grande estensione, e molto elevata, lungi dodici leghe all’incirca dalla città del Capo. De-la-Caille aveva osservato da questo luogo medesimo nel 1750 allorchè ordinò le eue eccellenti tavole solari, misurò un grado del meridiano, e giunse quasi perfettamente a calcolare la paralassi solare dietro quella di Marte e della Luna. Sir John Herschel in quattro giorni fece innalzare la gigantesca sua macchina col mezzo di due mute di 18 buoi ciascuna, ed ajutato da parecchie compagnie d’operai Olandesi.

Segue quindi la minuta descrizione dello stabilimento del telescopio nel luogo prescelto alle osservazioni.

Il telescopio non fu intieramente terminato, che verso il finire di dicembre, epoca in cui sopraggiunsero d’Inghilterra tutte le serie de’ grandi riflettitori del microscopio. Fu dato principio alle osservazioni nella prima settimana del mese di gennajo dell’anno avvegnente, ma il segreto della novità, della formazione e della destinazione dell’instromento fu pur rigorosamente osservato durante parecchi mesi, come quello della grandezza de’ suoi successi. Se il governo inglese sia rimasto nel dubbio circa le scoperte previste da Herschel, o se egli abbia voluto coprirle d’un velo insinchè fossero state atte ad illustrare la nazione, fra cui erano avvenute, è tal quislione, che non si può risolvere se non per congetture; certo è però che i Reali Patroni del celebre Astronomo ingiunsero a lui, come ai suoi amici, il più profondo silenzio, sino a che ei fosse stato in grado di comunicare officialmente i risultamenti delle sue grandi esperienze. Epperò non pervenne giammai alcuna contezza nè di lui, nè della sua spedizione sino al presente; se non che, or ha alcuni anni, i giornali scientifici tedeschi riferivano, che sir John Herschel avesse scritto dal Capo di Buona Speranza all’Astronomo Reale di Vienna, per informarlo, che la terribile Cometa, annunciata per l’anno 1835, la quale dovea accostarsi siffattamente al nostro globo, che avremmo potuto udire il romorio de’ suoi fuochi, avea cangiata direzione, e che non solo ella non avrebbe dato un diverso moto alla terra, ma che non pure avrebbe scosso un crine della sua coda sul nostro suolo.

Imbarazzati nel comprendere a quale autorità egli appoggiasse una sì ardita dichiarazione, i dotti europei, che non erano iniziati ai secreti di lui, risguardarono il suo ajournement, siccome egli chiamava la sua scoperta, con incredulo disprezzo, e continuarono a spaventare il pubblico colle prime loro predizioni.

Erano le nove ore e mezzo incirca della notte del 10 gennajo del 1835, e la Luna posava nel quarto giorno di sua minor librazione, quando l’Astronomo ordinò il suo instrumento in guisa ad osservare dalla parte d’Est la Luna. L’immensa potenza del suo telescopio fu posta in opra tutta intera, mentre il microscopio non venne usato, che per la metà di sua forza.

All’alzar della cortina del microscopio il campo della vista apparve coperto per tutta la sua estesa dall’immagine vivissima, e distintissima d’una roccia di basalto, il cui colore era di bruno verdiccio, e la di cui dimensione, giusta lo spazio occupato sull’obbiettivo, rispondeva esattamente a 18 pollici. La massa osservata non avea frattura, ma dopo alcuni secondi si apparò una stiva inclinata , composta di cinque o sei colonne di forma ottagonale, e simili nell’aspetto a quelle delle rocce basaltiche di Astaffa. Quella stiva inclinata era coperta abbondevolmente da un fior rosso carico, precisamente simile, dice il dottor Grant, al papaver rhoeas, od al papavero rosso de’ nostri campi da grano sublunari. Quel papavero fu la prima produzione organica apparsa ad uman sguardo, in un mondo straniero.

La celerità d’ascensione della Luna, o per meglio dire della roteazione della terra, siccome pressochè uguale a 500 metri per secondo, avrebbe al certo vietata l’osservazione di siffatti oggetti, se una tale difficoltà non fosse stata prevenuta col mezzo dell’ammirabile meccanismo, che dirige costantemente, sotto la direzione del quarto del cerchio, l’altezza obbligata della lente; epperò l’operazione riusciva così esatta che gli osservatori poterono rilevare sul campo di vista l’oggetto quanto tempo loro piacesse; non vi posero mente in quell’istante; che quella prova di vegetazione lunare aveva eccitata la loro curiosità, troppo perchè non vi si soffermassero. Era certo che la Luna possedeva un atmosfera simile alla nostra, atta a mantenere la vita organica, e probabilmente la vita animale. La roccia basaltica proseguiva a passare sul campo di vista, e copriva ancora tre corde consecutive del cerchio, allorchè apparve un pendio verdeggiante di mirabile bellezza. Egli occupava due corde di più della roccia basaltica. Quel pendìo era preceduto da un’altra massa, che aveva a un dipresso la medesima altezza della prima. Qual non fu la nostra sorpresa allo scorgere sulle sue falde una selva lunare! « Gli alberi, così il dottor Grant, durante lo spazio di dieci minuti apparvero sempre d’una stessa sorta, ma ella non somigliava ad alcuna di quelle da me vedute, se non vuolsene eccettuare pertanto la più grande specie di cipressi dei cimiteri d’Inghilterra. Questa pare somigliarle per alcuni lati ».

Veniva dietro una terra coperta d’erba minuta e folta, che misurata da un cerchio dipinto nel nostro specchio equivaleva a quarantanove piedi; ora quarantanove piedi corrispondono a mezza lega di larghezza. Quindi apparve un’altra selva pur vasta, i di cui alberi, senza alcun dubbio, parevano abeti sì stupendi quanto quelli da me maggiormente ammirati sui monti del nostro paese.

Una spiaggia d’arena di risplendente bianchezza s’apparò allora a’ nostri sguardi. Era dessa attorniata da una cintura di rocce selvagge, somiglianti a vasti castelli di marmo verde, e disgiunti da profonde brecce praticate a due o trecento piedi dentro ceppi grotteschi di creta, o di gesso; il tutto era coronato dalle chiome tremolanti d’alberi ignoti, i di cui rami parevano piume, o festoni, allorchè ondeggiavano lungo quelle pareti risplendenti. A tal vista rimanemmo sorpresi dalla maraviglia. Dovunque noi scorgevamo dell’acqua, essa ne appariva azzurra come quella del profondo oceano, e si rompeva in enormi fiotti argentei sulla spiaggia.

L’azione degli altissimi flutti chiara appariva sul lido per una distesa maggiore di cento miglia (35 leghe). Quantunque svariato fosse il quadro per quelle cento miglia, ed anche a maggior lontananza, ciò nulla meno non iscorgemmo traccia veruna d’esistenza animale; tuttavolta poteva il guardo nostro abbracciare a suo grado tutta quella distesa di terreno.

Parecchie di quelle valli sono chiuse da maestosi colli di forma conica sì perfetta, che sarebbesi tentato stimarli opera dell’arte più squisita, anzichè della natura. Essi attraversarono il canovaccio senza che pur avessimo il tempo di seguirli nella loro fuga, ma immantinenti dopo s’affacciò ai nostri sguardi una serie di quadri siffattamente nuovi, che fu forza, il dottor Herschel ordinasse di rallentare il moto, perchè potessero meglio essere considerati. Era una catena non interrotta di vaghi obelischi, o sottilissime piramidi aggroppate irregolarmente: ciascun gruppo si componeva di trenta o quaranta guglie, e quelle guglie erano perfettamente quadrate, ed incornicciate sì bene, quanto i più bei modelli di cornici di cristallo. Tutta quella massa era colorata d’un lillà pallido splendidissimo. Credetti allora per certo esserci imbattuti in produzioni d’arte, ma il dottor Herschel osservò sagacemente, che se i lunari potevano edificare simili monumenti nello spazio di 10 o 15 leghe, se ne avrebber dovuto rinvenir altri prima di ora di carattere meno dubbio. Egli decise esser quelle probabilmente formazioni di quartz di color amatista vinoso; e dopo siffatta indicazione, ed altre ancora, ch’egli avea ottenute sulla potente azione delle leggi di cristallizzazione in quel pianeta, ci promise un campo dovizioso di studi mineralogici. L’introduzione d’una lente confermò appieno la sua conghiettura. Erano diffatti mostruose amatiste di color rosso-pallido, sfavillante in modo sì intenso da pareggiar i raggi del Sole. Esse variavano d’altezza di 60 a 90 piedi per la più gran parte, quantunque ci a venisse di mirarne altre molte di altezza assai più incredibile. Noi le osservammo in una sequela di valli, disgiunte da linee longitudinali di colline rotonde, elevate, e leggiadramente ondeggianti; ma ci sorprese soprattutto l’invariabile sterilità delle valli, che contenevano que’ maravigliosi cristalli, e le pietre di tinta ferruginosa, forse piriti di ferro, che ne coprivano il suolo.

L’estremità settentrionale in tutta la sua larghezza di cento leghe almeno avendo attraversato il nostro piano, noi giungemmo ad una regione alpestre e selvaggia, ricoperta d’alberi più grandi, e di foreste più estese di quelle che avevan prima veduto. La specie di quegli alberi non può venir descritta per aggiustata analogia; parevano però simili alle querce delle nostre foreste. La chioma ne era di gran lunga più bella, conciossiachè constasse di larghe foglie, splendide come quelle dell’alloro. Trecce di fiori gialli sospesi ai rami, e quasi cadenti al suolo ondeggiavansi con leggiadria ne’ luoghi sforniti di piante.

Poichè trascorsero quelle montagne, noi vedemmo tal regione, che ne riempì di stupore. Era una valle ovale, cinta da ogni lato, fuorchè ad una piccola fessura verso il Sud, da colline rosse, come il più puro vermiglio, ed evidentemente cristallizzate; imperocchè dovunque era veduta una spaccatura (e queste spaccature erano spesse, e d’immensa profondità) le sezioni perpendicolari offrivano delle masse agglomerate di cristalli poligoni eguali gli uni agli altri, e distribuite in istrati profondi. Il colore diveniva vieppiù oscuro all’avvicinarsi dell’imo de’ precipizi, innumerevoli cascate sgorgavano dal seno di quelle rocce scoscese; talune scaturivano fin dalle loro sommità, e con forza tale, che formavano degli archi di varie braccia di diametro. Non m’avverrà forse mai di rinvenire una sì viva rimembranza della bella comparazione di Lord Byron (la coda del cavallo bianco). Alle falde di quelle colline stava una zona di bosco circondante l’intiera valle; ella contava a un dipresso sei o sette leghe nella maggior sua larghezza, e dieci di lunghezza; una collezione d’alberi di qualsiasi specie, che umana mente immaginar possa, era sparsa su quell’amena superficie.

In questo mentre il telescopio soddisfece alla palpitante nostra speranza, offrendoci argomenti certi d’esistenza.... Al rezzo delle piante, dal lato sud est, scorgemmo numerosi armenti di quadrupedi bruni, che mostravano tutta l’apparenza del bissonte, ma più piccoli d’ogni altra specie del genere bos della nostra storia naturale; la coda di quegli animali somigliava a quella del nostro bos grunniens, ma sia pel suo corpo semicircolare, sia per la gobba, che sovracaricava le spalle di lui, sia per la lunghezza della giogaja, e del pelo arricciato, pareva assai meglio alla specie, cui dapprima il paragonai; tuttavia era segnato da un tratto oltremodo caratteristico, e che riconoscemmo dappoi appartenere a pressochè tutti i quadrupedi lunari; consisteva questo in una bizzarra visiera di carne situata al di sopra degli occhi, la quale attraversava la fronte in tutta la sua larghezza, e confinava colle orecchie. Ebbimo a scorgere distintissimamente, che una massa di crini svolazzava sul davanti, a guisa d’una vela, che avesse nella sua parte superiore la forma del cappello sì ben noto alle signore sotto il nome di cappello alla Maria Stuart. L’animale alzava, ed abbassava quella vela per mezzo delle orecchie. Il dottore Herschel opinò con aggiustatezza esser quello un benefizio della Provvidenza per proteggere gli occhi dell’animale dalla troppa gran luce, e dalle troppo lunghe tenebre, cui vanno periodicamente esposti tutti gli abitatori dal nostro lato della luna.

Il secondo animale, che scorgemmo sarebbe classificato nella storia naturale fra i mostri. Era di color azzurognolo, e della grossezza di una capra, di cui aveva il capo e la barba; nel mezzo della fronte sovrastava un sol corno lievemente inclinato al disopra della linea orizzontale. La femmina non aveva nè corno, nè barba, ma la sua forma era alquanto più lunga. Camminavano a stormi, ed abbondavano specialmente sulle chine della selva sfornite d’alberi. Per l’eleganza, e la simmetria delle forme quell’animale stava al paro della gazzella, e pareva come questa agile, e festevole; si vedevano correre con velocità straordinaria, e saltellare sull’erbuccia follemente come un agnelletto, od un gattuccio. Quella vezzosa creatura ci fornì il più incantevole spettacolo. La mimica de’ suoi movimenti sul nostro canovaccio bianco inverniciato era fedele, ed animata al paro di quella d’un animale, che si veda a due passi da noi sul timpano d’una camera oscura. Soventi quando tentavamo di sovrapporre le nostre dita sulla loro barba svanivano ad un tratto come per ischivare la nostra terrestre impertinenza, ma sittosto comparivano altri animali, cui era impossibile il vietare di roder l’erba per quanto dicessimo, o facessimo.

Esaminando il centro di quella deliziosa valle avvisammo un fiume spartito in parecchi rami, che racchiudevano delle isole incantevoli dove vivevano uccelli acquatici d’innumerevoli sorte. Quella somigliante al pellicano grigio era la più numerosa. Avevano costoro il dissopra del capo bianco e nero, le gambe, ed il becco lunghi oltre ogni dire. Esaminammo lunga pezza i loro movimenti, mentre si affaccendavano a cogliere i pesci, speranzosi di scoprire un pesce lunare; ma quantunque la sorte non ci abbia favoriti a tale riguardo, potemmo tuttavia di leggieri indovinare la ragione, per cui immergevano il loro collo sì profundamente al disotto dell’acqua. Presso l’estremità superiore d’una di quelle isole ci fermò lo sguardo l’apparizione effimera d’una strana creatura anfibia di forma sferica. Ella rotolò con grande velocità pei ciottoli del lido, e finì col perdersi nella corrente rapida che s’agitava da quel punto dell’isola. Fummo astretti ad abbandonar quella valle piena di vita senza esplorarla. Delle nubi s’ accumulavano evidentemente nell’atmosfera lunare, avvegnacchè la nostra fosse perfettamente pura. Ma una tale osservazione era per se stessa una scoperta interessante; giacchè sinora quasi tutti gli astronomi o posero in dubbio, o niegarono l’esistenza di un atmosfera umida intorno a quel pianeta.

Nella notte seguente ritornammo ad esaminare Endimione; scorgemmo, che ognuna delle sue divisioni era vulcanica e sterile, e che al di là si estendevano le regioni più ricche, e più produttive, che umana fantasia possa creare. Fra esse il dottor Herschel non contò meno di trentotto specie di alberi, quasi e il doppio di tal numero di piante; que’ vegetali differivano affatto da tutti quelli, che si erano scoperti alla latitudine più vicina all’equatore. Distinse nove specie di mammiferi e cinque di ovipari; fra i mammiferi esistevano animali simili al daino, all’alce, al cervo d’America, all’orso cornuto, ed al castoro bipede. Quest’ultimo rassomiglia al castoro terrestre, fuorchè non ha coda, ed è uso a camminare sui due piedi; porta i suoi nati fra le braccia, come l’uomo, corre velocemente, ma quasi sdrucciolando, e la sua capanna e più alta di quella maggior parte delle tribu selvagge; al vedere il fumo, che usciva da quasi tutte le capanne non lasciava dubbio, ch’ei conoscesse l’uso del fuoco. La sua testa ed il suo corpo non variano gran fatto da quelli dei castori del nostro pianeta. Questa specie non fu trovata che sulle sponde de’ laghi e dei fiumi, nelle acque de’ quali furono visti affondarsi per lo spazio di alcuni minuti.

All’estremità sud di quella valle havvi una volta o caverna naturale, alta duecento piedi, e larga cento. Un torrente ne scaturisce, e si precipita al dissopra di grandi rocce bigie, alte ottanta piedi. Allora si suddivide in una moltitudine di rami, ed irrora una magnifica campagna di parecchie miglia. Un vastissimo lago giace lungi trenta miglia da quella cateratta. Egli occupa il 7,000,000 dei miglia contenuti in quella parte della luna. Quel lago pare un mare interno; la sua larghezza dell’Est all’Ovest conta 119 miglia, e dal nord al sud 266. La sua forma verso il nord si approssima a quella della baja di Bengal. È seminato d’isolette per la maggior parte vulcaniche; due delle quali dal lato d’Est, sono in quest’istante in piena eruzione; ma il nostro vetro più forte era ancor troppo debole ad esaminarle convenevolmente, a motivo delle nubi di fumo, e di ceneri, che oscuravano il nostro campo di vista. Nella baja dal lato d’Ovest si prolunga un’isola di cinquantacinque miglia, a foggia di mezza luna. In tutta la sua estensione ella è sfavillante d’ammirabili bellezze naturali, tanto del regno vegetale, che dell’animale. Le colline di quell’isola sono coronate da immensi quartz di color giallo-scuro sì splendido, che ci parvero a prima vista piramidi ignee. Le vedevamo slanciarsi in aria dalla sommità di quelle alture, i di cui fianchi parevano coperti d’ammanto di velluto. Tutto era incanto nelle vallette di quell’isola sinuosa. Guglie a spirali sorpassavano di tanto in tanto gli alberi d’una selva verdeggiante, in quella guisa, che i campanili delle chiese di valle d’Owest Morelan dominano i serti di boschi che li attorniano. Colà noi scorgemmo per la prima volta il palmeto a stanga, che non varia da quello delle nostre latitudini tropiche, se non per un ingente fiore violaceo, che rimpiazza lo spadix.

Non ci venne fatto di veder frutti sur alcuno di quegli alberi, ed avvisammo ciò provenire dagli estremi del clima lunare. Tuttavia mirammo sur una pianta simile a quella del pepone abbondantissime frutta che ci parvero toccar il grado di maturità. La tinta generale di que’ boschi era il verde-scuro, quantunque vi si potesse scorgere un miscuglio di tutte le tinte delle nostre selve nelle diverse stagioni. I colori autunnali si maritavano a quelli della primavera, e presso ai ridenti ammanti della state s’ergevano alberi sfrondati, quasi vittime dell’inverno. Pareva, che tutte le stagioni di quei luoghi si porgessero amica mano e formassero in cerchio una perpetua armonia. Quanto agli animali, noi non vedemmo, che un elegante quadrupede spoglio di peli, alto tre piedi all’incirca, quasi simile ad una piccola zebra. La sua razza viveva a piccoli stormi sulla verde erbuccia delle colline. Scorgemmo inoltre due o tre specie d’augelli dalle lunghe code, che ci parvero fagiani, gli uni azzurri, e gli altri dorati, e sulle sponde dell’isola riconobbimo una moltitudine di pesci dalla conchiglia univalva. Fra loro stavano varie conchiglie appiattite e di grande dimensione, che i miei compagni giudicarono, che fossero cornu amonae. Confesso, che dovetti in quel punto convenire che non erano ciottoli quelli da noi visti sulle spiagge del Mare nubium.

Le rocce scoscese della spiaggia erano profondamente minate dalle onde, ed intralciate da caverne; stalattiti di cristallo giallo più grossi della coscia d’un uomo pendevano da ogni lato. Non esisteva palmo di terreno in quell’isola, il quale non fosse cristallizzato; masse di cristalli erano quà e là sparse lungo il lido, che esploravamo; altre brillavano per entro le anfruttuosità del terreno. L’aspetto di tutti quei cristalli era così straordinario, che faceva di quei luoghi una finzione di racconti orientali, anzichè la realtà d’una natura lontana trasportata col mezzo della scienza ad una dimostrazione oculare. La dissomiglianza evidente tra quest’isola, e quelle già vedute prima nelle acque, e l’estrema sua vicinanza alle terre principali ci fecero supporre, che un tempo ne fosse stata parte. A confermare una siffatta opinione giovava l’osservare, che la sua baja principale abbracciava il corpo avanzato d’una catena di più piccole isole, che confinavano colla terraferma. Quella roccia era di quartz puro, e contava tre miglia di circonferenza. Sorgeva come un giro nudo, e maestoso di profondità azzurre, e non offeriva nè sponde, nè asili. Brillava avanti il sole, come puro zaffiro, e più piccole isole brillavano parimenti a lei intorno.

La pianura, che si prolunga sino alle sponde del lago, presenta un pendio dolce, senz’alcuna prominenza, se non che vi si scorge una certa enfiatura di terreno coperto da boschi sparpigliati qua e là con capricciosa selvatichezza. La spaventevole altezza di quelle montagne perpendicolari di color cremisi sfavillante contrastava colla frangia di foreste, che coronava la loro fronte, e colla verzura, di cui la pianura formava un tappeto a’ loro piedi. Esse dipinsero sul nostro canovaccio, ma ci si apparò una fedelissima veduta di tutto il rimanente. Avevano essi una taglia media, e quattro piedi d’altezza; erano ricoperti, dalla faccia in fuori, da lunghi peli folti come i capelli, ma brillanti, e del color di rame; portavano ali composte d’una membrana sottilissima, che pendevan loro dietro il dorso in modo agiato dall’apice delle spalle sino alla polpa delle gambe. La figura loro del color di carne giallastra era alquanto meglio conformata di quella dall’orang-outan, se non che traspariva dai loro volti un’espressione più chiara, e più intelligente, ed avevano la fronte assai più larga. Tuttavia la bocca era molto prominente, quantunque d’alcun poco nascosta dalla folta barba alla mascella inferiore, e da labbra, che sapevano più d’umano di quelle di qualsiasi specie della famiglia delle scimmie. Generalmente la simmetria de’ loro corpi era infinitamente superiore a quella delle membra dell’orang-outan. Il luogotenente Drummond affermava, che, tolte loro le ali, avrebbero pur fatta in una parata bella mostra di se, quanto la maggior parte degli antichi nostri coscritti. I capelli erano di colore più scuro del pelo del corpo; ricciuti un poco, ma meno lanosi, per quanto ne potemmo giudicare; stavano ordinati sulle tempie a foggia di due semi-cerchi singolari affatto. Non potemmo scorgere i piedi loro, che allorquando li alzarono per camminare; ciò non ostante osservammo esser questi sottili alla punta, e protuberanti al tallone.

A misura, che i loro gruppi passavano sul canovaccio, chiaro appariva, che erano ingaggiati in una conversazione. I loro gesti, e particolarmente le variate azioni delle mani e delle braccia, parevano appassionati ed enfatici. Da ciò conchiudemmo, che fossero esseri intelligenti, quantunque di grado meno elevato di coloro, che scoprimmo il mese vegnente sulle sponde della baja dagli arco-baleni, e capaci di produrre opere d’arte.

Alla seconda volta, che li vedemmo ci fu fatto di considerarli più attentamente ancora. Noi li scorgemmo sul lido d’un laghetto o gran fiume, che scorreva verso la valle del gran lago, ed aveva sulle sue sponde orientali un ameno boschetto. Alcuni di quegli esseri avevano attraversato dall’una sponda all’altra, e vi stavano distesi come aquile. Ci venne dato allora d’osservar, che le loro ali avevano una distesa enorme, e parevano per la struttura simili a quelle del pipistrello. Erano desse formate d’una membrana semitrasparente, che si dispiegava in divisioni curve col mezzo di raggi diritti legati al dorso con tegumenti dorsali. Ma ci maravigliò sovratutto il vedere, come quella membrana si stendesse dalle spalle sino alle gambe legata al corpo, e diminuisse gradatamente di larghezza. Quelle ali sembravano pienamente sottoposte al volere di quegli esseri, poichè li vedemmo tuffarsi nell’acqua, e quindi stenderle subito per tutta la loro dimensione, e scuoterle dopo essere usciti dall’onda alla guisa delle anitre, e racchiuderle tantosto in forma compatta. Le osservazioni fatte sulle abitudini di quelle creature, che erano dei due sessi, ci condussero a sì notevoli risultamenti, che amerò a vederli fatti di pubblica ragione coll’opera del dottore Herschel, dove so di positivo, che vi stanno descritti con verità conscienziosa, qualunque sia per essere l’incredulità con cui saranno lette.

Alcuni istanti dopo le tre famiglie stesero le ali loro, quasi ad un tempo, e si perdettero fra gli oscuri confini del canovaccio, prima che ci rilevassimo dalla nostra sorpresa. Quegli esseri furono da noi appellati scientificamente uomini pipistrelli (vespertilio homo). Ei sono certamente esseri innocenti e felici.

Nomammo la valle, in cui vivono, il coliseo di rubini, a motivo de’ magnifici monti da cui è attorniata. La notte essendosi fatta tardissima rimandammo l’esame di Petarius (n. 20) ad altra occasione.

Giova il confessare, che quest’ultima parte del maraviglioso racconto, che abbiamo ora letto, risvegliò appieno l’incredulità nostra; uomini, i quali abbiano ad un tempo e braccia ed ali ci pajono impossibili conciossiache siansi veduti colà dei castori, delle gazzelle, delle cicogne, e dei montoni. Al pipistrello le ali servono di piedi, all’uccello di braccia, ma un apparato locomotore, che parta dalle vertebre, è tal particolarità difficilissima a comprendersi. Non ci rimane, che invocare all’appoggio delle nostre osservazioni il giudizio del dotto fisiologista Gioffredo di S. Hilaire.