martedì 31 dicembre 2013

CHE CREPI IL VECCHIO MONDO!



Ah! Ah! È Capodanno! 
La voce chiara del ragazzo e la voce spezzata del vecchio intonano la stessa ballata: la ballata dei voti e degli auguri. 
L'operaio al suo padrone, il debitore al suo creditore, l'inquilino al suo proprietario, ripetono lo stesso ritornello del buono e felice anno. 
Il povero e la povertà se ne vanno per le strade a cantare la cantilena della lunga vita. 
Ah! Ah! È Capodanno! 
Bisogna che si rida! Bisogna che ci si diverta. Che tutti i volti assumano un atteggiamento di festa. Che tutte le labbra lascino sfuggire i migliori auguri. Che su tutte le facce si disegni il ghigno della gioia. 
È il giorno della menzogna ufficiale, dell'ipocrisia sociale, della carità farisaica. È il giorno dell'imbroglio e del falso, è il giorno dell'apparenza e del convenuto. 
I volti si illuminano e le case si rischiarano! E lo stomaco è nero e la casa è vuota. Tutto è apparato, tutto è apparenza, tutto è artificiale, tutto è inganno! La mano che stringe la vostra è un artiglio o una zampa. Il sorriso che vi accoglie è un ghigno o una smorfia. L'augurio che vi riceve è una bestemmia o una beffa. 
Nella voracità degli appetiti, è l'armistizio, è la tregua. Nell'avido scempio delle battaglie, è Capodanno. 
Si sente l'eco che rimanda la voce del cannone e che ripete il fischio della fabbrica. La mitraglia fuma ancora e ancora la caldaia lascia sfuggire il vapore. L'ambulanza trabocca di feriti e l'ospedale rifiuta dei malati. La granata ha aperto questo ventre e la macchina ha tagliato questo braccio. I crimini delle madri, i pianti dei bambini fanno risuonare alle nostre orecchie la spaventosa melodia del dolore, sempre lo stesso. 
La bandiera bianca sventola: è l'armistizio, la tregua, per un'ora e per un giorno, le mani si tendono, i visi si sorridono, le labbra balbettano parole d'amicizia: sogghigni d'ipocrisia e di menzogne. 
Lunga vita a te, proprietario, che mi getterai sul selciato della città senza preoccuparti del freddo e della pioggia? 
Lunga vita a te, padrone, che mi hai sottratto questi ultimi giorni, perchè il mio corpo era indebolito dopo la dura malattia che ho contratto al tuo servizio? 
Lunga vita, lunga vita a voi tutti, panettieri, droghieri, bottegai, che tenevate in pugno la mia povertà con i vostri vergognosi balzelli e che facevate commercio di ogni mio bisogno, di ogni mio desiderio? 
E lunga vita e buona salute a tutti, maschi e femmine fiaccati dalla civiltà: buon anno a te, operaio onesto; a te, ruffiano regolare; a te, catalogata dal matrimonio; a te, registrato nei libri della questura; a voi tutti di cui ogni atto, ogni passo, è un atto e un passo contro la mia libertà, contro la mia individualità? 
AH! AH! Lunga vita e buona salute? 
Volete dei voti, eccoveli. 
Che crepi il proprietario che possiede il posto dove distendo le mie membra e che mi vende l'aria che respiro! 
Che crepi il padrone che, per lunghe ore, fa passare l'aratro delle sue esigenze sul campo del mio corpo! 
Che crepino questi lupi famelici che riscuotono la decima sul mio sonno, sul mio riposo, sui miei bisogni, ingannando il mio spirito e avvelenando il mio corpo! 
Che crepino i catalogati di tutti i sessi con i desideri umani che si soddisfano solo con promesse, fedeltà, denaro e insulsaggini! 
Che crepi l'ufficiale che ordina l'assassinio e il soldato che gli ubbidisce; che crepino il deputato che fa la legge e l'elettore che fa il deputato! 
Che crepi il ricco che si accaparra una così larga fetta del bottino sociale, ma crepi soprattutto l'imbecille che gli prepara il pastone. 
Ah! Ah! È Capodanno! 
Guardatevi dunque attorno. Sentite più viva che mai la menzogna sociale. Il più ingenuo di voi riconosce ovunque l'ipocrisia vischiosa dei rapporti sociali. La falsità appare ad ogni passo. Questo giorno, è la ripetizione di ogni altro giorno dell'anno. La vita odierna non è fatta che di menzogne e di artifici. Gli uomini sono in perenne battaglia. I poveri ciondolano dal sorriso della custode al ghigno della bettola e i ricchi dall'ossequità del lacchè alle lusinghe della cortigiana. Facce glabre e maschere di gioia. 
La carezza della puttana equivale al sorriso della moglie. E la protezione del magnaccia somiglia a quella del marito. Espedienti e interessi. 
Perchè noi si possa un giorno cantare la vita in piena naturalezza, bisogna — diciamolo a voce alta — abbandonare il convenuto e fare un cinico augurio; che crepi il vecchio mondo con la sua ipocrisia, la sua morale, i suoi pregiudizi che avvelenano l'aria e impediscono di respirare. Che gli uomini decidano d'un tratto di dire ciò che pensano. 
Facciamo un Capodanno in cui non si faranno voti e auguri bugiardi, ma in cui, al contrario, si getterà il proprio pensiero in faccia a tutti. In questo giorno, gli uomini comprenderanno che non è possibile vivere in una simile atmosfera di conflitto e di rivalità. Cercheranno di vivere in un altro modo. Vorranno conoscere le idee, le cose e gli uomini che impediscono loro di essere più felici. 
La Proprietà, la Patria, gli Dei, l'Onore rischieranno di essere scaraventati nella fogna assieme a coloro che vivono di questi fetori. 
E sarà universale questo augurio che sembra così minaccioso e che eppure è traboccante di dolcezza: 

che crepi il vecchio mondo! 

Albert Libertad

[l'anarchie, n. 90, dicembre 1906]

lunedì 30 dicembre 2013

DELLA SAGGEZZA UMANA



Non l'altezza: ma la china è terribile!
La china ove lo sguardo precipita nel vuoto, e la mano s'aggrappa all'alto. Allora il cuore prova la vertigine della sua duplice volontà.
Ahimè, amici miei, indovinate voi bene la duplice volontà del mio cuore?
Questa, questa è la mia china e il mio pericolo, che il mio sguardo si volga alla sommità mentre la mia mano vorrebbe sostenersi – nell'abisso!
La mia volontà s'aggrappa all'uomo, con catena m'allaccio all'uomo, perchè sono attirato verso l'alto, verso il superuomo: giacchè è là che tende l'altra mia volontà.
E per questo io vivo quale cieco tra gli uomini, come se non li conoscessi: affinchè la mia mano non perda interamente la sua fede in ciò ch'è saldo.
Io non vi conosco, o uomini; questa tenebra e questo conforto si distendono spesso sopra di me.
Seggo sotto il portico alla mercè d'ogni ribaldo e chiedo: chi vuol ingannarmi?
Questa è la mia prima prudenza umana, lasciarmi ingannare per non dover stare in guardia contro gl'ingannatori.
Ah, se mi mettessi in guardia contro gli uomini, come potrebbe esser l'uomo un'ancora per il mio pallone?
Troppo facilmente esso mi trascinerebbe in alto e lontano!
Questa provvidenza vigila contro il mio fato, che io debba essere senza cautele.
Chi non vuol morire di sete tra gli uomini deve imparare a bere in tutti i bicchieri: e chi desidera rimaner puro tra gli uomini, deve imparare a lavar sè stesso anche con l'acqua sporca.
E così parlai sovente a me stesso per confortarmi:
«Ebbene! Su! Mio vecchio cuore! Ti fallì una sventura: godi di ciò come della tua – fortuna!».
Ma questa è la mia seconda prudenza umana: io risparmio i vanitosi più degli orgogliosi.
Non è forse la vanità ferita madre d'ogni tragedia? Ma dall'orgoglio ferito, nasce sempre qualcosa ch'è migliore dello stesso orgoglio.
Affinchè la vita sia buona a contemplarsi, dev'essere rappresentata bene: ma si richiedono a ciò buoni attori.
Buoni attori trovai tutti i vanitosi: essi recitano e vogliono che li si ammiri, – tutto il loro spirito è in questa volontà.
Essi rappresentano sè stessi, inventano sè stessi; vicino a loro mi piace guardare la vita, – ciò guarisce la malinconia.
Per questo io risparmio i vanitosi, perchè essi sono i medici della mia malinconia, e mi tengono avvinto all'uomo come ad uno spettacolo.
E poi: chi può misurare al vanitoso tutta la profondità della sua modestia? Io provo per lui benevolenza e compassione a causa della modestia.
Da voi egli vuole la fede in sè stesso; egli si nutre dei vostri sguardi, mangia la lode dalle vostre mani.
Egli crede pure alle vostre bugie, purchè sappiate mentir bene: giacchè nell'intimo del suo cuore egli sospira: «che sono io?».
E la vera virtù è quella che ignora sè stessa; ebbene il vanitoso ignora la propria modestia!
Ma questa è la mia terza prudenza umana, non permettere che la vista dei cattivi mi sia fatta sgradevole dalla vostra paura.
Io sono beato nel vedere i prodigi che fa schiudere il sole ardente: tigri e palme e serpenti a sonagli.
Anche tra gli uomini v'ha una bella razza covata dall'ardore del sole e molte cose mirabili nei malvagi.
Ma come i vostri più savi non mi sembrano poi tanto savi: così trovai anche l'umana perversità minore della sua fama.
E spesso mi chiesi scuotendo il capo: Perchè far tintinnare ancora il vostro sonaglio, o serpenti?
In verità, anche per il malvagio v'è un avvenire! E la più ardente plaga meridionale non fu ancora scoperta dall'uomo.
Quante cose sembrano ora il colmo della perversità, che però non misurano più di dodici piedi e di tre mesi!
Ma appariranno un giorno, nel mondo, draghi assai più grandi.
Perchè al superuomo non manchi il suo drago, il superdrago degno di lui: bisogna che molto ardente sole riscaldi ancora l'umida foresta vergine!
È necessario che prima i vostri gatti selvaggi siano divenuti tigri, e i vostri velenosi rospi coccodrilli: affinchè il buon cacciatore abbia una buona caccia!
E in verità, o buoni e giusti! Molte cose in voi sono degne di riso, e soprattutto il vostro timore di ciò che finora si chiamò il «demonio!».
Siete così stranieri a quanto è grande, con l'anima vostra, che il superuomo v'apparirebbe terribile nella sua bontà!
E voi, savi e dotti, voi fuggireste dall'ardente sole della sapienza, dove il superuomo bagna giocondo la sua nudità!
O voi sommi uomini, che incontrò il mio sguardo!
Ecco il mio dubbio e il mio segreto riso sopra di voi: io indovino che il mio superuomo – lo chiamereste demonio!
Ah, divenni stanco di questi sommi, di questi ottimi: la loro «altezza» m'ispira il desiderio di salire più in alto, fuori, lontano, verso il superuomo!
M'assalì un terrore, quando vidi quegli ottimi, nudi: e mi crebbero allora le ali per volare lontano nei remoti futuri.
Nei remoti futuri, in meriggi più ardenti di quelli sognati dagli artisti: laggiù dove gli dèi si vergognano delle loro vesti!
Ma voglio vedervi travestiti, o miei vicini e compagni: e ben adornati, e vani e dignitosi come «i buoni ed i giusti».
E verrò pur io a sedere travestito in mezzo a voi – per potermi ingannare sul conto mio e sul vostro: giacchè questa è l'ultima mia prudenza umana.

Così parlò Zarathustra.

F. Nietzsche

sabato 28 dicembre 2013

La prima volta che ho visto i fascisti


''Carne da macello per assetati di potere''



“I fascisti? Facciamo presto: erano i più idioti del paese”. 
Con questa frase si aprivano spesso i racconti dei vecchi che interpellavo da piccolo quando volevo qualche racconto di guerra, oppure quando si guardavano vecchie foto di quegli anni. 
Ad un certo punto ho anche creduto ad una forma di demonizzazione che ex partigiani e comunisti affibbiavano senza condizioni ai loro naturali nemici. Perché si sa, non si può fare di tutti gli idioti un Fascio… 
E invece sbagliavo. In questo caso è tutto vero. 
Fascista era uno che quando andò a militare e quando l'ufficiale gli chiese cosa rappresentasse la bandiera tricolore, egli rispose con orgoglio “la Maria Josè”. 
Fascisti erano le camicie nere che in piazza a Suzzara (Mantova) guardavano l'esibizione di un musicista di strada che cantava “Vincerem, vincerem…” e intanto camminava all'indietro. I gendarmi fascisti ridevano del musicista, la gente rideva dei fascisti.
Ci sarebbero molti altri episodi, ma basta dire che quei tizi si erano persuasi che gli italiani fossero un popolo guerriero destinato a grandi conquiste su scala planetaria. 
Poi c'erano le storie di guerra che confermavano il detto secondo cui “un idiota è pericoloso, un idiota in divisa [specialmente nera, N.d.A.] lo è doppiamente”. Mi rendevo anche conto che le semplici ed istintive emozioni ed impulsi di un idiota potevano essere facilmente manipolati e scatenate a piacimento da un furbo qualsiasi. Sul fronte jugoslavo alcuni futuri partigiani avevano sentito nel campo base le urla dei combattenti di Tito seviziati in una casupola, avevano visto civili disposti sul bordo di una fossa comune e mitragliati direttamente dentro, avevano ritrovato cadaveri di camicie nere cadute in mano nemica nudi, con le mani legate e un paletto di legno nel culo. 
Nei primi anni '90 del secolo scorso, raggiunti i 12 anni, mi ero fatto la convinzione che i fascisti fossero definitivamente sprofondati all'inferno, divorati dallo stesso demone che idolatravano ed agitavano come uno spauracchio. Quelli che erano rimasti passavano una vecchiaia piena di fantasmi rinchiusi in belle villette a schiera insieme ai loro figli destrorsi moderati. 
Questa era più o meno la mia idea. 
Poi il primo giorno sul pullman che portava alle scuole medie, mi vedo tre o quattro corpulenti pluribocciati con peluria in faccia che molestavano i “piccoli” (e quello me lo aspettavo) e che allietano il viaggio con cori da stadio sugli ebrei, saluti romani, “sieg heil”, disquisizioni sulle gesta del Duce e del Fuhrer, sketch esilaranti sul tipo: “se avrò due figli maschi li chiamo Benito e Adolfo” ecc. Ecco, questo me lo aspettavo meno. 
Non ero sotto shock o spaventato o qualcosa di simile. Ero perplesso. Possibile che a quegli elementi non fosse giunta la notizia di cosa avevano combinato fascisti e nazisti cinquant'anni prima? Nessuno gliel'aveva detto, com'era successo nel mio caso? In verità conoscevo il background di qualcuno di loro e sapevo che i loro genitori non erano affatto fascisti e nemmeno di destra, forse addirittura comunisti. Allora perché quelle scenate? Perché erano ignoranti, non sapevano niente di niente, si portavano dietro lacune culturali pazzesche persino per dei ragazzini. In più arrivai a stabilire che il fascismo è l'ideologia perfetta per chi cerca sicurezza e certezze assolute, coraggio ed orgoglio, senso d'appartenenza a qualcosa di solido come la roccia che è possibile concretizzare in un leader da venerare, in una bandiera da sventolare, in un a terra da proteggere o conquistare. Ti seducono con i riti, i gesti, le frasi forti, i dogmi pratici ed immediati; ti offrono uno sfogo giustificabile sbrigativamente per tutta la tua carica di violenza ed aggressività. 
Quella gente, mi dissi, non erano i veri fascisti. Era un fascismo imbastardito con le pratiche ultras-calcistiche e il bullismo di periferia. Quei ragazzi usavano l'ideologia più intollerabile come si mangiano certi piatti cinesi: dalla pentola ribollente piena d'ingredienti di cui non riesci mai capire il nome prendi solo ciò che ti piace e ti attira in quel momento. 
L'anno successivo cominciai a coltivare l'interesse per la storia militare che avevo sin da piccolo. Scoprii che mentre a tutti, nella classe, non fregava una beneamata fava di quell'argomento c'era invece un ragazzo, M.A., che ne parlava volentieri, anche se alla teoria preferiva la pratica. Nel senso che prese confidenza e cominciò a portarmi a scuola, nascosti nello zaino, un sacco di oggetti che riteneva complementari alle mie letture: pistole soft-air, coltelli, distintivi e fregi del battaglione paracadutisti, pubblicazioni con i trucchi del perfetto mercenario, munizioni (vere) calibro .357 Magnum. Cominciai ad insospettirmi. Come mai uno di 13 anni possedeva tutte quelle cose? Erano di suo padre? Mio padre non ce li aveva mica tutti quegli aggeggi. 
Poi un giorno un altro ragazzo, parlando di cazzate varie, mi fa: “Lo sai? Sono stato a casa di M.A. e nell'ingresso c'ha un busto di bronzo di…come si chiama…dai, quello pelato: Mussolini!. 
Cazzo, M.A. era un fascista vero, non come quelli del pullman. Avrei dovuto sospettarlo. Eppure lui sembrava una persona fondamentalmente buona, era meno violento di tanti altri. Allora, forse, la sua famiglia era fascista ma lui no, possibile che esistessero situazioni simili? Condussi una piccola indagine, arrivando ad ottenere i seguenti dati. 
Il padre di M.A. era infatti un noto militante di estrema destra, fascista convinto e “praticante”. Guardia giurata di mestiere, possedeva una ricca collezione di fucili, pistole e coltelli. Si era reso noto alle autorità per una serie di aggressioni e pestaggi ai danni di zingari ed extracomunitari. Custodiva nel comodino una videocassetta porno dove una donna se la faceva con un cavallo. 
La dottrina fascista era stata trasmessa a M.A. dal padre. Il ragazzo era una persona fondamentalmente buona, non l'ho mai visto esercitare violenza od arroganza con nessuno in classe o nei corridoi, solo che l'ambiente di odio nel quale cresceva lo stava lentamente contaminando in un processo irreversibile. Non si trattava di odio costruttivo, di quello che ti spinge a lottare, che spezza catene, che abbatte muri. Il fascista più che altro prova una specie di sterile rancore verso qualcosa che nemmeno conosce, perché il fascista è nemico giurato dell'approccio critico alla storia e dello sforzo della comprensione, due fardelli del resto incompatibili col suo freddo mondo di clichés ammuffiti e semplici verità di comodo che trasformano il mondo in una caserma, vale a dire l'infantile paradiso che ogni imbecille apprezza per la sua impeccabile funzionalità regolata dalla più spietata disciplina. 
Dopo aver raggiunto quelle conclusioni, dopo essere uscito dalla fase “racconti di guerra”, ho cominciato ad accorgermi dei fascisti più o meno latenti che sopravvivono nelle pieghe della sgangherata struttura sociale italiana. 
Sono fascisti i consiglieri comunali protettori della cultura bottegaio-forcaiola tipica del nostro Nord, sono fascisti i buttafuori dei locali che umiliano punk, extracomunitari e gay davanti al gregge che osserva a testa bassa, sono fascisti (e qua cito le testimonianze dirette del mio amico Gaspa, di leva nei CC a Gorizia) i carabinieri che tengono la foto del Duce nell'armadietto, che sospirano “Ah, quando c'era lui…”, quelli che di rientro dalla pattuglia notturna lavano il cofano della macchina ed i manganelli coperti di “sangue di negro”. 
Qualche giorno fa, in una notte ancora fredda, ho rivisto M.A. da lontano: anfibi lucenti, jeans stretti, bretelle a penzoloni, bomber del “Fronte Skinheads Italia”. Era di passaggio, con un altro camerata, nel cortile del castello di Carpi, proprio di fianco alle alte steli di cemento coi nomi dei deportati nei campi di sterminio tedeschi. 
Osservavo i due ragazzi e le lapidi e non trovai niente di meglio che pensare ad un'ipotetica fotografia della scena dal titolo “Vittime (volontarie e non) dell'ideologia fascista”.

Jules

giovedì 26 dicembre 2013

CLASSE MEDIA BLUES



Non possiamo lamentarci.
Abbiamo da fare. 

Siamo sazi. 
Mangiamo.

Cresce l’erba, 
il prodotto sociale, 
l’unghia delle dita, 
il passato.

Le strade sono vuote. 

Le chiusure sono perfette. 
Le sirene tacciono. 
Questo passa.

I morti hanno fatto il loro testamento. 
La pioggia è cessata. 
La guerra non è stata dichiarata. 
Questo non è urgente.

Noi mangiamo l’erba. 

Noi mangiamo il prodotto sociale. 
Noi mangiamo le unghie. 
Noi mangiamo il passato.

Non abbiamo nulla da nascondere. 
Non abbiamo nulla da perdere. 
Non abbiamo nulla da dire. 
Abbiamo.

L’orologio è caricato. 
La vita è regolata. 
I piatti sono lavati. 
L’ultimo autobus sta passando. 

È vuoto.

Non possiamo lamentarci.

Cosa aspettiamo ancora?

(Hans Magnus Enzensberger)

mercoledì 25 dicembre 2013

BOMBE NAZIONALI


PERLA DELLE ANTILLE



La bomba lanciata, durante le persecuzioni indimenticabili, in Barcellona in stato di assedio, quando passava, trionfante, il maresciallo-garrotatore Campos [1], non è certamente comparabile al congegno patriottico e nazionale piazzato, in tempo di pace, secondo i consigli del generale Weyler [2], sotto la chiglia di una nave americana [3].

La piccola marmitta del generale compì meraviglie.

Nelle acque di Cuba, il Maine saltò in mille pezzi. 250 marinai bruciati, fatti a pezzi, annegati... Del fuoco, del ferro, il lenzuolo delle onde. Un avvertimento della Spagna:

Qui vi sono delle trappole per lupi di mare.


Poiché una nazione avvertita ne vale due, non bisogna meravigliarsi della pronta risposta americana. Messaggio del presidente, voto delle camere, ultimatum...

Gli obici sono in batteria.

E gli obici pioveranno sui porti soleggiati. Americani e Spagnoli tenteranno di avvicinarsi alle coste dove si stagliano le case bianche, dove fioriscono delle popolazioni. Le bombe cadranno a casosulle città e sulle case, nei sobborghi in cui i bambini giocano per le strade sugli ospedali in cui i malati saranno, con un sol colpo, guariti...

Sono le bombe civilizzate.


Un anno fa, di questi tempi, la Spagna, la Cattolica, bruciava un po' ovunque. A Barcellona, non era ancora il rogo; ma i colpi di fucile crepitavano.

Il consiglio di guerra, in seduta permanente, compiva esecuzioni sommariamente nei fossati di Montjuich. Si torturavano i prigionieri colpevoli di un opinione. Gli stivaletti dell'Inquisizione calzavano i piedi di nuovi martiri.

Si strappavano delle unghie. Si bruciavano carni al fuoco.

Dei monaci incappucciati circolavano con dei gendarmi, degli ufficiali e dei giudici, andavano di cella in cella a interrogare come si interrogava ai tempi rimpianti della Questione.

Nelle colonie, laggiù, nelle Filippine, A Cuba, la madre-patria covava i suoi piccoli.

Li covava a fuoco lento.

Si bruciavano vivi gli irregolari caduti nelle mani degli Spagnoli, dei regolari, dei secolari. Si reprimevano le sollevazioni degli indigeni spremuti sino in fondo,carichi d'imposte, morenti di fame, facendoli morire più velocemente con la spada e il bastone. Nei villaggi in cui, musica in testa, penetrava l'Esercito della Regina, giacevano, dopo il suo passaggio, cadaveri di donne violentate...


Contro i suoi figli ribelli, i suoi creoli, i suoi schiavi, i suoi negri, la Spagna cavalleresca sviluppava allegramente le sue qualità medievali

Cosa importavano le leggi di guerra? Questo codice della macelleria puerile e onesta.


Non vi è diritto di belligeranza per chi si rivolta nel proprio paese. Non più che per i liberi-pensatori, i repubblicani e altri anarchici della Metropoli, la Spagna tradizionale e papalina non si sentiva a disagio con i Cubani.

Quando non li si arrostiva, si fucilavano i prigionieri.

Non è così che si deve rispondere alla guerra dei partigiani?


Guerrilleros e flibustieri, i franchi tiratori dell'indipendnza erano buona carne da supplizio. I Cubani lo sanno così bne che quelli tra di loro caduti, vivi, in un'imboscata, cercavano un rifugio nel suicidio.

Uccidi! Viva la Spagna! Uccidi! para la Madona… Uccidi senza parole. Nessuna tregua per i partigiani- partigiani della Libertà.

L'America si commosse.

Si ignora come si commuovono gli Yankee. Perché se lal Spagna è cavalleresca, gli Americani sono filantropi. Brava gente! Soffrivano di vedere la desolazione diffusa in un paese vicino, su un ricco territorio così vicino, sulla perla di tutte le Antille.

E poi avevano forse da far dimenticare, con un intervento generoso, qualche errore del tempo passato? Pensavano senza dubbio al modo piuttosto radicale di cui un tempo braccavano il Pellirossa nelle praterie del Farwest. Quanti crimini odiosi da riscattare...

L'Americano è filantropo!

Non lo si dirà mai troppo invano: filantropo e metodista.

Una condotta esemplare, ora, una lezione di umanità cancellerebbe il tenace ricordo di questi massacri metodici di Pawnie, di Apache, di Sioux, razze estinte, annientate sotto il fucile degli anglosassoni. Si placherebbe, nella piroga, sui grandi laghi, l'ombra dell'ultimo dei Mohicani [4].


L'America fece dunque alla Spagna ciò che in stile diplomatico si chiamano delle rappresentazioni.

In stile volgare si scriverebbe: l'America recitò la commedia.


Accadde l'incidente del Maine che diede la scintilla alle polveri.

Cuba non è nient'altro nella mischia che una preda che due popoli si contendono.
Gli Stati Uniti avevano un mezzo molto semplice di dimostrare, sin dall'inizio, la purezza delle loro intenzioni:


Spontaneamente, riconoscere Cuba libre [5].

Ci hanno pensato un po' tardi. Il Senato dice: sì. La Camera vacilla. Il Congresso cerca una formula. I giornali aggiungono che d'altronde si tratta, prima di ogni altra cosa, di pacificare vigorosamente.

Parlano della necessità di un governo stabile che assicurerebbe il "traffico"... Si sente l'asprezza della parola: dogane, dazi e royalty.

I filantropi sottintendono che, -essi soltanto- in fin dei conti, saranno capaci di far fruttare, nell'Isola, questo governo ideale.

La prova si farà a colpi di cannone.

Cuba, liberata dalla Spagna, sarà vassalla degli Stati Uniti.


In quanto alla regina reggente, al suo brillante seguito di cortigiani e di ministri, essi non ignorano affatto che la Spagna corre verso una formidabile sconfitta.

La loro cavalleria che fiuta le idee sovversive, la loro tracotanza poco maestosa lascerebbe, a questi hidalgo, una certa prudenza, se non sanno per certo che ogni occasione sarà buona alle parti dell'opposizione per buttare giù la loro regalità.

Una ritirata alle Antille, è, a Madrid, la rivoluzione.

Attraverso la forza oscura delle cose, i pseudo-padroni della Spagna sono travolti malgrado loro. Si ostineranno nel far valere i diritti illusori che essi possiedono sull'isola lontana che li maledisce.

Non eviteranno la batosta.

Eviteranno la Rivolta?


Correntemente la rivoluzione salutò il ritorno dei generali che lasciarono la loro ferramenta in mano al nemico vincitore.

L'eventualità è temibile a questo punto tanto che i tre re e gli imperatori, macellai dilettanti di popoli, non osano più lanciare i loro battaglioni.

Non si fidano del loro bestiame.

La guerra trascina e scatena. Si è annusato odore di sangue. Ci si è fatti sconfiggere per la principessa.

Il fucile serve per la Comune.


Che la guerra scoppi subito, si prolunghi o meno, o sia rinviata, la questione cubana è di quelle che una volta poste non si elude più.

Degli uomini vogliono liberarsi.


Gli insorti cubani sono lungi dall'avere l'ingenuità dei Cretesi dell'anno scorso. Quei sempliciotti non tentavano di scuotere il giogo del Sultano se non per diventare i sudditi del buon principe Giorgio di Grecia.

I Cretesi chiedono un re. I Cubani non chiedono nulla se non vivere liberi sotto il sole.

Hanno imparato a disprezzare le vane parole della vecchi Europa. Hanno la robusta energia di una Volontà che va per la sua strada.

Delle nazioni dette civilizzate possono ricorrere alla dinamite per contendersi questa preda di lusso. Gli obici, le mitragliatrici, possono tuonare oltre i mari. Le bombe sacre della patria possono uccidere delle donne e dei bambini...

La Spagna può accigliarsi, gli Stati Uniti possono sorridere, la bella perla delle Antille è perla che non si infilerà.

Zo D'Axa



NOTE


[1] Il generale Martinez Campos represse nella sua lunga carriera di reazionario militare anche le sollevazioni a Cuba nel 1895 in qualità di Governatore di Cuba, gli scarsi risultati conseguiti però, portarono alla sua destituzione con il generale Valeriano Weyler.

[2] Il generale Valeriano Weyler che subentrò al generale Campos, fec deportare almeno 400 mila cubani inclusi donne, vecchi e bambini in campi di concentramento, provocando migliaia di decessi.

[3] Zo d'Axa si riferisce al celebre caso della corazzata USS Maine che gli Stati Uniti avevano inviato a L'Avana nel gennaio del 1898 con il motivo di proteggere gli interessi dei cittadini statunitensi che vi risiedevano. L'affondamento della nave da guerra nel febbraio del 1898, che provocò centinaia di vittime e su cui ancora oggi vi sono controversie riguardo alle cause, provocarono un'ondata guerrafondaia nell'opinione pubblica statunitense sostenuta dalla grande stampa conservatrice e filoimperialista, e infine l'intervento armato degli USA. Le ostilità che si protrassero dal mese di aprile sino agli inizi dell'agosto 1898 portarono ad una rapida e schiacciante vittoria degli Stati Uniti che si impadronirono oltre che di Cuba anche delle Filippine, Porto Rico e dell'isola di Guam.

[4] Alle atrocità commesse dagli Spagnoli sia in patria sia nelle colonie americane, che aiutarono il partito belligerante statunitense nella loro propaganda a muovere guerra alla Spagna, Zo d'Axa ricorda quelle commesse dalla popolazione di lingua inglese prima e dopo l'Indipendenza. Cita ironicamente allo scopo il titolo del famoso romanzo di James Fenimore Cooper L'ultimo dei Mohicani edito nel 1826.

[5] Cuba Libre. Zo d'Axa ironizza, come è tipico nel suo stile e temperamento, abusando dei doppi sensi, in questo caso legando il nome della dichiarazione d'intenti statunitense di voler rendere indipendente Cuba con quello di un drink che da allora sarebbe diventato famoso, il Cuba libre appunto. La leggenda vorrebbe che un barman cubano avesse mescolato la Coca Cola statunitense al rum, prodotto tipicamente cubano, unione simbolica delle due nazioni unite in guerra contro la Spagna. In origine il Cuba Libre era un cocktail a base di rum bianco, succo di lime, sciroppo di zucchero allungato con la cola.

martedì 24 dicembre 2013

La PURGA FINALE DEI MAKHNOVISTI 1937-1938




Una breve esposizione della repressione che si abbatté su degli anziani membri del movimento makhnovista nel 1937-38. Gli anni 1937-38 furono un periodo terribile in unione sovietica. Stalin attaccò i nemici che egli individuava all'interno del partito Comunista, assassinando quelli organizzati all'interno dell'Opposizione Trotskista così come numerosi vecchi bolscevichi come Bucharin, Kamenev et Zinoviev.

Così i membri sopravvissuti del movimento makhnovista e anarchico non sfuggirono al massacro. Praticamente tutti i membri che non erano stati assassinati durante gli anni 1918-1922 furono arrestati e giustiziati. Uno dei primi makhnovisti ad essere arrestato fu il più vicino collaboratore di Nestor Makhno, Ivan Lepetchenko, assassinato a Mariupol il 20 ottobre 1920. Suo fratello Pavel, anch'egli anarchico-comunista, sembra essere stato ucciso nello stesso momento.

I fratelli Zadov, Lev e Daniilo, furono assassinati nel settembre del 1938 e Victor Belash morì lo stesso anno. Tra gli altri makhovisti che furono assassinati, vi fu Grigory Seregin (1884 - 1938) nato in una famiglia contadina a Kaluga e che aveva lavorato come montatore a Guliai Polé. Era stato un anarchico comunista sin dal 1906. Dal 1917 era stato membro di un comitato di fabbrica e fu attivo all'interno dei sindacati dei metallurgici. Dalla seconda metà del 1917 sino ad aprile 1918, presiedette le comunità industriali di Guliai Polé, il consiglio di approvvigionamento alimentare e fu membro dell'assemblea cantonale o zemstvo [1]. All'inizio del 1918, presiedette la sezione di approvvigionamento delle forze makhnoviste.

Fu membro del movimento makhovista a partire dall'agosto del 1918 e ebbe funzione di segretario durante il secondo Congresso del Distretto di Guliai Polé (dal 12 al 18 febbraio del 1919). Nel marzo del 1919 fu nominato capo aggiunto dell'Approviggionamento della brigada di Makhno. Al Congresso Generale dell'Esercito il primo settembre del 1919, fu eletto membro dello Stato Maggiore dei makhovisti, diventando un ispettore e più tardi il responsabile del rifornimento alimentare che egli diresse sino all'estate del 1921. Il 28 agosto 1921, con un distaccamento di Makhno, passò in Romania. Nel 1924, approfittò dell'amnistia offerta dal regime sovietico e ritornò in Ucraina. Nel 1930, lavorò come montatore ad Aleksandrovsk. Fu assassinato nel 1938.


A Guliai Polé, nel febbraio-marzo del 1938, il NKVD locale arrestò 40 persone. Si trattava di:

Klim A. Deniega; Efim Yakolevich Gorpinich; Gavril Danilovich Gorpinich; Roman Tikhonovich Gorpinich; Ivan Braca; Fedot Braca; David I. Braca; Grigory Ivanovich e Nikita Kuzmich Lyutyi (probabilmente entrambi in relazione con il celebre makhnovista Isidor Lyutyi); Titus Porfirievich Sapyn; Ivan Nepodya; Gerasim Vasilievich Shamray; Kuzma Timofeyevich Senenko; Yakov Pedorya; Pavel Trofimovich Martynenko; Petr S. Tishchenko; Avksenty Yemelianovich Kostoglot; Akim Efimovich Rybalchenko; Ivan Dmitrievich Pidrepny; Anton A. Tarasenko; Vasili Denisovich Lysenko; Petr G. Zabłocki; Ivan Tikhonovich Kirichenko; Alexander Franzevich Skomsky; Anton Kuzmich Ostapenko; Ivan Vovchenko; Ivan Denisovich Vovk; Alexander Stepanovich Roskaryaka; Ivan Zhovnirenko; Sergei Maximovich Hohotva (probabilmente in relazione con un altro dirigente makhnovista Pavel Hohotva); Timotei Eliseevich Pripihaylo; Iakov Artemyevitch Claus; Savelij P. Bykovskii; Nikolai Fedorovich Zhovnirenko; Dimitri Lukic Verbitsky; Luca Gavrilovich Filenko, Titus A. Podgorny; Panagia Vasili Kravchuk; Stepan Mikhailovich Ovdienko (Avdiyenko), e Nikifor Timofeyevich Sprinky (Sirenek).


Tutti gli arrestati furono accusati "di essere implicati nel Reggimento Makhnovista Militare di Giliai Polé i cui scopi sono la lotta armata e la rivolta contro il Potere Sovietico, e in qualità di membri del regimento makhnoviste contro-rivoluzionario insorto. Essi hanno condotto delle attività contro-rivoluzionarie tra la popolazione destinate a turbare le attività del Partito e delle autorità sovietiche, affermando che il sistema delle fattorie collettive non era vantaggioso, accusando il potere sovietico ed il Partito di tutte le manire contro-rivoluzionarie possibili, calunniando i suoi dirigenti, preparandosi attivamente a commettere degli atti di sabotaggio nei settori vulnerabili dello Stato e delle fattorie collettive e a commettere degli atti di sabotaggio nei settori vulnerabili dello Stato e delle fattorie collettive ed a commettere degli atti terroristici contro i beni di comunisti e di komsomol (membri della Gioventù Comunista) nel villaggio". Tutto ciò in base agli articoli 54-11, 54-10, 19, 54-8, 54-7 della legge sovietica. Skomsky, inoltre, fu accusato di essere "sino al giorno del suo arresto un agente dei servizi di spionaggio rumeno".

Per questi crimini la troika del NVKD [2] della regione di Dnipropetrovs’k condannò a morte gli accusati il 1° aprile 1938. La sentenza fu eseguita a Dnipropetrovs’k il 23 aprile 1938 (28 persone), il 25 aprile (9 persone), il 9 maggio (2 persone) e il 7 luglio (una persona). Più tardi tutte queste vittime furono riabilitate nel 1959. Per simili accuse, 2 dirigenti makhnovisti, Ivan Chuchko e Nazar Zuychenko furono assassinati a Dnipropetrovs’k rispettivamente il 26 aprile ed il 7 luglio 1938.

Imputati anch'essi di simili accuse dal NKVD di Dnipropetrovs’k, ed in quanto dirigenti del "reggimento", vi erano Vasili Mikhailovich Sharovsky et Vlas Korneyevich Sharovsky. Vasili nacque il 24 dicembre 1891 a Guliai Polé. Era il figlio del soldato Mikhail Lukyanov Sharovsky e di sua moglie Maria Radionova, entrambi ortodossi. Prestò servizio nell'esercito russo durante la prima Guerra Mondiale come ufficiale. Simpatizzava con i Socialrivoluzionari, senza che sia mai diventato membro del partito, gravitando in seguito verso l'anarco-comunismo. Nel 1917, era responsabile di una batteria di artiglieria della Guardia Nera a Guliai Polé. Da gennaio a giugno 1919, fu capo dell'artiglieria della III brigada makhnovista di Zadneprovsky. Da settembre a dicembre fu capo aggiunto dell'artiglieria dei makhnovisti, fungente da Comandante d'artiglieria. Vlas nacque anche lui a Guliai Polé nel 1886. Fu maresciallo nell'artiglieria makhovista e noto per la sua bravura. Benché vi siano numerosi riferimenti, compresa la testimonianza do Belash al NKVD, che sosteneva che i due Sharovsky erano fratelli, ciò non era il caso come indicano i loro patronimi. Belash dice che Vlas lavorava in una fabbrica della regione di Dniproropetrovs'k nel 1930 stabilendovi una rete makhovista clandestina. Fu più tardi raggiunto e aiutato da Vasili. Quest'ultimo sembra essere stato molto ben istruito, lavorando come insegnante nella regione di Kiev, applicandosi a diventare candidato allo statuto di membro candidato all'ingresso nel Partito Comunista, mentre si impegnava ad attività makhnoviste clandestine! Divenne anche membro del consiglio comunale del villaggio di Guliai Polé ed amministratore di una scuola. Vasili e Vlas furono probabilmente in relazione con tre altri Sharovskys, tutti fratelli, menzionati come degli anarchici di Guliai Polé nelle memorie di Makhno, Poitr, Grigori e Prokop. Un altro makhnovista degno di nota, Konstantin Chuprina, fu anche incolpato di queste accuse e assassinato.

Assassinati anch'essi nel 1938, furono Ignat Fedorovich Bobrakov (nato nel 1893). Era un operaio simpatizzante anarchico che si unì al movimento makhnovista nell'agosto del 1918. Durante l'autunno e l'inverno del 1919 era responsabile dell'approvigionamento dell'artiglieria makhovista. Con il ritorno dei bolscevichi in Ucraina nel gennaio del 1920, abbandonò il movimento. Durante gli anni 30 lavorò come direttore allal fabbrica "Rivoluzione d'ottobre" ad Odessa. Fu arrestato verso la fine del 1937 ed assassinato l'anno seguente.

Nella vicina regione di Zaporozhye alla fattoria di Zelyoniy Gai, 22 altri ex-makhnovisti furono arrestati dalla NKVD. Sette di loro, includenti un altro artigliere makhnovista, il Commandante aggiunto dell'artiglieria, Dimitriy Ivanovich Sipliviy, furono condannati a morte e fucilati. Sipliviy era originario di una famiglia di contadini medi da parte di Grigorevka Pologovsky. Dal 1919, era membro del gruppo anarchico di Guliai Polé e fu Commandante aggiunto nell'artiglieria makhnovista.

Nick Heath

NOTE

[1] Zemstvo. Gli zemstvo sono delle assemblee, elette a suffragio censitario, creati in origine dal regime zarista, per prendere in carica diversi incarichi amministrativi, lavori di infrastryttura e servizi pubblici di base nelle campagne. Esse avevano due livelli, un livello "cantonale" ("uyezd") e un livello "provinciale", l'assemblea provinciale era formata da delegati dei cantoni. Queste assemblee erano dominate dai proprietari terrieri e i notabili. Nel 1917, esse furono democratizzate prima di essere abolite dal nuovo regime bolscevico.

[2] Troika del NKVD. La parola troika designa una direzione a tre membri e la sigla NKVD la polizia politica segreta del regime "sovietico" di quell'epoca, che prima era chiamata CeKa, sostituita nel 1922 da GPU trasformata infine nel 1934 in NKVD.

sabato 21 dicembre 2013

IL MIO NICHILISTICO ANTIGIURIDISMO


    Ho letto di recente l’intervista a uno dei tanti gotha dell’anarchia, in cui tra le altre cose, affermava che: “ l’attitudine antigiuridica è quella del martire”.
 Accanto a questo posso menzionare anche frasi che ho mille volte sentito, come ad esempio: “ il compagno deve poter far tutto per difendersi ed uscire. È più utile fuori che dentro” e altre banalità di questa portata.

    Andiamo con ordine. Ognuno è libero (che gran parola) di fare ciò che più desidera, difendersi, non difendersi, fare il pentito, tutto secondo il suo sentire egoistico e il suo piacere. Non sta a me scegliere, continuo però a trovarmi di fronte la forte contraddizione di chi come anarchico dice di combattere il potere statale e poi ne usa i mezzi, ma io sono un Individuo puntiglioso.

    Ad ogni modo, la posizione del martire, mi pare sia quella che da sempre ha incarnato un certo tipo di anarchico colpito dalla repressione dello “Stato/Capitale” (che termine vetusto); una volta colpito da un avviso di garanzia, dalla carcerazione inizia a piangersi addosso e corre a nascondersi dietro le gonne del suo avvocato, avvocato compagno, pardon! Chi è il martire?

    Non ho mai visto o sentito di fieri antigiuridisti che piagnucolano per la repressione, ma semmai li ho sentiti RIVENDICARSI le azioni fatte, o dichiarare l’affinità alle azioni commesse da altri. Anche se, in realtà, di antigiuridisti ne conosco pochi, alcuni sono lontani kilometri e altri appartengono ad altre epoche, i miei Affini mi accompagnano ogni giorno. Una cosa è certa li ho sempre sentiti ruggire e mai lacrimare sangue come le statue dei santi!

   All’ epoca in cui iniziò il dibattito sull’antigiuridismo, per quanto qualcuno si ostini a negare l’esistenza dello stesso, l’aspetto della questione si focalizzò soprattutto sulla rinuncia alla difesa da parte dell’avvocato (avvocato che secondo la legge ti viene comunque riassegnato “in eterno”, perché fa parte del tuo diritto), ma come è stato in altri testi vergato e approfondito l’antigiuridismo è molto più di questo. È prima di tutto un’attitudine di vita, è la sperimentazione continua nell’esistenza di tutti i giorni della negazione della società e delle sue regole, dello stato e delle sue leggi, una vita ai margini ( dico ai margini perché sarebbe impensabile essere al di fuori di questi margini, ma non è questo l’approfondimento che desidero oggi fare). Sfruttando egoisticamente tutto ciò che per me è utile in un determinato momento.

    Vivere l’illegalismo: la rinuncia ad una vita facilmente “rintracciabile”, ma soprattutto la rivendicazione del sé in ogni atto, dell’unione egoistica nell’agire e di una continua attitudine non collaborativa con lo stato e la sua corte, non fatta solo da giudici, pm e sbirri, ma anche avvocati, che non sono “angeliche figure astratte”, come forse molti pensano, ma i protagonisti delle aule dei tribunali legati saldamente con lo stato, di cui usano leggi e cavilli.

    Iniziate a chiedervi, nella vostra cieca fame di conoscenza superflua: come mai fra i tanti compagni che si rivendicano molti sono ora comodamente a casa “ con mammà” e molti sono ancora chiusi in prigione(*)? La differenza sta in una parola : Avvocato.
Sara Zappavigna

(*) Come esempio specifico – riportiamo quello dei Fieri Antigiuridisti della Cospirazione delle Cellule di Fuoco/FAI, che nonostante -alcuni di loro- non siano neanche stati processati e condannati- sono ancora in prigione in in carcerazione preventiva. In grecia - il limite massimo è di 16mesi – per i reati associativi.
Una domanda agli etici pro giuridici:
Come mai i Fieri compagni della CCF - sono in galera?
PerchéAntigiuridicamente - non hanno usufruito di cavilli legali o attenuanti per uscire.

venerdì 20 dicembre 2013

DELLA REDENZIONE



Un giorno quando Zarathustra passò sul gran ponte, gli storpi e i mendicanti lo circondarono, e un gobbo gli parlò così:
«Guarda, Zarathustra! Anche il popolo impara da te e presta fede alla tua dottrina: ma affinchè possa crederti interamente è ancor necessario una cosa – tu devi anzitutto convincere gli infermi! Ne hai qui grande scelta e, in verità, un'occasione che devi afferrare... Tu devi rendere la vista ai ciechi e far correre gli zoppi; e togliere un poco a colui che ha troppa roba sul dorso: – ecco, io penso, il vero modo per far sì che gl'infermi credano in Zarathustra!»
Ma Zarathustra rispose a colui che gli aveva parlato:
«Se si toglie al gobbo la gobba, gli si toglie pure lo spirito – così insegna il popolo. E se si rende la vista al cieco, egli vedrà troppe cose brutte sulla terra: così che dovrà maledire chi lo guarì. E colui che fa correr lo zoppo, gli fa il danno peggiore: giacchè appena potrà correre, i suoi vizi lo trascineranno con loro – così insegna il popolo a proposito degli infermi. E perchè Zarathustra non dovrebbe imparare dal popolo, quando il popolo impara da Zarathustra?
Ma, dacchè mi trovo fra gli uomini, è per me la cosa più insignificante che io veda... A questo manca un occhio, a quello un'orecchia, a un terzo la gamba, e vi sono altri che han perduto la lingua o il naso o la testa.
Vedo e ho veduto cose peggiori, e parecchie così orribili; non vorrei parlare di ciascuna e non posso tacere di alcune; uomini che non sono altro che un grande occhio, o una gran bocca, o un grande ventre, o qualche altra cosa di grande, – io li chiamo storpi a rovescio.
Quando uscii dalla mia solitudine, e passai per la prima volta sopra questo ponte: non credetti ai miei occhi e guardai e guardai e dissi alfine: «Questa è una orecchia!
Un'orecchia grande come un uomo!» Io guardai meglio: e, in verità, sotto l'orecchia si agitava ancora qualche cosa che era piccola da far pietà, e povera e debole. E, veramente, l'orecchia enorme, era posta sopra un tenue e piccolo stelo, – ma lo stelo era un uomo! E chi avesse guardato attraverso una lente avrebbe anche potuto scorgere un grazioso visino; e anche una piccola anima flaccida pendente dallo stelo. Tuttavia il popolo mi disse che la grande orecchia non era soltanto un uomo, bensì un grand'uomo, un genio. Ma io non credetti mai al popolo quando parlò di grandi uomini – e tenni la mia credenza che quegli fosse uno storpio a rovescio, il quale aveva troppo poco di tutto, e d'una sola cosa troppo».
Quando Zarathustra ebbe parlato così al gobbo, ed a coloro dei quali il gobbo era interprete e mandatario, si volse con profonda scontentezza ai discepoli e disse: «In verità, amici, io m'aggiro tra gli uomini come in mezzo a un ammasso di frammenti e di membra umane!
Questo per i miei occhi è cosa terribile, veder gli uomini frantumati e lacerati come su un campo di battaglia o di carneficina.
E se il mio sguardo fugge dal presente al passato: trova sempre la stessa cosa: frammenti, membra, casi orrendi – ma non un uomo!
Il presente e il passato sulla terra – o miei amici! – ecco quel che mi è più insopportabile; e non saprei vivere, se non fossi un veggente di ciò che deve accadere.
Un veggente, un volente, un creatore, un avvenire stesso, e un ponte sull'avvenire – e, ahimè! ancora, in certo modo, uno storpio su quel ponte: tutto ciò è Zarathustra.
E voi pure vi chiedete sovente: «chi è per noi Zarathustra?
Come ci deve chiamare?». E, come me, voi rispondete con nuove domande alle vostre domande.
È egli uno che promette? Uno che adempie? Un conquistatore?
Oppure un erede? Un autunno? Oppure un aratro? Un medico? Oppure un convalescente?
È egli un poeta? uno che dice la verità? Un liberatore? Un domatore? Un buono? Oppure un cattivo?
Io m'aggiro fra gli uomini, frammento dell'avvenire: quell'avvenire che vedo.
E a questo tende ogni mio pensiero, ogni desiderio; comporre in unità ciò che è ora frammento e mistero, e lugubre caso.
E come potrei sopportar d'essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta, profeta e redentore del caso?
Riscattare i passati e trasformare tutto «ciò che fu» in «così volli!» – questo soltanto chiamo riscatto!
Volontà – si chiama così il liberatore e il dispensatore di gioie: questo v'insegnai, o amici! Ma ora imparate anche questo: la volontà stessa è tuttavia prigioniera. Il volere redime: ma come si chiama ciò che incatena gli stessi liberatori?
«Così fu»: ecco ciò che fa digrignare i denti alla volontà, e la sua più solitaria afflizione. Impotente contro ciò che fu fatto – è una spettatrice malevola per tutto ciò ch'è trascorso.
La volontà non può agir sul passato; non poter infrangere il tempo e le brame del tempo – è la sua più solitaria afflizione.
La volontà riscatta: che cosa potrà trovare per liberarsi dalla sua afflizione e beffarsi delle sue catene?
Ah, ogni prigioniero diventa un pazzo! La volontà prigioniera, essa pure, si libera come follia.
Che il tempo non possa tornare indietro, è la sua collera.
«Ciò che fu» – così si chiama la pietra che la volontà non può rovesciare.
E così essa rovescia, per ira e dispetto, le pietre, e si vendica di colui che non prova, al pari di lei, rabbia e dispetto.
Così la volontà liberatrice, divenne cagione di duolo: e su tutto ciò che può soffrire, si vendica di non poter tornare indietro.
Questa, questa soltanto, è la vera vendetta: la ripugnanza della volontà per il tempo e per il «così fu».
Davvero una grande follia dimora nella nostra volontà; e fu sventura per ogni cosa umana che tal follia imparasse ad aver dello spirito!
Lo spirito della vendetta: miei amici, ecco ciò che fu sin adesso la miglior riflessione degli uomini; e dov'era il dolore, si suppose ci fosse un castigo.
«Castigo», così la vendetta chiama sè stessa; con una parola menzognera si procura una buona coscienza.
E siccome in colui che vuole, v'è sempre il dolore di non poter volere sul passato – la volontà, essa stessa, e tutta la vita, dovrebbero – esser punizione!
E così nube su nube si addensò su lo spirito: fino a che predicò la follia: «Tutto passa, tutto è degno perciò di passare!»
«E questa è proprio giustizia, la legge che impone al tempo di divorare i propri nati»: così predicò la follia.
«Moralmente ordinate son le cose, secondo il diritto e il castigo. Oh, dove trovar redenzione dal flusso delle cose e dal castigo chiamato esistenza? – Così predicò la follia.
«Può darsi redenzione quando esiste un eterno diritto? Ah, non si può sollevare la pietra «esso fu»: eterno dunque dev'essere anche il castigo!» Così predicò la follia.
«Nessun'azione può esser distrutta: come potrebbe venir soppressa dal castigo? Questo, questo è ciò che d'eterno v'è nel castigo dell'«esistenza»: che l'esistenza sia in eterno colpa ed azione!
«A meno che la volontà non finisca per liberarsi essa stessa e che il volere divenga rinunzia al volere» – ma voi la conoscete, o miei fratelli, questa canzone della follia! Vi condussi lungi da tali canzoni quando v'insegnai: «la volontà è creatrice».
Tutto ciò «che fu» è frammento ed enigma, e spaventevole caso, finchè non dica la volontà creatrice: «Ma così io volli!».
Fin che non dica la volontà creatrice: «Ma così io voglio! Così io vorrò!».
Ma ha essa di già parlato in tal modo? E quand'è che questo successe? È già liberata la volontà dalla sua propria follia?
Divenne essa la redentrice di sè medesima, e messaggera di gioe? Disimparò lo spirito della vendetta e il digrignare dei denti?
E chi le insegnò a riconciliarsi col tempo, e qualcosa ch'è superiore a tutte le riconciliazioni?
Bisogna che la volontà, che è volontà di potenza, voglia qualcosa di più alto che la riconciliazione: ma come? Chi le insegnò a voler dominare anche sul passato? » Ma a questo punto del suo discorso accadde che Zarathustra s'interruppe, d'improvviso, simile a qualcuno che si spaventa estremamente. Con occhio atterrito egli guardò i suoi discepoli; l'occhio suo penetrava come una freccia i loro pensieri più ascosi. Ma, dopo un momento, di nuovo egli rise e disse benigno:
«È difficile viver tra uomini, perchè il silenzio è tanto difficile. Specialmente per un chiacchierone....»
Così parlò Zarathustra. Ma il gobbo aveva ascoltato il discorso celandosi il volto; e quando udì rider Zarathustra, lo guardò incuriosito e disse lento:
«Ma perchè Zarathustra parla con noi altrimenti che coi suoi discepoli?».
Zarathustra rispose: «Perchè mai dovreste stupirne!
Coi gobbi bisogna parlare gobbescamente!

«Va bene, disse il gobbo; e con gli scolari si può parlare come usa alla scuola... Ma perchè Zarathustra parla altrimenti ai discepoli suoi – che a sè stesso?»

giovedì 19 dicembre 2013

Il Burro di Marijuana

“Colui che non sa fare niente da sè
è il consumatore perfetto”
[ ..e ovunque tu sarai, semina. ]


La ricetta

Mettere a scaldare l’acqua nella pentola senza mai raggiungere il bollore (80° circa). Immergere nell’acqua il burro e lasciarlo sciogliere.
A questo punto aggiungere la canapa e cominciare a mescolare preoccupandosi di non far attaccare nulla alla pentola. Fare bollire per almeno 30 minuti (io consiglio di spingersi fino alle due o tre ore) mescolando spesso e tenendo il fuoco basso.
Una volta arrivati ad una poltiglia in cui il burro fuso ha raggiunto una tinta verdastra scura ed omogenea spegnere il fuoco e lasciar raffreddare a temperatura ambiente il composto.
Cominciare poi a filtrare con un colino la parte liquida da quella solida avendo cura di strizzare quest’ultima in modo da estrarne il restante burro di cui è zuppa. (aiutandovi con un panno fine o con dei filtri per caffè).
Il liquido che ora avete davanti è composto da acqua e burro fuso. Mettere il recipiente in frigo e appena raggiungerà i tre gradi il burro si sarà solidificato sopra l’acqua e sarà tendente al colore verde e non più color crema come in origine. In questo modo si separano le resine idro-solubili da quelle solubili nei grassi che contengono il principio attivo del THC.
Tirare fuori dal frigo il burro e separarlo dall’acqua con l’aiuto di un coltello. Ora è pronto per essere utilizzato nella ricetta che riterrete più gustosa. es. biscotti e torte Questo procedimento ci interessa anche perché spesso nell’erba
le sostanze idrosolubili sono quelle che danno un sapore cattivo; se le elimineremo, si eviterà anche il sapore bruciante e un po’ acre che il burro di canapa può avere. Sicchè se il burro di erba dovesse risultarvi di gusto troppo acre potete bollire per 10 minuti una parte di questo burro con due di acqua mescolando continuamente. Ripetere poi il sistema di raffreddamento e di rimozione sopra indicato.

[!] Esempi dosaggi:
- 2 l d’acqua : 500 g di burro : 500 g di foglie e briciole.
- 4 parti d’acqua : 1 di burro (es. 50 g) : 10 g di cime tritate.

[*] Prima di sperimentare la ricetta:
* La cosa più importante da ricordare è che il tetraidro cannabinolo è solubile nell’olio, nei grassi vegetali e animali e nell’alcol. Non è solubile in acqua.
* Le dosi ed i tempi variano con la quantità e la qualità degli ingredienti.
* In genere l’indebolimento dell’effetto del THC comincia intorno ai 100°C, non bisogna perciò esagerare con il calore durante la bollitura.
* Troppo zucchero nelle ricette può danneggiare e ridurre l’effetto finale. Meglio lasciarlo stare.
* L’eccessiva acidità degli ingredienti inibisce l’assimilazione del THC.
* Usare sempre il buon senso e la testa, specie con un ingrediente che induce effetti soggettivi come l’erba. Un eccessivo dosaggio può evocare stati di ansia e malessere nella zona gastro-intestinale.


domenica 15 dicembre 2013

LA GESTALT COME UN ESISTENZIALISMO DIONISIACO



Questa è un'epoca della vita nella quale sto cercando di completare le cose che ho detto a metà, prima che mi passi la voglia di parlare. Sono pienamente d'accordo con la concezione indù, secondo la quale, quando si ha finito di svolgere i propri compiti nella vita, è necessario prepararsi per la morte e mi sembra che ancora prima di questo si debba mettere ordine nelle proprie cose e completare ciò che abbiamo cominciato.
    L'origine di ciò che dirò oggi risale al IV Congresso Internazionale di Psicoterapia della Gestalt svoltosi a Siena nel 1991, in occasione del quale Riccardo Zerbetto aveva organizzato una tavola rotonda a cui partecipavo. Ci era stato richiesto di discutere sui precedenti della Gestalt e volendo andare oltre le cose che già avevo scritto (la Gestalt come 'criptotaoismo', la relazione con il buddhismo, Martin Buber eccetera), decisi di concentrarmi soprattutto su certe influenze occidentali.
    Riccardo Zerbetto aveva orientato la discussione nel suo intervento puntando il dito su Edmund Husserl (da dove, infatti, Perls aveva tirato fuori la sua fenomenologia?) e da qui incomincerò ora, come allora, dubitando che Perls abbia avuto così tanta pazienza da leggerlo.
    Se lo avesse letto non gli sarebbe piaciuto, perché Husserl è un neokantiano idealista, mentre Perls era un realista che non aveva molta pazienza con i filosofi accademici, per importanti che fossero. Penso si possa dire che Perls è stato un filosofo, anche se lo fu in un senso poco comune del termine.
    Fu così che nel citato congresso mi ritrovai a parlare più che altro di Dioniso. Mi sembrava infatti che il precedente più vero della Gestalt, in una scuola o un orientamento filosofico, stesse in questa antica religione che apparentemente è stata la prima dell'umanità.
    A Siena ho parlato anche della Gestalt come di una corrente esistenzialista in psicoterapia, ma visto che non sono riuscito a sviluppare il tema come avrei voluto, ho pensato poi che un giorno avrei approfittato dello stimolo di un invito a parlare per ''compiere il mio dovere'' leggendo un po' di più gli esistenzialisti. Perciò negli ultimi tre mesi ho letto Martin Heidegger, Karl Jaspers e Jean-Paul Sartre.
    Negli ultimi tempi, inoltre, il mio proposito originario di trattare dell'elemento esistenziale e di quello dionisiaco si è trasformato, come indica il titolo di questo mio intervento, in quello di un tema più unificato.
    Sebbene abbia letto molto, ho ancora le idee confuse e sarei poco preparato se non fosse che Paco Peñarrubia è stato ad ascoltarmi un po' qualche ora fa e ne è risultato un ordine provvisorio delle cose che dirò. Il tema è complesso e non ho ben chiaro ciò che verrà fuori, tuttavia incomincio.
    Forse non mi sarebbe interessato presentare la Gestalt come un esistenzialismo se non fosse perché questo era ciò che Fritz desiderava; voleva che la Gestalt fosse considerata un'incarnazione della filosofia esistenziale e più di una volta Laura mi spiegò come Fritz si fosse risentito con Rollo May quando non lo aveva incluso nel suo libro Existence, nel quale presentava al mondo americano degli anni cinquanta una panoramica sull'esistenzialismo psicologico.
    Così Fritz e Laura scrissero a Rollo May per fargli presente che avrebbe dovuto includere la Gestalt, ma suppongo che a May questo non sembrasse pertinente. E il resto della storia è semplicemente che Fritz si vendicò dicendo, più di una volta, che Rollo May era un "esistenzialista senza esistenza".
    A me è sempre parso evidente che la Gestalt fosse una terapia esistenziale, perché questioni come l'autenticità e la responsabilità sono profondamente connesse con l'esistenzialismo: l'essere autentico e l'essere non autentico sono categorie fondamentali in Heidegger, mentre Jaspers parla di 'verità vissuta'. Il mio primo direttore, nel dipartimento della scuola di medicina nella quale lavorai in Cile, era un lettore di Jaspers; io non capivo il tedesco, però ogni tanto mi traduceva dei paragrafi che attiravano la mia attenzione e questo della verità vissuta mi impressionò molto. Era un significato della parola 'verità' molto diverso da quelli che circolavano all'epoca.
    Fritz è stato criticato per l'eccessiva enfasi sul tema della responsabilità; poteva cominciare un seminario dicendo: "Bene, se qualcuno vuole suicidarsi qui, è un problema suo. Io non ho niente a che vedere, sono responsabile di me stesso e voi responsabili di voi stessi". Irvin Yalom, che scrisse il primo testo di psicologia esistenziale negli Stati Uniti, non glielo perdonava e Simkin nemmeno.
    Io stesso sono stato testimone di un'accesa discussione tra Perls e Simkin, nella quale Fritz disse: "Sono responsabile di me stesso e solo di me stesso e in questo modo divento un esempio affinchè il paziente si responsabilizzi, mentre se si mette in una posizione dipendente e io ci casco, la cosa finisce per non servire a niente". Al contrario, Simkin diceva: "No, io sono uno psicologo clinico e mi sono assunto un impegno secondo il quale sono responsabile dei miei pazienti fino a un certo punto".
    È molto vicina a Sartre la maniera in cui Perls portava all'estremo il fatto di mettere le persone nella condizione di affrontare di petto l'autonomia. Sartre esagerava sulla responsabilità, nel senso che presentava la vita psichica come se dovessimo sottoporre ogni circostanza della vita alla mente analitica per prendere delle decisioni.
    Eppure la vita non è così. La vita non è (come mi disse lo stesso Fritz una volta) una questione di decisioni, ma di preferenze. È come quando l'acqua cade lungo un terreno scosceso. Neppure parlando metaforicamente possiamo dire che l'acqua 'sceglie' il suo corso, però diciamo che l'acqua prende il corso che 'preferisce'.
    La posizione sartriana può definirsi 'superanalitica' e con essa s'impegnava da quel superimpegnato che era. La sua filosofia era che bisogna disalienarsi mediante l'impegno, e perciò strinse quell'alleanza con il partito comunista che arrivò all'assurdo e fu coinvolto in tante cose: politica, povertà, giustizia, polizia...
    Al di là di questi punti di contatto resta il fatto che l'esistenzialismo è una filosofia che si muove intorno all'essere. Il problema dell'essere lo pone Heidegger (come se nessuno lo avesse posto prima, a parte Plotino e i presocratici). Lo affronta correttamente come una questione che corrisponde al mondo esperienziale e non come qualcosa di puramente razionale, come era per Aristotele. Addirittura la soluzione che fornisce Heidegger al problema dell'essere è qualcosa che risuona un po' con ciò che sappiamo della Gestalt, poiché il suo contributo è che l'essere si trova solo nel tempo e pertanto bisogna connettersi con l'esperienza del tempo. Usa la parola tedesca dasein (esserci), invece di usare semplicemente sein (essere).
    'Esserci' vuol dire essere presente nel momento, è un modo per entrare in contatto con il vissuto dell'essere.
    Tali concordanze potrebbero far sospettare che Fritz si sia abbeverato alle fonti dell'esistenzialismo, che vi si sia ispirato, perciò quando scrissi il libro che in spagnolo circola con il titolo La Vieja y Novísima Gestalt ho detto che la Gestalt, più che appoggiarsi su una teoria della mente, su una teoria della psicoterapia o su tecniche psicologiche, è l'espressione di una filosofia implicita che orienta la propria pratica intorno a cose come 'responsabilità', 'qui e ora', 'attenzione', 'essere se stessi'.
    Continuo a pensare che la Gestalt sia una filosofia vissuta (una filosofia di qualcuno che invece di parlare di filosofia vive in accordo con essa e con ciò che deriva dalla sua comprensione). Dal momento che Fritz era coerente con una vera visione, chiara e profonda e non con una visione presa a prestito, il semplice contatto con lui contagiava implicitamente questa visione nella quale radicava un potere veramente trasformatore.
    Tuttavia devo aggiungere che, così come è molto poco probabile che Perls si sia interessato a Husserl, è altrettanto poco probabile che si sia interessato a Heidegger o a Jaspers, gli esistenzialisti tedeschi della sua epoca.
    Martin Buber venne più tardi. Fritz si entusiasmò per il suo libro, L'Io e il Tu, e questo titolo frullava nella mente di Simkin quando propose, come definizione della Gestalt, "io e tu, qui e ora". Buber ha molti punti di contatto con Fritz ma è classificato come esistenzialista in modo molto artificiale, fondamentalmente perché non si sa dove collocarlo: ha letto gli esistenzialisti, parla di cose come la responsabilità, è un filosofo vivo di una filosofia viva, ma anche nel caso di Buber penso si tratti di un'affinità e di un riconoscimento più che di un'influenza significativa.
    L'esistenzialismo, in realtà, non si può dire che sia altro se non una filosofia viva; infatti, se si vuole definire l'esistenzialismo a partire da ciò che hanno in comune gli esistenzialisti, non si trova quasi nulla. Cos'hanno in comune Heidegger, Jaspers, Sartre e Gabriel Marcel? Solo il fatto di essere antiintellettuali, di interessarsi soprattutto al vissuto e di occuparsi del dolore, della malattia e della morte, questioni trascurate dalla filosofia accademica.
    Tra loro ce n'è solo uno che accettò il nome di esistenzialista: Sartre. Jaspers creò il termine 'filosofia dell'esistenza', Heidegger fa qualcosa che ben potrebbe essere considerata come tale, ma quando si incominciò a chiamarlo 'esistenzialista' negò di avervi a che fare. Fatto sta che agli esistenzialisti non piace essere visti come tali, forse perché l'esistenzialismo pretende di essere ateorico o antiteorico (sebbene poi non lo facciano molto bene, visto che teorizzano parecchio). E Fritz rimprovera loro questa incoerenza. Heidegger ha bisogno di tutto il suo corpo teorico, e soprattutto ha bisogno di pensare sull'essere per avvicinarsi all'essere, mentre Perls insisteva sull'importanza di smettere di pensare per avvicinarsi all'esperienza di sé.
    Il cammino di Fritz non era quello del pensiero. Quello che si può affermare a proposito degli esistenzialisti è che, sebbene non siano del tutto ateorici, sono certo antisistematici e non li si può inquadrare in nessuna teoria. Quando Jaspers scrive su Kierkegaard, indicandolo come un padre o un antenato dell'esistenzialismo, usa la parola tedesca unreferierbar, che significa che non è possibile specificare niente di lui. Quando Kierkegaard parla è solo Kierkegaard che sta parlando e nel Diario di un seduttore parla in un modo, mentre in Timore e tremore parla di altre cose e in un altro modo, senza ritornare sulle stesse idee...
    Ma tutto gli viene dalle viscere, tutto in lui è essenziale e nulla è pensare solo per pensare. Tutto è vitale, il suo è un pensiero commosso, angosciato e disperato, il pensiero di un ricercatore, ma non di uno che sta cercando soluzioni intellettuali. Diciamo che sta cercando l'Essere.
    Se Fritz è un esistenzialista, lo è in questo senso. Vi sono alcuni temi dell'esistenzialismo, incluso quello del nulla, che sono molto presenti nella sua visione delle cose, ma ne scrisse e parlò poco sebbene si senta che erano importanti per lui. La prima conferenza di Fritz che ascoltai, in realtà una miniconferenza come le chiamava Simkin, era sul nulla. Come i maestri di meditazione, a volte, prima di una sessione di pratica, dicono poche parole per rendere qualcosa più presente nel vissuto dei praticanti, allo stesso modo, prima di lavorare, Perls introduceva un tema e uno dei suoi favoriti era il nulla. Ma non aveva molto da dire e in un senso più profondo non sento che sto parlando male di lui. Semplicemente non era un pensatore, nonostante fosse un filosofo.
    In quel primo discorso che ascoltai egli disse: "Voglio parlare del nulla. La prima cosa che dobbiamo capire è che nothing è no-thing, ovvero 'noncosa'. Il nulla è una non-cosa. Non è che non sia niente, è piuttosto qualcosa che non si può descrivere con categorie concettuali o chiavi logiche secondo le quali qualcosa è o non è qualcos'altro, risponde o no a certe caratteristiche".
    A Fritz interessava profondamente il nulla e invitava la gente a lasciarsi cadere nell'abisso, in quel vuoto che si deve percepire come sterile prima che possa diventare fertile. Era sulla stessa lunghezza d'onda del pensiero di Heidegger quando questi dice che l'essere non si può rivelare se non attraverso la coscienza della morte, attraverso ciò per cui usava la parola sorge. Solo quando si sente quanto la vita sia peritura, evanescente e fugace si può aspirare a un vissuto reale della vita. E' il contrasto della morte che risveglia in noi il mistero dell'esistenza.
    Bene, per quanto tutto questo sia certo, ho l'impressione che Fritz fece con l'esistenzialismo la stessa cosa che fece con la psicologia della forma. Come per propaganda gli conveniva dire: "II mio modo di fare terapia è in accordo con l'ultima moda scientifica...", così gli conveniva l'alleanza con una moda filosofica.
    Quando diceva cose del tipo: "Vedrete, signori, che non mi appoggio, come fanno gli psicoanalisti, sulla antiquata teoria delle associazioni, ma avendo lavorato con Goldstein mi appoggio sul gestaltismo, sulla configurazione completa", stava dicendo una cosa vera, usava uno slogan per richiamare l'attenzione e competere in un mondo difficile. Ho già detto più volte quanto stimi Perls per la sua ciarlataneria cosciente. Era un ciarlatano nel senso in cui lo sono molti sciamani: in un mondo che non crede ai miracoli a volte bisogna fare qualche falso miracolo, affinchè se ne produca uno vero. È quello che fanno i chirurghi filippini che mettono la mano nell'addome: non so se vi sia capitato di vedere qualcuno di questi episodi filmati. Io sono stato un loro paziente: mi avevano invitato a una conferenza internazionale, l'aereo faceva scalo a Manila e nell'Hotel Hilton dove alloggiavo c'era un curandero, un guaritore che mi ha tirato fuori un sacco di cose dalla pancia; credo fosse un prestigiatore, ma con questo gioco di prestigio mi ha tolto anche la febbre. Dico che era un prestigiatore perché è stato provato, grazie all'analisi al microscopio del sangue che esce dall'addome dei pazienti, che a volte si tratta di sangue di gallina o di maiale. C'è un trucco, come facciano non so, sta di fatto che curano i pazienti.
    Ad Alejandro Jodorowsky (che definirei uno sciamano contemporaneo, oltre a essere regista, scrittore, mimo e altre cose) piace molto che lo chiamino ciarlatano e gli piace molto definirsi così, dato che uno dei suoi temi è quello dell'inganno sacro; c'è inganno benevolo quando non si può fare altrimenti. Credo che Fritz, nel suo mondo e nel suo tempo, usò questo strumento e ciò che fece con l'esistenzialismo (per esempio voler essere incluso nella panoramica di Rollo May) era altrettanto valido quanto propagandistico. Si trattava di una manovra del tipo: "Mi conviene che mi chiamino esistenzialista...". Infatti all'interno delle scuole esistenzialiste probabilmente non c'era un esistenzialismo molto valido o efficace, visto che quella di Ludwig Binswanger era un'analisi heideggeriana fatta sul lettino psicoanalitico, filosofica più che terapeutica.
    Insomma, vi erano alcuni esistenzialismi e la Gestalt si poteva includere tra questi, poiché le conveniva. Quando mi resi conto di questo inganno decisi che non volevo insistere troppo su questo tema. Tuttavia, ora che ho avuto modo di rivisitarlo, scopro un rinnovato apprezzamento del modo che Fritz aveva di essere un filosofo dell'esistenza, che invece di perdersi nelle parole viveva la sua filosofia e l'applicava in forma terapeutica. Perciò oggi mi fa molto piacere potervi parlare dell'esistenzialismo della Gestalt e per farlo mi propongo di presentare alcune delle sue fonti o delle influenze poco considerate.
    In primo luogo, sebbene si dica correntemente che Kierkegaard è il padre dell'esistenzialismo (un esistenzialista che non si definì mai come tale, ma che lo fu dichiarato in seguito da Jaspers e da Heidegger), non si può negare che fosse più che altro un precursore, come Dostoevskij. Aggiungo tra parentesi che coloro che meglio hanno espresso l'esistenzialismo non sono stati dei filosofi: la visione, il significato e la posizione viva dell'esistenzialismo è stata espressa meglio dagli artisti che dai filosofi accademici. È vero che Sartre fu anche un filosofo, ma quando Walter Kaufmann (uno degli esperti del tema) pubblicò un'antologia negli Stati Uniti, incluse non solo un frammento de L'essere e il nulla ma anche Il muro, il famoso racconto su un rivoluzionario che si trova davanti a un plotone di fucilazione. Sono esistenzialisti il suo vissuto diretto della morte, espresso in questa forma, così come l'esperienza della nausea nel romanzo che porta lo stesso nome, intesa come una reazione di fronte al vuoto. Sono esistenzialisti Camus come Kafka e tra i precursori Dostoevskij, specialmente in Memorie dal sottosuolo, dove spiccano la veracità dell'esistenzialismo, il suo deidealizzare e quel parlare francamente della realtà immediata, anche quando è disastrosa, caotica, dolorosa, un contatto con la disperazione. Tutto ciò è comune agli esistenzialisti teorici e agli artisti.
    Come ci sono filosofi e artisti, c'è anche questo esistenzialista che non è né artista né teorico, bensì terapeuta. È un'altra cosa. Da dove arriva la visione esistenziale di Fritz? Si tratta semplicemente di generazione spontanea, di un'illuminazione particolare o viene dal suo sviluppo individuale e personale?
    Voglio incominciare a rispondere a questa domanda parlando di colui che fu, più di Kierkegaard, il nonno dell'esistenzialismo: Nietzsche.
    Ebbe un'influenza fondamentale su Heidegger e Jaspers, al punto che entrambi hanno scritto un libro su di lui, tuttavia Nietzsche non si esaurisce in nessuno di quei due libri che cercano di inquadrarlo nelle idee heideggeriane o jaspersiane. Oggi è un po' dimenticato e la sua memoria è stata oscurata dal cattivo uso che ne fecero i nazisti. È stata fraintesa l'opera di quest'uomo che fu un critico supremo della mentalità autoritaria e della società del suo tempo, di tutta la storia della 'società cristiana occidentale' e dei tedeschi in particolare. "Quanto ci sono costati questi tedeschi! ", scrive alla fine dell'Anticristo. "Sono i miei nemici, lo confesso, questi tedeschi; disprezzo in loro ogni tipo di sozzeria concettuale e i valori, la loro codardia davanti a ogni Sì o No onesto". Ma non è a questo proposito che lo voglio citare, vorrei piuttosto leggervi alcune righe di Così parlò Zarathustra che rendono visibile l'eco di Nietzsche in Perls. Aggiungo che questa eco risuona in molti altri: negli esistenzialisti, naturalmente, ma anche in Freud.
    Ed è interessante il fatto che questa influenza non si rifletta nella verbalizzazione di Freud, perché questi si propose come teorico. Mi fa sempre molto piacere richiamare l'attenzione sul fatto che a Freud diedero un premio per la letteratura e non per la scienza. L'ho sempre sentito come un pensatore e un'artista il cui merito arrivava ben oltre le sue teorie; forse qualcuno di voi avrà letto ciò che ho scritto a proposito di Freud come profeta in La agonia del patriarcado. Fu uno che mise in moto le cose e lo stesso si può dire di Nietzsche: anche lui fu un profeta al quale risultò utile travestirsi da Zarathustra. L'impatto di Nietzsche su Freud si può apprezzare un po' grazie all'interessantissima dichiarazione di quest'ultimo, che considerava Nietzsche la persona arrivata più di ogni altra a conoscere se stessa nella storia umana.
    Non è poco da parte del padre della conoscenza di sé, per il neo-Edipo! A proposito: quando parla di Edipo, Freud fa una doppia identificazione con l'eroe. Vi sono i temi del padre, della madre, del parricidio, dell'incesto... insomma tutti i temi 'edipici' che Freud rende espliciti. Eppure l'essenziale in Edipo non è questo, bensì l'uomo che vuole conoscere la verità su se stesso a qualsiasi costo, anche se questo lo condanna. Fu la posizione di Freud: quella di chi è disposto a soffrire per la verità. Credo che quando vide quella rappresentazione di Edipo furono queste due cose a impressionarlo, ma analizzò più in dettaglio la prima, mentre la visione di Edipo come padre della conoscenza, come simbolo del "conosci te stesso" (che tanta presenza ebbe nell'oracolo di Delfi), rimase implicita.
    Penso che tutto il movimento terapeutico moderno sia un movimento postnietzschiano, e in quanto tale anche dionisiaco. Perché Nietzsche sostiene che il mondo occidentale è avvelenato dal moralismo cristiano e perché la distinzione dualistica tra bene e male (ciò che oggi chiamiamo una morale superegoica) è un processo che ci aliena dalla vita. Egli accusa tutte le religioni che esaltano la trascendenza a scapito della vita e dell'immanenza, considerandole prigioniere nel gioco di specchi grazie al quale l'impoverimento della vita porta alla creazione di fantasmi. Nietzsche descrive la ricerca di ciò che sta al di là come correlato della perdita di ciò che sta di qua. A partire da questo insight personale adotta una posizione eroica e s'identifica con la figura di un anticristo e allo stesso tempo di un profeta salvatore. Perché Zarathustra? Perché Zarathustra fu colui che nella storia dell'Occidente, o forse del mondo, introdusse in maniera più chiara il dualismo, la mitologia del bene e del male. Disse che il cosmo è stato creato da questi due principi, da questi due dei, il bene e il male, e che il loro conflitto è inevitabile e tale sarà fino alla fine dei tempi. Nietzsche vuole far parlare Zarathustra affinchè si smentisca, affinchè dia voce a un messaggio di trascendenza del dualismo.
    Lou Andreas Salomé scrisse un libro su Nietzsche e gli manifestò molta stima (sebbene abbia rifiutato la sua offerta di matrimonio due volte). Quello che ci dice è che le interessava Nietzsche per la sua religiosità senza Dio.
    Non poteva non riconoscere il suo spirito religioso, sebbene rinnegasse il concetto di Dio. La sua posizione non teista e affermatrice della vita, ovvero degli istinti, continua in Freud e diventa pienamente esplicita in Reich. Va detto che Freud non crede completamente nella liberazione dell'istinto: infatti fino alla fine è un pessimista che considera incompatibili l'istinto e la civiltà. Invece Reich ci crede e dopo di lui viene la psicologia umanista e alcune scuole analitiche moderne, nelle quali si pensa che la vita umana sia intrinsecamente buona e l'aggressività sia legata alla patologia.
    Ecco dunque che a Fritz arriva tutta questa eredità postnietzschiana attraverso la storia della psicoterapia e, come vedremo, non solo. Tuttavia, prima di procedere, per rendere più chiara la risonanza di Nietzsche in Fritz, cito Zarathustra:
    "Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire!
    Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell'imperscrutabile più del senso della terra!
    In passato l'anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra.
    Ma quest'anima era anch'essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di questa anima! ".
    Zarathustra continua esaltando il corpo.
    "Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo".
    Parla molto male della virtù in tutte le sue forme, perché la virtù significa contrapporre il reale all'ideale e quest'ultimo con il suo 'dover essere' è un fantasma che non sistema le cose. Dice anche che bisogna gioire di più e che il peccato originale è che non gioiamo a sufficienza. Se ci preoccupassimo di gioire di più arrecheremmo meno danno agli altri.
    Invece coloro che predicano la virtù credono di stare un po' più in alto degli altri e li umiliano. Inoltre a cosa servono le virtù? Principalmente per dormire meglio. "Ah quanto ho desiderato le cose del prossimo ! (Sì, ho desiderato questo e quello...)". Così, ironizzando, mette in un predicatore della virtù l'idea che se uno ha avuto tutti questi desideri non può dormire bene. In questo modo riduce la virtù tradizionale, la virtù teocentrica (visto che esiste anche una virtù che potrebbe dirsi umanista, nella quale si sente che con la propria condotta si stanno facendo degli sforzi e che si è in accordo con una certa visione)
a un ulteriore aspetto dell'apparato psichico, semplicemente a una ricerca occulta della comodità.
    Fino alla fine Zarathustra parla dello spirito della pesantezza. Se si vuole insegnare a volare alle persone, bisogna tenere presente che "per volare bisogna prima alzarsi sui propri piedi. Non vola nessuno che prima non si sia alzato in piedi". Non riconoscete lo spirito della Gestalt in questa chiamata di Nietzsche all'autonomia, così come nella sua visione chiara della virtù convenzionale come semplice obbedienza? In quest'ironia nei confronti dell'eccessiva obbedienza non riconoscete l'ironia del gestaltista verso il 'bravo bambino' e la 'brava bambina' che ciascuno si porta dentro? Per la prima volta Nietzsche smaschera la morale convenzionale del 'bravo bambino' e dice che bisogna che ci trasformiamo per superare ciò che ora consideriamo umano ("troppo umano"), attraversando così tre fasi dello sviluppo spirituale. Lo spirito prima diventa cammello, poi leone e infine bambino.
    "Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuole essere ben caricato.
    Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? Così chiede lo spirito paziente, affinchè io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza.
    Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza?
    [...]
    Oppure è: scendere nell'acqua sporca, purché sia l'acqua della verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi? Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuol fare paura?
    Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé: come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nel suo deserto".
    Nella tappa del cammello si fa tutto questo e ci si rende conto di essere prigionieri dell"Io devo' e che l"Io devo' è un grande drago. Bisogna dunque vincere questo drago che può essere sconfitto solamente dall"Io voglio'. E per fare questo bisogna trasformarsi in leone.
    "Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? 'Tu devi' si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice 'Io voglio'.
    'Tu devi' gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l'oro, e su ogni squama splende a lettere d'oro: 'Tu devi!'.
    Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: 'Tutti i valori delle cose - risplendono su di me'.
    'Tutti i valori sono già stati creati e io sono - ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun 'io voglio' ! ' Così parla il drago.
    Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione?
    Creare nuovi valori - di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione - di questo è capace la potenza del leone.
    Crearsi la libertà è un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone.
    Prendersi il diritto per valori nuovi - questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da soma.
    Un tempo egli amava come la cosa più sacra il 'tu devi': ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina occorre il leone".
    E finalmente entriamo nel dionisiaco, visto che Nietzsche è esistenzialista dionisiaco e, ancor più, apostolo di Dioniso.
    Il leone è colui che dice "Io voglio", è la volontà che va oltre il senso del dovere, è l'impulso della vita. Tuttavia il leone non crea nuovi valori, il suo "Io voglio" distrugge semplicemente i valori antichi, eppure è necessario per aprire la via alla scoperta di nuovi valori, ed è parte della trasformazione in bambino, che è un ritorno all'essere.
    Questo è il tipo di cose che dice Nietzsche.
    Eppure non sono sicuro che Fritz abbia letto Nietzsche. Tutti lo leggevano nella sua generazione, era nell'aria. E questa antica concezione spirituale degli albori della storia, che possiamo chiamare una religione dionisiaca e che non è mai stata formulata in maniera così vitale da un moderno come da Nietzsche, questo spirito che ci mostra la salvezza in una visione gioiosa e sana che dice sì alla vita si è incarnato, mi pare, nella psicoterapia.
    Lo spirito nietzschiano giunse a Fritz non solo attraverso Freud e Reich, per quel che sappiamo delle sue letture giovanili. Nietzsche giunse a Fritz direttamente da un erede che a livello di vita vissuta o esistenziale non era da meno di quanto fossero stati Heidegger e Jaspers a livello intellettuale. Fritz conobbe un filosofo esistenziale che, più che pensare, visse l'eredità di Nietzsche e perciò non possiamo considerarlo meno importante degli esistenzialisti intellettuali come Heidegger e Jaspers, anche se oggi il suo nome suona sconosciuto al mondo. Parlerò di lui ma prima voglio soffermarmi su Dioniso, che è una parte fondamentale del mio tema.
    È fondamentale anche se nel titolo del mio intervento lo ho messo al secondo posto, parlando di un 'esistenzialismo dionisiaco'. In verità avrei potuto annunciare un 'dionisismo esistenziale', ma sarebbe risultato ridondante. Una filosofia dionisiaca vissuta non è forse necessariamente esistenziale? Può forse una visione dionisiaca rimanere nel pensiero? Si tratta di morire e rinascere, ovvero di vivere e non di riflettere sulla vita.
    Vi ho lasciato, spero, con una visione di Fritz come di un esistenzialista che si occupò più di vivere e insegnare a vivere la sua comprensione della vita che di giustificarla, predicarla o spiegarla. Dunque passo ora al mio secondo tema, che consiste nel parlarvi di Fritz come dionisiaco perché, se Nietzsche merita di essere chiamato profeta, non merita forse Fritz di essere chiamato apostolo del dionisiaco nel mondo moderno? In modo efficace e potente fece progredire la causa della liberazione della saggezza istintiva, la voce del cuore e l'espressione emozionale, la saggezza organismica e il piacere.
    Parlare dell'aspetto dionisiaco dello spirito di Perls potrebbe essere una formula alternativa per dire che è stato un edonista. Eppure 'dionisiaco' non è semplicemente 'edonistico'. Io stesso, trent'anni fa, in un articolo sul 'qui e ora' che divenne poi parte di un mio vecchio libro, ho parlato di un edonismo 'umanista'. Con questo termine intendevo dire che si tratta di qualcosa di diverso dal mero 'edonismo per l'edonismo'. Non si tratta, cioè, né di un edonismo caratterologico, né di uno superficiale. Si tratta del piacere in una visione dell'umano secondo la quale il piacere è, come la ragione, un principio guida. Un piacere che serve a qualcosa di più del piacere, ovvero alla realizzazione della persona. Certamente un piacere degno di essere rispettato.
    Zarathustra parla molto di questo. Dice per esempio che bisogna gioire. Un pensiero simile è sostenuto da Dante quando parla dei tristi nell'inferno. C'è un inferno di coloro che si trovano nel fango, un inferno della tristezza, ed è implicito nell'immagine il peccato di trovarsi nel fango quando è così bello il sole. È un peccato immergersi nel negativo e nella lamentela per il passato, quando c'è una bellezza qui e ora.
    Parlare così suggerisce il senso religioso del dionisiaco e bisogna tenere ben presente che Dioniso è un dio. Nietzsche parla della polarità apollineo/dionisiaco e si può dire che la spiritualità nella Gestalt sia dionisiaca; solo che nel mondo delle religioni antidionisiache non ci sembra 'spirituale'.
    C'è una spiritualità, un elemento transpersonale della Gestalt, ma si tratta di una spiritualità invisibile, se la si guarda con gli occhi della spiritualità religiosa abituale. Infatti tutte le religioni attuali sono apollinee, sono cioè vie spirituali che si sostengono sul 'devi' e sul controllo di sé, mentre danno un valore molto relativo all'abbandono al caos apparente della natura e degli impulsi. 
    Sarebbe opportuno riflettere un po' sulla grandezza della concezione del divino che implica Dioniso, un dio pazzo la cui follia è stata elevata a divinità. Quello del dionisiaco non è un cammino che dice: "Qui c'è qualcosa di malato, bisogna migliorarlo controllandolo, curandolo o estirpandolo". No, la cura è entrare nella follia e abbandonarvisi. È come dice l'amico di molti qui presenti, Guillermo Borja, nel titolo del suo libro La locura lo cura, 'la follia guarisce'.
    La via dionisiaca è un'ubriachezza divina che porta non al disordine ma all'ordine. In uno dei miti di Dioniso il dio viene rapito da alcuni pirati. Si trova su una spiaggia, quando arrivano i pirati che lo catturano con l'intenzione di venderlo come schiavo. Lo legano a un palo ma incomincia a crescere dell'edera lungo gli alberi e le vele della nave e Dioniso poco dopo si trasforma in un leone e attacca i marinai, i quali secondo il mito si buttano in mare e si trasformano in delfini, spaventando i rapitori. Solamente il timoniere riconosce che si tratta di un dio e sente venerazione: è l'unico che Dioniso benedice invece di minacciarlo come fa con gli altri. La follia appare in molte delle storie di Dioniso ma si tratta di una follia che fa presa sui suoi nemici. Impazzisce colui che non entra nell'orgia.
    Impazzisce colui che oppone resistenza al dio della follia. È infatti certo che la pazzia, ciò che chiamiamo 'psicosi', è la resistenza alla pazzia e non la follia in quanto tale. Se si aiuta uno psicotico a vivere completamente la sua psicosi e a entrare completamente nel suo 'viaggio' diventa un cammino percorribile. Di fatto è questo il cammino che proponeva Roland Laing con la sua anti-psichiatria: non cercare di estirpare la pazzia, ma aiutare il pazzo ad attraversarla.
    Bene, simbolo di Dioniso è il vino. Si dice infatti che egli sia l'inventore del vino e anche del pane. I misteri eleusini erano centrati sul pane e sul vino. Il pane e il vino, intesi come simbolo della divinità, sono familiari, solo che l'ubriachezza è scomparsa dalle chiese. Il vino era simbolo dell'ubriachezza, ma l'alcol non era il suo unico ingrediente. Mentre nell'apollineo mondo giudeo-cristiano l'ubriachezza costituisce una peccaminosa rilassatezza della disciplina morale, la religione dionisiaca vi riconosceva quella disintegrazione guaritrice che in tempi moderni è stata indicata come 'disintegrazione positiva': e già gli antichi sapevano apprezzare una disintegrazione che è come fare un passo indietro per poter avanzare meglio.
    Nello spirito della Gestalt è caratteristica questa fede (la locura lo cura) per la quale i processi interni sono autocurativi e cioè, in misura maggiore o minore, organismicamente autoregolati. Se si può facilitare questa fiducia, questo abbandono, il processo funziona in una forma che è più autoriparatrice. L'arte del terapeuta, così come l'arte di chi vive il processo (l'arte della trasformazione) è saper navigare in un mare tempestoso; assecondare le onde invece di volerle appiattire, andare con la marea (o con la corrente o con ciò che c'è) in modo saggio, senza sentirsi minacciati. Tutto questo significa assecondare l'impulso, la vita, il desiderio, avere il coraggio di entrare nel caos, di non sapere, di rompere schemi, aspettative proprie e altrui.
    Non stupisce dunque che una delle brevi spiegazioni che Fritz dà sulla Gestalt incominci dicendo che è "una delle forze rivoluzionarie di oggi". 'Rivoluzionaria' allude alla caratteristica della Gestalt di non essere prigioniera della società, di non rendere omaggio all'ordine stabilito. Senza questo aspetto non vi sarebbe un fattore di trasformazione.
    Potremmo parlare molto di Dioniso, dio della resurrezione, il 'nato due volte', come lo chiamavano i Greci, ma lasciamo ora questo tema per tornare a quello già annunciato: come giunge a Fritz una visione filosofica così profonda che la visse e riuscì a trasmetterla in forma viva, non discorsiva? Sebbene il suo talento non fosse intellettuale, non c'è dubbio che si sentisse depositario di una visione e che la sua potenza attiva emanasse da una saggezza. Egli ci ha fornito una traccia dicendo di aver venerato solo una persona nella vita e che fu anche l'unica che lo abbia fatto sentire insignificante. Fu l'unica persona che abbia chiamato maestro. Suppongo sappiate di chi si tratta, visto che lo dice all'inizio di L'io, la fame, l'aggressività, nelle cui prime pagine rende un breve omaggio a Salomon Friedländer, il cui nome oggi appena si ricorda sebbene abbia scritto più o meno un migliaio di opere; i tedeschi, fra le due guerre mondiali, lo chiamavano 'il Voltaire tedesco'.
    Lasciò alcune opere filosofiche oggi introvabili, però Laura Perls possedeva un esemplare, salvato dalla distruzione dei nazisti e pubblicato in Germania negli anni Trenta, L'indifferenza creativa, di cui sono riuscito ad avere una fotocopia. Ho cercato inutilmente di procurarmi altre opere filosofiche di Friedländer. Ora stanno per essere pubblicate la sua corrispondenza e le opere letterarie che scrisse con lo pseudonimo di Mynona, anonym al contrario, e ho scritto all'editore (che stava a Kabul in Afghanistan) ma neppure lui che è in contatto con la famiglia ha potuto o ha voluto aiutarmi a trovare un libro che Friedländer intitolò Kant für kinder ("Kant per I bambini"), nel quale prende l'idea dell'Io kantiano e la trasforma in qualcosa di vissuto. Tuttavia posso leggervi alcuni passi di Friedländer inediti che mi ha tradotto Javier Escobedo e che sono tratti da L'indifferenza creativa.
    Nella prima pagina l'autore dice che: "...si è sempre cercato l'assoluto e l'origine del mondo, ma non si arriva mai al risultato, perché non si trova il principio creatore dell'universo se non in se stessi. La soluzione, il miracolo, è proprio il fatto che questo si possa stabilire a livello personale e si possa raggiungere all'improvviso una volta per tutte". Aggiunge: "Con un passo si può arrivare all'assoluto, al centro della creazione, si può arrivare all'origine delle cose. Sperimentiamo l'identità tra il principio creatore del mondo e la nostra stessa interiorità".
    Dire che si può conoscere l'assoluto attraverso l'esperienza mi sembra si giustifichi solo quando uno lo ha sperimentato ed è chiaro che Friedländer, pur senza essere un religioso nel senso comune della parola, era un mistico, ovvero uno che conosceva la vita contemplativa. Si sa che sperimentava stati di estasi e si può inferire che la sua entrata nell'estasi fosse possibile perché aveva compreso certe cose molto profondamente. Qual era tale visione delle cose? Lo dice lo stesso titolo del libro, 'indifferenza creativa'. Egli chiama indifferenza uno stato di neutralità suprema; afferma anche che questa neutralità suprema è ciò che siamo. Il nostro campo di coscienza è sempre diviso tra bene e male, affermazione e negazione, eccetera. Noi ci muoviamo in un campo di polarità che definisce l'ambito del 'diverso', nel senso del 'differenziato', ma accanto al mondo della differenza esiste un mondo dell''indifferenza'. Tuttavia egli non si limita a dare un significato emozionale a questa parola, ma si appella a uno stato cognitivo di 'indifferenziazione', a una coscienza indifferenziata.
    Non credo che avrei capito Friedländer se non fossi passato prima attraverso il buddhismo. Gli insegnamenti del buddhismo e in particolare la filosofia del vuoto del Mahayana, si concentrano in questa comprensione della coscienza suprema che è il soggetto puro, coscienza indifferenziata e pura neutralità. Torno alle parole di Friedländer: "Di conseguenza consideriamo l'interiorità come una dimensione centrale indifferente neutra, la non differenza, l'indifferenza, la fusione ultima e, anche se esteriormente rappresenta il mero nulla, essa contiene precisamente la possibilità di ogni differenziazione. In una dimensione neutrale di questo tipo, libera da ogni relatività, la persona, l'anima, l'interiorità, lo spirito e la volontà sono liberi. A partire da questa esaltazione dell'esorbitanza creativa del soggetto si chiarisce l'oggetto, il differenziabile, il differenziato, il polarizzato, l'esteriorità". Se uno possiede questa suprema neutralità nel mondo del differenziato e del particolare, tutto funziona meglio, tutto si vede con più chiarezza.
    Il libro intero, come annuncia lo stesso Friedländer, è una reiterazione continua di quest'idea.
    "L'interno, il soggettivo rappresenta un vissuto personale che l'individuo scopre per la prima volta come una dimensione neutrale pura, in relazione alle differenze del fare verso l'esterno". Ritorna sullo stesso tema con diverse sfumature. Ecco, nel passo che segue, l'essenza della meditazione: "Dobbiamo calmare il nostro cuore e ascoltare il cuore del tutto, eliminando ogni differenza tra il principio creativo e noi stessi, per poter dominare completamente il mondo oggettivo". Continua spiegando che colui che passa sopra tutto ottiene un potere su tutto e una capacità diversa. È come se nella sua non interferenza nel gioco del tutto (o nel gioco della sua mente) arrivasse a un atteggiamento che non è la posizione moralista alla quale siamo stati educati, che ci fa esaltare il bene sul male, bensì una posizione che riconosce che tutti i processi vivi hanno una polarità. Non esiste l'estasi senza il disgusto, non esiste il bene senza il male, non esiste il piacere senza il dolore e la cosa migliore che si possa chiedere è il libero gioco, il gioco perfetto, ovvero una relativa perfezione della collaborazione degli opposti. La vita è fatta di questa collaborazione degli opposti e colui che si polarizza troppo verso il cielo, considerandolo superiore alla terra, rompe questa armonia. 
    Non vi ricorda Nietzsche in questo non svalutare il terreno a favore del celestiale? Eppure l'affinità si fa ancora più esplicita quando Friedländer tratta il tema, profondamente nietzschiano, del dionisiaco. Comincia affermando il concetto cristiano di amore, poi propone che non esista libero pensatore che valga di fronte a questa concezione cristiana dell'amore e tuttavia essa non è sufficiente quando l'amore si polarizza troppo verso il cielo, esaltando la virtù che troppo odia chi non è virtuoso. Friedländer è convinto che il completamento e il culmine dell'ideale cristiano dell'amore stia nell'amore che accoglie tanto l'alto quanto il basso, cosa che nelle sue parole viene espressa così: "II sole dionisiaco di questa illuminazione duale (questa illuminazione che si proietta tanto nel cielo quanto nella terra) proietta il dorato raggio di tutto il bene anche sul male".
    Dunque anche Friedländer è profondamente interessato a una posizione dionisiaca, solo che, invece di concepirla come Nietzsche in opposizione all'atteggiamento cristiano (un atteggiamento apollineo che contrappone gli opposti e che perciò tratta il negativo come pericoloso e velenoso), mette in evidenza ciò che hanno in comune e a noi suona certo che l'antico dio del pane, del vino e della resurrezione abbia qualcosa in comune con il Cristo al di là delle perversioni del cristianesimo storico.
    È nel dionisiaco che si ritrovano Nietzsche e quest'individuo che tanto sembra aver contribuito alla formazione personale di Perls. Non si può negare che fu un'influenza chiave nella sua trasformazione, di cui si servì alla sua maniera, utilizzando la sua creatività e le sue risorse di terapeuta.
    È paradossale che Friedländer sia allo stesso tempo un dionisiaco e un filosofo della neutralità e non mi soffermerò a spiegare in dettaglio questo aspetto, ma voglio richiamare l'attenzione su come la sua visione sia quella di un'indifferenza che permette il libero gioco delle polarità e che pertanto è ridondante di vitalità e intensità. Simile è il caso di Perls, nel quale la filosofia dionisiaca non è solo abbinata a un apprezzamento filosofico dell'indifferenza creativa, ma anche a una manifesta capacità di sostenere una posizione neutra di fronte ai conflitti intra e interpersonali di cui si occupa la psicoterapia.
   Per concludere voglio semplicemente far presente che questa complementarità suprema tra gli impulsi psichici polari e la neutralità non è solo presentata da Friedländer in una forma molto affine a quella del buddhismo, che riconosce l'ambito dei fenomeni neutrali come manifestazione della vacuità che sottostà alla coscienza pura, ma è anche affine a ciò che abbiamo oggi buoni motivi per considerare intrinseco all'antica religione dionisiaca. Per quanto sia innegabile la polarità che Nietzsche ha rilevato tra dionisiaco e apollineo, alcuni indizi ci fanno pensare che nella religione dionisiaca dei misteri questa polarità era intesa come una complementarità. Basta tener presente che, secondo il mito, è Apollo colui che riunisce i frammenti di Dioniso dopo che questi è stato smembrato, e che il grande iniziato dell'antichità dal quale deriva il suo nome l'orfismo, un esoterismo dionisiaco, è identificato dalla mitologia come 'sacerdote di Apollo'. 
    A conferma di ciò che sostengo cito la tesi di Daniélou sull'identità tra Dioniso e Shiva, posta drammaticamente in evidenza quando gli iniziati greci che accompagnavano Alessandro Magno durante la sua campagna in India s'incontrarono con gli iniziati di Shiva e si riconobbero affiliati allo stesso culto.
    La polarità di controllo/abbandono rappresentata da Apollo/Dioniso ha un equivalente nell'induismo in quella di Shiva/Shakti, rappresentati caratteristicamente in un'unione sessuale nella quale Shiva (in quanto rappresentazione della trascendenza) giace come un cadavere, mentre la Dea, personificazione dell'energia, si muove su di lui.
    Questa è anche la visione di Friedländer, ovvero quella di una complementarità tra la neutralità suprema e la vitalità, e penso che questa fosse la filosofia implicita di Perls che cattura cosi tanto la nostra attenzione per la compresenza della neutralità e dell'abbandono alla corrente della vita.

                        Claudio Naranjo 
 Madrid, 8 ottobre 1996