Contro le patrie
Laurent Tailhade
Sarebbe un errore credere che la religione soltanto abbrutisca gli
intelletti e disonori i costumi, perché l’ignominia umana può scendere
ancora di qualche grado. L’uomo civilizzato può cadere più in basso
ancora dell’ultimo cannibale, al di sotto pure del bruto e dell’animale
più infimo. Se egli aggiunge all’esecrabile idea di Dio l’idea buffona e
scellerata di patria, non gli resta più nulla da conquistare nell’ambito della bestialità.
Mentre scrittori, pensatori, filosofi, economisti si sforzano di
rendere l’uomo alla ragione, alla fraternità che il suo interesse, in
mancanza d’altro movente, prescrive come una legge primordiale
dell’esistenza; mentre i veri internazionalisti si sforzano di abbassare
le frontiere e disprezzare il patriottismo, non vi è un crapulone, un
ruffiano, un fallito che non s’inchini dinanzi la bandiera nazionale e
non porti a questo straccio infame e sanguinante le genuflessioni da
bordello della sua indegnità.
Noi siamo innanzitutto dei senza
patria e facciamo di questo titolo la più gloriosa affermazione,
rivendicando la nostra convinzione di non essere né italiani, né
francesi, né tedeschi, né ebrei, né cristiani, ma di essere soltanto
uomini, cittadini del mondo e compatrioti dell’Umanità.
Sì, noi
siamo senza patria e respingiamo ogni contatto colla mandria
nazionalista, lontani mille volte più da questi banditi e da questi
babbei che dai popoli che vivono ai nostri antipodi. I nostri fratelli
sono i lavoratori che preparano giorni più umani, i rivoluzionari che
scatenano le moltitudini e colpiscono al cuore i tiranni, tutti i
campioni dell’idea internazionale e dello sforzo libertario.
Noi
invochiamo con voti ardenti il cataclisma riparatore che, rompendo
infine lo stampo delle nazionalità, renderà il mondo senza limiti né
frontiere alle famiglie umane, misurando la terra promessa ai limiti del
globo, ai soli confini dell’universo.
Sì, noi siamo senza patria.
Riconosciamo fratelli solo i saggi che, col fatto o col pensiero,
lavorano alla liberazione futura, alla città della giustizia e
dell’amore; solo i regicidi, gli scrittori e gli anarchici che
combattono la società borghese e, con una spada coronata di mirto, la
colpiscono in pieno cuore.
L’idea di patria, che dopo l’idea di Dio è
quella per cui l’umanità ha più sofferto, viene da radici profonde,
dalle superstizioni originali dei secoli primitivi. La patria, la terra
degli antenati (la terra patria), fu nelle civiltà antiche il suolo
stesso ove risiedeva l’ombra degli antenati.
Per offrire a
quest’ombra facilmente irritabile il pasto funebre, la libagione di cui
essa si pasce, bisogna che la sua stirpe dimori nel recinto ove il morto
fu inumato. I riti commemorativi, i sacra, non possono essere celebrati
che dalla gente del defunto, come pure le «giuste nozze» non possono
aver luogo che tra cittadini dello stesso Stato. Ma le tombe si
ammucchiano, il giardino mortuario si riempie di corpi sovrapposti.
Abisso ove la polvere è mescolata alle polveri,
Ove sotto suo padre si ritrovano ancora dei padri,
Come l’onda sotto l’onda in un mar senza fondo.
Gli abitanti emigrano, colonizzano, vanno lungi a fondare qualche città
nuova che vedrà crescere le sue mura, mentre la metropoli andrà verso
la decadenza. Ma essi non possono disertare il focolare antico sotto
pena di sacrilegio e conviene che la terra paterna sia incorporata alle
fondamenta della giovane borgata.
Quando Romolo, fondatore
leggendario, ebbe stabilito la cinta di Roma e tracciato il pomœrium
della città da costruire, egli sotterrò una zolla del territorio albino
nel focolare comune. Sulla terra degli antenati, sul capo insanguinato
di una vittima, sorse il Campidoglio dimora della stabilità di Giove.
Così era fondata la patria che ben presto avrebbe dato le leggi al mondo.
Questa forma religiosa della patria suppone una cultura, delle
tradizioni. La scienza augurale degli etruschi, i riti della
confederazione latina, avevano preparato il suo avvento. Roma non ebbe
che a progredire nella via ove i suoi fondatori l’avevano messa.
Bisogna risalire molto più in alto se si vuol toccare i primi elementi
del patriottismo. Il motivo primordiale, e senza dubbio il più onesto
motivo che l’uomo abbia mai avuto di sgozzare il suo nemico, è il
desiderio assai plausibile di farne uno o due pasti. Di tutti i
patrioti, il cannibale è certamente il meno odioso.
Cotto o crudo,
ingrassato nel teocali dei sacrificatori messicani, ben pepato di
spezie, oppure divorato palpitante, il prigioniero di guerra, il vinto,
offre ai conquistatori un abbondante nutrimento.
A questi costumi
feroci e candidi succede la conquista romana. Il saccheggio si
organizza. La patria ha la sua ragione di essere, ormai.
«Non si fa
la guerra che per rubare» — diceva Voltaire — e poco dopo la Grande
Armata, quella di Napoleone, saccheggiò tutta l’Europa.
«Vi è nella
guerra un elemento mistico che rapisce le folle». Vi è pure una lussuria
spaventevole, la lussuria della morte, il gusto delle atrocità che
sviluppa, sino alla demenza, l’esercizio della forza bruta.
Ecco
dunque i due principali moventi della idea di patria: il massacro, il
ladrocinio. Le basi sono la razza o comunità di sangue, poi la comunità
di leggi e l’integrità del territorio. Quando si vede nelle campagne una
popolazione ignara, molto brutale, ma ove gli individui si
rassomigliano tutti, si dice che v’è la stessa razza. Presso i Persiani
la purezza del sangue era garantita coll’incesto. Presso gli Ateniesi,
solo gli autoctoni avevano il diritto di portare la cicala d’oro nei
capelli, privilegio che non ebbero mai i meticci, stranieri domiciliati.
I procedimenti per istituire le patrie: guerra straniera,
colonizzazione, rappresaglie, conquiste, diplomazia, arbitraggio, si
chiamano nel codice penale furto a mano armata, violazione di domicilio,
omicidio volontario, assassinio, truffa, manovra fraudolenta. Solo la
guerra civile merita qualche stima, ed il sangue che essa versa non
genera esclusivamente la sterilità. Perché è più legittimo sacrificare
un milione di uomini allo scopo di mettere in atto un pensiero generoso,
un ideale d’indipendenza e di bellezza, che inviare ai quattro angoli
d’Europa degli squartatori in uniforme, dei ladri gallonati di croci. La
gloria del risultato scusa l’orrore dei mezzi. Criminale per criminale,
e messa da parte ogni simpatia, Ravachol non è infinitamente superiore a
Napoleone?
[estratto da Discours civiques, 1902]
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