mercoledì 31 ottobre 2012

L'Idea Dominante




Su ogni cosa vivente, se uno osserva con rigore, è tracciata la linea d'ombra di un'idea – un'idea, morta o viva, qualche volta più forte quando morta, con linee rigide, ferme che marcano l'incarnazione vivente con l'impronta austera immobile del non esistente. Giornalmente ci moviamo tra queste ombre inflessibili, meno permeabili, più dure del granito, con l'oscurità dei secoli
 in loro, dominanti i mutevoli corpi viventi con anime morte immutabili. E incontriamo, anche, anime vive che dominano corpi moribondi – le idee viventi predominano sul declino e la morte.

Non pensiate che io parli soltanto della vita umana. L'impronta della duratura o della mutevole Volontà è visibile nel filo d'erba radicato nella sua zolla di terra, come nel filo di ragnatela di un essere che fluttua e ondeggia distante sopra le nostre teste nel libero mondo dell'aria.

Idee predominanti dovunque! Avete mai visto un fiore di una pianta rampicante morta? Io l'ho visto. La scorsa estate coltivavo alcune piante di convolvolo purpureo rampicanti fin sopra un balcone del secondo piano; e ogni giorno spalancavano e ondeggiavano nel vento i loro fiori bianchi striati di porpora, ammiccanti al sole, radioso con la vita rampicante. Più in alto ogni giorno le verdi cime strisciavano, portando il loro seguito di ventagli che si allargavano ondeggiando davanti ai fiori alla ricerca del sole. Ed ecco improvvisamente una disdetta, un bruco roditore o un bambino birichino spezzarono in basso una pianta, la più bella e la più ambiziosa, naturalmente. In poche ore le foglie pendettero flosce, i gambi ricchi di linfa avvizzirono e cominciarono a seccare, in un giorno era morta – tutta meno la parte superiore che ancora si aggrappava con vivo desiderio al suo sostegno, con la brillante cima sollevata. Piansi un poco per i boccioli che non si sarebbero mai più aperti ora, e legai quell’orgogliosa pianta rampicante la cui opera nel mondo era perduta. Ma la notte successiva ci fu una tempesta, una intensa, scrosciante tempesta, con pioggia battente e fulmini abbaglianti. Mi alzai a guardare i lampi, ed ecco la meraviglia del mondo!

Nell'oscurità della mezzanotte, nella furia del vento e della pioggia, la pianta rampicante morta era fiorita. Cinque fiori bianchi, con un aspetto da luna piena, erano mossi dal vento allegramente intorno alla pianta scheletrica, risplendente come una volta trionfante nel rosso bagliore. Li guardai fissamente in un muto stupore. Cara, morta pianta rampicante, il cui fiorire era stato così determinato, che nell'ora della sua improvvisa recisione dalla terra nutrice, mandò l'ultima linfa ai suoi fiori; e, non aspettando il mattino, li generò nella tempesta tra i fulmini, come bianche campanule notturne, che sarebbero state le figlie del sole.

All'alba noi tutti andammo a vedere il prodigio, con molto stupore e dicendo "Sicuramente questi devono essere gli ultimi". Ma ogni giorno per tre giorni la pianta morta fiorì, e ancora una settimana dopo, quando ogni foglia era secca e marrone, e così sottile che si poteva vedere attraverso di essa, un ultimo bocciolo, minuscolo, gracile, un cucciolo di fiore ma ancora bianco e delicato, con cinque macchioline purpuree, come quelli sul rampicante vivo vicino, si apriva ed ondeggiava alle stelle, in attesa del primo sole.

Sulla morte e sul declino l'Idea Dominante sorrideva: il convolvolo era al mondo per fiorire, per generare bianchi fiori a forma di tromba rigati di porpora; e mantenne la sua volontà oltre la morte.

Il nostro moderno insegnamento è che le idee sono solo fenomeni contingenti, impotenti a determinare le azioni o le relazioni della vita, come l'immagine nel vetro che dicesse al corpo che riflette: "Io modellerò te". In verità sappiamo che non appena il corpo si allontana dallo specchio, l'immagine passeggera è inesistenza; ma il corpo reale ha la sua esistenza da vivere, e vuole viverla, noncurante delle svanite illusioni di sé, in risposta alla pressione sempre mutevole di cose esterne.

È così che la cosiddetta Concezione Materialistica della Storia, i moderni Socialisti, e una positiva maggioranza di Anarchici ci fanno guardare al mondo delle idee – mutevoli, irreali immagini riflesse, aventi niente a che fare con la determinazione della vita degli Uomini, ma come molte parvenze nello specchio di certe relazioni materiali, totalmente inefficaci ad intervenire sul corso delle cose materiali. La mente per esse è in se stessa uno specchio vuoto, quantunque, di fatto, non sia mai totalmente vuoto, perché posto sempre di fronte alla realtà della materia e costretto a riflettere qualche ombra. Oggi io sono qualcuno, domani qualcun altro, se le quinte sono state cambiate; il mio Ego è uno spirito borbottante, che piroetta sul vetro, che gesticola, che si trasforma, continuamente o momentaneamente, scintillante alla luce fosforescente di una illusoria irrealtà, che si dissolve come la foschia sulle colline. Le rocce, i campi, i boschi, i corsi d'acqua, le case, i beni, la carne, il sangue, le ossa, i nervi – queste sono realtà, con parti definite da interpretare, con caratteri essenziali che permangono a tutti i cambiamenti, ma il mio Ego non perdura; è fabbricato di nuovo ad ogni cambiamento di queste.

Io penso che questo categorico determinismo della materia sia un grande e deplorevole errore nel nostro moderno movimento progressista, e sebbene creda che fosse un salutare antidoto all'errore grossolano della teologia medievale a lungo continuato, cioè che la Mente fosse una entità totalmente irresponsabile che detta le regole personali alla maniera di un Imperatore Assoluto, senza logica, conseguenza o relazione, governante sulla materia e sua propria suprema causa determinante, non escludendo Dio (che era egli stesso della stessa sorta di una mente all'eccesso) – sebbene io creda fermamente che la moderna rivista concezione del Materialismo abbia fatto una cosa salutare nel far scoppiare la bolla di tale presunzione e nel rimettere l'uomo e la sua "anima" al suo "posto nella natura", io tuttavia credo che anche a questo ci sia un limite. Che il dominio assoluto della Materia sia del tutto un madornale errore alla pari della natura senza rapporti della Mente; anche se quello nella sua azione diretta sulla condotta personale, abbia, dei due, l'effetto peggiore.

Poiché se la dottrina del libero volere ha suscitato fanatici e persecutori, i quali, assumendo che gli uomini possono essere buoni in tutte le circostanze se meramente desiderino esserlo, hanno tentato di persuadere le volontà degli altri uomini con minacce, ammende, carcerazioni, torture, i chiodi, la ruota, la scure, le fascine, per farli buoni e salvarli contro il loro ostinato volere. Se la dottrina dello Spiritualismo, l'anima suprema, ha fatto questo, la dottrina del Determinismo Materialistico ha prodotto mutevoli, autogiustificanti, indegni caratteri da parassita, che sono questo oggi e saranno quello in un altro momento, qualsiasi cosa e niente per principio. "Le mie condizioni mi hanno fatto così", piangono, e non c'è di più da dire; povere immagini riflesse! Come potrebbero aiutarli! Senza dubbio, l'influenza di un tale carattere raramente arriva fino a quella del persecutore di principio, ma per ognuno degli ultimi, ci sono un centinaio di questi facili, appiccicosi caratteri, che sanno adattare qualunque pentola da forno, ai quali il determinista che si giustifica da sé interessa; così l'equilibrio del male tra le due dottrine è pressappoco mantenuto.

Ciò di cui abbiamo bisogno è una vera valutazione del potere e del ruolo dell'Idea. Io non credo di essere in grado di dare una simile vera valutazione, io non credo che altri – anche intelletti molto più grandi di me – saranno in grado di farlo per molto tempo a venire. Ma io almeno sono in grado di suggerirlo, di mostrare la sua necessità, di darne una grossolana approssimazione.

E innanzitutto, contro l'accettata formula del Materialismo moderno, "Gli uomini sono ciò che le condizioni economiche producono", io stabilisco un'affermazione opposta, "Le condizioni economiche sono ciò che gli uomini producono"; ed io sostengo che entrambe queste cose sono vere fino a un certo punto dove le forze che si combattono sono livellate, o una è rovesciata. In altre parole, la mia concezione della mente, o del carattere, non è che sia un inefficace riflesso di una momentanea condizione di materia e forma, ma un agente modificatore attivo, che reagisce sul suo ambiente e trasforma le condizioni economiche, qualche volta lievemente, qualche volta molto, qualche volta, sebbene non spesso, totalmente.
In tutto il regno della vita, ho detto, si possono vedere le idee dominanti al lavoro, se soltanto si esercitano i propri occhi a cercarle e a riconoscerle. Nel mondo degli uomini ci sono state molte idee dominanti. Non posso immaginare che mai, in qualunque momento, la lotta del corpo prima della dissoluzione possa essere stata qualunque altra cosa tranne che agonia. Se il ragionamento che l'insicurezza delle condizioni, l'aspettativa della sofferenza, sono circostanze che mettono l'anima di un uomo a disagio, la fanno piccola, timida, quale risposta darete alla sfida dell'antico Ragnar Lodbrog1, a quel trionfante canto di morte innalzato, non per un colpo mortale nella foga della battaglia, ma sotto la lenta tortura del carcere, morso dai serpenti, e tuttavia intonante: "Le dee della morte mi sollecitano ad andare – ora finisco la mia canzone. Le ore della mia vita sono scadute. Sorriderò quando morirò."? E non si può dire che questo sia un fatto eccezionale, da non essere giustificato dall'usuale funzionamento della legge generale, perché l'antico re Lodbrog il Bardo fece soltanto ciò che fecero i suoi antenati e i suoi figli e i suoi amici e i suoi nemici, per molte generazioni. Essi consolidarono la forza di un'idea dominante, l'idea del super ego predominante, contro la forza della tortura e della morte, finendo la loro vita come essi desideravano finirla, con un sorriso sulle loro labbra. Ma pochi anni fa, non abbiamo letto come gli indifesi cafri, vittimizzati dagli inglesi per la contumacia dei Boeri, che essendo stati costretti a scavare le fosse in cui per piacevole divertimento essi stavano per essere fucilati, allineati sull'orlo, e vedendo la morte in faccia, iniziavano a cantare barbari canti di trionfo, sorridendo come essi cadevano? Ammettiamo che una tal esultante sfida fosse dovuta all'ignoranza, a primitive credenze in dei e nella vita ultraterrena, ma ammettiamo anche che essa mostra il potere di un'idea dominante.

Dovunque nell'ossatura delle morte società, come nelle conchiglie del limo marino, vedremo la forza di un'azione che ha uno scopo, di un'intenzione all'interno che sostiene il suo proposito contro gli ostacoli all'esterno.

Io credo che non ci sia uno nel mondo che possa alzare lo sguardo sul volto risoluto, che guarda fisso lontano, di una scultura egizia, o leggere una descrizione dei monumenti dell'Egitto, o scrutare il cadavere mummificato dei suoi antichi uomini morti, senza sentire che l'idea dominante di quel popolo in quell'epoca era di essere duraturo, di produrre cose durature, con l'immobilità del loro cielo calmo e silenzioso su di loro e lo sguardo fisso del deserto in loro.

Uno deve sentire che, qualunque altra idea li animasse e rappresentasse loro stessi nelle loro vite, questa era l'idea dominante. Ciò che era doveva rimanere, costasse quello che costasse, anche se ci fosse stato da tagliare le interminabili colline: un'idea che fece l'umanità vivente inferiore ad essa, nata ed educata nei sentimenti di casta, la fece gemere e contorcersi e rodere le sue bende, finché nella pienezza dei tempi sparì: e tuttora la forma di granito di essa guarda fisso con occhi vuoti attraverso il mondo, austero vecchio ricordo della Cosa che fu.

Io credo che nessuno possa alzare lo sguardo sulle sculture marmoree, in cui il genio greco ha elaborato la figurazione della sua anima, senza avvertire un timore che le cose siano sul punto di saltare e volare, che in un attimo si stia come per essere attaccati da eroi con le lance nelle loro mani, da serpenti che si avvolgeranno attorno a noi; che si stia per essere calpestati da cavalli che possono scalpitare e fuggire; che si stia per essere colpiti da questi dei che hanno tanto piccola l'idea della pietra in loro quanto una libellula, sospesa un istante sul bordo di un petalo tremolante al vento. Io credo che nessuno possa alzare lo sguardo su di esse senza rendersi conto all'istante che quelle figure hanno origine dal ribollire della vita; sembrano bolle nascenti in procinto di ondeggiare nell'aria, ma al di sotto di loro altre bolle si formano, e altre, e altre – non ci sarà fine a ciò. Quando si posano gli occhi su un gruppo, si avverte che dietro qualcuno, forse, una figura sta camminando in punta di piedi per afferrare i dardi dell'aria e scagliarli sul capo di qualcuno; si deve continuare a girare per essere di fronte al miracolo che sembra sul punto di essere operato – il balzo della pietra! E così tuttavia quasi ognuna ha senz'altro la bellezza che gli antichi greci hanno modellato in esse tanto tempo fa; persino i monconi spezzati di braccia e gambe durano. E l'idea dominante è l'Attività, e la bellezza e la forza di essa. Il Mutamento, rapido, il Mutamento sempre in movimento!

La creazione delle cose e il loro scarto, come i bambini gettano via i loro giocattoli, non interessati del fatto che questi dureranno, cosicché essi stessi realizzano un'incessante attività. Piene di potere creativo che importa se l'essere vivente è perito. Così c'era una processione senza fine di forme che mutavano nelle loro scuole, nelle loro filosofie, nelle loro tragedie, nei loro poemi, finché non finì in ultimo con l'esaurirsi. Ed il prodigio sparì dal mondo. Ma tuttora le loro sculture in marmo durano per mostrare quale sorta di idee li dominasse.

E se volessimo conoscere quale idea principale regolasse la vita degli uomini quando il periodo medioevale ha avuto il tempo di farla maturare, si dovrebbe soltanto ai giorni nostri vagabondare in qualche pittoresco villaggio inglese fuori mano, dove una possente antica chiesa turrita ancora si erge al centro di piccoli villini coperti di paglia, come una chioccia materna circondata dai suoi pulcini. Dovunque l'esaltazione di Dio e lo sminuire l'Uomo: la chiesa così incombente, la casa così piccola. La ricerca dello spirito, della cosa durevole (non l'insufficiente resistenza del granito che nei secoli si sgretola, ma quell'eterna), l'eterno – e disprezzo per il corpo che perisce, manifesto nella ostentata sporcizia, nelle mortificazioni della carne, come se lo spirito dovesse sputare su di esso il suo disdegno.

Tale era l'idea dominante dell'età medioevale che è stata troppo maledetta dai modernisti. Perché gli uomini che costruirono i castelli e le cattedrali, erano uomini di imponenti opere, sebbene non abbiano prodotto libri, e sebbene le loro anime stendessero ali menomate, a causa dei loro veri e propri sforzi di elevarsi troppo in alto. Lo spirito della volontaria subordinazione per la realizzazione di una grande opera, che proclamasse l'aspirazione della comune anima – che era lo spirito che si amalgamò nelle pietre delle cattedrali e che non è totalmente da condannare.

In un sogno ad occhi aperti, quando le forme ridotte ad ombre delle idee del mondo ondeggiano davanti alla visione, s'immagina l'Anima del Medioevo una cosa contorta dal male, metà informe, con ali di drago ed un volto fantastico, oscuro, teso, fisso in direzione del sole con ciechi occhi.

Se ora ci guardiamo attorno per vedere quale idea domina la nostra civiltà, non so se anch'essa sia così attraente come il mostro pietoso delle antiche tenebre. La relatività delle cose è cambiata: l'Uomo si è alzato e Dio è disceso. Il moderno villaggio ha case migliori e chiese meno pretenziose. Pure la concezione del sudiciume e della malattia come afflizioni preferite, la paziente sofferenza delle quali è una conveniente offerta per guadagnare il perdono di Dio, ha lasciato il posto all'enfatica promulgazione della pulizia. Abbiamo infermiere della scuola pubblica che informano i genitori che la "pediculosis capitis" è una malattia molto contagiosa e sgradevole; abbiamo associazioni contro il cancro che si mobilitano quando tali malattie hanno colpito persone indigenti e che sperimentano accuratamente allo scopo di liberare da esse la razza umana; abbiamo associazioni contro la tubercolosi che svolgono l'opera erculea di liberare le stalle egee delle nostre moderne fabbriche dal bacillo mortale, ed esse hanno ottenuto perfino sputacchiere con l'acqua in alcuni stabilimenti; e altre cose, e altre cose, e altre cose che sebbene non ancora piene di travolgente successo nei loro dichiarati propositi sono una sufficiente evidenza che l'umanità non cerca più la sporcizia come un mezzo per raggiungere la grazia. Noi deridiamo quelle antiche superstizioni e parliamo molto della scienza sperimentale esatta.

Noi ci sforziamo di esaltare i corpi greci e fingiamo di gradire la cultura fisica. Ci dilettiamo di molte cose; ma l'unica reale grande idea della nostra epoca, non copiata da una qualunque altra età, non finta, non portata in vita da qualche congiura, è la Grande Produzione di Cose – non la creazione di cose belle, non il piacere di spendere energia vitale in lavoro creativo; piuttosto l'indecente e spietata spinta ed esasperazione a sprecare e a drenare l'ultima goccia di energia, solamente per produrre mucchi e mucchi di cose – cose brutte, cose nocive, cose inutili, e nella migliore delle ipotesi in gran parte superflue. Per quale scopo si produce? La maggior parte dei produttori non lo sa, e ancor meno se ne preoccupa. Ma è posseduto dall'idea che deve farlo, ognuno lo fa, e ogni anno la produzione di cose prosegue maggiormente e più velocemente, c'è una gamma vasta come una montagna di cose prodotte e in produzione, e nondimeno gli uomini si danno da fare disperatamente per allungare l'elenco delle cose create, per cominciare nuovi mucchi e per ampliare i mucchi esistenti. E con quale tormento del corpo, sotto quale tensione e preoccupazione di pericolo e paura del pericolo, con quali mutilazioni e storpiature e azzoppamenti continuano con difficoltà, sfracellandosi contro questi macigni di opulenza! In verità, se l'immagine dell'Anima Medioevale è penosa per il suo cieco guardare fisso e per il patetico sforzarsi, grottesca nelle sue torture insensate, l'Anima del Tempo Moderno è più sorprendente con i suoi occhi irrequieti, nervosi, sempre esploranti gli angoli dell'universo, con le sue mani irrequiete, nervose che per qualche inutile duro lavoro sempre si allungano e afferrano.

E certamente la presenza di cose in abbondanza, cose vuote e cose volgari e cose assurde, così come cose pratiche e utili, ha prodotto il desiderio del possesso di cose, l'esaltazione del possesso di cose. Attraversate la strada del mercato di una qualunque città, dove le sommità inclinate di strati di cose fissano e guardano i volti della gente che passa – non gli affamati e i disgraziati che contornano i marciapiedi e palesemente questuanti un'elemosina, ma la folla – e rendetevi conto di quale idea sia scritta sulle loro facce. Su quelle delle donne, dalle signore delle mostre di cavalli alle commesse fuori dalla fabbrica, c'è una rivoltante vanità, una coscienza dei loro vestiti, alla pari di qualche taccola con penne prese a prestito. Cercate l'orgoglio e lo splendore di un corpo libero, forte, bello, flessuoso nei movimenti e pieno di vigore. Non lo troverete. Vedrete andature affettate, corpi piegati per mostrare il taglio di una gonna, volti che sorridono in modo lezioso, ammiccante, con occhi che si guardano intorno alla ricerca di ammirazione per il gigantesco fiocco di un nastro nei capelli acconciati in modo troppo elegante. Nelle parole caustiche di una conoscenza, cui dissi una volta mentre passeggiavamo, "Guarda quanta vanità su tutti questi volti di donna", "No: guarda la piccola parte delle donne che ostenta tutta quella vanità!".

E sulle facce degli uomini, volgarità! Desideri volgari di cose volgari, e in gran quantità: il segno è collocato così inconfondibilmente che "il viandante per quanto imbecille non deve errare là". Anche l'orribile ansietà ed inquietudine generate dalla creazione di tutto questo, è meno repellente dell'espressione abominevole di avidità per le cose create.

Tale è l'idea dominante del mondo occidentale, almeno in questi nostri giorni. Potete vederla in ogni luogo guardate, impressa in modo evidente sulle cose e sugli uomini; allo stesso modo se guardaste nel vetro, la vedrete là. E se qualche archeologo di un futuro lontano un giorno o l'altro disseppellirà le ossa della nostra civiltà, dove le ceneri o il diluvio le avranno sepolte, vedrà quest’orribile idea impressa sui muri delle fabbriche che scoprirà, con le loro file e file di cavità quadrate per le lampade, le loro tonnellate su tonnellate di acciaio munito di denti, sorridendo per il teschio di questa nostra vita; i suoi acri di seta e velluto, le sue miglia quadrate di fili dorati e scadenti. Non splendide sculture di marmo di ninfe e fauni, le cui vecchie immagini sono ancora così dolci che uno potrebbe ancora desiderare di baciarle; non maestose figure di cavalli alati, con volti di uomini e zampe di leone, diffondenti il loro colossale simbolismo in un lungo periodo in avanti nel Tempo, come quelle antiche chimere di pietra di Babilonia ancora fanno; ma giganti di ferro insignificanti, di ruote e denti, il cui segreto è dimenticato, ma il cui compito era far sgobbare gli uomini, dar loro una mancia e sputarli fuori come case piene di robe dozzinali, bazar di immondizie, di modo che altri uomini potessero mettersi al lavoro di buona lena. Le statue che egli troverà non recheranno traccia di sogni mitici o di simboli mistici; saranno statue di mercanti, padroni di ferriere e militari, con giacche e pantaloni confezionati e cappelli e scarpe decorose. Ma l'idea dominante dell'epoca e di un paese non significa necessariamente l'idea dominante di una qualunque singola vita.

Non metto in dubbio che in quei lontani giorni, lontano dalle rive del tranquillo Nilo, all'ombra costante delle piramidi, sotto il pesante fardello della imperturbabilità di altri uomini, là si dessero da fare anime irrequiete, attive, ribelli che detestavano tutto ciò che l'antica società rappresentava, e col cuore in fiamme cercavano di rovesciarla.

Sono sicura che nel mezzo di tutto ciò che la viva intelligenza greca ha creato, ci fossero quelli che andavano in giro con occhi bassi, non gradendo niente di tutto quello, cercando qualche più elevata rivelazione, disponibili ad abbandonare le gioie della vita, pur di avvicinarsi a qualche lontana e sconosciuta perfezione di cui i loro compagni non sapevano. Sono certa che nei secoli bui, quando la maggior parte degli uomini pregava e si umiliava, e si percuoteva e si feriva, e cercava il dolore, come Santa Teresa che tranquillizzava con un "Lasciatemi soffrire o morire", c'erano alcuni, molti, che consideravano il mondo come uno scherzo fortuito, che disprezzavano o compativano i loro ignoranti compagni, e cercavano di ottenere le risposte dell'universo ai loro interrogativi, con la perseverante, quieta ricerca che divenne la Scienza Moderna. Sono sicura che c'erano centinaia di migliaia di loro, di cui noi non abbiamo mai sentito parlare.

Ed ora, oggi, benché la Società intorno a noi sia dominata dal Culto delle Cose, e durerà segnata così per tutto il tempo, non c'è nessuna ragione per cui non dovrebbe esistere un'anima individuale. Poiché apparentemente l'unica cosa davvero di valore per il mio vicino, per tutti i miei vicini, è correre dietro ai dollari, non c'è nessuna ragione per cui io dovrei correre dietro ai dollari.

Poiché i miei vicini immaginano che hanno bisogno di un eccessivo mucchio di tappeti, mobili, orologi, porcellane, bicchieri, arazzi, specchi, stoffe, gioielli e domestici che si prendano cura di loro, e detective per tenere d'occhio i domestici, giudici per processare i ladri, e politici per nominare i giudici, prigioni per punire gli imputati, e guardiani per sorvegliare nelle prigioni, e esattori delle tasse per raccogliere il mantenimento dei guardiani, e compensi per gli esattori delle tasse, e solide case per contenere le proprietà, cosicché nessuno eccetto i guardiani di ciò può derubarli – e quindi per mantenere questo gran numero di parassiti, hanno bisogno di altri uomini che lavorino per essi, e creano le tasse; poiché i miei vicini vogliono tutto questo, è quella la ragione per cui dovrei dedicarmi a tale aberrante follia? E dovrei piegare il mio collo per servire a mantenere lo sgargiante spettacolo?

Dobbiamo, poiché il Medioevo era oscuro, cieco, e brutale, buttar via l'unica cosa buona che è impastata nella fibra dell'Uomo, che il lato interiore di una creatura umana valga di più del lato esteriore? Che il concepire una cosa più elevata di se stessi e vivere seguendo quella direzione è il solo modo di vivere degnamente? Il traguardo per il quale lottare dovrebbe, e deve, essere qualcosa di molto differente da quello che induceva i fanatici medievali a disprezzare il corpo e a tormentarlo con continue crocifissioni. Ma si può riconoscere le richieste e l'importanza del corpo senza perciò sacrificare verità, onore, semplicità e fede, ai volgari ornamenti dell'abbigliamento, di cui molte decorazioni sviliscono ciò che si poteva pensare esaltassero.

Ho detto in precedenza che la dottrina, che gli uomini sono niente e le condizioni economiche tutto, è stata ed è la rovina dei nostri moderni movimenti di riforme sociali.

I nostri giovani, animati dallo spirito degli antichi maestri che credevano nella supremazia delle idee, anche nel grande momento di buttar via ciò che insegnano, guardano con occhi fiammeggianti agli stati sociali dell'Est, e reputano che i miracoli della rivoluzione stiano per essere realizzati. Nel loro entusiasmo anticipano il vangelo delle Condizioni economiche per significare che molto presto la pressione dello sviluppo materiale deve abbattere il sistema sociale – essi danno la cosa corrotta al punto da durare solo pochi anni, e allora essi stessi saranno testimoni della trasformazione, parteciperanno delle sue gioie. I pochi anni svaniscono e niente accade; l'entusiasmo si raffredda. Guardate questi stessi idealisti allora, uomini d'affari di successo, professionisti, possessori di proprietà, leader finanziari, insinuatisi nei ceti sociali che una volta disprezzavano, stare miserabilmente, spregevolmente dietro a qualche personaggio senza denaro cui avevano prestato dei soldi, o fatto qualche servigio professionale gratis; guardateli mentire, truffare, adulare, comprare e vendere se stessi per qualsiasi cianfrusaglia, qualsiasi piccola pretesa a buon mercato. L'Idea Sociale Dominante si è impadronita di loro, le loro vite in essa sono inghiottite; e quando chiedete per quale ragione, vi dicono che le Condizioni economiche li hanno costretti a fare così. Se gli citate le loro menzogne, sorridono con tranquilla compiacenza di sé, ti assicurano che quando le Condizioni economiche pretendono menzogne, le menzogne sono molto di più rispetto la verità, che gli espedienti sono qualche volta più efficaci che la condotta onesta, che l'adulazione e l'inganno non importano se lo scopo da ottenere è allettante, e che nelle attuali "Condizioni economiche" la vita non è possibile senza tutto questo; che si è sul punto di rendere possibile che in qualsiasi momento le Condizioni economiche facciano più facile dire la verità che mentire, ma fino a quel momento un uomo deve fare attenzione a se stesso, sicuro! E così il cancro va avanti a corrompere la fibra morale, e l'uomo diventa un grumo, una cosa schiacciata, un pezzo di melma scivolosa che assume tutte le forme e perde tutte le forme, secondo quale buco o angolo particolare desidera scivolare dentro – una disgustosa incarnazione della bancarotta morale generata dal Culto delle Cose.

Fosse stato dominato da una concezione della vita meno materiale, non fosse stata corrotta la sua volontà dal ragionamento intellettuale su ciò che è fuori della sua esistenza, dalla sua accettazione della sua propria inesistenza, le aspirazioni altruiste dei suoi anni giovanili si sarebbero sviluppate e sarebbero state rafforzate dall'esercizio e dall'abitudine; e la sua protesta contro l'epoca poteva essere scritta durevolmente, e per qualche scopo.

Si dirà che i Padri Pellegrini non scavarono, dal ghiaccio e dal granito del New England, l'idea che li radunò insieme dai loro sparsi e oscuri villaggi inglesi, e li guidò sulle loro fragili navi attraverso l'Atlantico in pieno inverno, per abbreviare il loro cammino contro tutte le forze che si opponevano? Non erano uomini comuni, oggetto dell'azione della legge comune? Si dirà che le Condizioni economiche li aiutarono? Quando morte, malattia, fame e freddo ebbero fatto il loro peggio, non uno di quelli che rimasero fu disposto con una facile bugia a ritornare alle comodità materiali e alla possibilità di una lunga vita.

Avessero i nostri moderni rivoluzionari la vigorosa e imperterrita concezione delle loro proprie capacità che questi ebbero, i nostri movimenti sociali non sarebbero aborti così pietosi – marci fino all'osso ancora prima che una macchiolina esterna appaia.

"Date a un leader sindacale un incarico politico, e il sistema comincerà ad andare benissimo", ridono i nostri nemici; e indicano beffardamente Terence Powderly2 acido verso i suoi, e citano John Burns3, che non appena andò in Parlamento dichiarò: "Il tempo dell'agitatore è finito, il tempo del legislatore è venuto". "Sposi un anarchico un'ereditiera, e il Paese è al sicuro", deridono – e hanno il diritto di deridere. Ma avrebbero quel diritto, potrebbero averlo, se le nostre vite non fossero dominate in prima istanza da desideri più insistenti di quelli che volentieri vorremmo avere, che gli altri credono che noi riteniamo molto cari?

È la vecchia storia: "Mira alle stelle, e puoi raggiungere la cima del pilastro, ma mira al suolo e raggiungerai il suolo".

Non è da supporre che chiunque conseguirà la piena realizzazione di ciò che si prefigge, anche quando quei propositi non coinvolgono un'azione congiunta con altri, sarà inferiore, in qualche misura sarà vinto da un'opposizione concorrente o inerte. Ma qualcosa otterrà, se continua a puntare in alto. Cosa, allora, avrei? Voi chiedete. Avrei uomini che investono se stessi con la dignità di uno scopo più alto della caccia alla ricchezza, che scelgono una cosa da fare nella vita al di fuori della produzione di cose, e se ne ricordano – non per un giorno, non per un anno, ma per tutta la vita. E allora tengono fede a se stessi!

Non l'essere una prostituta, oggi professando questo e domani quello, e senza difficoltà dichiarandosi estraneo ad entrambe le cose ogniqualvolta diventa conveniente, non difendendo una cosa oggi e domani baciando le mani dei suoi nemici, con quel pianto debole e codardo in bocca, "Le Condizioni economiche mi rendono così". Esaminatevi attentamente, e se amate i beni e il potere e la ricchezza più della vostra propria dignità, umana dignità, oh, ditelo, ditelo! Ditelo a voi stessi e attenetevi. Ma non soffiate caldo e freddo in un solo respiro. Non tentate di essere un riformatore sociale e un rispettato possidente al tempo stesso. Non predicate la retta e stretta via mentre state andando gioiosamente per quella ampia. Predicate quella ampia, o non predicate affatto; ma non ingannate voi stessi dicendo che vi piacerebbe aiutare l'usciere in una società libera, ma che non potete sacrificare una poltrona per questo. Dite onestamente, "Io amo le poltrone più degli uomini liberi, e le inseguo perché faccio una scelta; non perché le condizioni economiche mi rendono così. Amo i cappelli, grandi, grandi cappelli, con molte piume e grandi fiocchi; e vorrei avere questi cappelli piuttosto che tormentarmi con sogni sociali che mai saranno realizzati nella mia vita. Il mondo adora i cappelli, e io voglio adorarli con loro".

Ma se scegliete la libertà e l'orgoglio e la forza della singola anima, e la libera fraternizzazione degli uomini, come lo scopo che la vostra vita deve manifestare, allora non vendetelo per del ciarpame. Credete che la vostra anima è forte e manterrà la sua strada; e lentamente, attraverso un'aspra lotta magari la forza crescerà. E quanto sopra è stato detto dei beni, per cui altri barattano l'ultima possibilità di libertà, diventerà facile.

Alla fine della vita potrete chiudere gli occhi dicendo: "Io non sono stato dominato dall'Idea Dominante della mia Epoca; ho scelto la mia propria fedeltà e l'ho servita. Ho dimostrato con una vita che c'è in un uomo ciò che lo salva dalla tirannia assoluta delle Condizioni economiche, che infine conquista e rimodella le Condizioni economiche, il fuoco immortale della Volontà Individuale, che è la salvezza del Futuro".

Abbiamo Uomini, Uomini che vogliano dire una parola alle loro anime e mantenerla – mantenerla non quando è facile, ma mantenerla quando è difficile – mantenerla quando la tempesta mugghia e c'è un cielo venato di bianco e prima un tuono azzurro, e gli occhi sono accecati e le orecchie assordate dalla guerra di cose contrarie; e mantenerla sotto il cielo a lungo plumbeo e la grigia depressione che mai si dirada. Resistete fino all'ultimo: è ciò che significa avere un'Idea Dominante, che le Condizioni economiche non possono spezzare. E tali uomini create e annientate le Condizioni economiche.

VOLTAIRINE DE CLEYRE



Note:

1 Ragnar Lodbrog fu un re semileggendario della Danimarca e della Svezia che regnò intorno all'ottavo-nono secolo. Secondo il cronista Saxo Grammaticus, Ragnar apparteneva alla dinastia Yngling. Sia Saxo sia fonti storiche islandesi lo dicono figlio di Sigurd Ring, un re svedese che conquistò la Danimarca.

2 Terence Powderly, figlio di immigrati irlandesi, nacque in Pennsylvania il 22 gennaio 1849. Operaio meccanico, si associò al Knights of Labor nel 1874. Avanzò rapidamente nell'organizzazione fino al vertice raggiunto dopo cinque anni. Rappresentante del Greenback-Labor Party, fu eletto tre volte sindaco di Scranton, Pennsylvania, incarico che ricoprì dal 1878 al 1884. Autore di Thirty Years of Labour (1889), fu nominato Commissario Generale dell'Informazione (1897-1902) e in seguito capo della Divisione dell'Informazione nel Bureau of Immigration (1907-21). Morì il 24 giugno 1924.

3 John Burns, politico inglese, figlio di un ingegnere, nacque a Lambeth, Londra, nel 1858. Morì nel 1943. Eletto nel consiglio esecutivo della Social Democratic Federation, partecipò nel 1886 e 1887 alle dimostrazioni a Londra che degenerarono in rivolta. Fu arrestato e processato in entrambe le circostanze. Nel 1889 fu uno dei tre leader dello sciopero dei portuali di Londra, cosa che contribuì a farlo conoscere come leader laburista e a farlo eleggere nel 1892 alla Camera dei Comuni dove però, una volta eletto, si allineò sulle posizioni del partito liberale.

martedì 30 ottobre 2012

Parla la dinamite.




Dopo l’esplosione nel tribunale una serie di attentati ha gettato lo scompiglio e la paura nella grassa borghesia milanese. Il primo ad essere attaccato fu l’ingegnere Giovanni Breda titolare dello stabilimento omonimo e noto pescecane.
Esso sfuggì a un tentato vetrioleggiamento e a una bomba esplosa nella sua villa. Poi fu la volta del senatore Ponti, presidente della Società 
mecc. lombarda. Anche contro la sua abitazione fu lanciata una bomba. Tutto però si limitò ad esplosioni formidabili e a danni alle abitazioni. La fortuna protegge i pescicani! Altra bomba alla dinamite, inesplosa però, fu trovata nella stazione centrale.
La consegna degli esplosivi prosegue alacremente! Soltanto essa vien fatta a domicilio.
È naturale che mille voci corrano sul movente di questi attentati. Il fatto che gli sconosciuti dinamitardi abbiano scelto gli alti papaveri dell’industria metallurgica, fa supporre si tratti di rappresaglia per la veramente ributtante tracotanza padronale. Mentre i signori pescicani se la spassano al Cova e al Biffi, il povero scioperante ingozza poco riso e stringe la cintola. Il capitale non si combatte a braccia incrociate e l’attesa per chi ha fame, è una lenta agonia. Ma i padroni voglion così e nascosti dietro i revolver omicidari dei carabinieri del re, fanno le fiche alla miseria.
Intanto da parte della stampa forcaiola si comincia la caccia all’anarchico, e si chiedono le solite leggi capestro. Noi non apparteniamo al numero dei pseudo sovversivi pantofolai, pronti a rinnegare ogni fede per la paura della galera. Ma a chi oggi ci accusa di avere, noi, provocato questi attentati, rispondiamo con cifre e domande lineari:
Chi seminò durante quattro anni di carneficina l’odio e il dolore? Furono i varî Graziani, luridi assassini gallonati.
Finita la guerra la belva borghese perennemente assetata di sangue, malgrado i 507,193 morti immolati al trust e alla banca, volle e vuole ancora uccidere.
Dal 13 Aprile a oggi (eccidio di Lainate, morti 3) 54 persone furono assassinate dal piombo regio. Ecco la propaganda dell’odio! Gli incettatori affamano, gli industriali mettono al bivio fra lo sfruttamento più nefando e la fame. E si grida: Bisogna produrre! Leggevo l’altro giorno che un giovane (diciotto anni!) si suicidava per mancanza di lavoro. Io domando: che cosa si deve produrre? casse da morto? Dunque la provocazione viene dall’alto. Sono i varî Breda protetti dalla camorra di stato, sono i Centanni cinici, livragatori di folle, sono i “gros bonnet” dell’esercito, lordi di sangue e furenti di libidine.
Reazione? Ben venga. Gli anarchici non la temono, troppo l’hanno affrontata.
Ormai la borghesia si è fatta il deserto intorno a sè. E ne subirà la pura legge.
dall’ICONOCLASTA!

Bruno Filippi

Libera uscita



Io sono un animale strano. Vivo tra i pidocchi e mi nutrisco di baccalà. Abito quei sudici ed opprimenti penitenziari che si chiamano «caserme» ed imparo ad uccidere. In questi lunghi anni di abbrutimento e di strage, ho perduto la mia coscienza d’uomo. Per questo me ne vado tristemente per le grandi città, col mio grigio-verde sbrindellato ed i miei scarponi ferrati.


* * *


Chi mi chiama «fante glorioso»? La gran gloria, perdio! Perchè ho vissuto quattro anni tra i cadaveri e il sangue, perchè mi sono scagliato mille volte all’assalto ubriaco di un odio non mio, voi mi chiamate «glorioso»! Via da me questa gloria infame! Non posso dimenticare i grandi occhi dei morti, le immense ferite cancrenose, le pozze di sangue che mi hanno per sempre imbrattato le mani e il cervello.

* * * 

Posso forse ancora amare io? Posso ancora stringere fra le braccia il piccolo figlio innocente? Non vedete che ho negli occhi una perpetua visione di strage? Chi ha vissuto quattro anni fra i morti può forse amare ancora?
Ieri.... (quanto è lontano questo ieri!) affondavo il vomere nella terra grassa e cantavo a gran voce tra l’oro del sole e il profumo delle mèssi. Venne la chiamata, la trincea, i mille agguati della morte. Era duro il pane del lavoro. L’alterigia del padrone lo rendeva scarso e amato. Ma le braccia eran forti e il cuore pulsava fiducioso. Ora invece son quì, col vuoto nel cervello e la rilassatezza nei nervi.



* * *



La guerra è finita. Ma ancora sono prigioniero, ancora vado su e giù per le grandi vie assolate, con lo zaino pesante e il fucile maledetto. Ancora echeggiano comandi e squilli di tromba e ancora obbedisco bestialmente. La mamma? I bimbi? Ma li ho io forse?
Sono cosa d’altri ormai. Son divenuto il «fante glorioso».



* * *



O buona terra! Mai più questo tuo figlio scaverà solchi nel tuo seno e canterà tra ’l sole. Verrò, verrò il gran giorno, e tu mi accoglierai fra le braccia, buona terra odorosa, e farai germogliare sul mio capo le timide viole.



* * *



 Eppure.... Ricordo la furia travolgente degli assalti. Perchè combattevo e morivo? Perchè le mie vene non conoscevano il terrore?
Ho ancora il fucile d’ieri, come ieri il cuore mi batte a grandi colpi. Perchè allora non rinnovo l’assalto travolgente verso il più vero, il più malvagio nemico? Perchè sono diventato vigliacco?



* * *



È suonata la ritirata. Ritorno nella triste caserma, mi butterò sul giaciglio aspettando la pace del sonno. Ho guardato morire il sole. Il cielo pareva una immensa chiazza di sangue, una mostruosa ferita aperta nel ventre dell’infinito.
E la terra mi ha parlato. Mi ha sussurrato parole dolci d’esortazione. Osare.... ha detto. E osare ripeteva il vento, e osare stormivano le foglie.... E pure gli ultimi squilli di tromba parvero dire trionfalmente: osare, osare!
Quando saprò osare!

dall’ICONOCLASTA!
Bruno Filippi

lunedì 29 ottobre 2012

Distorto dagli specchi




Distorto
dagli specchi

Il sogno si è rotto cadendo
Ho trovato l’oblio in uno specchio perduto in mare
Ebbro di tormenti
Divorato dalle paure
Ho bevuto quell’acqua che nessuna luce ha accarezzato
Come un oggetto curvo sopra la sua ombra
Ora vedo l’amore sotto una luce obliqua
Chi costringe la mia testa a chinarsi?
Sconvolge l’ora?
Come raggiungere il sole senza passare attraverso
l’albeggiare?
Rimuovere la paura da tutte le apparenze così da
nuotare lungo tutto l’oblio
Con lo stesso movimento
Perdere se stessi e scoprire la direzione delle cose
Oltre la sinistra ed oltre la destra
Oltre l’audacia e l’orizzonte
Oltre il vento
Il vento della paura
Un vento crudele ma non immutabile
Che spezza l’eco sepolta nella sabbia
Ed il fumo imprigionato nelle ossa fossili
Che depredano gli sciacalli dei loro sogni
E i poppanti del futuro
Un vento che nei suoi abbracci tradisce la sua furia
Immerso nella mia infelicità sommergo la mia stella
In questa caduta rettilinea un nuovo volto si
mostra come un richiamo
La luce lo consuma
E oppone alla sorte tutto ciò che rimane di me
Nell’inevitabile ritmo del disastro
Potrei dire prima della fine del giorno
Tutti gli specchi sono assetati
Il battere di un remo basta a cancellare una stella
Senza riflessione senza ombra il cuore muore lentamente
E fa della memoria una insonnia senza fine
Vendicatore e conquistatore di me stesso
Ho piena fiducia in questi brividi di destino
Un mondo furibondo di idee violente si solleverà
La sua immagine incisa nell’occhio più limpido
Già nega l’umore capriccioso dei profeti
Irruvidisce gli specchi
Solleva le teste insanguinate dei tori neri

La Libertà



Nessuna rivoluzione di cui sia possibile conoscere storicamente il retroscena è mai avvenuta per ordine di un comitato.
Le organizzazioni gerarchizzate sono dannose. Una rivoluzione non è un campanello elettrico; il Comitato centrale pigia il bottone, e il campanello suona; il Comitato centrale smette di pigiare e il campanello smette di suonare. Una rivoluzione è una febbre che viene quando nessu
no se l’aspetta.
Un bel giorno la gente che sembrava inerte, passiva, indifferente, incapace di muoversi, è messa in movimento da un fatto imprevedibile. Chi non osava parlare, alza la voce. Chi faceva il gradasso si squaglia. Chi rifuggiva da ogni compagnia, va in cerca degli amici per domandare notizia, per sapere che cosa deve fare. Si leva un grido, vola una sassata. Parte un colpo di revolver.
La tempesta si scatena. Non c’è stato nessun ordine di nessun comitato. Ve lo immaginate voi un comitato che si riunisce a Roma per deliberare se in questo momento c’è da tentare un colpo a Palermo o a Milano? (...)
Se non esiste nessun comitato di padreterni che si arroghi il diritto di far suonare al momento opportuno il campanello elettrico, e se la gente è avvezza all’idea che ognuno deve essere il comitato di se stesso, e deve muoversi di propria iniziativa sotto la propria responsabilità, allora può darsi che qualche cosa avvenga: forse che sì, forse che no. Ma se esiste un comitato di padreterni e se la gente prende sul serio i padreterni e si crede obbligata ad aspettare “disciplinatamente” l’ordine dei padreterni, allora è positivo che nessuno farà mai nulla, perché l’ordine non arriverà mai, o caso mai la gente farà degli spropositi perché l’ordine arriverà fuori proposito. L’attimo fuggente passerà certamente senza che nessuno pensi ad afferrarlo.



Gaetano Salvemini
La Libertà del 3 luglio 1927

domenica 28 ottobre 2012

L’«esercito» antifascista




L’«esercito» antifascista ingrossa maledettamente, come un torrente limaccioso, torbido, che spinge innanzi a sé tutti i rottami della bufera, tutti gli schiantati del regime, l’accozzaglia più tenebrosa degli avventurieri…

Dobbiamo respingere lungi da noi tutta questa gentaccia da mercimonio infame, questi alchimisti della buona fede altrui, queste canaglie che nuotano tuttora nel sangue delle vi
ttime che hanno seminato copiosamente nel terreno da loro percorso… Mentre essi possono raccogliersi nel crogiuolo delle bassezze, possono anche chiamarsi antifascisti per poi aver più diritto di ereditare in un possibile decesso del fascismo, e fascistizzare a loro volta quando sono assisi sul trono del comando. Noi non possiamo loro proibire di dirsi antifascisti.
Ma che si agitino tra loro, che si abbraccino, che si amino, che si stringano tra loro, senza contaminarci, senza eguagliarci in questa parola: antifascismo, che per noi tiene un significato più rivoluzionario, più sublime, più insorgente. Non possiamo mai avere con essi — come con i fascisti — nessuna riconciliazione…

Perciò lontani dobbiamo stare da essi, come pure non aver contatti con nessuna classe di avventurieri, che possono da un momento all’altro essere i nostri più terribili maramaldi, i più abietti boccheciampi che come serpi velenose s’annidano nei nostri petti per poi lasciarci feriti coi loro morsi letali…Liberi, senza il ludibrio osceno dei contatti impuri, stando in allarmi contro il fascismo e contro l’antifascismo occasionale.
(...)

L’antifascismo nostro non è uno solo, onde incontriamo una camicia nera, o azzurra od anche rossa o di qualsiasi altro colore e che nasconde fini reazionari e tirannici, lì abbiamo il nostro bersaglio…

Nei diversi ambienti e tra i diversi ceti si formino ristretti comitati o gruppi di azione. Non è detto che ognuno debba compiere necessariamente atti violenti; ognuno compia invece quegli atti, di offesa al nemico, possibili, date le attitudini, le capacità e i mezzi dei componenti un determinato gruppo costituitosi per affinità e per reciproca fiducia. Che ciascun gruppo faccia e compia la sua parte di azione senza chiedersi quello che faranno gli altri gruppi.

Severino Di Giovanni
 

L’esca per la schiavitù



Giunse notizia a Ciro che gli abitanti di Sardi erano scesi in rivolta. Avrebbe potuto ridurli in un attimo ai suoi voleri; ma, non volendo distruggere una così bella città e neppure essere obbligato a tenervi di guardia un esercito, per garantirsene la sottomissione ricorse a questo espediente: vi fece collocare bordelli, taverne , giochi pubblici e bandì un’ordinanza con cui i cittadini erano autorizzati a farne l’uso che preferivano. E questa specie di guarnigione gli rese così buon servizio che da allora non ci fu più bisogno neppure di un solo colpo di spada contro gli abitanti della Lidia. Questi poveracci si divertivano a inventare ogni tipo di gioco a tal punto che i latini, per indicare ciò che noi chiamiamo passatempi, trassero dal loro nome il termine ludi.… teatri, giochi, commedie, esposizioni di medaglie e di vari dipinti, e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi l’esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e incantati da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano fatti passare davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in questo modo del tutto sciocco…



Etienne De La Boétie

François Claudius Koeningstein detto Ravachol



Attualmente c’è un numero troppo elevato di cittadini che soffrono mentre altri nuotano nell’opulenza, nell’abbondanza. Questo stato di cose non può durare; tutti noi dobbiamo non solo approfittare del superfluo dei ricchi, ma ancora procurarci come loro il necessario. Nella società attuale è impossibile arrivare a ciò. Nulla, nemmeno l’imposta sulle entrate può cambiare le cose e tuttavia la magg
ior parte degli operai è persuasa che se si agisse così, beneficerebbero di un miglioramento. Errore, se si tassa il proprietario lui aumenterà i suoi affitti e con ciò farà in modo di far sopportare a chi soffre il nuovo carico che gli è stato imposto. Del resto nessuna legge può colpire i proprietari perché essendo padroni dei loro beni non si può impedire loro di disporne a proprio piacimento. Cosa bisogna fare allora? Annientare la proprietà e, così facendo, annientare gli accaparratori.

Se questa abolizione avesse luogo, bisognerebbe abolire anche il denaro per impedire ogni idea di accumulazione che costringerebbe a ritornare al regime attuale.

In effetti è il denaro la causa di tutte le discordie, di tutti gli odi, di tutte le ambizioni, è in poche parole il creatore della proprietà. Questo metallo, in verità, non possiede che un prezzo convenzionale dovuto alla sua rarità. Se non si fosse più costretti a dare qualcosa in cambio di ciò di cui abbiamo bisogno per la nostra esistenza, l’oro perderebbe il suo valore e nessuno cercherebbe e potrebbe arricchirsi poiché nulla di quanto accumulerebbe potrebbe servirgli a procurarsi un benessere superiore a quello degli altri.

Da ciò ne consegue che non c’è più bisogno di leggi, non più bisogno di padroni.



François Claudius Koeningstein detto Ravachol

sabato 27 ottobre 2012

L’ Operaismo




È una strana malattia di cui soffre quasi tutta l’intellettualità avanzata. Il marxismo e il sindacalismo ne sono forme incurabili. Parecchi anarchici ne soffrono. Consiste in una deformazione più o meno grave delle facoltà della percezione e del pensiero, deformazione che fa sì che agli occhi del malato tutto ciò che è operaio appare bello, buono, utile tanto quanto ciò che non lo è
 diventa brutto, cattivo, inutile, se non nocivo. Il triste abbrutito, dalla sagoma piegata, alcolizzato, tabagista, 
tubercolotico, che costituisce la massa dei buoni cittadini e delle persone oneste, diventa per incanto il lavoratore, il cui lavoro «augusto» fa vivere e progredire l’umanità, il cui sforzo magnanimo gli riserva uno splendido avvenire… Guardatevi dal far notare all’operaista che il suddetto operaio è dopo tutto il sostegno più sicuro dell’abominevole regime del Capitale e dell’Autorità, che sostiene e sancisce il servizio militare, il voto, il lavoro quotidiano.
Vi sentirete immediatamente trattare da individui retrogradi, dai pregiudizi borghesi e che non capiscono nulla di… sociologia!
Per quanto abbastanza numerose, le cause di questo stato d’animo sono facili da determinare. Al primo posto conviene mettere l’idea del lavoro «gesto augusto» poiché mantiene la vita; essendo il lavoro nobile per essenza, dicono gli spiriti semplici, nobile è il lavoratore. Ecco! Dimenticano solo una cosa; che la nobiltà di un’attività è una concezione del tutto convenzionale e relativa; che il lavoro teoricamente così bello è nella pratica comune brutto, abbrutente, demoralizzante; infine che un gesto qualsiasi non potrebbe essere intriso di bellezza quando chi lo compie è una povera bestia umana attanagliata dalla paura e dalla fame…
In tutti i tempi gli uomini si sono divertiti a concepire ideali di giustizia che si sforzavano invano di realizzare fra loro. Hanno sognato una giustizia a volte sovrumana, a volte naturale, a volte sociale; hanno sognato, ho detto, perché mai da nessuna parte questo sogno si è realizzato, e la vita non lo ha corroborato in niente. «La vita non è affatto giusta — ha detto Zola — è logica». Ma questo sentimento, profondamente radicato nelle mentalità, ha giocato e gioca un grande ruolo nei fenomeni sociali. Così il fatto che i produttori siano sprovvisti di tutto e condannati a condurre un’esistenza disseminata di privazioni, a profitto di una classe più forte e più intelligente, questo fatto è parso d’una ingiustizia flagrante. Tuttavia è nella logica naturale che il più forte sfrutti il più debole; ma questo sconvolge il nostro istinto di equità. Il risultato è che si è portati a considerare con simpatia le vittime dell’«ingiustizia sociale» — i produttori.
Infine la teoria marxista, che accorda al fattore economico un’importanza primordiale, è giunta a confermare l’idea del lavoro augusto aggiungendovi questa nuova concezione delle ricchezze per trasformare da cima a fondo la vita sociale su basi più razionali e l’operaio diventa il padrone dell’avvenire.
Sotto l’impulso di questi sentimenti e di questi pensieri, è nato l’operaismo.
Questo stato d’animo è certo una delle cause dell’infatuazione verso il sindacalismo. Entusiasmati dallo sforzo rapido delle associazioni operaie, cervelli evoluti hanno virato nel nuovo movimento della panacea universale. Il sindacalismo rispondeva a tutto, poteva tutto, prometteva tutto. Per gli uni, spettava a sagge e prudenti riforme migliorare senza rumore lo stato sociale. Per gli altri era la prima cellula della società futura, che avrebbe instaurato un bel mattino di sciopero generale.
Si è dovuto pervenire a più miti consigli. Ci si è accorti — per lo meno quelli non accecati dall’illusione — che i sindacati diventavano robusti e saggi, perdendo la voglia di mettere a soqquadro il mondo. Che spesso finivano per sprofondare nel legalismo e facevano parte delle ruote della vecchia società combattuta; che altre volte riuscivano solo a fondare classi di operai privilegiati, conservatori quanto i borghesi tanto vituperati. Infine, sono arrivati dei guastafeste a dire che per modificare l’ambiente non bastava raggruppare dei bruti, e che anche quando essi si fossero potentemente organizzati non avrebbero potuto creare nulla che fosse al di sopra della loro mentalità…
Ma l’operaismo non ha avuto solo assurdità sindacali come conseguenza. In certi gruppi ha suscitato eccessi ancora più ridicoli, come i pregiudizi scioccamente antiborghesi di qualche compagno che arriva a considerare come un segno di ortodossia sovversiva avere le mani grosse, callose, nerastre, essere vestiti di abiti impolverati ed esprimersi in termini di accurata volgarità — in una parola avere l’attitudine proletaria.
Del resto negli ambienti più colti, fra gli scrittori e gli artisti, si è convenuto di ammirare il proletario.
È sorta una letteratura che dipingeva in termini indignati le sofferenze della povera gente. I «martiri del lavoro» ebbero i loro cantori. E ci s’immaginava a poco a poco un tipo di operaio che non corrispondeva affatto alla realtà: il bell’operaio dal torace robusto, che nelle rappresentazioni socialiste se ne andava gioiosamente verso un grande sole porpora…
Qui si innesta un’ideologia alquanto complicata, che ha i suoi teorici e i suoi umoristi. Innumerevoli opuscoli, mucchi di giornali, quantità di manifesti multicolori hanno dichiarato ai borghesi terrificati — come no! — l’imminenza della Rivoluzione, la classe operaia cosciente andava attraverso il grande sciopero a creare domani — domani, senza dubbio — la fortunata città dove sotto l’egida di un vigilante Comitato ognuno godrà in pace della felicità confederale.
Si aspetta, si aspetta, ci si prepara. Si discutono i minimi dettagli dell’inevitabile sconvolgimento, e seriosi burloni raccontano che faranno la Rivoluzione così e colà. E nessuno pensa che l’attesa è della vita perduta e che sarebbe meglio cominciare a fare un poco di luce nella spaventosa notte dei cervelli.
Noi non siamo operaisti. Ci sembrerebbe puerile portare sugli allori il lavoratore la cui criticabile incoscienza è causa dell’universale dolore, forse più dell’assurda rapacità dei privilegiati.
All’osservatore imparziale non è affatto difficile constatare che, lungi dall’essere la benefica attività vantata dai poeti, il lavoro nella attuale atmosfera è ripugnante. Simile è la differenza fra sogno e realtà per quanto riguarda i proletari.
Guardateli alle sette del mattino sfilare nelle strade, figure tetre e tristi, spezzate dal compito aborrito, non danno nemmeno l’impressione vigorosa delle bestie da soma. Guardateli nei giorni di festa, andarsene in bande chiassose urlando fra singulti e conati le scadenti e oscene canzoni popolari…
C’è chi davanti a simili visioni chiude volontariamente gli occhi. Quanto a noi, ci piacerebbe vedere gli uomini per quel che sono. E quando socialisti e sindacalisti vengono a raccontarci dei meriti e delle speranze favolose del «proletariato cosciente», noi rispondiamo:
– È un grande errore credere che il fattore economico regga la vita sociale. La produzione dipende come tutti i rapporti degli uomini fra loro dalla mentalità generale. E non è potere delle masse, che la loro idiozia ha permesso di asservire per secoli, modificare i quadri dell’attività sociale.
– Gli operai non sono né più né meno simpatici dei loro padroni. Simile è la loro incoscienza, più triste la loro decadenza. Sono gli schiavi che fanno i signori, i popoli i governi, gli operai i padroni.
Non saprebbero costruire altro. Non saprebbero vivere altrimenti.

Come si stabilisce l'autorità




Come si stabilisce l'autorità


Thugater mungeva le mucche di suo padre e mungeva bene: il latte che essa portava a casa dava maggior burro di quanto ne dava il latte che portavano i suoi fratelli. Te ne dirò la ragione... e sta attenta Fanny, così potrai sapere in che modo devi agire, nel caso in cui tu debba mungere. Io ti parlo di ciò, non per incitarti a mungere come Thugater, ma pe
r edificarti coll'esempio dei suoi fratelli che, a mungere meno bene, agivano meglio di lei, o, per meglio dire, con più intelligenza.
Prima che le mungitrici arrivino al pascolo, anzi molto tempo prima, le vacche aspettavano alla barriera, vogliose di essere sbarazzate del gran latte che esse accumulavano, in realtà, pei loro vitelli. Ma gli uomini mangiano questi vitelli perché sentono di averne l'attitudine, e allora nelle mammelle v'è latte in troppa gran quantità. Che avviene perciò mentre le vacche dal viso stupito aspettano alla barriera? In questa attesa la parte più leggera del latte, panna, grasso, olio... ritorna in alto, allontanandosi dalla mammella.
Se si munge pazientemente sino alla fine si ottiene un latte grasso, se invece si affretta vi si lascia la panna.
Thugater non aveva nessuna fretta, e i suoi fratelli facevano presto col pretesto che avevano diritto di far altro che mungere le vacche del loro padre.
— Mia madre mi ha insegnato a tender l'arco e a lanciare freccie, diceva uno dei fratelli, io posso dunque vivere di caccia e voglio percorrere la terra e lavorare per conto mio.
— A me ha insegnato a pescare, diceva il secondo. Io sarei ben sciocco di continuare a mungere per gli altri.
— Mi ha insegnato a costruire una barca, esclamava il terzo. Io abbatto un albero e mi vi siedo sopra, in mezzo all'acqua. Voglio sapere ciò che v'è dall'altra parte.
— Io vorrei coabitare con la bionda Gune, dichiarava il quarto, per avere una casa con dei mungitori che mungano per me.
Così ogni fratello aveva un desiderio, una volontà, ed erano tanto preoccupati dei loro progetti che non si davano il tempo di raccogliere la panna, che le vacche melanconicamente ritenevano senza profitto per alcuno.
Ma Thugater mungeva fino all'ultima goccia.
— Padre, esclamarono un giorno i fratelli, noi partiamo!
— E chi mungerà? domandò il padre.
— Ma... Thugater?
— E se anche ad essa prendesse la fantasia di navigare, pescare, cacciare, vedere il mondo? Se le viene l'idea di coabitare con un biondo o con un bruno, per avere una casa sua e tutti i suoi arredi? Io posso fare senza di voi, ma non di lei, perché il latte che essa munge è migliore del vostro.
Allora i figli, dopo aver riflettuto, risposero:
— Padre, non insegnarle nulla! essa continuerà così a mungere per tutta la vita. Non insegnarle come la corda tesa getti la freccia, ed essa non avrà la volontà di cacciare. Lasciala ignorare che i pesci abboccano all'amo quando è nascosto in un'esca, ed essa non penserà a lanciare ami o reti. Non insegnarle come si scava un albero sul quale si può passare dall'altra parte del lago e allora essa non si curerà di vedere la riva opposta. Non farle mai sapere come, con un biondo o con un bruno, essa potrebbe avere una casa sua e tutti i suoi arredi. Non farle mai sapere nulla di tutto ciò ed essa resterà presso di te, e il latte delle tue vacche sarà sempre il migliore. Ma lascia partire i tuoi figli ognuno secondo la sua volontà!
Così parlarono i figli. Ma il padre, che era un uomo avveduto, riprese:
— Chi le impedirà di sapere ciò che io non le insegnerò? Che cosa avverrà, allorché essa vedrà la libellula azzurra posata su di un ramo galleggiante? Allorché, per caso, un filo teso sul suo telaio rilasciandosi d'un tratto, lancerà con forza la navetta? Allorché, in riva a un ruscello, essa osserverà il pesce che volendo, con ghiottoneria maldestra, acchiappare il verme dibattendosi, resta preso alla spinosa nodosità di un ramo? E, infine, allorché essa troverà il nido che le allodole si costruiscono sugli arbusti, al mese di maggio?
Di nuovo i figli rifletterono, poi dissero:
— Ciò non le rivelerà nulla, padre! Essa è troppo sciocca perché il suo sapere le suggerisca un desiderio. Noi stessi non avremmo saputo nulla di ciò se tu non ci avessi detto niente.
Ma il padre replicò:
— No, essa non è sciocca! Io temo che impari da sé ciò che voi non avreste saputo senza di me. Thugater non è sciocca!
I figli, dopo una meditazione – più profonda questa volta – dissero:
— Padre, dille che sapere, capire e desiderare... sono peccati per una ragazza!
Questa volta il prudentissimo padre fu soddisfatto. Lasciò partire i suoi figli per la pesca, la caccia, le avventure, il matrimonio.
Ma proibì a Thugater di capire, sapere e desiderare, ed essa continuò a mungere fino alla morte.

NB: Thugater = mungitore.

[Il grido della folla, anno I, n. 35 del 18 dicembre 1902]

venerdì 26 ottobre 2012

Pane e lavoro




Pane e lavoro


— Vogliamo pane e lavoro!
Vogliamo pane e lavoro? Vedete un po’. Quel grido da un pezzo non lo udivo più e da altrettanto tempo non avevo più avuto l’occasione di leggerlo sui giornali. Da parecchio tempo aveva cessato di essere il grido, come dire?... di battaglia dei disoccupati italiani. Altre forme di manifestazioni e, per conseguenza, altre grida erano subentrate a quelle vecchie di tanti lustri. Ma ora siamo da capo, il giro si ripete.

— Vogliamo pane e lavoro!
È il grido della miseria, d’accordo: ma mi pare anche il grido della rassegnazione, e per questo non mi piace. Che lo si facesse intendere molti anni addietro, posso ancora comprenderlo; ma oggi come oggi non lo comprendo più. Non amo le corse viziose, e neppure coloro, individui e collettività, che dopo aver percorso un dato tragitto si arrestano per ritornare da capo. Amo meglio si vada sempre avanti, perché sempre avanti vuole andare il progresso.
Correre in giro; com’è noioso! Lo comprese perfino un carabiniere — e dico poco! — quando, stanco delle manovre alle quali lo condannavano i suoi superiori per sciogliere gli assembramenti dei disoccupati, disse: — In questo modo, a forza di correre in giro su noi stessi, ci ubriachiamo senza bisogno di vino.
Oggigiorno l’operaio non può, non deve più limitarsi a chiedere pane e lavoro. Il pane è buono, sì, per sfamarsi, ma non è tutto: col pane ci vuole la pietanza; con la pietanza ci vuole lo svago, e col lavoro ci vuole il riposo, il diletto, lo studio, in breve, tutto quanto può nutrire un corpo e alimentare una mente. L’uomo non è una macchina da potersi rimettere in moto grazie a una data quantità di carbone, è qualche cosa di più e di meglio; è un organismo complesso che ha diritto alla vita.

Quindi, ripeto, non amo si gridi:
— Vogliamo pane e lavoro!
Sono disoccupati, gli operai? Hanno esaurito le magre risorse? La fame batte alle loro porte? Si levino, perdio!, reclamino, esigano il diritto alla vita integrale.
Si accontenterebbe forse, il borghese, di solo pane? No. E allora, perché dovrebbe accontentarsene l’operaio? La diversità di classe implica una diversità essenziale di bisogni materiali e morali? No. Siamo tutti egualmente figli di una donna, sia che siamo nati in un palazzo o in una stamberga, con o senza genitori ricchi.
Le condizioni sociali, buone per gli uni e cattive per gli altri, ci sono imposte da forze estranee alla nostra conformazione naturale, perciò sono profondamente immorali. Se volenti le accettassimo, congiureremmo contro noi stessi. Appunto per questo dobbiamo ribellarci ad esse; non già in nome del pane solamente, ma in nome del diritto che abbiamo di vivere.
Il prete, dal pergamo, può invocare il suo Dio, perché dia ai fedeli il pane quotidiano... ed a lui la lauta mensa; i fedeli possono accontentarsi della invocazione istrionica. Ma io non sono né prete, né fedele.
Il politicante, dalla tribuna parlamentare, può chiedere allo Stato qualche lavoro per i suoi elettori, e gli elettori possono accettarlo contenti. Ma io non sono né politicante, né elettore. Dunque rifiuto il pane di Dio ed il lavoro dello Stato. 
Una cosa sola voglio: vivere.
È delitto volerlo? Se sì, sono lieto di delinquere.


( DA MACHETE)

Come smettere di lavorare in dieci punti




Come smettere di lavorare in dieci punti



1 Volerlo. Tutto ciò che può fortificare tale volontà è da prendere in considerazione. Pericolo per la salute di tutti e particolarmente per la creatività: servilismo, scarsità di incendi, salario.

2 Fermarsi del tutto. Le mezze misure sono inefficaci, alla minima voglia di consumare il lavoratore aumenta le sue dosi. L’esperienza dimostra che è più facil
e smettere radicalmente di colpo piuttosto che progressivamente.

3 Scegliere il momento. Preferibilmente subito. Il periodo attuale, in tutta la miseria intercambiabile delle sue condizioni di vita, è particolarmente favorevole. In seguito ad un licenziamento, dove spesso il bisogno immediato svanisce da sé, si deciderà di non riprendere.

4 Attorniarsi di persone favorevoli. Smettere insieme al proprio congiunto, ai propri amici, ai propri colleghi di lavoro, aiutarsi psicologicamente l’un l’altro è efficace. Questo permette spesso nel contempo di non vivere in un’atmosfera di paura (da evitare al massimo durante la disintossicazione).
Far sapere al proprio ambiente circostante che si smette di lavorare può aiutare.

5 Sopprimere le tentazioni. Far sparire il lavoro e i suoi accessori (automobile, televisione, sveglia) dal proprio ambiente. Non avere più orologi attorno, né su di sé, né sugli altri. Non mettersi in situazioni in cui si ha l’abitudine di riempire il vuoto dei tempi morti con una occupazione a scelta (bricolage, cattive letture, cinema, shopping). Evitare i trasporti pubblici e certe festività così come i meeting politici, in cui è comune la docile rinuncia.

6 Influenzare il conscio e il subconscio affermando la propria decisione di smettere di lavorare, insistendo positivamente sui benefici attesi. Non esitare a ripetere ad alta voce, più volte al giorno, «scelgo di smettere di lavorare e la mia salute migliora di giorno in giorno», o qualsiasi altra formula positiva si scelga.

7 Respirare profondamente per rilassarsi e ossigenare il sistema nervoso. In effetti le cellule nervose consumano una quantità di ossigeno quattro volte superiore rispetto alle altre cellule del corpo: ecco perché la mancanza d’aria le deprime in modo particolare. Fare tre o quattro respiri profondi non appena si sente il bisogno di respirare, lentamente e facendo svuotare bene i polmoni. Le partenze e i cambiamenti d’aria sono
vivamente consigliati.

8 Rifiutare ogni miglioramento per dedicarsi solo alla totalità. Parlare fuori dai denti. Sovraccaricare l’entusiasmo, soprattutto i primi giorni; ricercare gli stimoli più eccitanti (rottura di tutti i freni sociali), gli argomenti forti e indigesti davanti ai vostri capi. Bere tra i pasti per attivare l’eliminazione della tetraggine. Dare priorità alle attività più sane: quelle a cui partecipare direttamente; ai bisogni naturali, vitali, ricchi di piacere (amore); ai momenti completi, ricchi di soddisfazione (partenze, feste). Le sieste sono importanti per evitare il nervosismo, frequente nel corso della disintossicazione. Si possono aggiungere certe letture sovversive, per rispondere al bisogno assai importante di distruzione del sistema durante la cura disintossicante. Ridurre lo stress, i timori e le esitazioni per evitare di perdere peso.

9 Dormire a sufficienza. Coricarsi tardi, perché le ore dopo la mezzanotte sono quelle in cui tutto è possibile.

10 Attivare la circolazione delle idee più radicali e il loro superamento, per lottare contro le incertezze, frequenti durante la cessazione del salariato.

E se volete rimanere vittoriosi, sappiate rifiutare la prima offerta d’impiego.