FRA
I FUORUSCITI
RIMASI un anno nel riformatorio, passando sei
mesi nell’orribile cella che mai dimenticherò e sei, ammalato, in un cubicolo
dell’infermeria. Poi uscii perché, per i processi politici, ottenni la libertà
provvisoria e mio padre, spinto dai nonni e dalla moglie, chiese al Presidente
del Tribunale che fossi riconsegnato a lui, quantunque riconosciuto incorreggibile
dalla famiglia e dalla legge.
Accompagnato
dal professore che mi catechizzò da Torino fino a Caserta, rientrai in questa
città e vi trascorsi due anni sotto il tetto domestico al quale non ero
ritornato col pentimento del figliol prodigo. Ma infine, stanco delle
persecuzioni politiche e dei litigi col papà, ottusamente tirannico, mi
trasferii a Venezia. Dopo qualche mese seppi che era stata fissata alla Corte d’Assise
di Voghera la discussione dei miei processi e, per sfuggire agli effetti della
condanna, presi il largo e raggiunsi, dopo non poche peripezie, la Francia.
Quando
arrivai sul suolo della repubblica, la mia anima era ancora inebriata
dall’aspra bellezza delle Alpi e dall’altera solitudine delle vette che avevo
superato con la guida di un contrabbandiere. Però in tasca non conservavo che
un mazzolino di edelweiss raccolto nella neve a circa tremila metri d’altezza.
I pochi biglietti da cento che possedevo se n’erano andati per le spese di
viaggio ed il pagamento della guida e non sapevo come fare per raggiungere,
senza mezzi, Parigi.
A
Grenoble trovai un operaio italiano, brav’uomo, che mi accompagnò al circolo
comunista. Quando entrai c’era una riunione e, alla folla pigiata in una sala
non troppo vasta, parlava un piemontese, il capoccia dei bolscevichi fuorusciti
nell’Isére. Sosteneva la necessità di coalizzarsi contro il pericolo fascista e
di formare un fronte unico rivoluzionario per abbattere Mussolini.
«
Tutti gli operai — diceva — siano socialisti o comunisti, sindacalisti o
anarchici, debbono unirsi in un sol fascio e dimenticare le divergenze ideali
che li separano. Debbono intendersi con spirito fraterno, aiutarsi a vicenda e
lottare l’uno al fianco dell’altro per vincere la reazione borghese che infuria
in Italia ».
L’uditorio
salutava con applausi fragorosi queste parole ed il tribuno continuava il
discorso trascinandosi nei soliti luoghi comuni della fraseologia bolscevica.
Io non avevo mangiato dal giorno innanzi e non sapevo dove avrei passato la
notte; la testa mi girava come una trottola e quella concione che non finiva
mai aumentava il mio malessere. Finalmente il capoccia tacque, gli parlarono di
me e volle conoscermi.
« Sei
un compagno anarchico fuggito dall’Italia ? — mi chiese — Hai dei processi
pendenti? Bene, bene, ma qui sei al sicuro. Anarchici però non ve ne sono a
Grenoble. Almeno io non ne conosco. Vuol dire che, se rimarrai qui, starai con
noi. Oggi dobbiamo unirci come fratelli contro il nemico fascista ».
Altri
comunisti si avvicinarono e mi rivolsero la parola. Mentre discorrevo con loro
l’operaio che m’aveva accompagnato chiamò in disparte il capoccia e, di sua
iniziativa, prima che potessi impedirlo, chiese un aiuto per me ». E’ una
vittima politica che non ha soldi per andare a Parigi. Diamoglieli noi » disse.
« Ma
sei pazzo — rispose l’altro — E’ un anarchico, un nostro nemico. E vuoi che
l’aiutiamo ? ».
« Però
tu stesso hai detto ora che dobbiamo affratellarci con gli anarchici e coi
socialisti per combattere i fascisti » replicò l’operaio.
« Si,
l’ho detto perché è necessario che vengano con noi, contro il fascismo. Ma dopo
li scanneremo immediatamente. Sai Lenin che cosa ha detto ? « Bisogna che ci
serviamo degli anarchici durante la rivoluzione e che li fuciliamo subito dopo
». Però anche subito se possiamo dargli un colpetto alle spalle, senza clic se
ne accorgano, è tanto di guadagnato. Questa è la politica marxista, mio caro ».
I due
parlavano a bassa voce per non farmi sentire; ma io, che ho buon udito,
ascoltavo tutto. L’operaio che non condivideva la doppiezza del capo, tornò
alla carica.
« Io
non credo che sia bene lasciarlo così, in mezzo alla strada. Non ha da mangiare
e non sa dove dormire. Come vuoi che faccia ? ».
« Che
s’arrangi — ribatté l’altro — Sono contento che si trovi negli impicci. Così si
convincerà che è necessaria una disciplina nella lotta rivoluzionaria ».
A
questo punto, non riuscendo più a frenarmi, raggiunsi i due e, rivolgendomi al
capo, dissi:
«Che
voi comunisti siete settari ed ipocriti lo sapevo da un pezzo. Ma ho piacere di
constatare ancora una volta la vostra immensa vigliaccheria. Ci chiamate in
aiuto, con un sorrisetto mellifluo, e tenete pronto, sotto la giacca, il
coltello per colpirci. Però qui non farete con noi come avete fatto in Russia.
Qui vi romperemo le corna. Sappi, per tua norma, mio piccolo Lenin, che se
anche mi avessi offerto l’aiuto che, di sua iniziativa l’amico ti ha chiesto
per me, io non l’avrei accettato .Però tu che ti rallegri delle difficoltà
nelle quali si trovo un ribelle, fuggito dall’Italia con tre processi di Corte
d’Assise sulle spalle, tu non sei un rivoluzionario ma una carogna ».
Voltai
le spalle e andai via. Passai la notte in un edificio in costruzione, seduto su
di una pietra. L’indomani riuscii a farmi assumere come manovale dal capomastro
dei muratori e potei mangiare. Poi conobbi un anarchico emiliano che mi ospitò
in una soffitta. Dopo una quindicina di giorni lasciai Grenoble e mi trasferii
a Lione.
Giunsi
a Parigi ai primi di ottobre. Trovai molti anarchici che avevo conosciuto in
Italia e mi presentarono ai compagni francesi. Nella redazione de « Le
Libertaire » m’incontrai col vecchio Faure e con André Colomer che allora
dirigeva il giornale. Frequentai gli ambienti dei fuorusciti e in un caffè di
piazza Combat ebbi la ventura di ritrovare Stefano Kolnar che era stato un
pezzo grosso in Ungheria, ai tempi di Bela Kun.
Collaborai
al periodico libertario in lingua italiana «La Rivendicazione» che usciva nella
capitale francese. Però le mie idee individualiste mi misero ben presto in
rotta cogli anarchici comunisti che, capitanati dai Vezzana, dai Mosca, dagli
Erasmo Abate, avevano formato nella «Maison Comune», in rue de Bretagne, una
chiesa malatestiana e dogmatica.
lo che
avevo osato polemizzare con Malatesta sulle colonne di «Umanità Nova»,
difendendo l’individualismo contro il comunismo, ero la bestia nera di quei
settari fanatici. Quando arrivò dopo pochi giorni. Armando Borghi con la
piccola e gialla D’Andrea e si presentò alla redazione de «La Libertaire»
scortato dal cavaliere di cappa e spada Meschi, ci salutammo appena. Ogni
domenica, alla « Maison comune » litigavo con i fedeli di Sant’Enrico ai quali
ripetevo in tutti i toni che la loro Unione Anarchica era un’assurdità e una
ridicolaggine e che il comunismo libertario costituiva un equivoco compromesso
fra l’autoritarismo bolscevico e l’individualismo stirneriano. Un giorno gli errichisti
si scagliarono contro me per aggredirmi; e Pietro Bruzzi, che è stato poi
fucilato dai nazisti, ricevette un cazzotto da Mosca perché mi dava ragione.
Inoltre
criticavo Malatesta per l’atteggiamento, non troppo simpatico, assunto nei
riguardi dei bombardieri del Diana. Infatti egli era stato arrestato, qualche
mese dopo me, come istigatore alla rivoluzione. In Italia s’era già scatenata
rabbiosamente le reazione fascista, resa possibile dalla viltà dei socialisti
che non avevano saputo fare le barricate; e questa reazione, aiutata e
sovvenzionata dalla borghesia e dal suo Stato, aveva sentito il bisogno di
togliere subito di circolazione l’unico rivoluzionario di una certa serietà che
vi fosse nella penisola. Malatesta, carcerato da parecchi mesi, aveva iniziato
a S. Vittore lo sciopero della fame per protestare contro la magistratura che
non si decideva mai a fissare la data del suo processo. Ma la magistratura non cedeva
e Malatesta, dopo vari giorni di digiuno, estenuato dalla debolezza, stava per
morire.
Nessuno
si levava in suo favore. Il proletariato, l’eterno pecorone, cornuto e belante,
che s’era ammantato colla criniera del leone per un solo istante ma che, poi,
avvilito dall’indecisione e dalla codardia dei suoi capi e terrorizzato dalle
manganellate fasciste, era ritornato umile e servo come prima, non si scuoteva
dall’inerzia e lasciava che il vecchio agitatore morisse di fame in galera.
I
socialisti che s’erano divisi dai comunisti, non pensavano ad altro che a
cantarsi corna tra loro. Gramsci dalle colonne de «L’Ordine nuovo» rovesciava
contro Nenni tutti gli aggettivi qualificativi pescati nel dizionario dei
bordelli, e Nenni (l’attuale, strenuo sostenitore dei comunisti) rispondeva a
Gramsci e ai bolscevichi, dalle colonne de «L’Avanti». servendosi degli epiteti
che usano le ciane nei litigi più feroci. Così tra le accuse che si lanciavano
reciprocamente, la lotta intestina che li dilaniava e la reazione che li
indeboliva, non pensavano, nemmeno lontanamente, a muovere un dito in difesa di
Malatesta, E, d’altronde, ad essi non avrebbe fatto dispiacere se un negatore
dello Stato fosse scomparso da questa terra.
Gli
anarchici organizzati facevano molto rumore ma niente di concreto. Gigi
Damiani, dalle colonne di « Umanità Nova », spronava gli altri all’azione
dichiarando che, se nessuno si fosse mosso in difesa del vecchio, egli avrebbe
spezzato la penna come protesta. Ma nessuno si muoveva e Damiani non spezzava
la penna proprio perché essa gli serviva allora, come gli serve oggi, per
mantenersi uno stipendio di giornalista anarchico.
Gli
unici che intervennero in favore di Malatesta furono gli individualisti. Quegli
individualisti che lui aveva sempre combattuto e schernito. Ed agirono non solo
per difendere un povero vecchio abbandonato da lutti, dopo una intera vita di
lotta rivoluzionaria, ma anche perché credettero colpire sia l’imbelle
rassegnazione delle folle che tolleravano il martirio del loro apostolo, sia la
bieca ferocia della classe dominante che voleva, con la violenza, mantenere il
suo potere.
Boldrini,
Aguggini e Mariani fecero esplodere una bomba nel teatro Diana di Milano. Vi
furono morti e feriti. L’opinione pubblica s’indignò contro gli anarchici.
Malatesta, appena conosciuta la notizia, condannò l’attentato e, in segno di
protesta contr’esso, interruppe lo sciopero della fame.
Con
questa scappatoia si salvò. Altrimenti non avrebbe potuto riprendere a mangiare
senza coprirsi di ridicolo e demolire la sua fama di eroe che preferisce morire
piuttosto che cedere. E sempre condannando l’attentato del Diana, compiuto da «
disperati che non sono anarchici perché l’anarchico crede nell’avvenire », egli
si presentò alla Corte d’Assise di Milano, sotto il vello dell’utopista
rifuggente dal terrore, e fu assolto.
Ma
Mariani, Boldrini e Aguggini, che avevano agito in sua difesa, subirono la
condanna all’ergastolo. E furono condannati tanto più duramente in quanto, nel
pubblico, tutti dissero che il loro atto era stato cosi infame da suscitare la
riprovazione dello stesso Malatesta. E in carcere Boldrini e Aguggini sono
morti; ed il povero Mariani ne è uscito dopo 25 anni, stremato e fiaccato, ed è
caduto nelle mani dei seguaci di Sant’Errico i quali lo hanno costretto a
rinnegare il suo gesto.
Le
considerazioni non favorevoli all’atteggiamento di Malatesta nei riguardi dei
terroristi, le esponevo francamente nelle riunioni della «Maison Comune» attirando
contro me le proteste e le ire degli idolatri imbecilli. Mi dicevano costoro
che Errico era stato sempre coerente perché sempre aveva condannato la rivolta
individuale. Ed io rispondevo che, nel caso del Diana, gli era stato più che
utile bollare il terrorismo. Litigavamo ferocemente e, molte volte, giungemmo
alle mani.
Infine
però avvenne un altro fatto che acuì il mio dissidio coi fuorusciti d’ogni
colore.
* * *
Era
stato ammazzato un tale che aveva fatto la spia o che era stato sospettato
d’averla fatta.
I
giustizieri, com’essi si definivano, volevano infliggere il medesimo trattamento
anche alla sua amante. Vero è che non possedevano nessuna prova e, nemmeno il
più lontano indizio, che essa avesse cooperato alla losca attività del defunto.
Ma era la sua amica, e bastava. Solo per questa ragione doveva essere spia
anche lei. E, anche a lei, bisognava fare la festa.
Cercai,
in un equivoco caffè di piazza Combat, di dimostrare a coloro che mi parlavano
del fatto l’assurdità e la ferocia dell’azione organizzata a danno di una
persona che poteva essere innocente. Ma tutti i miei argomenti non bastarono a
vincere la testarda ottusità di due imbianchini bolscevichi e di un manovale
malatestiano. Alla fine, in uno scatto d’indignazione che non riuscii a
reprimere, dichiarai che l’omicidio che volevano compiere, era per me, schifoso
e che avrei cercato impedirlo anche a rischio della mia pelle. Il manovale allora
mi lanciò uno sguardo truce. Poi le sue labbra si contrassero in un sogghigno
e, con tono ironico, mi disse:
« Già,
vuoi fare il cavalleresco ... Come sei buffo ! Ti atteggi a don Chisciotte. Ma,
se proprio ci tieni, ti darò io un’occasione per appagare il donchisciottismo.
I compagni hanno scoperto che la femmina bazzica in un caffè della Nation. E li
andranno a pescarla per infliggerle la lezione che merita. Tu, che sei tanto
cavaliere, vai in quel caffè e proteggila. La riconoscerai facilmente: è una
bruna, pallida, vestita di bleù e si chiama Irene. Mettiti al suo fianco e
sentirai che busse».
«Questa
sera ci andrò, non dubitare. E mandami pure i migliori cekisti cosi farò fare
loro la figura di Misiano in Germania. A questa sera, dunque ».
Mi
feci dare l’indirizzo del caffè, mi procurai una buona pistola e fui preciso
all’appuntamento. La trovai in un angolo, seduta accanto ad un tavolo sul quale
un giornale gualcito testimoniava il nervosismo delle mani che l’avevano appena
lasciato. Sotto la falda geometrica del cappello che copriva quasi tutta la
fronte, gli occhi neri avevano un non so che di misterioso. Lucevano. Nel
pallore del viso la bocca rossa spiccava, infondeva un desiderio sensuale, il
bisogno di baciarla, di morderla.
Fuori,
al di là dei vetri, il nebbione infittiva, avvolgendo la piazza nella sua
crescente opacità. Lei guardava la porta come se attendesse qualcuno e, ogni
tanto, si stringeva nel paltoncino scuro con una mossa freddolosa. Poteva avere
vent’anni o, al massimo, ventidue; ma la sua posa tradiva la donna di vita, la
venditrice di amore, turbata e inquieta per mancanza di clienti.
Ed era
questa poverina che i fuorusciti volevano aggredire. Era lei la spia, la
reproba...
«
Siete voi Irene ? ».
« Si,
mi conoscete ? » e si volse con la premura che un probabile invito le inspirava.
«
Prendete qualche cosa ? ».
«
Grazie, un caffè ».
Dopo
poco seppi tutto di lei. Il morto era il suo amante, avevano vissuto insieme
due mesi. Lui la manteneva, non le faceva battere più il marciapiede al quale
era ritornata, per miseria, dopo il dramma del Faubourg Saint Antoine. Di
politica non s’intendeva affatto: non professava né il fascismo, né il
comunismo, nulla. Sentiva solo la stanchezza della vita che aveva dovuto
riprendere e rimpiangeva la quiete dell’appartamento perduto.
«E non
temete che quelli che hanno ucciso il vostro amico possano fare qualche cosa
anche a voi? ».
« A
me. Perché? Io sono una donna, non entro nei loro fatti. Poi sono francese, di
Cannes. Non ho niente a che vedere con le questioni degli italiani ».
« Ma
voi avete cercato difendere il vostro amico quando l’hanno aggredito ».
« Io?
Ho visto quei quattro che si sono avvicinati al mio tavolo, minacciando lui. Ho
cercato calmarli. Poi gli hanno dato addosso ed ho avuto paura, tanta paura.
Sono fuggita ».
Ricordando
la scena tragica era divenuta più pallida ancora.
Nel
caffè non rimanevano che pochi clienti. Un cameriere, avvicinato ai vetri,
contava nella tasca le mance guadagnate. Fuori la nebbia si confondeva con la
sera e in mezzo alla piazza la statua della Nazione, nella vasca dei
coccodrilli, veniva come un punto confuso.
La
porta si aprì. Tre individui entrarono. Sentii istintivamente il pericolo. Non
li conoscevo ma il loro tipo italiano non mi sfuggì. Uno specialmente aveva una
faccia truce che ricordo ancora. Sedettero al tavolo accanto al nostro e ci
guardarono fissamente.
Il
cameriere s’era allontanato. Nel caffè semideserto non apparivano che quattro o
cinque persone, tutte lontane da noi. I nuovi arrivati sembravano compiaciuti
della situazione favorevole.
«
Irene » chiamò uno di loro.
«Non
rispondere » le dissi piano. Poi continuai in italiano:
«
Guarda, Irene, la spesa che ho fatto oggi. Ti piace questo gingillo ?
Ho
l’idea che questa sera qualcuno lo proverà ».
Estrassi
la pistola dalla tasca e la poggiai sul tavolo.
« Ma
...» fece la ragazza spaventata.
« Taci
— la interruppi bruscamente — vieni via ».
Rimisi
la pistola in tasca fissando negli occhi i tre che non perdevano nessuno dei
miei gesti. Poi, presa sotto braccio la donna, la condussi fuori. Nessuno dei
tre si mosse. Nessuno ardì seguirci.
In un
ristorante lontano, dove le offrii la cena, la misi al corrente del pericolo.
Le raccomandai di non frequentare più i luoghi in cui era conosciuta e di far
perdere le sue tracce. Poi le diedi i pochi franchi che ancora mi rimanevano,
dopo pagato il conto. Non volli che perdesse la sera.
Quando,
riconoscente e stupita, mi chiese se l’accompagnavo in albergo:
« No,
non posso — risposi — sono atteso. Debbo lasciarti ».
Avevo
tanto desiderio di lei. Ma non intendevo farmi pagare la protezione.
Enzo Martucci "La setta rossa"
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