lunedì 15 ottobre 2012

FRA I FUORUSCITI




FRA I FUORUSCITI

RIMASI un anno nel riformatorio, passando sei mesi nell’orribile cella che mai dimenticherò e sei, ammalato, in un cubicolo dell’infermeria. Poi uscii perché, per i processi politici, ottenni la libertà provvisoria e mio padre, spinto dai nonni e dalla moglie, chiese al Presidente del Tribunale che fossi riconsegnato a lui, quantunque riconosciuto incorreggibile dalla famiglia e dalla legge.
Accompagnato dal professore che mi catechizzò da Torino fino a Caserta, rientrai in questa città e vi trascorsi due anni sotto il tetto domestico al quale non ero ritornato col pentimento del figliol prodigo. Ma infine, stanco delle persecuzioni politiche e dei litigi col papà, ottusamente tirannico, mi trasferii a Venezia. Dopo qualche mese seppi che era stata fissata alla Corte d’Assise di Voghera la discussione dei miei processi e, per sfuggire agli effetti della condanna, presi il largo e raggiunsi, dopo non poche peripezie, la Francia.
Quando arrivai sul suolo della repubblica, la mia anima era ancora inebriata dall’aspra bellezza delle Alpi e dall’altera solitudine delle vette che avevo superato con la guida di un contrabbandiere. Però in tasca non conservavo che un mazzolino di edelweiss raccolto nella neve a circa tremila metri d’altezza. I pochi biglietti da cento che possedevo se n’erano andati per le spese di viaggio ed il pagamento della guida e non sapevo come fare per raggiungere, senza mezzi, Parigi.
A Grenoble trovai un operaio italiano, brav’uomo, che mi accompagnò al circolo comunista. Quando entrai c’era una riunione e, alla folla pigiata in una sala non troppo vasta, parlava un piemontese, il capoccia dei bolscevichi fuorusciti nell’Isére. Sosteneva la necessità di coalizzarsi contro il pericolo fascista e di formare un fronte unico rivoluzionario per abbattere Mussolini.
« Tutti gli operai — diceva — siano socialisti o comunisti, sindacalisti o anarchici, debbono unirsi in un sol fascio e dimenticare le divergenze ideali che li separano. Debbono intendersi con spirito fraterno, aiutarsi a vicenda e lottare l’uno al fianco dell’altro per vincere la reazione borghese che infuria in Italia ».
L’uditorio salutava con applausi fragorosi queste parole ed il tribuno continuava il discorso trascinandosi nei soliti luoghi comuni della fraseologia bolscevica. Io non avevo mangiato dal giorno innanzi e non sapevo dove avrei passato la notte; la testa mi girava come una trottola e quella concione che non finiva mai aumentava il mio malessere. Finalmente il capoccia tacque, gli parlarono di me e volle conoscermi.
« Sei un compagno anarchico fuggito dall’Italia ? — mi chiese — Hai dei processi pendenti? Bene, bene, ma qui sei al sicuro. Anarchici però non ve ne sono a Grenoble. Almeno io non ne conosco. Vuol dire che, se rimarrai qui, starai con noi. Oggi dobbiamo unirci come fratelli contro il nemico fascista ».
Altri comunisti si avvicinarono e mi rivolsero la parola. Mentre discorrevo con loro l’operaio che m’aveva accompagnato chiamò in disparte il capoccia e, di sua iniziativa, prima che potessi impedirlo, chiese un aiuto per me ». E’ una vittima politica che non ha soldi per andare a Parigi. Diamoglieli noi » disse.
« Ma sei pazzo — rispose l’altro — E’ un anarchico, un nostro nemico. E vuoi che l’aiutiamo ? ».
« Però tu stesso hai detto ora che dobbiamo affratellarci con gli anarchici e coi socialisti per combattere i fascisti » replicò l’operaio.
« Si, l’ho detto perché è necessario che vengano con noi, contro il fascismo. Ma dopo li scanneremo immediatamente. Sai Lenin che cosa ha detto ? « Bisogna che ci serviamo degli anarchici durante la rivoluzione e che li fuciliamo subito dopo ». Però anche subito se possiamo dargli un colpetto alle spalle, senza clic se ne accorgano, è tanto di guadagnato. Questa è la politica marxista, mio caro ».
I due parlavano a bassa voce per non farmi sentire; ma io, che ho buon udito, ascoltavo tutto. L’operaio che non condivideva la doppiezza del capo, tornò alla carica.
« Io non credo che sia bene lasciarlo così, in mezzo alla strada. Non ha da mangiare e non sa dove dormire. Come vuoi che faccia ? ».
« Che s’arrangi — ribatté l’altro — Sono contento che si trovi negli impicci. Così si convincerà che è necessaria una disciplina nella lotta rivoluzionaria ».
A questo punto, non riuscendo più a frenarmi, raggiunsi i due e, rivolgendomi al capo, dissi:
«Che voi comunisti siete settari ed ipocriti lo sapevo da un pezzo. Ma ho piacere di constatare ancora una volta la vostra immensa vigliaccheria. Ci chiamate in aiuto, con un sorrisetto mellifluo, e tenete pronto, sotto la giacca, il coltello per colpirci. Però qui non farete con noi come avete fatto in Russia. Qui vi romperemo le corna. Sappi, per tua norma, mio piccolo Lenin, che se anche mi avessi offerto l’aiuto che, di sua iniziativa l’amico ti ha chiesto per me, io non l’avrei accettato .Però tu che ti rallegri delle difficoltà nelle quali si trovo un ribelle, fuggito dall’Italia con tre processi di Corte d’Assise sulle spalle, tu non sei un rivoluzionario ma una carogna ».
Voltai le spalle e andai via. Passai la notte in un edificio in costruzione, seduto su di una pietra. L’indomani riuscii a farmi assumere come manovale dal capomastro dei muratori e potei mangiare. Poi conobbi un anarchico emiliano che mi ospitò in una soffitta. Dopo una quindicina di giorni lasciai Grenoble e mi trasferii a Lione.
Giunsi a Parigi ai primi di ottobre. Trovai molti anarchici che avevo conosciuto in Italia e mi presentarono ai compagni francesi. Nella redazione de « Le Libertaire » m’incontrai col vecchio Faure e con André Colomer che allora dirigeva il giornale. Frequentai gli ambienti dei fuorusciti e in un caffè di piazza Combat ebbi la ventura di ritrovare Stefano Kolnar che era stato un pezzo grosso in Ungheria, ai tempi di Bela Kun.
Collaborai al periodico libertario in lingua italiana «La Rivendicazione» che usciva nella capitale francese. Però le mie idee individualiste mi misero ben presto in rotta cogli anarchici comunisti che, capitanati dai Vezzana, dai Mosca, dagli Erasmo Abate, avevano formato nella «Maison Comune», in rue de Bretagne, una chiesa malatestiana e dogmatica.
lo che avevo osato polemizzare con Malatesta sulle colonne di «Umanità Nova», difendendo l’individualismo contro il comunismo, ero la bestia nera di quei settari fanatici. Quando arrivò dopo pochi giorni. Armando Borghi con la piccola e gialla D’Andrea e si presentò alla redazione de «La Libertaire» scortato dal cavaliere di cappa e spada Meschi, ci salutammo appena. Ogni domenica, alla « Maison comune » litigavo con i fedeli di Sant’Enrico ai quali ripetevo in tutti i toni che la loro Unione Anarchica era un’assurdità e una ridicolaggine e che il comunismo libertario costituiva un equivoco compromesso fra l’autoritarismo bolscevico e l’individualismo stirneriano. Un giorno gli errichisti si scagliarono contro me per aggredirmi; e Pietro Bruzzi, che è stato poi fucilato dai nazisti, ricevette un cazzotto da Mosca perché mi dava ragione.
Inoltre criticavo Malatesta per l’atteggiamento, non troppo simpatico, assunto nei riguardi dei bombardieri del Diana. Infatti egli era stato arrestato, qualche mese dopo me, come istigatore alla rivoluzione. In Italia s’era già scatenata rabbiosamente le reazione fascista, resa possibile dalla viltà dei socialisti che non avevano saputo fare le barricate; e questa reazione, aiutata e sovvenzionata dalla borghesia e dal suo Stato, aveva sentito il bisogno di togliere subito di circolazione l’unico rivoluzionario di una certa serietà che vi fosse nella penisola. Malatesta, carcerato da parecchi mesi, aveva iniziato a S. Vittore lo sciopero della fame per protestare contro la magistratura che non si decideva mai a fissare la data del suo processo. Ma la magistratura non cedeva e Malatesta, dopo vari giorni di digiuno, estenuato dalla debolezza, stava per morire.
Nessuno si levava in suo favore. Il proletariato, l’eterno pecorone, cornuto e belante, che s’era ammantato colla criniera del leone per un solo istante ma che, poi, avvilito dall’indecisione e dalla codardia dei suoi capi e terrorizzato dalle manganellate fasciste, era ritornato umile e servo come prima, non si scuoteva dall’inerzia e lasciava che il vecchio agitatore morisse di fame in galera.
I socialisti che s’erano divisi dai comunisti, non pensavano ad altro che a cantarsi corna tra loro. Gramsci dalle colonne de «L’Ordine nuovo» rovesciava contro Nenni tutti gli aggettivi qualificativi pescati nel dizionario dei bordelli, e Nenni (l’attuale, strenuo sostenitore dei comunisti) rispondeva a Gramsci e ai bolscevichi, dalle colonne de «L’Avanti». servendosi degli epiteti che usano le ciane nei litigi più feroci. Così tra le accuse che si lanciavano reciprocamente, la lotta intestina che li dilaniava e la reazione che li indeboliva, non pensavano, nemmeno lontanamente, a muovere un dito in difesa di Malatesta, E, d’altronde, ad essi non avrebbe fatto dispiacere se un negatore dello Stato fosse scomparso da questa terra.
Gli anarchici organizzati facevano molto rumore ma niente di concreto. Gigi Damiani, dalle colonne di « Umanità Nova », spronava gli altri all’azione dichiarando che, se nessuno si fosse mosso in difesa del vecchio, egli avrebbe spezzato la penna come protesta. Ma nessuno si muoveva e Damiani non spezzava la penna proprio perché essa gli serviva allora, come gli serve oggi, per mantenersi uno stipendio di giornalista anarchico.
Gli unici che intervennero in favore di Malatesta furono gli individualisti. Quegli individualisti che lui aveva sempre combattuto e schernito. Ed agirono non solo per difendere un povero vecchio abbandonato da lutti, dopo una intera vita di lotta rivoluzionaria, ma anche perché credettero colpire sia l’imbelle rassegnazione delle folle che tolleravano il martirio del loro apostolo, sia la bieca ferocia della classe dominante che voleva, con la violenza, mantenere il suo potere.
Boldrini, Aguggini e Mariani fecero esplodere una bomba nel teatro Diana di Milano. Vi furono morti e feriti. L’opinione pubblica s’indignò contro gli anarchici. Malatesta, appena conosciuta la notizia, condannò l’attentato e, in segno di protesta contr’esso, interruppe lo sciopero della fame.

Con questa scappatoia si salvò. Altrimenti non avrebbe potuto riprendere a mangiare senza coprirsi di ridicolo e demolire la sua fama di eroe che preferisce morire piuttosto che cedere. E sempre condannando l’attentato del Diana, compiuto da « disperati che non sono anarchici perché l’anarchico crede nell’avvenire », egli si presentò alla Corte d’Assise di Milano, sotto il vello dell’utopista rifuggente dal terrore, e fu assolto.
Ma Mariani, Boldrini e Aguggini, che avevano agito in sua difesa, subirono la condanna all’ergastolo. E furono condannati tanto più duramente in quanto, nel pubblico, tutti dissero che il loro atto era stato cosi infame da suscitare la riprovazione dello stesso Malatesta. E in carcere Boldrini e Aguggini sono morti; ed il povero Mariani ne è uscito dopo 25 anni, stremato e fiaccato, ed è caduto nelle mani dei seguaci di Sant’Errico i quali lo hanno costretto a rinnegare il suo gesto.

Le considerazioni non favorevoli all’atteggiamento di Malatesta nei riguardi dei terroristi, le esponevo francamente nelle riunioni della «Maison Comune» attirando contro me le proteste e le ire degli idolatri imbecilli. Mi dicevano costoro che Errico era stato sempre coerente perché sempre aveva condannato la rivolta individuale. Ed io rispondevo che, nel caso del Diana, gli era stato più che utile bollare il terrorismo. Litigavamo ferocemente e, molte volte, giungemmo alle mani.
Infine però avvenne un altro fatto che acuì il mio dissidio coi fuorusciti d’ogni colore.

* * *

Era stato ammazzato un tale che aveva fatto la spia o che era stato sospettato d’averla fatta.
I giustizieri, com’essi si definivano, volevano infliggere il medesimo trattamento anche alla sua amante. Vero è che non possedevano nessuna prova e, nemmeno il più lontano indizio, che essa avesse cooperato alla losca attività del defunto. Ma era la sua amica, e bastava. Solo per questa ragione doveva essere spia anche lei. E, anche a lei, bisognava fare la festa.
Cercai, in un equivoco caffè di piazza Combat, di dimostrare a coloro che mi parlavano del fatto l’assurdità e la ferocia dell’azione organizzata a danno di una persona che poteva essere innocente. Ma tutti i miei argomenti non bastarono a vincere la testarda ottusità di due imbianchini bolscevichi e di un manovale malatestiano. Alla fine, in uno scatto d’indignazione che non riuscii a reprimere, dichiarai che l’omicidio che volevano compiere, era per me, schifoso e che avrei cercato impedirlo anche a rischio della mia pelle. Il manovale allora mi lanciò uno sguardo truce. Poi le sue labbra si contrassero in un sogghigno e, con tono ironico, mi disse:
« Già, vuoi fare il cavalleresco ... Come sei buffo ! Ti atteggi a don Chisciotte. Ma, se proprio ci tieni, ti darò io un’occasione per appagare il donchisciottismo. I compagni hanno scoperto che la femmina bazzica in un caffè della Nation. E li andranno a pescarla per infliggerle la lezione che merita. Tu, che sei tanto cavaliere, vai in quel caffè e proteggila. La riconoscerai facilmente: è una bruna, pallida, vestita di bleù e si chiama Irene. Mettiti al suo fianco e sentirai che busse».
«Questa sera ci andrò, non dubitare. E mandami pure i migliori cekisti cosi farò fare loro la figura di Misiano in Germania. A questa sera, dunque ».
Mi feci dare l’indirizzo del caffè, mi procurai una buona pistola e fui preciso all’appuntamento. La trovai in un angolo, seduta accanto ad un tavolo sul quale un giornale gualcito testimoniava il nervosismo delle mani che l’avevano appena lasciato. Sotto la falda geometrica del cappello che copriva quasi tutta la fronte, gli occhi neri avevano un non so che di misterioso. Lucevano. Nel pallore del viso la bocca rossa spiccava, infondeva un desiderio sensuale, il bisogno di baciarla, di morderla.
Fuori, al di là dei vetri, il nebbione infittiva, avvolgendo la piazza nella sua crescente opacità. Lei guardava la porta come se attendesse qualcuno e, ogni tanto, si stringeva nel paltoncino scuro con una mossa freddolosa. Poteva avere vent’anni o, al massimo, ventidue; ma la sua posa tradiva la donna di vita, la venditrice di amore, turbata e inquieta per mancanza di clienti.
Ed era questa poverina che i fuorusciti volevano aggredire. Era lei la spia, la reproba...
« Siete voi Irene ? ».
« Si, mi conoscete ? » e si volse con la premura che un probabile invito le inspirava.
« Prendete qualche cosa ? ».
« Grazie, un caffè ».
Dopo poco seppi tutto di lei. Il morto era il suo amante, avevano vissuto insieme due mesi. Lui la manteneva, non le faceva battere più il marciapiede al quale era ritornata, per miseria, dopo il dramma del Faubourg Saint Antoine. Di politica non s’intendeva affatto: non professava né il fascismo, né il comunismo, nulla. Sentiva solo la stanchezza della vita che aveva dovuto riprendere e rimpiangeva la quiete dell’appartamento perduto.
«E non temete che quelli che hanno ucciso il vostro amico possano fare qualche cosa anche a voi? ».
« A me. Perché? Io sono una donna, non entro nei loro fatti. Poi sono francese, di Cannes. Non ho niente a che vedere con le questioni degli italiani ».
« Ma voi avete cercato difendere il vostro amico quando l’hanno aggredito ».
« Io? Ho visto quei quattro che si sono avvicinati al mio tavolo, minacciando lui. Ho cercato calmarli. Poi gli hanno dato addosso ed ho avuto paura, tanta paura. Sono fuggita ».
Ricordando la scena tragica era divenuta più pallida ancora.
Nel caffè non rimanevano che pochi clienti. Un cameriere, avvicinato ai vetri, contava nella tasca le mance guadagnate. Fuori la nebbia si confondeva con la sera e in mezzo alla piazza la statua della Nazione, nella vasca dei coccodrilli, veniva come un punto confuso.
La porta si aprì. Tre individui entrarono. Sentii istintivamente il pericolo. Non li conoscevo ma il loro tipo italiano non mi sfuggì. Uno specialmente aveva una faccia truce che ricordo ancora. Sedettero al tavolo accanto al nostro e ci guardarono fissamente.
Il cameriere s’era allontanato. Nel caffè semideserto non apparivano che quattro o cinque persone, tutte lontane da noi. I nuovi arrivati sembravano compiaciuti della situazione favorevole.
« Irene » chiamò uno di loro.
«Non rispondere » le dissi piano. Poi continuai in italiano:
« Guarda, Irene, la spesa che ho fatto oggi. Ti piace questo gingillo ?
Ho l’idea che questa sera qualcuno lo proverà ».
Estrassi la pistola dalla tasca e la poggiai sul tavolo.
« Ma ...» fece la ragazza spaventata.
« Taci — la interruppi bruscamente — vieni via ».
Rimisi la pistola in tasca fissando negli occhi i tre che non perdevano nessuno dei miei gesti. Poi, presa sotto braccio la donna, la condussi fuori. Nessuno dei tre si mosse. Nessuno ardì seguirci.
In un ristorante lontano, dove le offrii la cena, la misi al corrente del pericolo. Le raccomandai di non frequentare più i luoghi in cui era conosciuta e di far perdere le sue tracce. Poi le diedi i pochi franchi che ancora mi rimanevano, dopo pagato il conto. Non volli che perdesse la sera.
Quando, riconoscente e stupita, mi chiese se l’accompagnavo in albergo:
« No, non posso — risposi — sono atteso. Debbo lasciarti ».
Avevo tanto desiderio di lei. Ma non intendevo farmi pagare la protezione.

Enzo Martucci "La setta rossa"

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