sabato 27 ottobre 2012

L’ Operaismo




È una strana malattia di cui soffre quasi tutta l’intellettualità avanzata. Il marxismo e il sindacalismo ne sono forme incurabili. Parecchi anarchici ne soffrono. Consiste in una deformazione più o meno grave delle facoltà della percezione e del pensiero, deformazione che fa sì che agli occhi del malato tutto ciò che è operaio appare bello, buono, utile tanto quanto ciò che non lo è
 diventa brutto, cattivo, inutile, se non nocivo. Il triste abbrutito, dalla sagoma piegata, alcolizzato, tabagista, 
tubercolotico, che costituisce la massa dei buoni cittadini e delle persone oneste, diventa per incanto il lavoratore, il cui lavoro «augusto» fa vivere e progredire l’umanità, il cui sforzo magnanimo gli riserva uno splendido avvenire… Guardatevi dal far notare all’operaista che il suddetto operaio è dopo tutto il sostegno più sicuro dell’abominevole regime del Capitale e dell’Autorità, che sostiene e sancisce il servizio militare, il voto, il lavoro quotidiano.
Vi sentirete immediatamente trattare da individui retrogradi, dai pregiudizi borghesi e che non capiscono nulla di… sociologia!
Per quanto abbastanza numerose, le cause di questo stato d’animo sono facili da determinare. Al primo posto conviene mettere l’idea del lavoro «gesto augusto» poiché mantiene la vita; essendo il lavoro nobile per essenza, dicono gli spiriti semplici, nobile è il lavoratore. Ecco! Dimenticano solo una cosa; che la nobiltà di un’attività è una concezione del tutto convenzionale e relativa; che il lavoro teoricamente così bello è nella pratica comune brutto, abbrutente, demoralizzante; infine che un gesto qualsiasi non potrebbe essere intriso di bellezza quando chi lo compie è una povera bestia umana attanagliata dalla paura e dalla fame…
In tutti i tempi gli uomini si sono divertiti a concepire ideali di giustizia che si sforzavano invano di realizzare fra loro. Hanno sognato una giustizia a volte sovrumana, a volte naturale, a volte sociale; hanno sognato, ho detto, perché mai da nessuna parte questo sogno si è realizzato, e la vita non lo ha corroborato in niente. «La vita non è affatto giusta — ha detto Zola — è logica». Ma questo sentimento, profondamente radicato nelle mentalità, ha giocato e gioca un grande ruolo nei fenomeni sociali. Così il fatto che i produttori siano sprovvisti di tutto e condannati a condurre un’esistenza disseminata di privazioni, a profitto di una classe più forte e più intelligente, questo fatto è parso d’una ingiustizia flagrante. Tuttavia è nella logica naturale che il più forte sfrutti il più debole; ma questo sconvolge il nostro istinto di equità. Il risultato è che si è portati a considerare con simpatia le vittime dell’«ingiustizia sociale» — i produttori.
Infine la teoria marxista, che accorda al fattore economico un’importanza primordiale, è giunta a confermare l’idea del lavoro augusto aggiungendovi questa nuova concezione delle ricchezze per trasformare da cima a fondo la vita sociale su basi più razionali e l’operaio diventa il padrone dell’avvenire.
Sotto l’impulso di questi sentimenti e di questi pensieri, è nato l’operaismo.
Questo stato d’animo è certo una delle cause dell’infatuazione verso il sindacalismo. Entusiasmati dallo sforzo rapido delle associazioni operaie, cervelli evoluti hanno virato nel nuovo movimento della panacea universale. Il sindacalismo rispondeva a tutto, poteva tutto, prometteva tutto. Per gli uni, spettava a sagge e prudenti riforme migliorare senza rumore lo stato sociale. Per gli altri era la prima cellula della società futura, che avrebbe instaurato un bel mattino di sciopero generale.
Si è dovuto pervenire a più miti consigli. Ci si è accorti — per lo meno quelli non accecati dall’illusione — che i sindacati diventavano robusti e saggi, perdendo la voglia di mettere a soqquadro il mondo. Che spesso finivano per sprofondare nel legalismo e facevano parte delle ruote della vecchia società combattuta; che altre volte riuscivano solo a fondare classi di operai privilegiati, conservatori quanto i borghesi tanto vituperati. Infine, sono arrivati dei guastafeste a dire che per modificare l’ambiente non bastava raggruppare dei bruti, e che anche quando essi si fossero potentemente organizzati non avrebbero potuto creare nulla che fosse al di sopra della loro mentalità…
Ma l’operaismo non ha avuto solo assurdità sindacali come conseguenza. In certi gruppi ha suscitato eccessi ancora più ridicoli, come i pregiudizi scioccamente antiborghesi di qualche compagno che arriva a considerare come un segno di ortodossia sovversiva avere le mani grosse, callose, nerastre, essere vestiti di abiti impolverati ed esprimersi in termini di accurata volgarità — in una parola avere l’attitudine proletaria.
Del resto negli ambienti più colti, fra gli scrittori e gli artisti, si è convenuto di ammirare il proletario.
È sorta una letteratura che dipingeva in termini indignati le sofferenze della povera gente. I «martiri del lavoro» ebbero i loro cantori. E ci s’immaginava a poco a poco un tipo di operaio che non corrispondeva affatto alla realtà: il bell’operaio dal torace robusto, che nelle rappresentazioni socialiste se ne andava gioiosamente verso un grande sole porpora…
Qui si innesta un’ideologia alquanto complicata, che ha i suoi teorici e i suoi umoristi. Innumerevoli opuscoli, mucchi di giornali, quantità di manifesti multicolori hanno dichiarato ai borghesi terrificati — come no! — l’imminenza della Rivoluzione, la classe operaia cosciente andava attraverso il grande sciopero a creare domani — domani, senza dubbio — la fortunata città dove sotto l’egida di un vigilante Comitato ognuno godrà in pace della felicità confederale.
Si aspetta, si aspetta, ci si prepara. Si discutono i minimi dettagli dell’inevitabile sconvolgimento, e seriosi burloni raccontano che faranno la Rivoluzione così e colà. E nessuno pensa che l’attesa è della vita perduta e che sarebbe meglio cominciare a fare un poco di luce nella spaventosa notte dei cervelli.
Noi non siamo operaisti. Ci sembrerebbe puerile portare sugli allori il lavoratore la cui criticabile incoscienza è causa dell’universale dolore, forse più dell’assurda rapacità dei privilegiati.
All’osservatore imparziale non è affatto difficile constatare che, lungi dall’essere la benefica attività vantata dai poeti, il lavoro nella attuale atmosfera è ripugnante. Simile è la differenza fra sogno e realtà per quanto riguarda i proletari.
Guardateli alle sette del mattino sfilare nelle strade, figure tetre e tristi, spezzate dal compito aborrito, non danno nemmeno l’impressione vigorosa delle bestie da soma. Guardateli nei giorni di festa, andarsene in bande chiassose urlando fra singulti e conati le scadenti e oscene canzoni popolari…
C’è chi davanti a simili visioni chiude volontariamente gli occhi. Quanto a noi, ci piacerebbe vedere gli uomini per quel che sono. E quando socialisti e sindacalisti vengono a raccontarci dei meriti e delle speranze favolose del «proletariato cosciente», noi rispondiamo:
– È un grande errore credere che il fattore economico regga la vita sociale. La produzione dipende come tutti i rapporti degli uomini fra loro dalla mentalità generale. E non è potere delle masse, che la loro idiozia ha permesso di asservire per secoli, modificare i quadri dell’attività sociale.
– Gli operai non sono né più né meno simpatici dei loro padroni. Simile è la loro incoscienza, più triste la loro decadenza. Sono gli schiavi che fanno i signori, i popoli i governi, gli operai i padroni.
Non saprebbero costruire altro. Non saprebbero vivere altrimenti.

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