sabato 20 ottobre 2012

POST SCRIPTUM



POST SCRIPTUM

UN AMICO professore che si è lasciato sedurre dalla maculata purezza della colomba di Picasso ed è iscritto al Movimento del Partigiani della Pace, ha voluto leggere — prima che lo consegnassi al tipografo — il manoscritto di questo libro. Poi mi ha detto:

« Ti consiglio di non pubblicare. Anche se è vero quello che affermi, è bene che il popolo non lo conosca. Altrimenti perderebbe
 la fiducia nel Partito Comunista che è il solo che può cambiare, in Italia, la situazione e darci il nuovo. E noi resteremmo sotto il peso della società borghese chissà fino a quando. E tu contribuiresti, sia pure involontariamente, a mantenere l’attuale stato di cose.
Del resto ad un immoralista come te, ad uno spregiudicato, ad un fautore del caos, non dovrebbe suscitare orrore la pratica della violenza e dell’ipocrisia a cui i comunisti sono stati costretti a ricorrere per conquistare il potere ».
Rispondo all’amico professore.
Pubblico!
E per le seguenti ragioni.
Io sono un nemico della società borghese e, attraverso trentadue anni di lotta, ho cercato colpirla in tutti i modi.
Ma non voglio cadere dalla padella nella brace.
Non intendo preparare il terreno all’avvento di una tirannia peggiore di tutte quelle che l’umanità ha sopportato fino ad oggi. E perciò, mentre combatto il mondo attuale, dico agli oppressi:
«Sbarazzatevi dei padroni ma non ne create altri, più crudeli e sfruttatori. Distruggete il presente ma astenetevi dall’edificare un futuro basato sullo statalismo ».
Perché dico ciò?
Per un motivo semplicissimo.
E cioè per la ripugnanza istintiva che m’ispira quel mostruoso impasto di barbarie mongolica e di automatismo standardizzato che caratterizza il mondo sovietico e che i bolscevichi italiani vorrebbero portare anche da noi. Proprio da noi che, per natura, per tradizione, per sentimento, siamo assolutamente restii a farci trattare come le pecore che, gregariamente, seguono il pastore tartaro o come le rotelle che, meccanicamente ,s’ingranano nel congegno sociale.
L’amico professore mi ricorderà che la gente latina è degenerata, non ha più lo spirito romantico ed il senso della personalità che aveva nel passato.
D’accordo. Però, per quanto decaduti, non lo siamo ancor tanto da poter sopportare la frusta del Piccolo Padre Stalin.
Ed il nuovo che il bolscevismo ci darebbe, sarebbe sentito da noi come una catena ben più pesante di quella che inflissero ai nostri padri i Goti di Teodorico o i Longobardi di Alboino.
Per questo mi oppongo al bolscevismo.
Perché non voglio che l’Italia diventi, come la Russia, un’orribile caserma nella quale uomini e donne saranno costretti a segnare il passo, cantando le lodi del Tamerlano motorizzato.
Perché non voglio che il popolo italiano sia ridotto simile ad una massa grigia di fantocci che non potranno pensare coi loro cervelli sentire coi loro cuori e camminare con le loro gambe, ma dovranno intendere, avvertire ed agire nel modo unico che i capi rossi stabiliranno.
Perché non mi piace che all’operaio italiano avvenga ciò che capita oggi all’operaio russo il quale se arriva con cinque minuti di ritardo alla fabbrica, viene rinchiuso in questa per sei mesi ,non può uscirne, non può ricevere visite e, dopo le ore di lavoro ,deve rimanere segregato in appositi locali dove mangia e dorme (1).
Perché non considero umano che ai lavoratori sia negato il diritto di sciopero, la possibilità di pretendere un miglioramento economico. Tanto accade nell’Unione Sovietica dove lo Stato — unico capitalista — possiede tutti i mezzi di produzione ed esige che i proletari li facciano fruttare nel suo esclusivo interesse. In cambio lo Stato corrisponde ai proletari il misero salario che esso stesso fissa e che i proletari debbono accettare senza discutere, senza fiatare, se non vogliono finire ai lavori forzati in Siberia, dove si muore di fame, di freddo e di frustate. Così i lavoratori languono nell’inedia e lo Stato — che si identifica con il Partito Comunista — assorbe tutte le ricchezze e se ne serve per mantenere molti gerarchi che conducono vita da nababbi, un immenso esercito, una formidabile polizia, una burocrazia elefantiaca, un nugolo di spioni, insomma un’infinità di parassiti che vivono alle spalle e col sudore degli operai e dei contadini Questo avviene in Russia e questo avverrà anche in Italia se il piccolo Khan Togliatti la governerà per conto del gran Khan Stalin.
E qui, per similitudine, ricordo un episodio.
Un giorno, nel 1949, udii ad Incisa Valdarno, un discorso che teneva ai partigiani l’on.Walter Audisio altrimenti conosciuto come « Colonnello Valerio ». Questo signore compassionava la sorte dei poveri proletari italiani, costretti ad emigrare in Argentina e a lavorare in terre selvagge là dove, egli diceva, « mai mano d’uomo ha messo piede ». Ascoltandolo pensai subito che il Colonnello, tanto buono e caritatevole, cercava però adoperare non solo le mani piedate, ma anche il cervello e tutti gli altri organi di cui dispone, per ridurre gli operai e gli intellettuali italiani nelle stesse condizioni degli operai e degli intellettuali russi che, colpevoli solo di aver pensato con le loro teste, sono condannati a scavare grandi canali navigabili, sotto la sferza degli aguzzini e le bufere di neve, con i crampi della fame che attanagliano lo stomaco e la nostalgia della libertà che tormenta l’anima.
Tutte queste delizie i signori bolscevichi vorrebbero trapiantare in Italia. Ed io, che ne sento profondamente l’orrore, mi oppongo alla loro azione anche se, così facendo, contribuisco a tenere in vita la società borghese, come giudica (sic) il professore.
Valentino Gonzales, detto El Campesino, che è stato un eroe della resistenza spagnola contro Franco e che poi, per premio, ha ricevuto da Stalin l’accusa di deviazionismo e l’assegnazione al confino, quando è riuscito a scappare ha pubblicato ciò che ha visto in Russia. E, fra l’altro, ha detto che i milioni di soldati che, respingendo i tedeschi, avevano occupato le regioni dell’Europa centrale, a guerra finita, non sono ritornati alle loro case. Ma sono finiti nei campi di concentramento dove moriranno. E ciò per impedire che potessero raccontare nei loro paesi ciò che avevano visto, ossia che nelle nazioni capitalistiche esiste minore schiavitù che nell’Unione Sovietica e un trattamento migliore per la classe operaia.
Questo è il paradiso bolscevico! Questo è l’Eden meraviglioso che don Palmiro e don Pietro prendono a modello! E questo è anche il nuovo che il serafico professore è disposto ad accettare pur di avere subito un’altra società che, forse, gli permetterà un avanzamento nella ... carriera.
Ma io che non ho carriera da seguire; io che ho pagato sempre di persona e di tasca, rimanendo fedele ai miei sentimenti e alle mie idee; io che l’antiborghese l’ho fatto apertamente, spalancandomi la porta della galera e del confino, mentre altri rimanevano prudentemente nascosti dietro la comoda cattedra di un Liceo di provincia; dico no al bolscevismo. E grido questo no con tutta la forza dei miei polmoni, senza occuparmi del giudizio del professore scandalizzato che mi qualificherà reazionario, o venduto a De Gasperi, o corrotto dai dollari di un banchiere americano.

* * *

Il professore dichiara:
«Un immoralista, uno spregiudicato, un fautore del caos non dovrebbe sentire orrore per la pratica della violenza e l’uso dell’ipocrisia seguito dai comunisti per conquistare il potere ».
Replico subito come spregiudicato e immoralista. Ed affermo: io sono andato al di là dei rugginosi cancelli del Bene e del Male. Ma, malgrado questo, ho le mie preferenze. Certe cose mi piacciono e certe mi disgustano. Perciò è naturale che io cerchi realizzare quello che mi aggrada e combattere quello che mi nausea. Anche se considero tutto equivalente, rispetto alla natura, nel cui seno non esistono distinzioni qualitative.
Comprendo ed ammiro, come esteta, il delitto di Corrado Brando nella tragedia dannunziana « Più che l’amore ». Esalto l’eroismo del bandito anarchico Giulio Bonnot che saccheggia le banche e cade, nella lotta, con la pistola in pugno. Tutto ciò mi riesce simpatico perché esprime forza, coraggio, ardimento. Ma pure se non lo condanno obbiettivamente, pure se lo reputo possibile per esseri diversi da me ed ai quali la natura ha risparmiato la sensibilità, sento schifo per quelle manifestazioni che rivelano viltà, simulazione, perfidia. E, in difesa dell’aquila, combatto il serpente. Anche se, con Zarathustra, penso che tanto l’aquila che il serpente sono entrambi necessari alla realtà universale.
Del resto è dalla lotta che nasce l’equilibrio. E la reazione dei pazzi generosi, se non potrà mai sopprimere la ferocia, potrà però impedire che essa diventi mezzo unico di governo. E che donne e fanciulli innocenti, siano seviziati ed uccisi sol perché un loro congiunto, inviso a Stalin, è fuggito all’estero, sottraendoli alle grinfie della sbirraglia rossa. Come accadde alla figlia dell’anarchico russo Pukov, da me conosciuto a Parigi, alla quale i compagni carnefici della Ghepeù strapparono i peli del pube, torsero le mammelle, usarono violenza carnale e, infine, appiccarono fuoco dopo averla cosparsa di benzina.
Il professore piccolo borghese mi chiama « fautore del caos ». Osservo: dal caos nasce l’equilibrio. Dall’equilibrio si ritorna al caos. E viceversa. Ma perché avviene ciò?
Perciò gli elementi hanno bisogno della coesione ma, dopo, avvertono la necessità della dissociazione quando la coesione diventa troppo stretta e soffocatrice. Ogni peculiarità vuole rimanere se stessa e per non lasciarsi schiacciare dalle altre, sviluppa al massimo la propria energia e contiene le forze avverse degli elementi vicini. Così c’è vita per tutti.
Fra gli uomini è la stessa cosa. I legami della società generano l’esigenza di sciogliersi; ma, sciolti, gli individui debbono spremere la loro personalità, estrarne tutta la potenza, per arginare lo straripamento delle altre personalità che cercano soverchiare. E allora l’una arresta l’altra ma, a tutte, rimane un vasto campo per affermarsi e gioire. Chi non sa diventare forte, muore; ma cade eroicamente, cade nel tentativo di conquistare l’intera vita. E quelli che rimangono possono finalmente inebriarsi con l’ambrosia del superuomo ed il nepente dell’unico.
Questa filosofia potrà essere giudicata immorale, mostruosa, diabolica, ma nessuno potrà negarle il merito di spronare gli individui a scuotersi dalla pigrizia o dalla rassegnazione e a sviluppare tutte le energie personali in vista di un’esistenza piena e tumultuosa. Quindi essa potrebbe essere definita la filosofia della individuazione.
Invece la filosofia che i bolscevichi insegnano sarebbe ben chiamata filosofia della menomazione. Essa dice all’uomo: « Tu non sei niente e nulla puoi da solo. Devi stare sempre con gli altri e renderti uguale a loro. Tu e gli altri dovete riconoscere il governo dei capi che rendono proficua la vostra unione e le permettono di funzionare. Tutti i capi debbono, a loro volta, dipendere dal capo supremo, Stalin, incarnazione della triade: saggezza, potenza, bontà. Quindi Stalin è Dio. L’individuo umano è meno dello sterco ».
Il professore che beve la camomilla ogni sera e accompagna la moglie alla Messa della domenica, pur non credendo nel Padreterno cristiano e anteponendogli, nel suo culto, l’idolo moscovita, può accettare la teoria dei fanatici delle cellule, il catechismo, ingenuo e barbarico, che divinizza l’assassino di venti milioni di slavi e nega all’io ogni possibilità creatrice.
Ma quelli che, come me, sono « fautori del caos » e nemici giurati d’ogni carcere e d’ogni caserma, sputano sull’immondo formicaio che, sotto le nevi scite, nasconde la Caienna, e preparano le bombe che, distruggendo il bolscevismo, salveranno la vita e vendicheranno la libertà.



ENZO MARTUCCI

Gennaio 1953


(1) La legislazione sovietica sul lavoro stabilisce che l’operaio che, per tre volte, giunge con qualche minuto di ritardo alla fabbrica, deve essere segregato in questa per sei mesi. Se dopo tale punizione, continua a presentarsi con ritardo, viene assegnato al campo di concentramento come « sabotatore della produzione ».

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