mercoledì 31 luglio 2013

IL PENSIERO FILOSOFICO DI NISHITANI KEIJI - fra tradizione buddhista e nichilismo

Pubblichiamo un articolo di Carlo Saviani, curatore della traduzione in italiano di "La religione e il nulla" di Nishitani Keiji 



La tradizione filosofica occidentale nel pensiero di Nishitani Keiji

Il pensiero e l'opera di (1900-1990) da almeno un ventennio, prima negli Stati Uniti e in Germania e poi anche in Belgio, Messico, Francia e Spagna, suscitano un vivo interesse e una cospicua produzione di studi e traduzioni, dalla quale emerge una figura di pensatore tra le più originali e stimolanti del Novecento, i cui temi potrebbero anche in Italia arricchire il dibattito filosofico e teologico oltre che gli stessi studi orientalistici.
Nishitani, infatti, riveste un ruolo di primo piano nei campi del dialogo interreligioso, della questione del nichilismo, della storia della cultura giapponese e della storia contemporanea del buddhismo zen. Nel corso di una sintetica introduzione proverò a marcare alcuni tratti del pensiero di Nishitani, almeno quelli più inerenti al tema generale di queste nostre discussioni. Spero di mostrare come, al pari di Heidegger, Nishitani abbia considerato ineludibile il confronto tra il pensiero orientale e quello occidentale e sentito l'esigenza di impostare un pensiero che, con le felici espressioni di Ernesto Balducci, riesca ad essere «planetario» e «dalle molte memorie».
Con Nishida Kitarô (1870-1945) e Tanabe Hajime (1885-1962), Nishitani è uno dei grandi pilastri della cosiddetta «Scuola di Kyôto». Sorta negli anni Venti intorno alla personalità e al pensiero di Nishida, la scuola di pensiero fiorita presso l'Università Imperiale di Kyôto rappresenta uno dei tentativi più interessanti di stabilire un dialogo e una sintesi tra il pensiero occidentale e quello estremo-orientale. Più precisamente, da Nishida e Tanabe allo stesso Nishitani e a Ueda Shizuteru (1926) i pensatori della Scuola di Kyôto, tutti legati alla tradizione buddhista, zen e shin, hanno tentato di delineare un'ontologia relazionistica attraverso l'assimilazione della concettualità filosofica e religiosa occidentale e, in un serrato confronto con essa, hanno tentato di esprimere una sintesi epocale capace di comprendere e fronteggiare con i propri modelli e metodi tradizionali la crisi della modernità e la sfida nichilistica dell'impero planetario della tecnica, di matrice occidental-europea.

Già a partire dai suoi primi scritti e corsi universitari, Nishida improntò la Scuola di Kyôto in due sensi: innanzitutto, intese offrire un contributo prettamente orientale alla tradizione filosofica occidentale con l'impiego di concetti-chiave buddhisti; inoltre, intese arricchire la riflessione buddhista sottoponendola al rigore della filosofia europea.
E questo fu anche l'intento di Nishitani. Nel 1949, in una breve ricostruzione della personalità e del pensiero del maestro, egli scriveva:

Si possono ritrovare nel pensiero di Nishida sia il pensiero occidentale che una modernizzazione dello spirito orientale. Questa, mi sembra, è la strada che la cultura giapponese deve prendere. A fronte di tutti gli splendori della storia culturale dell'Oriente, il presente esige da noi qualcosa di più; non è il caso di riesumare idee dal passato per farle rivivere nel presente. Occorre un'accettazione fondamentale del pensiero, e forse anche della cultura, occidentale. D'altra parte, seguire pedissequamente le orme dell'Occidente non contribuisce alla cultura mondiale, per quanto diligente possa essere il nostro impegno. A livello mondiale, noi ci troviamo in una posizione vantaggiosa, nel senso che serbiamo una tradizione profondamente radicata nello spirito orientale, che i popoli occidentali non hanno: in un modo o nell'altro, dobbiamo trovare un modo per riportarla in vita, non possiamo lasciarla logorare dal tempo. Il giusto modo di procedere è, secondo me, far rivivere la cultura dell'Oriente attraverso la cultura dell'Occidente - nella forma di una rinascita attraverso la cultura occidentale o di un nuovo sviluppo della cultura occidentale.
Nel 1967, in un saggio sullo stato della filosofia nel Giappone contemporaneo, dirà:
Noi Giapponesi abbiamo ereditato due culture completamente differenti. (...) Questo è un grande privilegio, del quale gli occidentali non partecipano (...) ma al tempo stesso ci carica di una grande responsabilità: porre basi filosofiche per un mondo in formazione, per un mondo nuovo, unito al di là delle differenze di Oriente e Occidente.
E, riassumendo la sua posizione al riguardo, in un saggio autobiografico del 1963 affermerà: «Penso che d'ora in poi il pensiero filosofico debba trascendere la distinzione tra Oriente ed Occidente e stabilirsi su fondamenta più estese».
Con questi intenti, a differenza di Nishida e Tanabe, che rivolsero i loro scritti solo al lettore giapponese e non si preoccuparono di farli tradurre nelle lingue occidentali, Nishitani, grazie anche alle sue notevoli competenze linguistiche, diede conferenze in Europa e in America, collaborò attivamente con i traduttori dei propri scritti, con l'obiettivo che il suo pensiero fosse letto e discusso da filosofi occidentali. E, sebbene già ottantenne, interpretò un ruolo principale in Giappone nell'animare pubblici dibattiti con filosofi occidentali.
In effetti, l'ondata di interesse per il suo pensiero, sia in Occidente che nello stesso Giappone si è levata proprio grazie alle traduzioni tedesca e inglese nel 1982 del suo capolavoro, Shûkyô to wa nanika (Che cos'è religione?, 1961).
Nishitani scrisse saggi su autori classici come Kant, Aristotele, Plotino, Agostino, Eckhart, Boehme, Descartes, Schelling, Hegel, Nietzsche, Dostoevskij, Bergson e Heidegger, e fu uno dei pionieri nella traduzione in giapponese di classici del pensiero occidentale, come alcune opere di Schelling e Kierkegaard. Contemporaneamente, ricorse di frequente a classici orientali del buddhismo, del taoismo e del confucianesimo ed offrì originali interpretazioni di temi biblici.
Come egli stesso ebbe a dire, la direzione fondamentale di questi vasti interessi filosofici fu quella di «attraversare il nichilismo e trovare una via per superarlo».
Le motivazioni di questo suo cammino filosofico non furono per nulla accademiche; esse si radicano negli anni della sua adolescenza. Rievocando quel periodo, nel 1949 scrisse:

Riassumendo in una sola frase i giorni della mia giovinezza, devo dire che quello fu un periodo senza alcuna speranza. Meglio ancora, fu un periodo in cui tutte le speranze erano state sradicate fin dal profondo. Certo, in quei tempi il mio non era un problema diffuso. Al contrario, era appena finita la prima guerra mondiale e per il Giappone, almeno così appariva dall'esterno, era iniziato un periodo di prosperità. Si può dire che la gioventù di quel tempo viveva un periodo pieno di sogni e di speranze. Ma io ero caduto in uno stato in cui tutti i sogni e le speranze apparivano senza senso. Non che essi fossero obiettivamente così; piuttosto, era quello il modo in cui io li sentivo dentro di me. Era come se avessi una spina conficcata nel cuore: e soffrivo, in preda ad una costante pena. Incapace di estrarre quella spina e pensando che non c'era altro modo di liberarmi dalla sofferenza se non con la morte, vivevo in un assoluto senso di nullità e di disperazione. A sedici anni avevo perso mio padre. (...) La mia decisione di studiare filosofia, per melodrammatico che possa suonare, fu davvero una questione di vita o di morte. (...) lessi avidamente autori come Tolstoy, Dostoevskij, Ibsen e Strindberg. A causa dell'esperienza della malattia, mi era sempre presente il problema della morte, e così lessi la Bibbia ed altre opere religiose. Per lo stesso motivo lessi anche qualche opera buddhista e lo Zarathustra di Nietzsche. (...) Allora non mi rendevo conto che stavo vivendo all'interno del fondamentale problema filosofico dell'esistenza e del nulla. (...) La decisione di studiare filosofia fu una sorta di conversione.
Nishitani inizia, così, il suo cammino filosofico studiando testi occidentali, per poi rivolgersi sempre più all'approfondimento della tradizione orientale. 
Il punto di partenza filosofico di Nishitani non è né la meraviglia né l'apologia della fede, ma il sentimento dell'insensatezza dell'esistenza e dell'illusorietà delle risposte etiche e religiose tradizionali; e l'interesse per il nichilismo europeo, con il sempre più marcato confronto con la propria tradizione culturale, nasce da un'esigenza esistenziale.
Nel citato saggio autobiografico del 1963, egli dice:

Se dovessi cercare di definire il mio punto di partenza filosofico, non troverei altra parola che "nichilismo". Quando iniziai gli studi di filosofia, il concetto non mi era molto chiaro; ma ad uno sguardo retrospettivo non esiste oggi un termine migliore. Certo, rigorosamente parlando, il nichilismo è già una posizione filosofica; ma io non lo intendo in quel senso né intendo dire che ero semplicemente in uno stato d'animo nichilistico. Il genere di nichilismo di cui sto parlando è qualcosa che precede la filosofia e nel contempo contiene essenzialmente uno spinta verso una dimensione filosofica.
Per «nichilismo» egli non intende il mero sentimento dell'insensatezza della vita, da superare magari appellandosi a qualche sistema etico o a qualche tradizione religiosa. È piuttosto un nichilismo di secondo grado, che nasce dall'insufficienza delle risposte etiche e religiose a questa insensatezza. Questo nichilismo si attiene fermamente al proclama nietzscheano che Dio non solo è morto, ma soprattutto «resta morto» (La gaia scienza, af. 125).
Chiarendo questo punto, egli dice:

Penso che, persino quando la disperazione e il nulla siano stati vinti dalla religione, ciò non ponga fine al problema del nichilismo. Il nichilismo non è il problema del nulla nel senso ordinario di questo termine. C'è un'importante differenza. Il nichilismo è quel nulla che riappare nella dimensione religiosa ovvero a quell'altezza (o profondità) in cui il nulla ordinario è stato vinto. (...) Forse potrebbe essere paragonato ad un germe o ad un virus che, pur vinto da un potente farmaco, fa di nuovo la sua comparsa, stavolta dotato però di una resistenza costruita proprio contro quel farmaco. Il nichilismo è un nulla che ha realizzato una prospettiva che resiste alla religione, negando persino la religione. (...) Facendosi strada attraverso la dimensione etica e quella religiosa, questo nulla guadagna in resistenza. (...) Piuttosto che essere vinto dall'etica o dalla religione, il nichilismo include nella sua essenza un dubbio che possiede un'irriducibile resistenza all'etica e alla religione. Nel bel mezzo della vita questo nulla provoca un senso di insensatezza dalle sue profondità, un dubbio che riguarda il fondamento della vita umana. Così, si dubita di qualsiasi tentativo di trovare un senso nella vita umana, specialmente mediante l'etica o la religione.
Come spiega Heisig, già nel saggio che scrisse su Nietzsche ed Eckhart al termine del suo soggiorno di studi in Germania con Heidegger, Nishitani assume il compito di superare la disperazione nichilistica non dall'esterno ma dall'interno del nichilismo stesso, addentrandosi nelle sue profondità. Ciò che gli appariva come il pericolo maggiore era sentirsi a distanza dalla vita, «come una mosca che sbatte contro il vetro di una finestra senza poterlo attraversare», o come una persona che dalla finestra guarda una tormenta, incapace di sentire sulla faccia il contatto della neve e del vento. «Per un certo periodo arrivò perfino a mettere in questione la stessa validità della filosofia e della vita accademica. Non che le ombrose aule dell'accademia lo separassero dall'aria fresca e dal sole brillante del mondo reale; all'opposto, la luce artificiale e l'ambiente confortevole dell'università lo separavano dalla grande oscurità e angoscia che là fuori se ne stavano in attesa».
Al problema del nichilismo Nishitani dedica nel 1949 una raccolta di saggi, dal titolo Nihirizumu (Nichilismo). Gli autori più estesamente trattati sono Nietzsche, Stirner, Dostoevskij e Heidegger.
Il senso del libro può essere colto in questi brani tratti dalla Prefazione:

Quando ero un ventenne, le figure di Nietzsche e Dostoevskij marchiarono a fuoco il fondo della mia anima (...) e da allora in poi i tremiti che provai hanno continuato a far fremere il mio cuore. (...) Il nichilismo che qui tratto non è semplicemente un vago sentimento o una semplice tendenza; è piuttosto qualcosa che è diventato autocosciente. Inoltre, è un nichilismo che in un certo senso è l'autosuperamento di ciò che viene comunemente chiamato «nichilismo». (...) Ciascuna delle figure rappresentative che segnano il corso del nichilismo europeo sviluppò una forma totalmente differente di idee. Se in ciascuno di loro sono evidenti le manifestazioni del nichilismo, un accurato esame del loro pensiero appare rivelare un fondamentale modello comune. Ho tentato di delineare questo modello come la fondamentale integrazione di nichilismo creativo e finitezza. Da questa posizione io percepisco i segni di un nuovo orientamento che prende forma nelle profondità dello spirito dell'Europa moderna e mi accorgo che questo spirito sta cominciando ad aprire un orizzonte per importanti contatti con il buddhismo [pp. XXXIII-XXXIV].
Nel volume il pensiero di Nietzsche gioca un ruolo preminente. Sebbene non appaia influenzato dall'interpretazione che Heidegger ne aveva offerto nei corsi della fine degli anni Trenta, frequentati dallo stesso Nishitani, potremmo riassumere il pensiero del filosofo giapponese proprio mediante la lettura che Heidegger offre del capitolo dello Zarathustra intitolato «La visione e l'enigma». Dice Heidegger: «Il serpente nero è l'aspetto tetro, sempre identico e in fondo senza fine e senza senso del nichilismo, è il nichilismo stesso. (...) Zarathustra tira il serpente - invano. Questo vuol dire: il nichilismo non può essere superato dall'esterno, tentando di strapparlo e di cacciarlo via, ponendosi semplicemente al posto del Dio cristiano un altro ideale, la ragione, il progresso, il "socialismo" economico-sociale, la mera democrazia». In fondo, prosegue Heidegger,
Da un lato si ha: tutto è nulla, tutto è indifferente, sicché nulla vale la pena: tutto è uguale. Dall'altro lato si ha: tutto ritorna, ogni attimo è importante, tutto è importante: tutto è uguale. La spaccatura minima, l'apparente ponte rappresentato dal detto "tutto è uguale" nasconde l'assolutamente diverso: tutto è indifferente, nulla è indifferente.
Nell'ultimo capitolo, dedicato al significato del nichilismo per il Giappone, Nishitani però avverte:
Rimane chiaro, tuttavia, che c'è nel buddhismo mahâyâna una posizione che non può essere raggiunta neanche dal nichilismo che supera il nichilismo, sebbene esso tenda in quella direzione [p. 180].
Questa «posizione» (tachiba) è la vacuità (scr. úûnyatâ, g. kû), che costituirà d'ora in poi il motivo dominante del pensiero di Nishitani. Assunto che Dio non solo è morto ma resta insostituibilmente morto, è possibile attraversare il deserto che avanza, solo «realizzando» ed «interpretando» il nulla in un modo radicalmente diverso. Il nulla assoluto (zettai mu, termine-chiave nel pensiero di Nishida), la vacuità, non equivale al nulla relativo all'essere (g. kyomu), ossia al nihilum della tradizione creazionistico-volontaristica dell'Occidente cristiano, altrettanto oggettivato quanto il sostanzialistico essere dell'eredità greca, bensì è la radicale insostanzialità (scr. anâtman, g. muga) ed interdipendenza (scr. pratîtya-samutpâda, g. engi) della nostra esistenza, delle cose (scr. rûpa, g. shiki) che viviamo e dei concetti (scr. vikalpa, g. funbetsu) che ne abbiamo. In questa prospettiva teorica ed esistenziale persino «la vacuità è, nella sua Forma originaria, autosvuotantesi», sia nel senso che svuotando originariamente se stessa, la vacuità è (lascia essere) le cose vuote di sostanza e perciò nodi di infiniti rimandi, sia nel senso delle parole di Nâgârjuna, per il quale «coloro per cui anche la vacuità è un'opinione, i Vittoriosi (gli Svegliati) li han detti inguaribili». La vacuità, insomma, non si lascia comprendere in un'indagine obiettivante, nei termini del dualismo soggetto-oggetto (scr. grâhya-grâhaka), ma la si può realizzare solo nella vacuità del sé; la desostanzializzazione dell'essere (e del nulla nichilistico) è tutt'uno con la desoggettivazione di se stessi. 
Perfino nei suoi risultati più elevati, il nichilismo europeo fallisce nel tentativo di superare se stesso proprio perché non riesce a svincolarsi dall'ontologia occidentale e dai suoi concetti di essere e di nulla, entrambi sostanzializzati ed oggettivati. Afferma infatti Nishitani:

Il nihilum non può da se stesso scuotersi dal nihilum. Il nichilismo è ostacolato nelle sue positive intenzioni proprio dal nihilum sul quale si basa così risolutamente.
Alternativa all'ontologia sostanzialistica occidentale, che entifica persino il nulla, è allora la meditazione buddhista della vacuità o, nella formula di Nishida, del «nulla assoluto». Spiega Nishitani in un importante saggio:
È noto che quello di anâtman, corrispondente a qualcosa come il senza sé [das Selbst-lose], è un concetto fondamentale del buddhismo. Esso rappresenta la negazione della realtà di un'entità quale l'âtman, ossia di ciò che, da sostegno permanente e unitario, assegna ad ogni singolo ente la sua identità con sé. Nel buddhismo mahâyâna il concetto di anâtman viene evocato in egual modo per due diversi ambiti: quello delle cose in generale e quello degli uomini in particolare. Si potrebbe forse dire che il concetto di âtman (il sé) corrisponda più o meno al concetto di sostanza [Substanz] fisica per le cose in generale e a quello di soggetto [Subjekt] per l'uomo, all'incirca nel senso dell'ego cartesiano (res cogitans). Il concetto di âtman, che racchiude in sé questi due significati, con una certa approssimazione corrisponderebbe, allora, all'antico concetto europeo di subjectum, che rappresenta ciò che sta al fondo di ogni singolo ente, sia esso una cosa o un uomo. Nel pensiero buddhista dell'anâtman, e ciò è molto importante, viene negata proprio la realtà di un tale sostrato.
La vacuità non è un «qualcosa» che appartenga al campo dell'essere o del non essere, ma ingloba ogni opposizione e permea ogni cosa; è, come dice Nishitani ne La religione e il nulla, l'abisso dello stesso nihilum abissale, che «svuota se stessa persino della prospettiva che la rappresenta come una qualche "cosa" vuota» (p. 137).
Ne La religione e il nulla, quella della vacuità, o del nulla assoluto, costituisce la posizione dalla quale Nishitani si confronta con la tradizione filosofica occidentale, sia nei suoi esiti nichilistici che con quelle correnti di pensiero che egli considera affini alla sua tradizione. 
I termini di confronto negativi sono Aristotele (principalmente i concetti di usia e logos), il creazionismo e il personalismo ebraico-cristiano (considerati come matrici e, insieme, vittime del nichilismo) e Descartes (per le nozioni di soggetto e cogito); ma anche l'umanismo ateo di Sartre (per il suo coscienzialismo) e l'ontologia fenomenologica del primo Heidegger (il suo sarebbe un nichilismo sì desostanzializzante, ma non riaffermativo).
Affini alla sua tradizione Nishitani considera invece i concetti cristiani dell'agapç e della kenôsis, e soprattutto la teologia negativa di Meister Eckhart. Avviandomi a concludere, vorrei focalizzare l'attenzione su quest'ultimo punto riassumendo le analisi che Nishitani elabora nel secondo capitolo de La religione e il nulla, laddove il pensiero di Eckhart è affrontato discutendo la questione della personalità divina.
Com'è noto, Eckhart propone la forma più radicale di teologia negativa, in quanto distingue tra Dio e Deità, o essenza di Dio, nella quale sono trascesi tutti i modi d'essere (attività creatrice, provvidenza, giudizio selettivo), che sono solo attribuzioni creaturali. La Deità, ciò che Dio è di per se stesso, si rifiuta alla logica dell'essere e, sottolinea Nishitani, può essere definita solo come «nulla assoluto». Ora, quando una persona diventa una vivente immagine di Dio, in lei nasce non solo Dio, ma anche la Deità. Per l'anima, ciò significa unirsi a Dio, irrompendo oltre il proprio sé e penetrando sempre più nel Dio che è nato in essa; in ciò, l'anima diventa sempre di più se stessa fino ad irrompere nell'essenza di Dio, il nulla assoluto o il deserto della Deità. In questo fondo senza fondo, l'anima è deprivata della sua egoità. In questo luogo, l'anima ritorna in se stessa e insieme raggiunge il punto in cui Dio è in se stesso. Non è semplicemente unita a Dio, ma è tutt'uno con Dio. In questo deserto di assoluta morte, sgorga una sorgente di vita assoluta - una sorgente che fermenta in se stessa, condivisa sia da Dio che dall'anima. Dio e l'anima sono un singolo, vivente «puro Uno». È importante notare, secondo Nishitani, che 1) Eckhart colloca l'«essenza» di Dio al di là della personalità; 2) questo nulla assoluto diventa il campo della nostra assoluta vita-morte; 3) solo nel nulla assoluto l'uomo può veramente essere se stesso e realizzare la sua libertà e la sua soggettività; qui, spiega Nishitani, la soggettività non è la soggettività dell'ego, ma quella che risulta dalla morte dell'ego, o Abgeschiedenheit, e dalla pura unità con Dio nel nulla della Deità. Il vero sé ha qui il suo luogo originario, nella Deità prima ancora che Dio pronunciasse il suo Verbo. Ora, spiega Nishitani, Eckhart non considera il nulla assoluto una landa deserta, lontana dalla realtà, o un inebriato isolamento dalla realtà. Al contrario, Eckhart mette energicamente in guardia da simili tendenze e loda le attività pratiche della vita quotidiana. Sebbene il campo della Deità sia chiamato «nulla assoluto», Eckhart insiste sul fatto che esso debba essere vissuto proprio nel bel mezzo della vita quotidiana, nella cui immediatezza esso si dischiude. Né lo «stare nella Deità» può essere interpretato come una mera contemplazione di Dio. Esso è piuttosto la realizzazione (nel duplice senso di attuare ed assumere), nella nostra vita quotidiana, del nulla della Deità. Insomma, riassume Nishitani, proprio la distinzione tra Dio e Deità è necessaria all'apertura di questa via alla vera e originaria soggettività. Eckhart parla di «rinunciare a Dio per Dio» e scrive: «Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio». Rinunciare a Dio per amore di Dio sembra voler dire che l'uomo, solo essendo veramente se stesso nel nulla della Deità, testimonia essenzialmente Dio attraverso il suo esserci qui ed ora.
Quindi, sebbene il campo della Deità sia definito «nulla assoluto», esso va vissuto nelle attività pratiche della vita quotidiana. Eckhart considera il nulla della Deità, al fondo del Dio personale, come il luogo dove si radica l'autonomia dell'anima in una profonda unità con l'essenza di Dio. Ora, nel corso del libro, Nishitani assume la differenza teologica tra Deus-Trinitas e Gottheit come modello di una ontologia negativa o, si potrebbe forse meglio dire, kenotica. Afferma infatti in un passaggio-chiave:

La sostanza rappresenta il punto in cui una cosa preserva la sua identità: indica ciò che una cosa è di per se stessa solo nella misura della forma eidetica nella quale la cosa si dischiude a noi. Ma se è così, qual è il modo d'essere della cosa completamente recisa da questa apertura a noi? Eckhart parla della Deità, o essenza di Dio, nei termini di un nulla assoluto, assolutamente senza forma, dove Dio è nella sua terra natia, al di là di qualunque delle forme in cui si dischiude alle sue creature, e in particolare oltre le forme personali attraverso le quali si rivela all'uomo. Vorrei assumere qui quella nozione di «essenza» riguardo a tutto ciò che esiste.
Qui Nishitani sembra «tradurre» la teologia eckhartiana nei termini di una nuova ontologia. Come la Deità, l'essenza delle cose, il loro esser di per se stesse non è sostanziale e si rifiuta ad un atteggiamento oggettivistico e teoreticistico; è la vacuità. Solo irrompendo oltre il campo della coscienza e del suo atteggiamento oggettivistico, possiamo realizzare la realtà e diventare tutt'uno con la vacuità. La vacuità è inoggettivabile; la si può solo vivere in un esercizio continuo di autosvuotamento nel bel mezzo della vita quotidiana. Solo in un tale esercizio le cose e noi stessi, già nientificati, veniamo ri-entificati.
A conclusione di questa presentazione possiamo proporre l'analisi di uno scritto del 1984, nel quale Nishitani riassume nel modo più chiaro la propria posizione.
Nell'aprile 1984, negli Stati Uniti fu organizzato un importante convegno in occasione della pubblicazione di Religion and Nothingness. Non potendo parteciparvi per motivi familiari, Nishitani inviò un breve scritto, Incontro con la vacuità, nel quale appare mirabilmente condensato il suo pensiero. Innanzitutto, egli chiarisce che il tema dominante del libro è il concetto del nulla e che il suo interesse centrale è stato quello di affrontare filosoficamente il problema del nulla; ciò ha comportato, a proposito di una chiarificazione del «nulla orientale», la necessità di orientarsi a partire dai vari temi della filosofia occidentale contemporanea. In generale, afferma Nishitani, nel singolare crocevia culturale costituito dal Giappone contemporaneo, in cui convivono cultura occidentale e tradizioni orientali, è necessario per i giapponesi «ri-pensare» la loro tradizione con l'ausilio di ciò che hanno appreso dalla filosofia occidentale.
Ora, il tratto peculiare del pensiero orientale è, afferma Nishitani,

aderire strettamente alla vita quotidiana e ai problemi che ne nascono, ossia trattare i problemi contenuti nella vita quotidiana e di cercarne la soluzione attraverso una intuizione profonda. La caratteristica del pensiero orientale potrebbe essere proprio questa: identificarsi con i problemi della vita ordinaria, come camminare, stare in piedi, sedere o coricarsi, e risolverli mediante il pensiero. [...] La questione è: qual è il volto reale delle nostre banali esperienze di vita quotidiana? Nel buddhismo l'intuizione profonda è considerata estremamente importante; e vedere, udire, percepire sono definiti il vero sentiero del buddhismo.
Lo zen sottolinea nel modo più radicale la necessità di realizzare l'intuizione profonda della realtà nel bel mezzo della vita quotidiana; ed è in questo senso che assume il nulla o vacuità come la sua nozione centrale. Infatti, spiega Nishitani, per lo zen questa nozione deve intendersi alla luce dell'espressione «niente a cui tenersi». Uno dei primi kôan assegnati nella pratica zen, tratto dal mondo contadino, riguarda proprio la vacuità: «Maneggiare la vanga a mani vuote; camminare a cavalcioni del bufalo». Chiarisce Nishitani:
Quando la vanga, il lavoro e il lavoratore sono tutt'uno, non ci sono né vanga né lavoro né lavoratore. Questa è la realizzazione della vacuità; e questo è ciò che s'intende con l'espressione «a mani vuote». Lo stesso accade quando il contadino coltiva le risaie a cavalcioni del suo bufalo: se il contadino e il bufalo diventano tutt'uno, il contadino può camminare stando nello stesso tempo a cavalcioni del bufalo. Egli sta camminando sedendo sul bufalo, passo dopo passo. Questo vuol dire che l'universo nella sua totalità si manifesta come bufalo. Altrettanto accade quando camminiamo per le strade della città o nuotiamo nel mare. Credo che in ciò risieda lo spirito fondamentale della cultura orientale. E ciò che si può maneggiare a mani vuote non è solo la vanga, ma anche la penna quando scriviamo, la sigaretta quando fumiamo o l'automobile quando guidiamo.
In questo senso, spiega ancora Nishitani, la prospettiva dello zen e, più in generale, il nocciolo della prospettiva buddhista consiste nel considerare la vita quotidiana come il problema fondamentale e, nello stesso tempo, la chiave di tutti i problemi. 
Quanto al senso del proprio impegno filosofico, Nishitani lo coglie sì nel pensare filosoficamente una tale prospettiva, ma secondo le modalità proprie della tradizione zen. Si chiede infatti: «Che cosa significa pensare in questa filosofia della vita quotidiana?» e riporta un dialogo zen citato da Dôgen. Alla domanda di un monaco: «A che cosa pensi, così imperturbabile?», il maestro Yakusan Kôdô, assorto in zazen, rispose: «Penso al non-pensiero». E quando il monaco gli chiese: «Come si pensa al non-pensiero?», il maestro rispose: «Senza pensare». E conclude Nishitani:

Questo fondamentale «senza pensare» è lo stesso che stare «a mani vuote». Io intendo il lavoro filosofico come pensare al fondamentale senza pensare, proprio nel modo in cui nel quotidiano lavoro dei campi si estirpano le erbacce «maneggiando la vanga a mani vuote», manifestando così direttamente il nulla assoluto. Da una tale prospettiva vorrei chiarire i tanti problemi del nostro tempo.

I Mutanti della delegittimazione

Nella ricerca di un ordine sociale nuovo che li rassicuri, i sostenitori della delegittimazione riconfermano la validità dei valori su cui si basa il progetto dominante di produzione e controllo. Al massimo sono o potrebbero essere degli ottimi riformatori di una società basata sulla ragione e non sulla violenza e la sopraffazione.



I fautori delle pratiche della delegittimazione sono soggetti reattivi che basano la propria lotta sul raggiungimento dei valori esistenti e stabiliti, aspirano in sostanza a realizzare un ordine razionale in modo da generare un processo di giustizia sociale più equa. Intendono così sul piano del linguaggio dei diritti misurarsi con lo Stato.

Queste strane creature demissorie hanno per oggetto la contesa e mai la critica, così, sia che risultino perdenti o vincenti, la loro battaglia con lo Stato è persa in partenza, in quanto battersi per il conseguimento dei valori stabiliti non è che l'espressione di un'avvenuta interiorizzazione delle logiche che governano il vecchio mondo. La loro non può che essere una lotta etico-coservativa col potere. Chiunque accetti come fatto definitivo l'ordine dei valori esistenti, rimane sottomesso ai pregiudizi e ai tabù che da questo derivano.

I delegittimatori di ogni grado e colore si agitano sempre dentro lo specchio di un rinnovamento, quale estensione della statualità sul piano politico sociale. Pur reputandosi a modo loro rivoluzionari, non credono in realtà ad un mondo totalmente altro da questo:ecco perchè pensano a riformarlo che ad abbatterlo. Essi plasmano la propria lotta sul principio di realtà, tutta la loro azione si inscrive all'interno della necessità e dei limiti imposti dallo Stato, per questo tendono continuamente ad integrarsi in base ad un fatiscente neoriformismo pragmatico che, pur non presentandosi immediatamente nella sfera istituzionale, la rifonda sotto altre motivazioni.

L'impotenza li spinge ad ingigantire i codici del potere fino al punto di non concepire di meglio che pensare di gestirlo alternativamente.
Dietro la maschera dell'aggiornamento costoro celano la propria miserabile ricerca di un ordine sociale che li rassicuri. Giocano nelle condizioni presenti ad inventarsi ambigue identità, diverse e contraddittorie, per poter giustificare le proprie debolezze di individui rivolti alla pacificazione, alla coesistenza col vecchio mondo, finendo col consolidare accordi con gli emergenti gruppi dominanti.

C'è in loro una volontà tale di integrarsi da diventare parte costitutiva del meccanismo di produzione e riproduzione delle forme di controllo attuate dallo Stato. Il loro evanescente rifiuto radicale delle istituzioni diventa una cristallina menzogna, quando si dissolve alla luce delle conclusioni che traggono dalle lotte inscenate, che sfociano in richieste di interventi statali, spaziando da una più equa redistribuzione del reddito, ad una razionalizzazione dei servizi, alla richiesta delle operazioni di salvataggio ecologico degli ambienti inquinati, fino alla costituzione di un neoantimilitarismo filoistituzionale. Da qui la necessità per loro di intrattenere rapporti di amicizia con le strutture più periferiche dello Stato (comune,regione,ecc.) che sovente non manca di dargli una mano in alcune costruttive iniziative sociali.
Pierleone Porcu

martedì 30 luglio 2013

COLPITE DOVE PIU' PUO' NUOCERE



1. Lo scopo di questo articolo
Lo scopo di questo articolo è quello di mostrare e sottolineare un semplicissimo principio riguardante la lotta ed il conflitto umano, un principio che gli oppositori del sistema tecno-industriale sembrano trascurare. Il principio in questione è che in ogni forma di lotta e di conflitto, se si vuole vincere bisogna colpire l’avversario dove più gli può nuocere.
E’ necessario precisare che quando parlo di “colpire dove più può nuocere”, non mi riferisco necessariamente a dei colpi fisici o ad ogni altra forma di violenza fisica. Per esempio, nei dibattiti, “colpire dove più può nuocere” significa portare la discussione e il confronto su quegli argomenti in cui i vostri avversari sono più vulnerabili. Nelle elezioni presidenziali, “colpire dove più può nuocere” significa battere i propri avversari in quegli Stati che detengono il maggior numero di voti elettorali. Tuttavia, nel discutere questo principio utilizzerò l’analogia del combattimento fisico, poiché essa è chiara e intensa.
Se un uomo vi colpisce con un pugno, non potete difendervi efficacemente colpendo il suo pugno, dato che non riuscirete a ferirlo agendo in questo modo, Per vincere il combattimento, dovete colpirlo dove più gli può nuocere. Ciò significa che bisogna schivare il pugno e colpire le parti vulnerabili del corpo dell’avversario.
Si supponga che un bulldozer di una ditta addetta al taglio degli alberi ed al trasporto dei tronchi stia sradicando i boschi vicino a casa vostra e voi siate intenzionato a fermarlo. E’ la pala del bulldozer che sventra la terra ad abbattere gli alberi, tuttavia sarebbe una perdita di tempo prendere a mazzate la pala stessa. Solamente dopo aver ripetutamente colpito con una mazza la pala per un’intera giornata si riuscirebbe a danneggiarla quanto basta da renderla inutilizzabile. Ma, a confronto con il resto del bulldozer, la pala è relativamente economica e facile da sostituire. La pala è solamente il “pugno” con cui il bulldozer colpisce la terra. Per sconfiggerlo bisogna evitare il “pugno” ed attaccare le parti vitali del bulldozer. Il motore, per esempio, può essere rovinato e distrutto in pochissimo tempo e quasi senza sforzo in vari modi, come ben sanno molti radicali.
A questo punto devo chiarire che non è mia intenzione di suggerire a chicchessia di distruggere o danneggiare un bulldozer (a meno che non sia di sua proprietà!). Né alcunché in questo articolo dovrebbe essere interpretato come un consiglio per ogni genere di azioni illegali. Io sono un prigioniero, e se incoraggiassi delle azioni illegali a questo articolo non verrebbe mai permesso di uscire fuori dalla prigione. Utilizzo l’analogia del bulldozer solamente perché è chiara e vivida e verrà valutata giustamente dai radicali.

2. Il bersaglio è la tecnologia
E’ ampiamente riconosciuto che “la variabile di base che determina il processo storico contemporaneo è data dallo sviluppo tecnologico” (Celso Furtado). La tecnologia, soprattutto, è responsabile della condizione attuale del mondo e ne controllerà e determinerà lo sviluppo futuro. Quindi, il “bulldozer”che dobbiamo distruggere è la tecnologia moderna stessa. Molti radicali ne sono consapevoli, e dunque comprendono che il loro compito è di eliminare l’intero sistema tecno-industriale. Ma sfortunatamente prestano poca attenzione all’esigenza di colpire dove più gli può nuocere.
Sfasciare un McDonald’s o uno Starbuck’s è inutile. Non che m’importi qualcosa di McDonald’s o si Starbuck’s. Non me ne frega niente se qualcuno li sfascia oppure no. Tuttavia non la considero un’azione rivoluzionaria. Anche se tutte le catene di fast food del mondo venissero distrutte, ciò causerebbe solo un danno minimo al sistema tecno-industriale, dato che potrebbe facilmente sopravvivere anche senza le catene di fast food. Quando attaccare McDonald’s o Starbuck’s, non state colpendo dove più può nuocere.
Alcuni mesi fa ho ricevuto una lettera di un ragazzo danese il quale era convinto che il sistema tecno-industriale doveva essere eliminato perché – parole sue – “che cosa potrebbe accadere se si continuasse ad andare avanti in questo modo?”. Apparentemente, però, la sua forma di attività “rivoluzionaria” consisteva nel fare delle incursioni negli allevamenti di animali da pelliccia. Queste azioni, nell’ottica di un indebolimento del sistema tecno-industriale, sono completamente inutili. Anche se le azioni di liberazione degli animali riuscissero alla fine ad eliminare definitivamente l’industria delle pellicce, esse non arrecherebbero alcun danno al sistema, dato che quest’ultimo continuerebbe a svilupparsi benissimo anche senza le pellicce.
Sono d’accordo che tenere degli animali selvatici in gabbia sia intollerabile, e che porre fine a tali pratiche sia una nobile causa. Ma ci sono molte altre nobili cause, quali la prevenzione degli incidenti stradali, il dare un riparo ai barboni, il riciclaggio dei rifiuti, o aiutare persone anziane ad attraversare la strada. Ciononostante è abbastanza ridicolo scambiarle per azioni rivoluzionarie, o pensare che possano contribuire ad indebolire il sistema.

3. L’industria del legname è un problema secondario.
Per fare un altro esempio, ormai nessuno razionalmente può ancora credere che una vera e propria regione selvaggia possa sopravvivere a lungo se continua ad esistere il sistema tecno-industriale. Molti ecologisti radicali ne sono convinti e sperano in un collasso del sistema. Ciononostante, tutto quello che fanno in pratica è attaccare l’industria del legno.
Ovviamente, non ho da fare alcuna obiezione ai loro attacchi a tale industria. Infatti, questa è una questione che mi sta molto a cuore e mi rallegro ogni qual volta i radicali ottengono un successo nei confronti dell’industria del legname. Oltretutto, per ragioni che non è il caso di spiegare in questa sede, penso che l’opposizione a questa industria sia una componente della lotta al rovesciamento del sistema.
Ma, in sé e per sé, attaccare l’industria del legno non è una maniera efficace per lottare e combattere contro il sistema, persino nell’improbabile caso in cui i radicali riuscissero a fermare il taglio degli alberi delle foreste e dei boschi in ogni parte del mondo, la qual cosa non rovescerebbe il sistema. E neppure salverebbe definitivamente le regioni selvagge. Prima o poi il clima politico potrebbe cambiare sicché il taglio degli alberi verrebbe ripreso. Ed anche nel caso in cui non venisse mai più ripreso, verrebbero utilizzati altri metodi per distruggere queste terre selvagge, o – se non per distruggerle – perlomeno per soggiogarle e addomesticarle. L’uso delle mine e l’escavazione per l’estrazione dei minerali, le piogge acide, i cambiamenti climatici e l’estinzione delle specie distruggono le regioni selvagge; mentre vengono soggiogate ed addomesticate attraverso i parchi “naturali” o di ricreazione, gli studi scientifici e la gestione delle risorse, che includono, tra le altre cose, lo studio degli spostamenti degli animali con mezzi elettronici, il ripopolamento dei corsi d'acqua con pesci d’allevamento e la coltivazione di piante ed alberi modificati geneticamente.
Le terre selvagge possono essere salvate solo attraverso l’eliminazione del sistema tecno-industriale, e questo non può essere eliminato solamente attraverso l’attacco all’industria del legno. Il sistema sopravviverebbe facilmente alla morte di tale industria dato che i prodotti e i manufatti in legno, sebbene molto utili al sistema, possono essere sostituiti, se necessario, da altri materiali.
Di conseguenza, quando si attacca l’industria del legno, non si sta colpendo il sistema dove più gli può nuocere. L’industria del legno è solo il “pugno” (o uno dei pugni) con cui il sistema distrugge le regioni selvagge, e, proprio come in una scazzottata, non si può vincere colpendo il pugno. Bisogna schivarlo e colpire gli organi più sensibili e vitali del sistema. Con mezzi legali, naturalmente, come le proteste pacifiche!

4. Perché il sistema è forte
Il sistema tecno-industriale è eccezionalmente forte grazie alla sua cosiddetta struttura democratica e alla sua conseguente flessibilità. Dato che i sistemi dittatoriali tendono ad essere rigidi, le tensioni sociali e la resistenza possono crescere ed aumentare al loro interno fino al punto di danneggiarli ed indebolirli, e quindi possono condurre ad una rivoluzione. Ma in un sistema “democratico”, quando la tensione sociale e la resistenza aumentano pericolosamente, il sistema riesce ad indietreggiare e ad adottare dei compromessi quanto basta a ridurre le tensioni a un livello innocuo.
Nel corso degli anni ’60, per la prima volta la gente prese coscienza che l’inquinamento ambientale era un problema serio, soprattutto perché l’inquinamento dell’aria, dal punto di vista visivo e olfattivo, nelle città più grandi cominciava ad essere fisicamente fastidioso per le persone. La protesta montò a tal punto che venne costituita un’Agenzia per la Protezione Ambientale e furono prese altre misure per alleviare il problema. Naturalmente, noi tutti sappiamo che i problemi dell’inquinamento sono bel lungi dall’essere stati risolti. Tuttavia, venne fatto quanto bastava affinché si abbassassero e si placassero le lamentele e le proteste pubbliche, e la pressione esercitata sul sistema diminuì e si ridusse per un certo numero di anni.
Dunque, attaccare il sistema è come colpire un pezzo i gomma. Un colpo di mazza può frantumare la ghisa, dato che è rigida e friabile. Ma si può martellare un pezzo di gomma senza procurargli alcun danno, dato che è flessibile. Ciò fa inizialmente diminuire la protesta, fino a farle perdere la sua forza e il suo impeto. Quindi il sistema rimbalza indietro.
Così, per colpire il sistema dove più gli può nuocere, bisogna selezionare le questioni e i problemi su cui il sistema non indietreggerà, su cui non può scendere a compromessi, e su cui combatterà ad oltranza. Ciò di cui abbiamo bisogno non è scendere a compromessi col sistema, bensì una lotta all’ultimo sangue.

5. E’ inutile attaccare il sistema rapportandosi ai suoi valori
E’ assolutamente essenziale attaccare il sistema non relazionandosi ai suoi valori tecnologici, ma rapportandosi a dei valori che siano contrari a quelli del sistema. Per quanto uno attacchi il sistema rapportandosi ai suoi valori, non lo colpirà dove più gli può nuocere, e permetterà al sistema di sgonfiare la protesta per mezzo di alcune concessioni e adattamenti.
Per esempio, se si attacca l’industria del legno principalmente in base al fatto che le foreste sono necessarie ed indispensabili per salvaguardare le risorse idriche e le opportunità ricreative e di svago, allora il sistema può permettersi di cedere terreno per disinnescare la protesta senza con ciò compromettere i propri valori: le risorse idriche e lo svago sono pienamente conformi ai valori del sistema, e se esso indietreggia, se limita il taglio degli alberi in nome delle risorse idriche e dello svago, allora opera solamente un arretramento tattico e non subisce una sconfitta strategica per il suo codice di valori.
Se si fanno pressioni su questioni e problemi di vittimizzazione e discriminazione (quali il razzismo, il sessismo, l’omofobia o la povertà non ci si sta opponendo ai valori del sistema e non si sta nemmeno forzando il sistema ad indietreggiare o a scendere a compromessi. Lo si sta aiutando in maniera diretta. Tutti i più saggi e ponderati sostenitori del sistema riconoscono che il razzismo, il sessismo, l’omofobia e la povertà sono dannosi al sistema, ed è per questo che il sistema stesso si impegna a combattere queste e altre forme simili di vittimizzazione e discriminazione. I lavoratori sfruttati, con i loro bassi salari e le loro pessime condizioni di lavoro, fruttano un buon profitto a certe aziende, ma i ponderati e i saggi sostenitori del sistema sanno molto bene che l’intero sistema funziona meglio quando i lavoratori vengono trattati decentemente. Ponendo l’attenzione sulla questione dello sfruttamento dei lavoratori, si aiuta il sistema, non lo si indebolisce.
Molti radicali cadono nella tentazione di focalizzarsi su problemi non essenziali quali il razzismo, il sessismo e lo sfruttamento dei lavoratori perché sono questioni facili. Scelgono un problema su cui il sistema può permettersi di offrire un compromesso e su cui possono ottenere il sostegno di persone come Ralph Nader, Winona La Duke, sdei sindacati, e di tutti gli altri riformisti sinistroidi. Forse il sistema, messo sotto pressione, indietreggerà un tantino, gli attivisti lo valuteranno come un chiaro risultato dei loro sforzi, ed avranno la gratificante illusione di aver realizzato qualcosa. Ma in realtà non hanno realizzato un bel niente in favore dell’eliminazione del sistema tecno-industriale.
La questione della globalizzazione non è completamente irrilevante per la tecnologia. L’insieme di misure economiche e politiche definito “globalizzazione” promuove la crescita economica e, di conseguenza, il progresso tecnologico. Tuttavia, la globalizzazione è una questione di importanza marginale e non un buon bersaglio per i rivoluzionari. Il sistema può permettersi di cedere terreno sulla questione della globalizzazione. Senza rinunciare del tutto alla globalizzazione, il sistema può fare dei passi per mitigare le conseguenze ambientali ed economiche negative, così da disinnescare la protesta. Al limite, il sistema potrebbe persino permettersi di abbandonare completamente la globalizzazione. La crescita economica ed il progresso tecnologico continueranno ancora, solo ad un ritmo leggermente più basso. E quando si combatte la globalizzazione non si stanno attaccando i valori fondamentali del sistema. L’opposizione alla globalizzazione è motivata in rapporto alla salvaguardia di salari decenti per i lavoratori e alla protezione dell’ambiente, questioni che sono, ambedue, totalmente conformi coi valori del sistema. (Il sistema, per la propria sopravvivenza, non può permettere che il degrado ambientale vada troppo avanti). Conseguentemente, combattendo la globalizzazione non si colpisce il sistema dove realmente gli può nuocere. Tali sforzi possono promuovere delle riforme, ma sono inutili al fine di rovesciare il sistema tecno-industriale.

6. I radicali devono attaccare il sistema nelle sue parti essenziali
Per operare effettivamente all’eliminazione del sistema tecno-industriale, i rivoluzionari devono attaccare il sistema in quei punti dove esso non si può permettere di “cedere terreno”. Devono attaccare i suoi organi vitali. Naturalmente, quando uso la parola “attaccare” non mi riferisco ad attacchi fisici ma solo a forme legali di protesta e resistenza.
Alcuni esempi di organi vitali del sistema sono:
A. l’industria dell’energia elettrica. Il sistema è totalmente dipendente dalla propria rete di energia elettrica.
B. l’industria delle comunicazioni. Senza comunicazioni rapide, quali il telefono, la radio, la televisione, le e-mail, ecc, il sistema non potrebbe sopravvivere.
C. l’industria del computer. Noi sappiamo bene che senza i computer il sistema collasserebbe rapidamente
D. l’industria della propaganda. Essa include l’industria d’intrattenimento e degli spettacoli, il sistema educativo, il giornalismo, la pubblicità le pubbliche relazioni, e la maggior parte della politica e dell’industria della salute mentale. Il sistema non può funzionare se la gente non è sufficientemente docile e omologata e non possiede le attitudini che il sistema ha bisogno che abbia. La funzione dell’industria della propaganda è quella di insegnare alla gente come comportarsi e come pensare
E. l’industria biotecnologica. Il sistema non è ancora (per quanto ne so) fisicamente dipendente dalla biotecnologia avanzata. Ciononostante, il sistema non può permettersi di abbandonare la questione biotecnologica, che gli è di vitale importanza, come cercherò di mostrare brevemente tra poco.
Di nuovo: quando si attaccano questi organi vitali del sistema, è essenziale non farlo in rapporto ai valori propri del sistema, ma in relazione a dei valori che siano opposti e contrari a quelli. Per esempio, se si attacca l’industria dell’energia elettrica in base al fatto che inquina l’ambiente, il sistema può disinnescare la protesta sviluppando mezzi e strumenti per generare e produrre elettricità più puliti e sicuri. Al limite, il sistema potrebbe persino passare del tutto all’energia solare e eolica. Ciò favorirebbe molto la riduzione dei danni ambientali, ma non metterebbe fine al sistema tecno-industriale. Né rappresenterebbe una sconfitta per i valori fondamentali del sistema. Per realizzare qualcosa contro il sistema bisogna attaccare tutta la produzione di energia elettrica come una questione di principio, basandosi sul fatto che la dipendenza dall’elettricità rende la gente dipendente dal sistema. Questo è un terreno assolutamente incompatibile coi valori del sistema.

7. La biotecnologia può essere il bersaglio migliore per un attacco politico
Probabilmente il bersaglio più promettente per un attacco politico è rappresentato dall’industria biotecnologica. Sebbene le rivoluzioni siano generalmente compiute da minoranze, è assai utile avere un certo grado di sostegno, di simpatia, o al limite di consenso da parte della maggioranza della popolazione. Ottenere questo genere di sostegno è uno degli obbiettivi dell’azione politica. Se l’attacco politico viene concentrato, per esempio, sull’industria dell’energia elettrica, sarà estremamente difficile ottenere ed avere un certo sostegno al di là di una minoranza radicale, dato che la maggior parte della gente è restia a mutare il proprio modo di vivere, soprattutto quando un tale mutamento comporta dei disagi e delle scomodità. Per questa ragione, pochi saranno coloro che saranno fortemente decisi ad abbandonare l’elettricità.
Ma le persone, attualmente, non si sentono ancora dipendenti dalla biotecnologia avanzata come invece lo sono nei confronti dell’elettricità. l’eliminazione della biotecnologia non muterebbe in maniera radicale le loro vite. Di contro, sarebbe possibile mostrare alla gente che il continuo sviluppo della biotecnologia trasformerebbe il loro modo di vivere e annienterebbe i tradizionali valori umani. Sicché, nel combattere la biotecnologia, i radicali potrebbero militare a loro favore la naturale resistenza umana al cambiamento.
Inoltre, la biotecnologia è una questione su cui il sistema non può permettersi di perdere. E’ una questione su cui il sistema dovrà battersi alla morte, il che è esattamente ciò che ci interessa. Tuttavia – è bene ripeterlo – è essenziale attaccare la biotecnologia non in rapporto ai valori propri del sistema, bensì in relazione a dei valori che siano contrari ed opposti a quelli. Per esempio, se si attacca la biotecnologia principalmente sulla base che danneggia l’ambiente, o che i cibi geneticamente modificati sono nocivi alla salute, allora il sistema può e potrà smorzare l’attacco cedendo terreno o facendo dei compromessi è introducendo, per esempio, maggiori controlli sulla ricerca genetica e norme e test più rigorosi sulle colture geneticamente modificate. Allora l’ansia della gente calerà e con essa la protesta.

8. Tutta la biotecnologia deve essere attaccata come questione di principio
Dunque, invece di contestare l’una o l’altra conseguenza negativa della biotecnologia, si deve attaccare la moderna biotecnologia sul terreno e sul principio che (a) è in insulto a tutte le cose viventi; (b) colloca un potere troppo grande nelle mani del sistema; (c) trasformerà radicalmente i fondamentali valori umani che sono esistiti per migliaia di anni; ed altri argomenti simili che sono contrari ed opposti ai valori del sistema.
In risposta a questo genere di attacco, il sistema dovrà opporsi e combattere. Non potrà mai permettersi di attutire l’attacco indietreggiando in modo molto esteso, perché la biotecnologia è troppo centrale e fondamentale al progetto complessivo di progresso tecnologico, e poiché nell’indietreggiare il sistema non compirebbe solamente una ritirata tattica, bensì incasserebbe una grossa sconfitta strategica nei confronti del proprio codice di valori. Questi valori verrebbero minati e si aprirebbe la porta ad ulteriori attacchi politici che frantumerebbero le fondamenta del sistema.
Ora, è vero che la Camera dei Deputati degli Stati Uniti ha recentemente votato una legge che bandisce la clonazione degli esseri umani, e almeno qualche membro del Congresso ha persino fornito dei buoni motivi per applicarla. Tali motivi erano concepiti in termini religiosi, ma al di là di ciò che si possa pensare riguardo agli argomenti religiosi in questione, questi motivi non erano – e non sono – tecnologicamente accettabili.
Quindi, il voto dei membri del Congresso riguardo la clonazione umana è stato un’autentica confitta per il sistema. Ma è stata solo una sconfitta assai piccola, poiché il bando riguardo una campo molto limitato – che tocca solo una minuscola parte della biotecnologia – e perché la clonazione degli esseri umani non sarà per il prossimo futuro, comunque di alcuna utilità al sistema. Tuttavia, l’azione della Camera dei Deputati indica che questo può essere un punto in cui il sistema è vulnerabile, e che un attacco più ampio a tutta la biotecnologia potrebbe infliggere dei gravi danni al sistema e ai suoi valori.

9. I radicali non stanno ancora attaccando la biotecnologia in modo efficace
Alcuni radicali attaccano la biotecnologia, sia politicamente che fisicamente,però – a quanto ne so – spiegano la loro opposizione alla biotecnologia nei termini dei valori propri del sistema. Infatti, le loro principali proteste e lagnanze riguardano i rischi del degrado ambientale e dei danni alla salute. Inoltre, non colpiscono l’industria biotecnologica dove più gli può nuocere.
Per usare nuovamente un’analogia col combattimento fisico, si supponga di doversi difendere da una piovra gigante. Non ci si può battere efficacemente colpendo e tagliando le estremità dei tentacoli. Bisogna colpire la testa. Da ciò che ho detto riguardo le loro azioni, i radicali che si battono contro la biotecnologia non stanno facendo altro che percuotere e tagliare le estremità dei tentacoli della piovra. Tentano di persuadere gli agricoltori comuni, individualmente, a non coltivare ed utilizzare semi geneticamente modificati. Ma ci sono molte migliaia di fattorie in America, sicché convincere gli agricoltori uno ad uno è un modo estremamente inefficace di combattere l’ingegneria genetica. Sarebbe molto più utile persuadere i ricercatori scientifici impegnati nella biotecnologia, o i funzionari esecutivi di compagnia quali la Monsanto, ad abbandonare l’industria biotecnologica. I buoni ricercatori scientifici sono persone che hanno un ingegno speciale ed una vasta preparazione, quindi sono difficili da sostituire. Lo stesso dicasi per i più importanti manager e funzionari delle grandi aziende. Convincere anche solo un piccolo numero di queste persone ad abbandonare la biotecnologia provocherebbe un danno ben maggiore a questa industria di quanto non possa fare il persuadere un migliaio di agricoltori a non coltivare semi geneticamente modificati.

10. Colpite dove più può nuocere
E’ una questione aperta se sia effettivamente vero che la biotecnologia sia la questione e il punto migliore dove attaccare politicamente il sistema. Ma è fuor di dubbio che i radicali oggigiorno stiano sprecando molte delle loro energie su questioni che hanno poca o nessuna rilevanza per la sopravvivenza del sistema tecnologico. Ed anche quando si indirizzano sulle questioni giuste, non colpiscono dove più può nuocere. Quindi, invece di correre dietro ai vari summit sul commercio mondiale per sfocare la propria rabbia contro la globalizzazione, i radicali farebbero bene a spendere un po’ più di tempo nel pensare ed analizzare come colpire il sistema dove realmente gli può nuocere. Con mezzi legali, ovviamente!

Ted Kaczynski

GLI UOMINI SUBLIMI



Silenzioso è il fondo del mio mare: chi indovinerebbe che vi si nascondono bizzarri mostri?
Inalterabile è la mia profondità: ma essa risplende di enigmi e di risa a fior d'onda.
Un sublime, vidi oggi, un solenne, un penitente dello spirito: oh, quanto rise l'anima mia della sua bruttezza!
Col petto gonfio, simile a colui che aspira: così se ne stava quel sublime, e silenzioso...
Ornato d'orribili verità, il suo bottino di caccia; e ricco di abiti cenciosi; anche molte spine pendevan da lui – ma non vidi una rosa.
Egli non ha ancora imparato il riso e la bellezza.
Cupo, era tornato questo cacciatore dalla foresta della conoscenza.
Ritornò dalla lotta contro bestie selvaggie: ma la sua serietà rivelava ancora una bestia selvaggia – non domata!
Egli stava là come tigre che vuol spiccare un salto; ma a me non piacciono coteste anime tese, non mi vanno tali esseri chiusi in sè stessi.
E voi mi dite, amici, che non bisogna disputare intorno ai gusti? Ma se tutta la vita è una lotta per i gusti!
Il gusto: è insieme il peso e la bilancia di colui che pesa; guai a chi vive se volesse vivere senza disputare sul peso e la bilancia di coloro che pesano!
Se questo sublime si stancasse della sua eccellenza: allora soltanto si rivelerebbe la sua bellezza, – allora soltanto io vorrei gustarlo e gli troverei sapore.
Solo quando si sarà allontanato da sè stesso egli potrà saltare oltre la propria ombra! – dentro il suo sole.
Troppo a lungo sedette egli ne l'ombra; le guance impallidirono al penitente dello spirito; quasi morì affamato nella sua attesa.
Disprezzo c'è ancora nell'occhio suo; e le labbra s'atteggiano ancora al fastidio. Egli riposa, è vero, ma il suo riposo non s'è ancor disteso al sole.
Egli si dovrebbe far simile al toro; e la sua felicità dovrebbe aver l'odore della terra e non del disprezzo della terra.
Vorrei vederlo come il toro bianco che precede sbuffante e muggente l'aratro: e il suo muggito dovrebbe esaltare tutto ciò ch'è terreno!
È ancor tenebroso il suo volto; l'ombra della sua mano l'oscura ancora. È ancor offuscato il senso dell'occhio suo. La sua stessa azione l'avvolge come in un'ombra: la mano oscura l'attore. Egli non ha ancora superato il suo atto. Mi piace in lui il collo di toro: ma voglio vedere in lui anche lo sguardo d'angelo.
Egli deve dimenticare anche la sua volontà di eroe: voglio che sia un uomo elevato e non soltanto un uomo sublime: – l'etere stesso dovrebbe sollevare colui che ha perduto la volontà!
Egli vinse le fiere, egli sciolse gli enigmi: ma dovrebbe redimere ancora i mostri e i misteri che ha in sè, e trasfigurarli in divini fanciulli.
La sua conoscenza non imparò ancora a sorridere e ad essere senza gelosia; la sua fluttuante passione non s'è ancora calmata nella bellezza.
In vero, non nella sazietà ma nella bellezza devono tacere e sommergersi i suoi desideri! La grazia appartiene a coloro che hanno il pensiero elevato.
Col braccio sopra la testa: così dovrebbe riposare l'eroe e vincere così il suo stesso riposo.
Ma appunto all'eroe il bello appare come la più difficile delle cose. Irraggiungibile è il bello per ogni volontà troppo impetuosa.
Un po' più, un po' meno: ciò appunto è qui molto, è qui tutto.
Starsene coi muscoli inattivi e la volontà disarmata: ecco ciò che riesce più difficile d'ogni altra cosa, o sublimi!
Quando la potenza s'è fatta clemente e discende nel visibile: chiamo bellezza una tale discesa.
E a nessuno chiedo come a te, o potente, la bellezza: la tua bontà sia l'ultima tua vittoria su te stesso.
Io ti stimo capace di tutto ciò che è perverso: perciò ti domando il bene.
In verità, io risi assai spesso dei deboli, che si credevano buoni perchè avevan rattrappite le zampe!
Imita la virtù della colonna: essa diviene sempre più bella e delicata ma internamente più dura e atta a sostenere il peso quanto maggiormente s'eleva.
Sì, o sublime, un giorno tu sarai anche bello, e porgerai lo specchio alla tua propria bellezza.
Allora l'anima tua proverà il brivido dei desideri divini; e vi sarà adorazione nella tua vanità!
Giacchè è questo il mistero dell'anima: solo quando l'eroe l'ha abbandonata, le si appressa, nel sogno – il super-eroe. –

Così parlò Zarathustra.
F. Nietzsche

lunedì 29 luglio 2013

AI FERRI CORTI

con l’Esistente, i suoi difensori e i suoi falsi critici




I

Ognuno può finir di girarsi nella schiavitù di ciò che non conosce 
– e, rifiutando l’offa di parole vuote, venir a ferri corti con la vita
C. Michelstaedter

La vita non è che una ricerca continua di qualcosa a cui aggrapparsi. Ci si alza al mattino per ritrovarsi, uno stock d’ore più tardi, di nuovo a letto, tristi pendolari tra il vuoto di desideri e la stanchezza. Il tempo passa e ci comanda con un pungolo sempre meno fastidioso. Le prestazioni sociali sono un fardello che non sembra ormai piegare le spalle, perché lo portiamo con noi ovunque. Obbediamo senza la fatica di dir di sì. La morte si sconta vivendo, scriveva il poeta da un’altra trincea.
Possiamo vivere senza passione e senza sogni – ecco la grande libertà che questa società ci offre. Possiamo parlare senza freni, in particolare di ciò che non conosciamo. Possiamo esprimere tutte le opinioni del mondo, anche le più ardite, e scomparire dietro il loro brusio. Possiamo votare il candidato che preferiamo, chiedendo in cambio il diritto di lamentarci. Possiamo cambiare canale ad ogni istante, caso mai ci sembrasse di diventare dogmatici. Possiamo divertirci ad ore fisse e attraversare a velocità sempre maggiore ambienti tristemente identici. Possiamo apparire giovani testardi, prima di ricevere secchiate gelide di buon senso. Possiamo sposarci fin che vogliamo, talmente sacro è il matrimonio. Possiamo impegnarci utilmente e, se proprio non sappiamo scrivere, diventare giornalisti. Possiamo fare politica in mille modi, anche parlando di guerriglie esotiche. Nella carriera come negli affetti, possiamo eccellere nell’obbedire, se proprio non riusciamo a comandare. Anche a forza di obbedienza si può diventare martiri, e questa società ha ancora tanto bisogno, a dispetto delle apparenze, di eroi.
La nostra stupidità non apparirà certo più grande di quella altrui. Se non sappiamo deciderci, non importa, lasciamo scegliere gli altri. Poi, prenderemo posizione, come si dice nel gergo della politica e dello spettacolo. Le giustificazioni non mancano mai, soprattutto in un mondo di bocca buona. 
In questa grande festa dei ruoli ognuno di noi ha un fedele alleato: il denaro. Democratico per eccellenza, esso non guarda in faccia nessuno. In sua compagnia non c’è merce o prestazione che non ci sia dovuta. Chiunque ne sia il portatore, esso pretende con la forza di un’intera società. Certo, questo alleato non si dà mai abbastanza e, soprattutto, non si dà a tutti. Ma la sua è una gerarchia speciale, che unisce nei valori ciò che è opposto nelle condizioni di vita. Quando lo si possiede, si hanno tutte le ragioni. Quando manca, si hanno non poche attenuanti.
Con un po’ di esercizio, potremmo trascorrere intere giornate senza una sola idea. I ritmi quotidiani pensano al posto nostro. Dal lavoro al “tempo libero”, tutto si svolge nella continuità della sopravvivenza. Abbiamo sempre qualcosa a cui aggrapparci. In fondo la più stupefacente caratteristica dell’attuale società è quella di far convivere le “comodità quotidiane” con una catastrofe a portata di mano. Assieme all’amministrazione tecnologica dell’esistente, l’economia avanza nell’incontrollabilità più irresponsabile. Si passa dai divertimenti ai massacri di massa con la disciplinata incoscienza dei gesti programmati. La compravendita di morte si estende a tutto il tempo e a tutto lo spazio. Il rischio e lo sforzo ardito non esistono più; esistono solo la sicurezza o il disastro, la routine o la sciagura. Salvati o sommersi. Vivi, mai.
Con un po’ di esercizio, potremmo percorrere la strada da casa a scuola, dall’ufficio al supermercato, dalla banca alla discoteca, ad occhi chiusi. Stiamo compiutamente realizzando l’adagio di quel vecchio sapiente greco: «Anche i dormienti reggono l’ordine del mondo».
È venuta l’ora di rompere con questo noi, riflesso dell’unica comunità attuale, quella dell’autorità e della merce.
Una parte di questa società ha tutto l’interesse che l’ordine continui a regnare, l’altra che tutto crolli al più presto. Decidere da che parte stare è il primo passo. Ma ovunque sono i rassegnati, vera base dell’accordo tra le parti, i miglioratori dell’esistente e i suoi falsi critici. Ovunque, anche nella nostra vita, che è l’autentico luogo della guerra sociale, nei nostri desideri, nella nostra risolutezza come nelle nostre piccole, quotidiane sottomissioni.
Con tutto questo occorre venire ai ferri corti, per arrivare finalmente ai ferri corti con la vita.



II

Le cose che è necessario avere imparato per farle,
è facendole che le si impara
Aristotele

Il segreto è cominciare davvero.
L’attuale organizzazione sociale non solo ritarda, ma impedisce e corrompe ogni pratica di libertà. Per imparare cos’è la libertà non c’è altro modo che sperimentarla, e per poterla sperimentare bisogna avere il tempo e lo spazio necessari.
La base fondamentale dell’azione libera è il dialogo. Ora, due sono le condizioni di un autentico discorso in comune: un reale interesse degli individui per le questioni aperte alla discussione (problema di contenuto) e una libera ricerca delle possibili risposte (problema di metodo). Queste due condizioni vanno realizzate contemporaneamente, dal momento che il contenuto determina il metodo, e viceversa. Si può parlare di libertà solo in libertà. Se non si è liberi nel rispondere, a che servono le domande? Se le domande sono false, a che serve rispondere? Il dialogo esiste solo quando gli individui possono parlare senza mediazioni, cioè quando sono in un rapporto di reciprocità. Se il discorso è a senso unico, non c’è comunicazione possibile. Se qualcuno ha il potere di imporre le domande, il contenuto di queste ultime gli sarà direttamente funzionale, (e le risposte porteranno nel metodo stesso il marchio della soggezione). A un suddito si possono porre solo domande le cui risposte confermeranno il suo ruolo di suddito. Da questo ruolo il padrone ricaverà le future domande. La schiavitù consiste nel continuare a rispondere, dal momento che le domande del padrone si rispondono da sole.
Le indagini di mercato sono in tal senso identiche alle elezioni. La sovranità dell’elettore corrisponde alla sovranità del consumatore, e viceversa. Quando la passività televisiva ha bisogno di giustificarsi, si fa chiamare audience; quando lo Stato ha bisogno di legittimare il proprio potere, si fa chiamare popolo sovrano. In un caso come nell’altro, gli individui non sono che ostaggi di un meccanismo che concede loro il diritto di parlare dopo averli privati dellafacoltà di farlo. Quando si può scegliere soltanto tra un candidato o un altro, che rimane del dialogo? Quando si può scegliere soltanto tra merci o programmi differentemente identici, che rimane della comunicazione? I contenuti delle questioni diventano insignificanti perché il metodo è falso.
«Nulla assomiglia di più a un rappresentante della borghesia di un rappresentante del proletariato» scriveva nel 1907 Sorel. Ciò che li rendeva identici era il fatto di essere, appunto,rappresentanti. Dire oggi la stessa cosa di un candidato di destra e di un candidato di sinistra è addirittura una banalità. I politici, però, non hanno bisogno di essere originali (a questo ci pensano i pubblicitari), basta che sappiano amministrare tali banalità. La terribile ironia è che i mass media sono definiti mezzi di comunicazione e la fiera del voto è chiamata elezione (cioè scelta in senso forte, decisione libera e cosciente).
Il punto è che il potere non ammette alcuna gestione differente. Pur volendolo (il che ci porta già in piena “utopia”, per mimare il linguaggio dei realisti), nulla di importante può essere chiesto agli elettori, dal momento che l’unico atto libero – l’unica autentica elezione – che questi potrebbero compiere, sarebbe smettere di votare. Chi vota pretende domande insignificanti, dal momento che le domande autentiche escludono la passività e la delega. Ci spieghiamo meglio.
Supponiamo che si chieda attraverso un referendum l’abolizione del capitalismo (scavalchiamo cioè il fatto che tale domanda, fermi restando gli attuali rapporti sociali, è impossibile). Sicuramente la maggioranza degli elettori voterebbe per il capitalismo, per il semplice fatto che non si può immaginare un mondo senza merci e senza denaro uscendo tranquillamente da casa, dall’ufficio o da un supermercato. Ma se pure votassero contro, nulla cambierebbe, dal momento che una tale domanda deve, per rimanere autentica, escludere gli elettori. Un’intera società non si può cambiare per decreto.
Lo stesso ragionamento si può fare per domande mano estreme. Prendiamo l’esempio di un quartiere. Se gli abitanti potessero (ancora una volta, siamo in piena “utopia”) esprimersi sull’organizzazione degli spazi della loro vita (case, strade, piazze, eccetera), che succederebbe? Diciamo subito che la scelta degli abitanti sarebbe in partenza inevitabilmentelimitata, essendo, i quartieri, il risultato dello spostamento e del concentramento della popolazione in rapporto alle necessità dell’economia e del controllo sociale. Nondimeno proviamo a immaginare un’organizzazione altra di questi ghetti. Senza tema di smentita, si può affermare che la maggioranza della popolazione avrebbe, al riguardo, le stesse idee della polizia. Se così non fosse (se una sia pur limitata pratica del dialogo, cioè, facesse sorgere il desiderio di nuovi ambienti), sarebbe l’esplosione del ghetto. Come conciliare, fermo restando il presente ordine sociale, l’interesse del costruttore di auto e la voglia di respirare degli abitanti; la libera circolazione degli individui e la paura dei proprietari dei negozi di lusso; gli spazi di gioco dei bambini e il cemento dei parcheggi delle banche e dei centri commerciali? E tutte le case vuote lasciate in amano della speculazione? E i condomìni che assomigliano terribilmente alle caserme che assomigliano terribilmente alle scuole che assomigliano terribilmente agli ospedali che assomigliano terribilmente ai manicomi? Spostare un piccolo muro di questo labirinto degli orrori significa metterne in gioco tutta la progettazione. Più ci si allontana da uno sguardo poliziesco sull’ambiente, più ci si avvicina allo scontro con la polizia.
«Come pensare liberamente all’ombra di una cappella?» scrisse una mano anonima sullo spazio sacro della Sorbona durante il Maggio francese. Questo impeccabile interrogativo ha una portata generale. Ogni ambiente pensato economicamente e religiosamente non può che imporre desideri economici e religiosi. Una chiesa sconsacrata continua ad essere la casa di dio. In un centro commerciale abbandonato continuano a chiacchierare le merci. Il cortile di una caserma in disuso contiene ancora il passo militare. In questo senso aveva ragione chi diceva che la distruzione della Bastiglia fu un atto di psicologia sociale applicata. Nessuna Bastiglia può essere gestita diversamente, perché le sue mura continuerebbero a raccontare una storia di corpi e di desideri prigionieri.
Il tempo delle prestazioni, degli obblighi e della noia sposa gli spazi del consumo in incessanti e funebri nozze. Il lavoro riproduce l’ambiente sociale che riproduce la rassegnazione al lavoro. Si amano le serate davanti al televisore perché si è passata la giornata in ufficio e in metropolitana. Stare zitti in fabbrica rende le urla allo stadio una promessa di felicità. Il senso di colpa a scuola rivendica l’irresponsabilità idiota del sabato sera in discoteca. La pubblicità del club Med fa sognare solo occhi usciti da un Mc Donald’s. Eccetera.
Bisogna saper sperimentare la libertà per essere liberi. Bisogna liberarsi per poter sperimentare la libertà. All’interno del presente ordine sociale il tempo e lo spazio impediscono di sperimentare la libertà perché soffocano la libertà di sperimentare.



III

Le tigri della collera sono più sagge dei cavalli dell’intelligenza
W. Blake

Solo sconvolgendo gli imperativi del tempo e dello spazio sociali si possono immaginare nuovi rapporti e nuovi ambienti. Il vecchio filosofo diceva che si desidera solo sulla base di ciò che si conosce. I desideri possono cambiare solo se cambia la vita che li fa nascere. Per parlare chiaro, l’insurrezione contro i tempi e i luoghi del potere è una necessità materiale e allo stesso tempo psicologica.
Bakunin diceva che le rivoluzioni sono fatte per tre quarti di fantasia e per un quarto di realtà. Quello che importa è capire da dove nasce la fantasia che fa scoppiare la rivolta generalizzata.Lo scatenarsi di tutte le cattive passioni, come diceva il rivoluzionario russo, è la forza irresistibile della trasformazione. Per quanto tutto ciò possa far sorridere i rassegnati o i freddi analisti dei movimenti storici del capitale, potremmo dire – se siffatto gergo non ci fosse indigesto – che una simile idea della rivoluzione è estremamente moderna. Cattive, le passioni lo sono in quanto prigioniere, soffocate da una normalità che è il più freddo dei gelidi mostri. Ma cattive lo sono anche perché la volontà di vita, piuttosto che scomparire sotto il peso di doveri e maschere, si trasforma nel proprio contrario. Costretta dalle prestazioni quotidiane, la vita rinnega se stessa e riappare in figura di servo; alla disperata ricerca di spazio, essa si fa presenza onirica, contrazione fisica, tic nervoso, violenza idiota e gregaria. L’insopportabilità delle attuali condizioni di vita non è forse denunciata dalla diffusione massiccia di psicofarmaci, questo nuovo intervento dello Stato sociale? Il dominio amministra ovunque la cattività prendendo a giustificazione quello che invece è un suo prodotto, la cattiveria. L’insurrezione fa i conti con tutte e due.
Se non vuole ingannare se stesso e gli altri, chiunque si batta per la demolizione del presente edificio sociale non può nascondere che la sovversione è un gioco di forze selvagge e barbare. Qualcuno li chiamava Cosacchi, qualcun altro teppe, in pratica sono gli individui a cui la pace sociale non ha sottratto la propria collera.
Ma come creare una nuova comunità a partire dalla collera? Che la si faccia finita con gli illusionismi della dialettica. Gli sfruttati non sono portatori di alcun progetto positivo, fosse pure la società senza classi – (tutto questo assomiglia troppo di presso allo schema produttivo). La loro unica comunità è il capitale, a cui possono sfuggire solo distruggendo tutto ciò che li fa esistere in quanto sfruttati: salario, merci, ruoli e gerarchie. Il capitalismo non getta le basi del proprio superamento verso il comunismo – la famosa borghesia «che forgia le armi che la metteranno a morte» –, bensì quelle di un mondo degli orrori.
Gli sfruttati non hanno nulla da autogestire, se non la propria negazione in quanto sfruttati. Solo così assieme ad essi scompariranno i loro padroni, le loro guide, i loro apologeti variamente agghindati. In questa «immensa opera di demolizione urgente» si deve trovare, subito, la gioia.
“Barbaro”, per i Greci, non indicava solo lo straniero, ma anche il “balbuziente”, come veniva definito con disprezzo colui che non parlava correttamente la lingua della polis. Linguaggio e territorio sono due realtà inseparabili. La legge fissa i confini che l’ordine dei Nomi fa rispettare. Ogni potere ha i propri barbari, ogni discorso democratico ha i propri balbuzienti. La società della merce vuole bandire – con l’esclusione e il silenzio – la loro ostinata presenza come se fosse un nulla. Su questo nulla la rivolta ha posto la sua causa. L’esclusione e le colonie interne, nessuna ideologia del dialogo e della partecipazione potrà mai mascherarle del tutto. Quando la violenza quotidiana dello Stato e dell’economia fa esplodere la parte cattiva, non ci si può stupire se qualcuno mette i piedi sul tavolo e non accetta discussioni. Solo allora le passioni si scrollano di dosso un mondo di morte. I Barbari sono dietro l’angolo.



IV

Dobbiamo abbandonare ogni modello,
e studiare le nostre possibilità
E. A. Poe

Necessità dell’insurrezione. Necessità, ovviamente, non nel senso dell’ineluttabilità (un avvenimento che prima o poi deve avvenire), ma nel senso della condizione concreta di una possibilità. Necessità del possibile. Il denaro in questa società è necessario. Una vita senza denaro è possibile. Per sperimentare questo possibile è necessario distruggere questa società. Oggi si può sperimentare solo ciò che è socialmente necessario.
Curiosamente, coloro che considerano l’insurrezione un tragico errore (oppure secondo i gusti, un irrealizzabile sogno romantico), parlano molto di azione sociale e di spazi di libertà da sperimentare. Basta però struccare solo un poco simili ragionamenti per farne uscire tutto il succo. Per agire liberamente è necessario, come si è detto, parlarsi senza mediazione. E allora ci si dica: su cosa, quanto e dove si può dialogare attualmente?
Per discutere liberamente si deve strappare tempo e spazio agli imperativi sociali. Insomma il dialogo è inseparabile dalla lotta. È inseparabile materialmente (per parlarsi ci si deve sottrarre al tempo imposto e afferrare gli spazi possibili) e psicologicamente (gli individui amano parlare di ciò che fanno, perché solo allora le parole trasformano la realtà).
Ciò che si dimentica è che viviamo tutti in un ghetto, anche se non si paga l’affitto di casa o il calendario conta molte domeniche. Se non riusciamo a distruggerlo, questo ghetto, la libertà di sperimentazione si riduce a ben misera cosa.
Parecchi libertari pensano che il cambiamento della società possa e debba avvenire gradualmente, senza una rottura improvvisa. Per questo parlano di «sfere pubbliche non statali» dove elaborare nuove idee e nuove pratiche. Lasciando perdere gli aspetti decisamente comici della questione (dove non c’è Stato? come metterlo fra parentesi?), ciò che si può notare è che il riferimento ideale di questi discorsi rimane il metodo autogestionario e federalista sperimentato dai sovversivi in alcuni momenti storici (la Comune di Parigi, la Spagna rivoluzionaria, la Comune di Budapest, eccetera). La piccola banalità che si trascura, però, è che la possibilità di parlarsi e di cambiar la realtà i ribelli l’hanno presa con le armi. Si dimentica insomma un piccolo particolare: l’insurrezione. Non si può togliere un metodo (l’assemblea di quartiere, la decisione diretta, il collegamento orizzontale, eccetera) dal contesto che l’ha reso possibile, e addirittura schierare questo contro quello (con ragionamenti del tipo «non serve attaccare lo Stato, bisogna autorganizzarsi, rendere concreta l’utopia»). Prima ancora di considerare, ad esempio, cosa hanno significato – e cosa potrebbero significare oggi – i Consigli proletari, bisogna considerare le condizioni in cui sono nati (il 1905 in Russia, il 18-21 in Germania e in Italia, eccetera). Si è trattato di momenti insurrezionali. Qualcuno ci spieghi come è possibile, oggi, che gli sfruttati decidano in prima persona su questioni di una qualche importanza senza rompere con la forza la normalità sociale; poi si potrà parlare di autogestione e di federalismo. Prima ancora di discutere su cosa vorrebbe dire autogestire le attuali strutture produttive “dopo la rivoluzione”, bisogna affermare una banalità di base: i padroni e la polizia non sarebbero d’accordo. Non si può discutere di una possibilità trascurando le condizioni che la rendono concreta. Ogni ipotesi di liberazione è legata alla rottura con l’attuale società.
Facciamo un ultimo esempio. Anche in ambito libertario si parla di democrazia diretta. Si può rispondere subito che l’utopia anarchica si oppone al metodo della decisione per maggioranza. Giustissimo. Ma il punto è che nessuno parla concretamente di democrazia diretta. Lasciando perdere coloro che spacciano per democrazia diretta il suo esatto contrario, cioè la costituzione di liste civiche e la partecipazione alle elezioni municipali, prendiamo quelli che immaginano reali assemblee cittadine in cui parlarsi senza mediazioni. Su cosa potrebbero esprimersi i cosiddetti cittadini? Come potrebbero rispondere differentemente, senza cambiare allo stesso tempo le domande? Come mantenere la distinzione tra una pretesa libertà politica e le attuali condizioni economiche, sociali e tecnologiche? Insomma, comunque si giri la faccenda, il problema della distruzione rimane. A meno che non si pensi che una società centralizzata tecnologicamente possa essere allo stesso tempo federalista; oppure che possa esistere l’autogestione generalizzata in autentiche galere quali sono le attuali città. Dire che tutto ciò va cambiato gradualmente significa solo ingarbugliare le carte. Senza una rivolta diffusa non si può cominciare alcun cambiamento. L’insurrezione è la totalità dei rapporti sociali che, non più mascherata delle specializzazioni del capitale, si apre all’avventura della libertà. L’insurrezione da sola non dà risposte, è vero, inizia solo a porre le domande. Il punto allora non è: agire gradualmente o agire avventuristicamente. Il punto è: agire o sognare di farlo.
La critica della democrazia diretta (per restare all’esempio) deve considerare quest’ultima nella sua dimensione concreta. Solo così può andare oltre, pensando quali sono le basi sociali dell’autonomia individuale. Solo così questo oltre può farsi subito metodo di lotta. Oggi i sovversivi sono nella condizione di dover criticare le ipotesi altrui definendole in modo più corretto di quanto non facciano i loro stessi sostenitori.
Per affilare meglio i propri ferri.



V

È una verità assiomatica, lapalissiana, che la rivoluzione 
non si può fare se non quando vi sono forze sufficienti per farla.
Ma è una verità storica che le forze che determinano l’evoluzione 
e le rivoluzioni sociali non si calcolano coi bollettini del censimento
E. Malatesta

L’idea della possibilità di una trasformazione sociale oggi non è di moda. Le “masse”, si dice, sono totalmente addormentate e integrate alle norme sociali. Da una simile constatazione si possono trarre almeno due conclusioni: la rivolta non è possibile; la rivolta è possibile soltanto in pochi. La prima conclusione può a sua volta scomporsi in un discorso apertamente istituzionale (necessità delle elezioni, delle conquiste legali, eccetera) e in un altro di riformismo sociale (autorganizzazione sindacale, lotte per i diritti collettivi, eccetera). Allo stesso modo, la seconda conclusione può fondare un discorso avanguardista classico così come un discorso antiautoritario di agitazione permanente. 
Come premessa si può far notare che, nel corso della storia, ipotesi apparentemente opposte hanno avuto un fondamento comune.
Se si prende, ad esempio, l’opposizione tra socialdemocrazia e bolscevismo, risulta chiaro che entrambi partivano dal presupposto che le masse non hanno una coscienza rivoluzionaria, e che quindi devono essere dirette. Socialdemocratici e bolscevichi differivano soltanto nel metodo – partito riformista o partito rivoluzionario; strategia parlamentare o conquista violenta del potere – con cui applicare un identico programma: apportare dall’esterno la coscienza agli sfruttati.
Prendiamo l’ipotesi di una pratica sovversiva “minoritaria” che rifiuta il modello leninista. In una prospettiva libertaria, o si abbandona qualsiasi discorso insurrezionale (a favore di una rivolta dichiaratamente solitaria), oppure prima o poi bisognerà pur porre il problema della portata sociale delle proprie idee e delle proprie pratiche. Se non si vuole risolvere la questione nell’ambito dei miracoli linguistici (ad esempio dicendo che le tesi che si sostengono sono giànella testa degli sfruttati, oppure che la propria ribellione è già parte di una condizione diffusa) un dato di fatto si impone: siamo isolati – il che non vuol dire: siamo pochi.
Agire in pochi non solo non costituisce un limite, ma rappresenta un modo diverso di pensare la stessa trasformazione sociale. I libertari sono i soli a immaginare una dimensione di vita collettiva non subordinata all’esistenza di centri direttivi. L’autentica ipotesi federalista è proprio l’idea che rende possibile l’accordo tra le libere unioni degli individui. I rapporti di affinità sono un modo di concepire l’unione non più sulla base dell’ideologia e dell’adesione quantitativa, bensì a partire dalla conoscenza reciproca, dalla fiducia e dalla condivisione di passioni progettuali. Ma l’affinità nei progetti e l’autonomia dell’azione individuale rimangono lettera morta se non possono allargarsi senza essere sacrificate a pretese necessità superiori. Il collegamento orizzontale è ciò che rende concreta qualsiasi pratica di liberazione: un collegamento informale, di fatto, in grado di rompere con ogni rappresentazione. Una società centralizzata non può fare a meno del controllo poliziesco e di un mortale apparato tecnologico. Per questo, chi non sa immaginare una comunità senza autorità statale non ha strumenti per criticare l’economia che sta distruggendo il pianeta; chi non sa pensare una comunità di unicinon ha armi contro la mediazione politica. Al contrario, l’idea della libera sperimentazione e dell’unione di affini come base di nuovi rapporti rende possibile un completo rovesciamento sociale. Solo abbandonando ogni idea di centro (la conquista del Palazzo d’Inverno oppure, al passo con i tempi, della televisione di Stato) si può costruire una vita senza imposizioni e senza denaro. In tal senso il metodo dell’attacco diffuso è una forma di lotta che porta con sé un mondo diverso. Agire quando tutti predicano l’attesa, quando non si può contare sui grandi sèguiti, quando non si sa in anticipo se si otterranno risultati – agire in tal modo significa già affermare per cosa ci si batte: una società senza misura. Ecco allora che l’azione in piccoli gruppi di affini contiene la più importante delle qualità – quella di non essere un semplice accorgimento tattico, ma di realizzare allo stesso tempo il proprio fine. Liquidare la menzogna della transizione (la dittatura prima del comunismo, il potere prima della libertà, il salario prima della presa nel mucchio, la certezza del risultato prima dell’azione, le richieste di finanziamenti prima dell’espropriazione, le “banche etiche” prima dell’anarchia, eccetera) significa fare della rivolta stessa un modo differente di concepire i rapporti. Attaccare subito l’idra tecnologica vuol dire pensare una vita senza poliziotti dal camice bianco (il che significa: senza l’organizzazione economica e scientifica che li rende necessari); attaccare subito gli strumenti della domesticazione mediatica vuol dire creare relazioni libere dalle immagini (il che significa: libere dalla passività quotidiana che le fabbrica). Chi strilla che non è più – o non è ancora – tempo di rivolta, ci rivela in anticipo qual è la società per cui si batte. Al contrario, sostenere la necessità di un’insurrezione sociale, di un movimento incontenibile che rompa con il Tempo storico per fare emergere il possibile, significa dire una cosa semplice: non vogliamo dirigenti. Oggi l’unico federalismo concreto è la ribellione generalizzata.
Per rifiutare ogni forma di centralizzazione occorre oltrepassare l’idea quantitativa della lotta, l’idea, cioè, di chiamare a raccolta gli sfruttati per uno scontro frontale con il potere. Occorre pensare un altro concetto di forza – per bruciare i bollettini del censimento e cambiare la realtà.


Regola principale: non agire in massa. Conducete un’azione in tre o in quattro al massimo. Il numero dei piccoli gruppi deve essere quanto più grande possibile e ciascuno di loro deve imparare ad attaccare e scomparire velocemente. La polizia cerca di schiacciare una folla di un migliaio di persone con un solo gruppo di cento cosacchi. È più facile battere un centinaio di uomini che uno solo, specialmente se questi colpisce di sorpresa e scompare misteriosamente. La polizia e l’esercito saranno senza potere se Mosca è coperta di questi piccoli distaccamenti inafferrabili. […] Non occupare roccaforti. Le truppe saranno sempre in grado di prenderle o semplicemente di distruggerle grazie alla loro artiglieria. Le nostre fortezze saranno i cortili interni od ogni luogo da cui è agevole colpire e facile partire. Se dovessero prendere questi luoghi, non vi troverebbero nessuno e avrebbero perso numerosi uomini. È impossibile per loro prenderli tutti poiché dovrebbero, per questo, riempire ogni casa di cosacchi. 

Avviso agli insorti, Mosca, 11 dicembre 1905



VI

La poesia consiste nel fare matrimoni e divorzi illegali tra le cose
F. Bacon

Pensare un altro concetto di forza. Forse è proprio questa la nuova poesia. In fondo, cos’è la rivolta sociale se non un gioco generalizzato di matrimoni e divorzi illegali tra le cose?
La forza rivoluzionaria non è una forza uguale e contraria a quella del potere. Se fosse così saremmo già sconfitti, perché ogni cambiamento sarebbe l’eterno ritorno della costrizione. Tutto si ridurrebbe a uno scontro militare, a una danza macabra di stendardi. Ma i movimenti reali sfuggono sempre a uno sguardo quantitativo.
Lo Stato e il capitale hanno i più sofisticati sistemi di controllo e di repressione. Come contrastare questo Moloch? Il segreto consiste nell’arte di scomporre e ricomporre. Il movimento dell’intelligenza è un gioco continuo di scomposizioni e di corrispondenze. Lo stesso vale per la pratica sovversiva. Criticare la tecnologia, ad esempio, significa comporne il quadro generale, vederla non come semplice insieme di macchine, bensì come rapporto sociale, comesistema; significa comprendere che uno strumento tecnologico riflette la società che l’ha prodotto e che la sua introduzione modifica i rapporti tra gli individui. Criticare la tecnologia vuol dire rifiutare la subordinazione di ogni attività umana ai tempi del profitto. Diversamente ci si ingannerebbe sulla sua portata, sulla sua pretesa neutralità, sulla reversibilità delle sue conseguenze. Subito dopo, però, occorre scomporla nelle sue mille ramificazioni, nelle sue realizzazioni concrete che ci mutilano ogni giorno di più; occorre capire che la diffusione delle strutture produttive e di controllo che essa permette rende più semplice il sabotaggio. Diversamente sarebbe impossibile attaccarla. Lo stesso vale per le scuole, le caserme, gli uffici. Si tratta di realtà inseparabili dai generali rapporti gerarchici e mercantili, ma che si concretizzano in luoghi e uomini determinati.
Come rendersi visibili – noi, così pochi – agli studenti, ai lavoratori, ai disoccupati? Se si pensa in termini di consenso e di immagine (rendersi visibili, appunto), la risposta è scontata: sindacati e marpioni politici sono più forti di noi. Ancora una volta, ciò che fa difetto è la capacità di comporre-scomporre. Il riformismo agisce sul dettaglio, e in modo quantitativo: mobilita i grandi numeri per cambiare alcuni elementi isolati del potere. Una critica globale della società, invece, può far emergere una visione qualitativa dell’azione. Proprio perché non esistono centri o soggetti rivoluzionari cui subordinare i propri progetti, ogni realtà sociale rinvia al tutto di cui è parte. Che si tratti di inquinamento, di carcere o di urbanistica, un discorso realmente sovversivo finisce per mettere in questione tutto. Oggi più che mai, un progetto quantitativo (raccogliere gli studenti, i lavoratori o i disoccupati in organizzazioni permanenti con un programma specifico) non può che agire sul dettaglio, togliendo alle azioni la loro forza principale – quella di porre questioni irriducibili alle separazioni di categoria (studenti, lavoratori, immigrati, omosessuali, eccetera). Tanto più che il riformismo è sempre più incapace di riformare qualcosa (si pensi alla disoccupazione, falsamente presentata come un guasto – risolvibile – nella razionalità economica). Qualcuno diceva che ormai persino la richiesta di cibo non avvelenato è in se stessa un progetto rivoluzionario, dal momento che per soddisfarla bisognerebbe cambiare tutti i rapporti sociali. Ogni rivendicazione rivolta a un interlocutore preciso porta in sé la propria sconfitta, se non altro per la ragione che nessuna autorità può risolvere – nemmeno volendo – un problema di portata generale. A chi rivolgersi per contrastare l’inquinamento dell’aria?
Quegli operai che, durante uno sciopero selvaggio, portavano uno striscione su cui era scrittoNon chiediamo nulla, avevano compreso che la sconfitta è nella rivendicazione stessa («contro il nemico la rivendicazione è eterna» rammenta una legge delle XII tavole). Alla rivolta non rimane che prendersi tutto. Come aveva detto Stirner: «Per quanto voi concediate loro, essi chiederanno sempre di più, perché ciò che vogliono è niente meno che questo: la fine di ogni concessione».
E allora? Allora si può pensare di agire in pochi senza agire isolatamente, con la consapevolezza che qualche buon contatto serve di più, in situazioni esplosive, dei grandi numeri. Molto spesso lotte sociali tristemente rivendicative sviluppano metodi più interessanti degli obiettivi (un gruppo di disoccupati, ad esempio, che chiede lavoro e finisce col bruciare un ufficio di collocamento). Certo si può starsene in disparte a dire che il lavoro non va preteso, ma distrutto. Oppure si può cercare di unire la critica dell’economia a quell’ufficio bruciato appassionatamente, la critica dei sindacati a un discorso di sabotaggio. Ogni obiettivo di lotta specifico racchiude in sé, pronta ad esplodere, la violenza di tutti i rapporti sociali. La banalità delle loro cause immediate, si sa, è il biglietto da visita delle rivolte nella storia.
Cosa potrebbe fare un gruppo di compagni risoluti in situazioni simili? Non molto, se non ha già pensato (per esempio) a come distribuire un volantino o a quali punti della città allargare un blocco di protesta; qualcosa di più, se un’intelligenza gaia e facinorosa gli fa dimenticare i grossi numeri e le grandi strutture organizzative.
Senza voler rinnovare per questo la mitologia dello sciopero generale come condizione scatenante l’insurrezione, è abbastanza chiaro che l’interruzione dell’attività sociale rimane un punto decisivo. Verso questa paralisi della normalità deve tendere l’azione sovversiva, quale che sia la causa di uno scontro insurrezionale. Se gli studenti continuano a studiare, gli operai – quelli rimasti – e gli impiegati a lavorare, i disoccupati a preoccuparsi dell’occupazione, nessun cambiamento è possibile. La pratica rivoluzionaria sarà sempre sopra la gente. Un’organizzazione separata delle lotte sociali non serve né a scatenare la rivolta né ad allargarne e difenderne la portata. Se è vero che gli sfruttati si accodano a coloro che sanno garantire, nel corso delle lotte, maggiori miglioramenti economici – se è vero, cioè, che ogni lotta rivendicativa ha un carattere necessariamente riformista –, sono i libertari che possono spingere attraverso i metodi (l’autonomia individuale, l’azione diretta, la conflittualità permanente) a oltrepassare il quadro della rivendicazione, a negare tutte le identità sociali (professore, impiegato, operaio, eccetera). Un’organizzazione rivendicativa permanente specifica ai libertari rimarrebbe a fianco delle lotte (solo pochi sfruttati potrebbero scegliere di farne parte), oppure perderebbe la propria peculiarità libertaria (nell’ambito delle lotte sindacali, i più professionali sono i sindacalisti). Una struttura organizzativa formata da rivoluzionari e sfruttati può rimanere conflittuale solo se è legata alla temporaneità di una lotta, a un obiettivo specifico, alla prospettiva dell’attacco; insomma se è una critica in atto del sindacato e della collaborazione con i padroni.
Al momento non si può dire rimarchevole la capacità dei sovversivi di lanciare lotte sociali (antimilitariste, contro le nocività ambientali, eccetera). Resta l’altra ipotesi (resta, ben inteso, per chi non si ripete che «la gente è complice e rassegnata», e buona notte ai suonatori), quella di un intervento autonomo in lotte – o in rivolte più o meno estese – che nascono spontaneamente. Se si cercano chiari discorsi sulla società per cui gli sfruttati si battono (come ha preteso qualche fine teorico di fronte a una recente ondata di scioperi), si può starsene tranquillamente a casa. Se ci si limita – cosa in fondo non molto diversa – ad “aderire criticamente”, si aggiungeranno le proprie bandiere rosse e nere a quelle di partiti e sindacati. Ancora una volta la critica del dettaglio si sposa col modello quantitativo. Se si pensa che quando i disoccupati parlano di diritto al lavoro si deve fare altrettanto (con i debiti distinguo a proposito di salario e “attività socialmente utile”), allora l’unico luogo dell’azione appare la piazza affollata di manifestanti. Come sapeva il vecchio Aristotele, senza unità di tempo e di luogo non c’è rappresentazione possibile.
Ma chi l’ha detto che ai disoccupati non si può parlare – praticandoli – di sabotaggio, di abolizione del diritto, o del rifiuto di pagare l’affitto? Chi l’ha detto che, durante uno sciopero di piazza, l’economia non può essere criticata altrove? Dire ciò che il nemico non si aspetta ed essere dove non ci attende. Questa è la nuova poesia.



VII

Siamo troppo giovani, non possiamo più aspettare
 Scritta murale a Parigi

La forza di un’insurrezione è sociale, non militare. La misura per valutare la portata di una rivolta generalizzata non è lo scontro armato, bensì l’ampiezza della paralisi dell’economia, della presa di possesso dei luoghi di produzione e di distribuzione, della gratuità che brucia ogni calcolo, della diserzione degli obblighi e dei ruoli sociali; in breve, lo sconvolgimento della vita. Nessuna guerriglia, per quanto efficace, può sostituirsi a questo grandioso movimento di distruzione e di trasformazione. L’insurrezione è l’emergere leggero di una banalità: nessun potere può reggersi senza la servitù volontaria di chi lo subisce. Niente meglio della rivolta rivela che a far funzionare la macchina assassina dello sfruttamento sono gli sfruttati stessi. L’interruzione allargata e selvaggia dell’attività sociale scalza d’un colpo la coltre dell’ideologia e fa apparire i reali rapporti di forza; lo Stato si mostra così per quello che è – l’organizzazione politica della passività. L’ideologia da un lato e la fantasia dall’altro svelano allora tutto il loro peso materiale. Gli sfruttati non fanno che scoprire una forza che hanno sempre avuto, finendola con l’illusione che la società si riproduca da sola – o che qualche talpa scavi al loro posto. Essi insorgono contro il proprio passato di obbedienza – ciò che è Stato, appunto – contro l’abitudine eretta a difesa del vecchio mondo. La congiura degli insorti è la sola occasione in cui la “collettività” non è la notte che denuncia alla polizia il volo delle lucciole, né la menzogna che fa della somma dei malesseri individuali un bene comune, ma il nero che dà alla differenza la forza della complicità. Il capitale è innanzitutto la comunità della delazione, l’unione che fa la debolezza degli individui, un essere-insieme che ci rende divisi. La coscienza sociale è una forza interiore che ripete: «Gli altri accettano». La forza reale degli sfruttati si erge così contro di essi. L’insurrezione è il processo che libera questa forza, portandola a fianco del piacere di vivere e dell’autonomia; è il momento in cui si pensa reciprocamente che la cosa migliore che si può fare per gli altri è liberare se stessi. In tal senso essa è «un movimento collettivo di realizzazione individuale».
La normalità del lavoro e del “tempo libero”, della famiglia e del consumo, uccide ogni cattiva passione per la libertà. (In questo stesso momento, mentre scriviamo queste righe, siamo separati dai nostri simili, e questa separazione sgrava lo Stato del peso di proibirci di scrivere). Senza una frattura violenta con l’abitudine nessun cambiamento è possibile. Ma la rivolta è sempre opera di minoranze. Attorno c’è la massa, pronta a farsi strumento di dominio (per il servo che si ribella, il “potere” è allo stesso tempo la forza del padrone e l’obbedienza degli altri servi) oppure ad accettare per inerzia il cambiamento in atto. Il più grande sciopero generale selvaggio della storia – quello del Maggio francese – non ha coinvolto che un quinto della popolazione di un unico Stato. Da questo non consegue che la sola conclusione è quella di impadronirsi del potere per dirigere le masse, né che bisogna presentarsi come la coscienza del proletariato; ma semplicemente che non esiste alcun salto tra la società attuale e la libertà. L’attitudine servile e passiva non è faccenda che si risolve in qualche giorno né in qualche mese. Ma il suo contrario deve farsi spazio e prendersi il proprio tempo. Lo sconvolgimento sociale non è che la condizione di partenza.
Il disprezzo della “massa” non è qualitativo, bensì ideologico, cioè subordinato alle rappresentazioni dominanti. Il popolo del capitale esiste, certo, ma non ha contorni precisi. È pur sempre dalla massa anonima che escono, ammutinandosi, l’ignoto e la volontà di vivere. Dire che siamo gli unici ribelli in un mare di sottomissione è in fondo rassicurante, perché chiude la partita in anticipo. Noi diciamo semplicemente che non sappiamo chi sono i nostri complici e che abbiamo bisogno di una tempesta sociale per scoprirlo. Oggi ciascuno di noi decide in che misura gli altri non possono decidere (abdicando alla propria possibilità di scelta si fa funzionare un mondo di automi). Durante l’insurrezione la possibilità di scegliere si fa largo con le armi e con le armi bisogna difenderla, perché è sul suo cadavere che nasce la reazione. Per quanto minoritario (ma poi rispetto a quale unità di riferimento?) nelle sue forze attive, il fenomeno insurrezionale può prendere dimensioni estremamente ampie, ed è in questo che esso rivela la sua natura sociale. Più estesa ed entusiasta è la ribellione, meno lo scontro militare diventa la sua misura. Con l’allargarsi dell’autorganizzazione armata degli sfruttati si rivela tutta la fragilità dell’ordine sociale e si afferma la consapevolezza che la rivolta, così come i rapporti gerarchici e mercantili, è ovunque. Chi pensa alla rivoluzione come ad un colpo di Stato, invece, ha una concezione militare dello scontro. Qualsiasi organizzazione che si pone come avanguardia degli sfruttati tende a nascondere il fatto che il dominio è un rapporto sociale e non un semplice quartiere generale da conquistare; diversamente come giustificherebbe il proprio ruolo?
La cosa più utile che si può fare con le armi è quella di renderle quanto più inutili possibile. Ma il problema delle armi rimane astratto se non lo si lega al rapporto tra rivoluzionari e sfruttati, tra organizzazione e movimento reale.
Troppo spesso, purtroppo, i rivoluzionari hanno preteso di essere la coscienza degli sfruttati, di rappresentarne il grado di maturità sovversiva. Il “movimento sociale” è diventato così la giustificazione del partito (che nella versione leninista diventa un’élite di professionisti della rivoluzione). Il circolo vizioso è che più ci si separa dagli sfruttati, più si deve rappresentare un rapporto che manca. La sovversione viene così ridotta alle proprie pratiche, e la rappresentazione diventa l’organizzazione di un racket ideologico – la versione burocratica dell’appropriazione capitalista. Il movimento rivoluzionario si identifica allora con la sua espressione “più avanzata”, la quale ne realizza il concetto. La dialettica hegeliana della totalità offre un perfetto impianto a questa costruzione.
Ma esiste anche una critica della separazione e della rappresentazione che giustifica l’attesa evalorizza il ruolo dei critici. Con il pretesto di non separarsi dal “movimento sociale” si finisce col denunciare ogni pratica di attacco in quanto “fuga in avanti” o mera “propaganda armata”. Ancora una volta il rivoluzionario è chiamato a “disvelare”, magari nella sua stessa inazione, le condizioni reali degli sfruttati. Di conseguenza nessuna rivolta è possibile al di fuori di un movimento sociale visibile. Chi agisce, allora, deve per forza volersi sostituire ai proletari. L’unico patrimonio da difendere diventa la “critica radicale”, la “lucidità rivoluzionaria”. La vita è misera, quindi non si può che teorizzare le miseria. La verità innanzitutto. In questo modo la separazione tra i sovversivi e gli sfruttati non è per niente eliminata, ma solo spostata. Noi non siamo sfruttati accanto ad altri sfruttati; i nostri desideri, la nostra rabbia e le nostre debolezze non fanno parte dello scontro di classe. Mica possiamo agire quando ci pare: abbiamo una missione – anche se non si chiama certo così – da compiere. C’è chi si sacrifica al proletariato con l’azione e chi con la passività.
Questo mondo ci sta avvelenando, ci costringe ad attività inutili e nocive, ci impone di aver bisogno di denaro e ci priva di rapporti appassionanti. Stiamo invecchiando tra uomini e donne senza sogni, stranieri in un presente che non lascia spazio ai nostri slanci più generosi. Non siamo partigiani di alcuna abnegazione. Semplicemente quello che questa società sa offrire come il meglio (la carriera, la fama, la vincita improvvisa, l’ “amore”) non ci interessa. Il comando ci ripugna tanto quanto l’obbedienza. Siamo sfruttati come gli altri e vogliamo farla finita, subito, con lo sfruttamento. La rivolta per noi non ha bisogno di altre giustificazioni. 
La nostra vita ci sfugge e ogni discorso di classe che non parta da questo non è che una menzogna. Non vogliamo dirigere né sostenere movimenti sociali, ma partecipare a quelli che esistono nella misura in cui vi riconosciamo esigenze comuni. In una prospettiva smisurata di liberazione, non ci sono forme di lotta superiori. La rivolta ha bisogno di tutto, giornali e libri, armi ed esplosivi, riflessioni e bestemmie, veleni, pugnali ed incendi. L’unico problema interessante è come mescolarli.



VIII

Facile è colpire un uccello a volo uniforme
B. Gracián

Il desiderio di cambiare subito la propria vita non solo lo comprendiamo, ma è l’unico criterio con cui cerchiamo i nostri complici. Lo stesso vale per quello che si può chiamare un bisogno di coerenza. La volontà di vivere le proprie idee e di creare la teoria a partire dalla propria vita non è certo la ricerca di esemplarità (e del suo rovescio paternalista e gerarchico), bensì il rifiuto di ogni ideologia, compresa quella del piacere. Da chi si accontenta degli spazi che riesce a ritagliarsi – e a salvaguardare – in questa società, ci separa, ancor prima della riflessione, il modo stesso di palpare l’esistenza. Ma ugualmente distante sentiamo chi vorrebbe disertare la normalità quotidiana per affidarsi alla mitologia della clandestinità e dell’organizzazione combattente, cioè per rinchiudersi in altre gabbie. Non c’è alcun ruolo, per quanto legalmente rischioso, che possa sostituire il cambiamento reale dei rapporti. Non c’è scorciatoia a portata di mano, non esiste un salto immediato nell’altrove. La rivoluzione non è una guerra. 
L’infausta ideologia delle armi ha già trasformato, in passato,il bisogno di coerenza di pochi nel gregarismo dei più. Che le armi si rivoltino infine contro l’ideologia.
Chi ha la passione dello sconvolgimento sociale e una visione “personale” dello scontro di classe, qualcosa vuole farla subito. Se analizza le trasformazioni del capitale e dello Stato, è per decidersi ad attaccarli, non certo per andare a dormire con le idee più chiare. Se non ha introiettato i divieti e le distinzioni della legge e della morale dominante, cerca di usare tutti gli strumenti per determinare le regole del proprio gioco. La penna e la pistola sono ugualmente armi per lui, a differenza dello scrittore e del soldato, per cui sono faccende professionali e dunque di identità mercantili. Il sovversivo rimane tale anche senza penna e senza pistola, rimane tale finché conserva l’arma che contiene tutte le altre: la propria risolutezza.
La “lotta armata” è una strategia che può essere messa al servizio di qualsiasi progetto. La guerriglia è usata anche oggi da organizzazioni il cui programma è nella sostanza socialdemocratico; semplicemente, sostengono le proprie rivendicazioni con una pratica militare. La politica si può fare anche con le armi. In qualsiasi trattativa con il potere – in qualsiasi rapporto, cioè, che mantenga quest’ultimo come interlocutore, ancorché avversario – chi vuole negoziare deve porsi come forza rappresentativa. Rappresentare una realtà sociale vuol dire, in questa prospettiva, ridurla alla propria organizzazione. Lo scontro armato non lo si vuole allora diffuso e spontaneo, ma legato alle diverse fasi delle trattative. L’organizzazione ne gestirà i risultati. I rapporti tra i membri dell’organizzazione e tra quest’ultima e l’esterno riflettono di conseguenza quello che è un programma autoritario; portano la gerarchia e l’obbedienza nel cuore.
Per chi si prefigge la conquista violenta del potere politico il problema non è molto diverso. Si tratta di propagandare la propria forza di avanguardia in grado di dirigere il movimento rivoluzionario. La “lotta armata” è presentata come la forma superiore delle lotte sociali. Chi è più rappresentativo militarmente – grazie alla riuscita spettacolare delle azioni – costituisce dunque l’autentico partito armato. I processi e i tribunali popolari sono la conseguente messa in scena di chi vuole sostituirsi allo Stato.
Lo Stato, dal canto suo, ha tutto l’interesse a ridurre la minaccia rivoluzionaria ad alcune organizzazioni combattenti, per trasformare la sovversione in uno scontro tra due eserciti: le istituzioni da un lato e il partito armato dall’altro. Ciò che il dominio teme è la rivolta generalizzata e anonima. L’immagine mediatica del “terrorista” lavora insieme alla polizia alla difesa della pace sociale. Il cittadino applaude o si spaventa, ma rimane comunque cittadino, cioè spettatore.
È l’abbellimento riformista dell’esistente ad alimentare la mitologia armata, producendo la falsa alternativa tra la politica legale e la politica clandestina. Basta notare quanti sinceri democratici della sinistra si commuovono per la guerriglia in Messico o in America latina. La passività ha sempre bisogno di guide e di specialismi. Quando è delusa da quelli tradizionali, si accoda ai nuovi.
Un’organizzazione armata – con un programma e una sigla – specifica ai rivoluzionari, può avere certamente caratteristiche libertarie, così come la rivoluzione sociale che molti anarchici vogliono è, senza dubbio, anche una “lotta armata”. Ma basta?
Se riconosciamo la necessità di organizzare, nel corso dello scontro insurrezionale, il fatto armato; se sosteniamo la possibilità, fin da ora, di attaccare le strutture e gli uomini del dominio; se consideriamo decisivo, infine, il collegamento orizzontale tra i gruppi di affinità nelle pratiche di rivolta; critichiamo la prospettiva di chi presenta le azioni armate come l’oltrepassamento reale dei limiti delle lotte sociali e attribuisce così a una forma di lotta un ruolo superiore alle altre. Inoltre vediamo nell’uso di sigle e programmi la creazione di un’identità che separa i rivoluzionari dagli altri sfruttati rendendoli allo stesso tempo visibili al potere, cioèrappresentabili. L’attacco armato, in questo senso, non è più uno dei tanti strumenti della propria liberazione, ma un’espressione che si carica di valore simbolico e che tende ad appropriarsi di una ribellione anonima. L’organizzazione informale come fatto legato alla temporaneità delle lotte diventa una struttura decisionale, permanente e formalizzata. Un’occasione per incontrarsi nei propri progetti si trasforma in un progetto in sé. L’organizzazione comincia a voler riprodurre se stessa, esattamente come le strutture quantitative riformiste. Segue immancabilmente il triste corredo di comunicati e rivendicazioni e di documenti programmatici in cui si alza la voce per trovarsi poi a rincorrere un’identità che esiste solo perché è stata dichiarata. Azioni di attacco del tutto simili ad altre semplicementeanonime sembrano allora rappresentare chissà quale salto di qualità nella pratica rivoluzionaria. Riappaiono gli schemi della politica e si comincia a volare in modo uniforme.
Certo la necessità di organizzarsi è qualcosa che può accompagnare sempre la pratica dei sovversivi, al di là delle temporanee esigenze di una lotta. Ma per organizzarsi c’è bisogno di accordi vivi e concreti, non di un’immagine in cerca di riflettori.
Il segreto del gioco sovversivo è la capacità di frantumare gli specchi deformanti e di trovarsi faccia a faccia con le proprie nudità. L’organizzazione è l’insieme reale dei progetti che la fanno vivere. Tutto il resto è protesi politica, o non è niente. 
L’insurrezione è molto più di una “lotta armata”, perché in essa lo scontro generalizzato è tutt’uno con lo sconvolgimento dell’ordine sociale. Il vecchio mondo viene rovesciato nella misura in cui gli sfruttati insorti sono tutti armati. Solo allora le armi non sono l’espressione separata di qualche avanguardia, monopolio dei futuri padroni e burocrati, ma la condizione concreta della festa rivoluzionaria, la possibilità collettiva di allargare e difendere la trasformazione dei rapporti sociali. All’infuori della rottura insurrezionale, la pratica sovversiva è ancora meno una “lotta armata”, salvo a voler restringere l’immenso campo delle proprie passioni ad alcuni strumenti soltanto. Questione di accontentarsi dei ruoli già fissati o di cercare la coerenza nel punto più lontano: la vita.
Allora davvero nella rivolta diffusa potremmo scorgere, in controluce, una meravigliosacongiura degli io per creare una società senza capi e senza dormienti. Una società di liberi e di unici.



IX

Non chiederci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
E. Montale

La vita non può essere solo qualcosa a cui aggrapparsi. È un pensiero che sfiora chiunque, almeno una volta. Abbiamo una possibilità che ci rende più liberi degli dèi: quella di andarcene. È un’idea da assaporare fino in fondo. Niente e nessuno ci costringe a vivere. Nemmeno la morte. Per questo la nostra vita è una tabula rasa, una tavoletta che non è ancora stata scritta e che quindi contiene tutte le parole possibili. Con una simile libertà non si può vivere da schiavi. La schiavitù è fatta per chi è condannato a vivere, per chi è costretto all’eternità, non per noi. Per noi c’è l’ignoto.
L’ignoto di ambienti in cui perdersi, di pensieri mai rincorsi, di garanzie che saltano per aria, di sconosciuti perfetti a cui regalare la vita. L’ignoto di un mondo a cui poter finalmente donare gli eccessi dell’amore di sé. Il rischio, anche. Il rischio della brutalità e della paura. Il rischio di vederlo finalmente in faccia, il male di vivere. Tutto questo incontra chi vuole farla finita colmestiere di esistere
I nostri contemporanei sembrano vivere per mestiere. Si dimenano boccheggianti tra mille obblighi, compreso il più triste – quello di divertirsi. L’incapacità di determinare la propria vita la mascherano con attività dettagliate e frenetiche, con una velocità che amministra comportamenti sempre più passivi. Non conoscono la leggerezza del negativo.
Possiamo non vivere, ecco la più bella ragione per aprirsi con fierezza alla vita. «Per dare la buonanotte ai suonatori c’è sempre tempo; tanto vale rivoltarsi e giocare» – così parla il materialismo della gioia.
Possiamo non fare, ecco la più bella ragione per agire. Raccogliamo in noi stessi la potenza di tutti gli atti di cui siamo capaci, e nessun padrone potrà mai toglierci la possibilità del rifiuto. Ciò che siamo e ciò che vogliamo cominciano con un no. Da lì nascono le sole ragioni per alzarsi al mattino. Da lì nascono le sole ragioni per andare armati all’assalto di un ordine che ci soffoca.
Da un lato c’è l’esistente, con le sue abitudini e le sue certezze. E di certezze, questo veleno sociale, si muore.
Dall’altro c’è l’insurrezione, l’ignoto che irrompe nella vita di tutti. L’inizio possibile di una pratica esagerata della libertà.



Nota su un’appendice che non c’è

Anche la qualità di ciò che si avversa ha la sua importanza. Ci siamo incaponiti, per un certo periodo, nel cercare testi contemporanei che illustrassero con sufficiente coerenza alcune tesi che escludono la possibilità della rottura insurrezionale, per aggiungerli in appendice e rendere ancora più chiaro il contenuto del libretto. In particolar modo le tesi di chi preferisce i piccoli passi riformatori e quelli di chi, auto-nominandosi rappresentante privilegiato degli sfruttati, pensa di poter fare una rivolta per pochi intimi a suon di fuochi pirotecnici e slogan mal assemblati.
Ma, dopo un vano cercare, abbiamo rinunciato. Per trovare qualche testo ben fatto, in grado di porre domande serie ed attuali, saremmo dovuti andare indietro nel tempo di vent’anni. Del presente si può dire che è un tristo sacco che merda fa di quel che trangugia

[1998]