“Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”
(G. Leopardi).
1. Introduzione
Il pensiero filosofico sfocia nel secolo
scorso nella costituzione di una corrente di pensiero che prese il nome di
esistenzialismo. Indubbio fu per i maggiori esponenti di questo filone,
Heidegger, Sartre e Jaspers, l’influsso che nella metà del diciannovesimo secolo
diede S. Kierkegaard, e successivamente E. Husserl.
Nel 1936, periodo particolarmente complicato
per la Germania, comparve un articolo intitolato Die Frage an den Einzelnen, in
cui l’autore, Martin Buber, pose accanto al nome di Kierkegaard quello di Max
Stirner. Il nome di Stirner era stato avvicinato precedentemente a quello di
Nietzsche, al quale deve insieme a Marx ed Engels una sorta di “gratitudine”,
dal momento che grazie alla loro notorietà, gli studi stirneriani furono
provvisti sempre di nuovi interessi, ora nella marxiana Deutsche Ideologie, ora
in continua relazione a Nietzsche, e posero mano a quella che gli odierni
studiosi dello stirnerismo considerano come un vero e proprio risveglio della critica
stirneriana.
Oggi la bibliografia stirneriana conta
intorno ai 3500 scritti, tra monografie, articoli e miscellanee, lavoro che
dura ormai da circa centocinquanta anni, ma è soltanto dalla seconda metà del
ventesimo secolo che comparvero studi e posizioni che prescindevano dal
valutare Stirner come anarchico o come precursore di un’etica fascista. E’ in
questo senso che il lavoro di Buber getta nuova luce sulla filosofia
stirneriana; successivamente, infatti, il pensiero esistenziale diventerà una chiave
interpretativa della sua opera, nata proprio dall’intuizione buberiana.
E’ obbligo però precisare un aspetto di tutto
ciò: il pensiero esistenzialista nato nel ventesimo secolo è a mio parere
segnato dall’esperienza delle due guerre mondiali ed è permeato da un’etica
della responsabilità, mentre l’esistenzialismo di Kierkegaard, come quello di
Stirner, è frutto di una riflessione privata sull’individuo; tale riflessione
scaturiva, in Stirner, da una condizione tanto alienante, quanto miserevole
della condizione umana, mentre al filosofo danese si deve additare una sorta di
dovere interiore che segue un perenne crescendo di fronte alla figura del Cristo,
ed una critica radicale nei confronti del modo in cui la religione cristiana
era vissuta dai credenti del tempo.
Gli studiosi che videro Stirner “legato” a
tematiche esistenzialiste introdussero una nuova valutazione della sua
filosofia. In Aux sources de l’esistentialisme: Max Stirner (1954), Arvon
osservò che tra Kierkegaard e Stirner ci sono dei punti che concordano e che
addirittura si confondono: la posizione avversa al sistema hegeliano e una
centralità dell’individuo squisitamente esistenziale. L’acuto critico francese
approfondì con svariati lavori la tematica stirneriana ed oggi rientra tra le principali
fonti di chiunque si interessi di Stirner, soprattutto per chi prediliga
un’ottica marxista. Arvon non approfondì la prospettiva esistenziale del nostro
filosofo, il suo lavoro fu incentrato sulla figura di Stirner in rapporto a
Feuerbach e a Marx, ponendolo come l’ultimo anello della catena della scuola
hegeliana; ma è suo il merito, tramite un lavoro completo e svariati anni
dedicati alla tematica stirneriana, di un successivo interesse degli studiosi
nei riguardi di Stirner.
A mio avviso le riflessioni di Kierkegaard e
Stirner possono sicuramente essere comparate tra di loro quanto ad un punto
indubbiamente in comune, ossia il valore dell’esistenza e per le possibilità di
essere ad essa connesse. Il giudizio di K. Löwith è indicativo dal momento che
pone accanto ai già citati Stirner e Kierkegaard Karl Marx; nel capitolo
dedicato al problema dell’umanità del suo Von Hegel zu Nietzsche; scrive
Löwith: «Marx termina con l’uomo comunista, che privatamente non possiede più
nulla, Stirner con il non-uomo, che ha tra le altre, ancora la proprietà di
essere uomo; e Kierkegaard, infine, con il Cristo, in cui l’uomo ritrova per l’eternità
la sua misura sovrumana. In tal modo si spezza la catena, facente capo a Hegel,
dei tentativi radicali per una nuova determinazione dell’uomo».
Sono dell’opinione che lo spessore delle
meditazioni stirneriane vadano oltre la filosofia “accademica”, e quando la
ricerca filosofica si spoglia della sua stessa tradizione è allora che il
pensiero acquista una caratteristica fondamentale per se stesso e per il suo
interno divenire, e che si esprime come pensiero liberamente creatore.
Ed è proprio in virtù di quest’aspetto
peculiare della filosofia stirneriana che ritengo sia alquanto difficile
restituire la carica che Stirner gli impresse. Anche se Stirner non tratta
esplicitamente di filosofia del linguaggio, la sua posizione a tal riguardo è
decisamente forte, il linguaggio per lui è incapace di esprimere la realtà; per
quanto indispensabili, infatti, le parole per Stirner non hanno carne e sono dunque
destinate a rimanere eternamente vuote. Stirner non è un semplice nominalista,
la sua opera pone in luce la natura stessa del linguaggio, un linguaggio che si
presenta, secondo il nostro filosofo, ancora sostanzialmente religioso, in quanto
“il valore” delle parole è stato assegnato dalla chiesa. Accanto a questa considerazione
sulla natura e lo sviluppo del linguaggio, sono dell’opinione che Stirner poggi
su di essa una ben più radicale posizione, che intendo formulare in questi
termini: tra i nomi e le regole grammaticali che costituiscono il linguaggio
non rientra quella realtà fatta di intuizioni, con le sue interdipendenze tra
l’uomo ed il mondo e ancor di più tra il soggetto e la sua interiorità.
Giorgio Penzo, nei suoi lavori su Stirner, è
spesso ritornato su di una valutazione complessiva del filosofo, ponendo in
luce che egli non brilla, per così dire, di luce riflessa (Nietzsche o il
pensiero esistenzialista), ma che anzi le sue riflessioni vanno oltre,
costituendo un proprio ed originale nucleo filosofico. A tal riguardo, credo
che quel nucleo filosofico si possa formulare in termini squisitamente esistenziali.
L’esistenza è per Stirner inesprimibile, indicibile, sicuramente dura, problematica,
ma estremamente vissuta e goduta in quanto unica ed irripetibile. E’ dall’esistenza
che a parere di Stirner proviene e procede il pensiero.
Tale relazione è presente, a mio avviso,
nell’Unico, negli Scritti Minori e nelle Risposte ai Critici, e viene espressa,
col passare degli anni, sempre con maggior convinzione. Ritengo che la tematica
dell’egoismo, o meglio dell’ego-ismo, porti con sé proprio questa
consapevolezza: il piano dell’autenticità è quello del singolo, mentre il
concetto di uomo resta per Stirner soltanto uno spettro, è la realizzazione delle
potenzialità personali, l’azione che compie l’Unico.
L’indeterminato trova la sua determinazione
nella volontà singola. A differenza di Hegel, che vide l’uomo impotente di
fronte al passaggio tra l’indeterminato e il determinato (ossia lo Spirito),
costretto ad inglobarsi in questo processo infinito, Stirner propone la
rivolta, che Penzo definisce autenticamente come essere-inrivolta, portando in
luce il suo significato esistenziale anche se, in ogni caso, si viene a
delineare uno schema tipicamente idealistico. Ad ogni modo, credo che la rivolta
(Empörug) indichi anche un’indignazione nei riguardi del presente e che spinga
al cambiamento; essa, infatti, porta con sé una consapevolezza a livello di coscienza.
La rivolta assume quindi, a mio parere, un valore essenzialmente esistenziale,
anche se non credo che nasca in questi termini. Sono dell’opinione che l’unico,
cioè l’individuo in carne ed ossa, vivendo immerso nel “Si” impersonale attuato
dallo stato e dalla religione, si comprende alienato ed è distante dalla sua
più pura condizione, che è quella tellurica. Rivoltandosi, prende le distanze
da quel reale perché giunge alla consapevolezza che la staticità delle forme,
così come la secolarizzazione dell’autorità, sono le cause dell’alienazione
verso se stesso. Tutto è riferito al singolo, è questo l’Ego-ismo stirneriano.
La risposta stirneriana è una rivolta, un’associazione di uomini liberi,
“vivi”; per non cadere nel Si e nelle forme statiche, infatti, bisogna condurre
la propria esistenza come essere-in-rivolta, essere che di volta-in-volta crea
le sue condizioni, i suoi rapporti, e di conseguenza se stesso, ma che tuttavia
è sempre disposto alla loro distruzione, in quanto è nel nulla che l’unico è
creatore di tutto.
E’ certamente vero che la dimensione morale è
ampiamente ristretta, ma di sicuro non viene eliminata, in quanto credo che
essa sia riportata alla legislazione soggettiva, che è tutt’altra cosa rispetto
a quanto proponevano le interpretazioni forzate fatte sia dagli esponenti
dell’anarchismo, sia dagli intellettuali di sinistra.
Sono significative quanto non popolari, a tal
riguardo, due interventi tenuti da C. Cesa e D. McLellan nel convegno tenuto a
Napoli nel 1996 intitolato “Max Stirner e l’individualismo moderno”: Cesa
teorizzava un diverso sviluppo del marxismo sulla base di una considerazione
diversa rispetto a quella che diede Marx nei confronti di Stirner, mentre
McLellan presentava una riflessione amara per la storia del marxismo. Mi piace
ricordare a tal proposito che, negli scritti di Stirner, si trova a mio avviso,
un disprezzo non verso gli uomini, ma verso il loro stato di schiavitù; è noto
che Stirner non sia un pensatore volto alla beneficenza, e lontana è dalle sue intenzioni
una proposta come quella kantiana della pace perpetua, ma credo che egli sia
fortemente motivato a cercare di far comprendere a quegli stessi “schiavi dell’estraniazione”
come costruire gli strumenti e le basi per la loro libertà.
Porre una qualsivoglia problematica del
fondamento nel pensiero stirneriano è particolarmente complicato, in quanto è
di primaria importanza ricordare che non era intenzione di Stirner costituire
un sistema filosofico, e questo vale anche, e credo soprattutto, per il terreno
della politica. Proporre il singolo come fondamento è ovvio, seguendo il pensiero
stirneriano, ma forse la problematica fondamentale è il rapporto del singolo
con il mondo e le sue creazioni. Le creazioni dell’uomo (Stato, Religione e
Diritto), ponendosi al di sopra di esso, lo dominano, ed è proprio questa
condizione estraniante che “risveglia” l’unico che, compresa questa situazione
a livello di coscienza, passa all’atto della riconquista. “Riconquista” proprio
perché la lotta è contro la santità del diritto e della legge. Per Stirner,
infatti, la dimensione sacra è una fissazione, un ossesso. Ponendosi come
proprietario di sé, affermandosi come detentore del proprio diritto, e non
riconoscendone altri, egli è libero.
E’ di fondamentale importanza, a mio avviso,
avere sempre chiaro il contesto filosofico di cui Stirner fece parte. I suoi
anni di studio sono anche gli anni dell’incontrastato dominio hegeliano e,
successivamente, della sua scuola; non a caso, proprio in questi anni, “nasce”
la storiografia come scienza e molti pensatori vengono espulsi dalle facoltà
per evidente contrasto con la filosofia del tempo. Molti di questi Stirner li
ritroverà da Heippel, uniti contro le istituzioni. Religione e Stato, infatti,
sono stati gli argomenti principali del periodo post-hegeliano, i punti nodali
su cui la scuola si divise: la filosofia di Strauss prima e Feurbach dopo, di
Bauer e Stirner, e degli annali franco-tedeschi, con a capo K. Marx.
Da questo movimento di critica e ribellione,
Max Stirner intraprese la lotta iniziata su di un territorio comune ad altri
pensatori. Ma ben presto egli si allontanò da quel gruppo, mentre il suo
pensiero andava formandosi in un modo compiuto ed
unitario.
2. La consapevolezza stirneriana
Nelle Risposte ai recensori dell’Unico e la
sua proprietà, Stirner affronta una problematica principale, sorta soprattutto
dall’interpretazione che i suoi contemporanei diedero della sua opera.
Nella parte iniziale di tale scritto, Stirner
dà una triplice risposta che poggia sull’“accordo” dei suoi oppositori Szeliga,
Feuerbach ed Hess; egli scrive, infatti, «Ueber
diejenigen Worte, welche in Stirners Buche die auffälligsten sind, über den “Einzigen”
nämlich und den “Egoisten”, stimmen die drei Gegner unter einander überein. Es
wird daher am dienlichsten sein, diese Einigkeit zu benutzen und die berührten Punkte
vorweg zu besprechen».
Precisando il significato del termine unico
(Einzige), Stirner ha così l’opportunità di chiarire e di prendere le distanze
da interpretazioni che a suo giudizio stravolgono le sue intenzioni ed il suo
pensiero. Passando in rassegna molto velocemente le tre recensioni sotto
quest’aspetto, Stirner pone in luce come in tutte e tre le critiche, l’unico
appaia come «lo spettro di tutti gli spettri», come «l’individuo sacro, che ci
si deve levare dalla mente», o ancora «un millantatore», come lo definisce M.
Hess. La risposta alla domanda chi è l’unico Stirner risponde: « Der Einzige ist ein Wort, und bei einem
Worte müßte man sich doch etwas denken können, ein Wort müßte doch einen
Gedankeninhalt haben. Aber der Einzige ist ein gedankenloses
Wort, es hat keinen Gedankeninhalt. – Was ist aber dann sein Inhalt, wenn der
Gedanke es nicht ist? Einer, der nicht zum zweiten Male dasein, folglich auch
nicht ausgedrückt werden kann; denn könnte er ausgedrückt, wirklich und ganz ausgedrückt
werden, so wäre er zum zweiten Male da, wäre im “Ausdruck” da »
In realtà non credo che fosse necessario
“spiegare” che cosa fosse l’unico, dal momento che nel Der Einzige non esiste
altro soggetto che l’individuo esistente in carne ed ossa; certo, di esso si
possono predicare molti attributi, tra i quali la forza, l’antistatalismo,
l’ateismo, ma non l’esistenza. Volontà ed esistenza sono per l’unico
(l’individuo) caratteri ultimi ed indivisibili che consentono la realizzazione
della propria singolarità ed irripetibilità. Tali caratteri costituiscono in un
certo senso la sub-stantia dell’unico e non l’essentia, in quanto su di essi
poggiano gli attributi. Si predica dell’ateismo e dell’antistatalismo
riferendosi non all’uomo come concetto, ma al singolo individuo, un individuo
che vive e che vuole. Nell’unico, forma e contenuto dissolvono la dualità, come
su di una tela dadaista; non esiste alcuna essenza esterna o interna
all’individuo15, è bandito ogni tipo di
dualismo metafisico, ma resta la consapevolezza della mancanza totale del
proprio fondamento. Per Stirner, quindi, il fondamento dell’uomo è nullo, ma
esso non è un niente, è bensì un nulla creatore dal quale l’individuo è nato.
Il singolo, valutato da Stirner come un essere caduco, non può, a suo avviso,
avere un fondamento eterno; tale riflessione ci conduce ad un aspetto
fondamentale del suo pensiero: egli, infatti, sostituendo il genere con il
singolo, pone in rilievo l’abissale aporia che si ritrova nel pensiero borghese-cristiano.
Come ricorda Stirner nel principio della propria opera, lo stato e Dio servono
la loro causa, ma essi, ideali oggettivizzati dagli uomini, esistono soltanto
nella condizione in cui gli uomini servono la loro causa. « nicht Ich lebe, - scrive
Stirner - sondern das Respektierte lebt in Mir! ».
A parere di Stirner, Dio e lo stato vivranno
fin quando l’uomo spenderà la propria vita per servirli, e parimenti morranno
soltanto quando l’individuo servirà la sua propria causa, quella che Stirner
definisce come causa egoistica.
Sembra che il groviglio da cui deve liberarsi
l’individuo sia tutta la costruzione che il genere umano, in quanto eterno, ha
compiuto, tutto ciò che la razza umana ha creato come bisogno tanto esterno
come lo stato, quanto interno come la morale e la religione. L’io si ritrova il
solo padrone di se stesso, in una relazione col mondo che egli non ha voluto;
si scopre, quindi, scaraventato nel mondo, in una condizione ben più radicale,
problematica e paradossale dell’EsserCi heideggeriano. Buttato a caso tra il groviglio
di tutte le altre cose del mondo, allo stesso modo in cui si gettano dei dadi
(herumgewürfelt), l’unico deve cercare di emergere da tutto ciò.
Le pagine della sua opera hanno a mio avviso
un duplice significato: esse si presentano come il risultato di riflessioni ed
elaborazioni avute, da un lato, su di un piano socio-politico, dall’altro, su
di un terreno individualistico-esistenziale.
Entrambe, a loro volta, formano una
riflessione complessiva ed unitaria, che accoglie in sé sia l’aspetto sociale,
sia quello individuale. Se, da una parte, Stirner parla dell’individuo,
teorizzando l’egoismo, dall’altra trova nella Verein l’assetto migliore che una
“società”, a suo modo di vedere, possa avere, anche se non si preoccupa di ciò
che può avvenire dopo l’associazione. Certo, lui pone in evidenza come lo stato
e la religione del suo tempo siano i principali responsabili della schiavitù individuale,
e se in un suo scritto precedente pone l’importanza di un’educazione libera,
ora, nella sua opera maggiore, mostra come l’esistenza del singolo si possa liberare
da questa schiavitù.
Di differente avviso furono i suoi recensori,
e soprattutto Feuerbach, il quale, come è noto, preferì porre la sua critica
nei riguardi di Stirner, trasformando l’unico in un ente generico, universale,
sacro. Feuerbach, d’altronde, era stato attaccato aspramente da Stirner, e
proprio in virtù di questo “rapporto”, i due pensatori ebbero l’opportunità di
scontrarsi, arricchendo le loro rispettive posizioni. I punti significativi della
critica stirneriana si trovano nella sezione sul liberalismo umanitario, riguardante
la critica del concetto di uomo. Il mascheramento del pensiero
cristianoteologico, diventato pensiero umanitario dal medioevo all’età moderna,
trovava la sua voce, secondo Stirner, nel pensiero feuerbachiano, riassunto
nella formula “per l’uomo essere supremo è l’uomo stesso”, che Stirner riporta
nel principio della sua opera.
In questo contesto polemico nei confronti del
pensiero stirneriano, prende posizione Franz Zychlinski, meglio conosciuto come
Szeliga. Ponendo in luce, come Feuerbach, il significato del termine Einzige,
sottolinea anch’egli la sua dimensione santa.
La risposta stirneriana è come al solito
molto tagliente, oltre che ben ponderata. È importante, a mio avviso, tenere
ben presente che sono soprattutto le sue risposte alle critiche che legittimano
un’interpretazione in chiave esistenziale del suo pensiero, dal momento che è
in questa sede che Stirner pone esplicitamente la domanda capitale del suo
pensiero, ovvero, la domanda del chi, del soggetto, del pensante rispetto al
pensato.
«Es war die Speculation – procede Stirner – darauf gerichtet, ein Prädicat zu finden, welches so allgemein wäre,
daß es Jeden in sich begriffe. Ein solches dürfte doch jedenfalls nicht
ausdrücken, was Jeder sein soll, sondern was er ist. Wenn also “Mensch” dieß
Prädicat wäre, so müßte darunter nicht etwas verstanden werden, was Jeder
werden soll, da sonst Alle, die es noch nicht geworden, davon ausgeschlossen
wären, sondern etwas, was Jeder ist. Nun, “Mensch” drückt auch wirklich aus,
was Jeder ist. Allein dieses Was ist zwar Ausdruck für das Allgemeine in Jedem,
für das, was Jeder mit dem Andern gemein hat, aber es ist nicht Ausdruck für
den “Jeder”, es drückt nicht aus, wer Jeder ist ». Questo
è il terreno sul quale poggia la riflessione stirneriana, che non è una mera
speculazione sull’essere e i suoi attributi, né una filosofia che si pone come
scienza delle cause ultime, ma è filosofia, nella misura in cui la filosofia
viene a coincidere con l’esistenza del singolo.
Ed ogni filosofia che fa del singolo astratto
un concetto si presenta, secondo Stirner, nel baratro del pensiero, mentre egli
pone la domanda: « Erfüllt jenes Prädicat
“Mensch ” – prosegue Stirenr – die Aufgabe des Prädicats, das Subject ganz auszudrücken,
und läßt es nicht im Gegentheil am Subjecte gerade die Subjectivität weg und
sagt nicht, wer, sondern nur, was das Subject sei? Soll
daher das Prädicat einen Jeden in sich begreifen, so muß ein Jeder darin als
Subject erscheinen d. h. nicht bloß als das, was er ist, sondern als der, der
er ist».
Nell’Unico, come d’altronde negli scritti
minori, un’interpretazione “rivoltosa” si affianca a quella esistenziale:
l’individuo giunge alla consapevolezza della propria esistenza soltanto quando,
a parere di Stirner, si riconosce come individuo essenzialmente libero, non
accettandosi né come cittadino né come cristiano, ma unicamente come singolo.
L’esistenzialismo stirneriano poggia quindi,
a mio avviso, su di una base particolarmente problematica: il singolo riesce ad
esprimere tutte le sue potenzialità soltanto a patto che nessuno tenda a
limitarlo; egli deve poter liberamente dare il proprio valore a tutto ciò che
lo circonda, e diventa il creare centro del suo dominio.
Il terreno del creare esclude qualsiasi
limitazione; beninteso, egli non intende creare oggetti tramite un’intuizione
intellettuale, ma distruggere i rapporti esistenti tra gli uomini, i quali sono
prevalentemente rapporti di sudditanza; gli uomini, infatti, a parere di
Stirner, non hanno più rapporti diretti tra loro, ma sono estraniati da sé stessi
a causa del diritto e dello stato. Il diritto, che Stirner definisce come la
volontà della società, regola i rapporti tra gli uomini in quanto volontà del
dominatore; tramite la legge e quindi il diritto, lo stato, sotto la maschera
di mediatore, imprime la sua stessa volontà, e il suo dominare è un tenere
sotto controllo, per cui il suo nemico più pericoloso è la volontà personale.
Stirner incita a creare, dunque, nuovi rapporti tra gli individui, “Mann gegen
Mann”, messi l’uno di fronte all’altro, instaurando rapporti che non hanno
bisogno di intermediari o di enti superiori; proponendo nuovi rapporti
interpersonali, Stirner teorizza l’unione dei liberi, cioè di uomini che non vogliono
più farsi governare, ma che vogliono governarsi.
Fermo restando che a nessuna interpretazione
del pensiero stirneriano spetti una posizione privilegiata, ritengo, tuttavia,
che un’interpretazione che poggi su un duplice piano - ovvero quello
esistenziale-politico, o meglio, quello di una fenomenologia del singolo e dei
suoi rapporti - possa far luce su quel complesso susseguirsi di pensieri che è
il filosofare stirneriano. E’ importante a tal proposito ricordare che la
figura di Stirner è stata per lungo tempo accostata al pensiero anarchico e,
tramite la lettura di Marx ed Engels, ad un’ideologia tipicamente borghese. In
un certo senso, sia i teorici dell’anarchismo sia gli intellettuali di sinistra
hanno contribuito alla conoscenza di Stirner pubblicando molteplici volumi, ma,
ricordando la riflessione di Penzo posta in luce nel suo studio su Stirner, è significativo
che, nell’introduzione di C. Luporini all’edizione italiana dello scritto di Marx
ed Engels Die Deutsche Ideologie, l’autore abbia cura di far notare che si deve
ripensare «la parte di Stirner stesso oggi che siamo ormai lontani da quella discussione
con l’anarchismo che le fu successivamente aggregata».
Interessante è notare in che modo Stirner,
dopo la sua opera maggiore, si ripresentò nel dibattito filosofico del tempo:
una risposta, formulata con l’intento di rendere chiare le sue riflessioni ai
propri critici, attraverso un’accessibilità migliore e un’ulteriore nitidezza
rispetto a quella “romanzata” usata nel Der Einzige. Stirner non aggiungerà
altro alla sua filosofia, e la replica a Kuno Fischer, che è stata scritta nel 1847,
sarà la conclusione della sua attività filosofica. In riferimento a tale
replica, Calasso scrive che è stata «l’ultima coda di parole che proviene dal
cerchio dell’Unico».
Attraverso il dibattito critico con Fischer,
Stirner pose in rilievo ancora una volta aspetti fondamentali del suo pensiero
e concluse la sua opera in una forma tanto polemica quanto estremamente
esplicita. Nel saggio intitolato “Die modernen Sophisten”, pubblicato per la
prima volta nella Rivista di Lipsia (Leipziger Revue), Fischer presentava
Stirner come un sofista e la sofistica era per lui una sorta di filosofia
rovesciata, posta da un soggetto che pretendeva di distinguersi dal proprio pensiero,
diventando quindi un “soggetto particolare”, oggettivando in un certo senso il
pensiero e considerandolo soltanto un mezzo per i propri scopi, accogliendo
sotto al suo “rozzo cuore” sia la scienza morale che quella naturale. Nello
stesso anno pubblicava “Die philosophiscen Reaktionäre”, dove Stirner era
considerato come un filosofo reazionario. Questa considerazione porta Fischer
sulle orme critiche di Feuerbach, Szeliga ed Hess, anche perché Fischer, come i
critici dell’Unico, si sofferma sulla tematica dell’egoismo.
Fischer insieme a Erdmann, con Rosenkranz e
Haym furono definiti da Löwith come coloro che riuscirono a «mantenere
storicamente l’impero fondato da Hegel», definendoli «i veri e propri
conservatori della filosofia hegeliana tra Hegel e Nietzsche, ed in particolare
Fischer fu proprio il mediatore per il rinnovamento dell’hegelismo nel secolo
XX».
Stirner e Fischer rappresentano intenzioni ed
approcci diversi nel modo di far filosofia, e la discussione Stirner-Fischer
non è da interpretarsi come esempio chiarificatore dello scontro allora in
corso tra gli hegeliani di destra e quelli sinistra. Certo, nell’attacco di
Fischer si possono scorgere le critiche dei conservatori del pensiero
hegeliano, ma tale critica è comunque riferita a Stirner e alla sua filosofia.
Ritengo particolarmente importante
soffermarsi sulle ultime righe stirneriane.
La replica di Stirner ha un tono simile agli
altri suoi scritti, ma è mia opinione che tra le righe ci sia un insolito senso
di tristezza; non manca, tuttavia, il suo stile pungente.
E’ lo stesso autore del Der Einzige e delle
risposte ai critici che replica a Kuno Fischer di non aver compreso il suo
pensiero come i suoi precedenti critici, ma mi sembra che il tono cambi quando
non è più Fischer il suo nemico, ossia quando il nemico dell’unico si presenta
chiaramente nascosto tra le parole di Fischer sotto forma di ideale, o, volendo
usare la terminologia stirneriana, di fissazione, “ Die fixe Ideen”. E’
opportuno, quindi, un diretto riferimento al testo. A Fischer Stirner risponde
in questi termini: «Ho già fatto spesso osservare che quei critici, che con grande
talento e acume d’ingegno hanno vagliato e analizzato gli oggetti della loro critica,
si sono certamente sbagliati nei riguardi di Stirner, che ognuno di essi fu trascinato
alle conseguenze più diverse del suo abbagli e spesso a vere e proprie sciocchezze.
Così Kuno Fischer si dà l’inutile pena di sviluppare l’egoismo e l’Unico di
Stirner come conseguenza dell’auto-coscienza di Bauer e della “critica pura”.
[...]
Nel libro di Stirner non si trova nulla di
tutto questo. Anzi il libro di Stirner era già terminato, prima che Bruno Bauer
voltasse le spalle alla sua critica teologica come a cosa liquidata».
Successivamente, all’accusa di Fischer là dove sostiene che l’egoismo
stirneriano si presenta come un egoismo dogmatico, in quanto l’egoismo è diventato
un’entità teoretica, Stirner risponde: «Se il Signor Fischer avesse letto quel saggio,
non sarebbe arrivato al comico abbagli di trovare nell’egoismo di Stirner un “dogma”,
“un’imperativo categorico” strettamente inteso, un “dovere” strettamente inteso,
come lo suscita l’umanesimo dicendo:<Tu devi essere 'uomo' e non
'nonuomo'>, costruendo secondo questo principio il catechismo morale
dell’umanità. Là lo stesso Stirner ha definito “l’egoismo” come una “frase”; ma
come un’ultima frase “frase” possibile, che è adatta a mettere fine al dominio
delle frasi».
Si ripresenta quindi uno Stirner energicamente
determinato a “bacchettare” un critico come Fischer non particolarmente attento
e impreciso nei suoi riguardi; il suo linguaggio polemico, a mio avviso, muta
istantaneamente allorquando Stirner fa delle osservazioni sulla condizione
sociale e sull’operato della propria fatica.
L’indecisione che c’è tra gli studiosi su
questo saggio è senza dubbio giustificata, ma ritengo che il contenuto del
saggio sia in pieno accordo con lo spirito stirneriano e dunque credo sia di
grande interesse riflettere su di esso, non soltanto perché Stirner non ha mai
preso le distanze da tale scritto, ma soprattutto perché in esso viene
presentata una riflessione esistenzialmente coerente e politicamente determinata.
A mio giudizio risalta subito un tono dimesso
laddove Stirner esprime certe sue considerazioni. Credo che sia stata amara la
consapevolezza di Stirner riguardo alla risonanza ricevuta dalla sua opera, non
perché egli era desideroso di avere una cattedra universitaria, ma in quanto la
sua opera non è stata compresa. Il 1847 è considerato dagli studiosi di Stirner
come l’ultimo anno della notorietà del filosofo in questione. La mancata
risposta sociale determina a mio giudizio tali passi: «Il vostro “mondo morale”
ve lo lascia volentieri: ab immemorabili esso è esistito soltanto sulla carta;
è l’eterna menzogna della società e si infrangerà sempre contro la ricca
varietà e inconciliabilità dei singoli uomini di forte volontà. Lasciamo ai
poeti questo ”paradiso perduto”»; «Il mondo ha fin troppo languito sotto la tirannia
del penero, sotto il terrorismo dell’idea». E’ il ripresentarsi, o meglio
l’assoluta esistenza dell’“idea fissa”, non scalfita dall’opera di Stirner il
motivo, a mio parere, del tono dimesso del nostro filosofo. Accanto a questa
considerazione del reale nel saggio si trovano anche alcune considerazioni
sull’operato del nostro filosofo: si ripresenta la problematica rispetto al
linguaggio già affrontata in precedenza, e una considerazione quasi
auto-biografica della sua esistenza: «Stirner stesso ha definito il suo libro
come un’espressione in parte “maldestra” di ciò che voleva. Esso è l’opera
faticosa degli anni migliori della sua vita; eppure lo chiama in parte “maldestra”.
Tanto egli dovette lottare con una lingua, che era stata corrotta dai filosofi,
maltrattata dai devoti dello Stato, della religione e di altre fedi. E resta capace
di un’immensa confusione di concetti».
I migliori anni spesi alla sua opera, una
lotta estenuante contro il linguaggio corrotto, il difendersi da
interpretazioni errate e tendenziose della sua filosofia si trasformano in un
sfogo personale. Stirner recide ogni legame con il mondo.
Non ritengo questa una posizione irrazionale,
anzi, a mio giudizio è razionalissima. Stirner è un pensatore che non fa
filosofia estraniato dalla realtà, e forse quel reale non era pronto per le sue
riflessioni, come si mostrerà pronto successivamente per quelle marxiane.
Restano con tono amaro e deciso le ultime parole di Stirner: «Il sono “Unico”.
Ma questo tu non lo vuoi proprio. Tu non vuoi che io sia un uomo reale; alla
mia unicità tu non dai alcun valore. Tu vuoi che io sia “l’uomo” come tu l’hai
costruito, quale modello per tutti. Tu vuoi rendere norma della mia vita il
“plebeo principio dell’uguaglianza”. Principio per principio! Esigenza per esigenza
io ti oppongo il principio dell’egoismo. Io voglio essere soltanto io. Io disprezzo
la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umane e il suo amore; e tronco
ogni rapporto obbligatorio con essa, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese
del vostro dovere, a tutte le indicazioni del vostro giudizio categorico io oppongo
l’”atarassia” del mio io. Sono già arrendevole se mi servo della lingua. Io sono
l’”indicibile”, “io semplicemente mi mostro”».
3. Indicibiltà ed esistenza, l’appartenenza
a se stessi
Stirner scrive al termine della sua opera: «Man sagt von Gott: “Namen nennen Dich
nicht”. Das gilt von Mir: kein Begriff drückt Mich aus, nichts, was man als
mein Wesen angibt, erschöpft Mich; es sind nur Namen»; questo periodo contiene
a mio avviso una posizione cardine del suo pensiero.
Qualche anno più tardi, nelle risposte ai
critici, scrive: «Was Stirner sagt, ist ein
Wort, ein Gedanke, ein Begriff; was er meint, ist kein Wort, kein Gedanke, kein
Begriff. Was er sagt, ist nicht das Gemeinte, und was er meint, ist unsagbar »;
dopo questa affermazione stirneriana, solo una riflessione privata nel silenzio
può a mio parere aiutare a comprendere ciò che egli sosteneva.
Di solito in filosofia non capita che un
pensatore ponga delle differenze tra quello che dice e quello che in realtà
sostiene, soprattutto quando quelle differenze sono in realtà invalicabili.
Nelle pagine iniziali ho esposto brevemente che cosa sia l’esistenza, ma ciò
che ho scritto, in fondo, non sono altro che parole, concetti espressi, idee,
mentre, per Stirner, l’esistenza o l’essere caduco non è né una parola né un
concetto, ma il centro su di cui ruota tutto ciò che è. La centralità
dell’individuo sia in sede ontica che ontologica è non soltanto un presupposto del
pensiero stirneriano, ma è anche il suo punto d’approdo, in quanto Stirner,
esulando dalla creazione di qualsiasi architettonica del pensiero, fa della
filosofia non una questione accademica, ma una questione di vita.
La sua posizione a proposito è decisamente
nuova e le categorie del pensiero, a suo giudizio, non sono in grado di
cogliere questa realtà, che a mio avviso può essere definita come una
sub-realtà; infatti, anche se il singolo individuo appartiene ad una
determinata cultura, è egli stesso una sub-cultura, dal momento che ogni
individuo porta con sé tutto un tessuto esistenziale fatto della propria esperienza,
che viene inevitabilmente compromesso allorquando lo si generalizza nella
specie; l’unico è un nome indeterminato, vuoto da qualsiasi determinazione, e soltanto
l’individuo può colmare la sua assenza di significato, in quanto egli è colui che
vive.
Tutto ciò è stato espresso da Stirner in
maniera cristallina cercando di scampare dall’equivoco; riporto di seguito un
susseguirsi delle sue affermazioni che mostrano a mio avviso la veridicità di
quello che sostengo: « Stirner nennt den Einzigen
und sagt zugleich: Namen nennen Dich nicht; er spricht ihn aus, indem er ihn
den Einzigen nennt, und fügt doch hinzu, der Einzige sei nur ein Name; er meint
also etwas Anderes, als er sagt, wie etwa derjenige, der Dich Ludwig nennt,
nicht einen Ludwig überhaupt, sondern Dich meint, für den er kein Wort hat »; «
Man schmeichelte sich immer, daß man vom “wirklichen, individuellen” Menschen
rede, wenn man vom Menschen sprach; war das aber möglich, so lange man diesen Menschen
durch ein Allgemeines, ein Prädicat, auszudrücken begehrte? Mußte man nicht, um
diesen zu bezeichnen, statt zu einem Prädicate, vielmehr zu einer Bezeichnung,
einem Namen, seine Zuflucht nehmen, wobei die Meinung, d. h. das Unausgesprochene,
die Hauptsache ist? »; « Die Einen beruhigten sich bei der “wahren, ganzen
Individualität”, die doch nicht von der Beziehung auf die “Gattung” frei wird;
Andere bei dem “Geiste”, welcher gleichfalls eine Bestimmtheit ist, nicht die völlige
Bestimmungslosigkeit. Im “Einzigen” nur scheint diese Bestimmungslosigkeit erreicht
zu sein, weil er als der gemeinte Einzige gegeben wird, weil, wenn man ihn als
Begriff, d. h. als Ausgesprochenes, faßt, er als gänzlich leer, als bestimmungsloser
Name erscheint, und somit auf seinen Inhalt außerhalb oder jenseits des
Begriffes hinweist. Fixirt man ihn als Begriff – und das thun
die Gegner – so muß man eine Definition desselben zu geben suchen und wird
dadurch nothwendig auf etwas Anderes kommen, als auf das Gemeinte; man wird ihn
von anderen Begriffen unterscheiden und z. B. als das “allein vollkommene
Individuum” auffassen, wodurch es dann leicht wird, seinen Unsinn darzuthun.
Kannst Du Dich aber definiren, bist Du ein Begriff?»; « Die Einen beruhigten
sich bei der “wahren, ganzen Individualität”, die doch nicht von der Beziehung
auf die “Gattung” frei wird; Andere bei dem “Geiste”, welcher gleichfalls eine
Bestimmtheit ist, nicht die völlige Bestimmungslosigkeit. Im “Einzigen” nur
scheint diese Bestimmungslosigkeit erreicht zu sein, weil er als der gemeinte
Einzige gegeben wird, weil, wenn man ihn als Begriff, d. h. als
Ausgesprochenes, faßt, er als gänzlich leer, als bestimmungsloser Name
erscheint, und somit auf seinen Inhalt außerhalb oder jenseits des Begriffes hinweist.
Fixirt man ihn als Begriff – und das thun die Gegner – so muß man eine Definition
desselben zu geben suchen und wird dadurch nothwendig auf etwas Anderes kommen,
als auf das Gemeinte; man wird ihn von anderen Begriffen unterscheiden und z.
B. als das “allein vollkommene Individuum” auffassen, wodurch es dann leicht
wird, seinen Unsinn darzuthun. Kannst Du Dich aber definiren, bist Du ein
Begriff? »; « Es ist, indem Du der Inhalt des Einzigen bist, an einen eigenen Inhalt
des Einzigen, d. h. an einen Begriffsinhalt nicht mehr zu denken ».
Nell’Unico e la sua proprietà Stirner mostrò
come il cristianesimo aveva realizzato il concetto di uomo, trasformandolo in
un essere “santo”, dal momento che dentro di lui albergava il divino; l’uomo
era dunque eterno, e rappresentava la realizzazione di quella che era l’idea
cristiana, esposta tra l’altro nell’opera del Feuerbach.
Nell’ultimo capitolo del Der Einzige Stirner
affronta una problematica di capitale importanza, il dualismo tra il reale e
l’ideale. Il pensiero dominante del tempo era la filosofia hegeliana che
dettava le leggi del superamento di questi due termini nella sintesi; ma
Stirner si pone contro questa tesi, rivolgendo la sua critica soprattutto al
pensiero cristiano, tra i cui esponenti venivano annoverati pensatori quali
appunto Hegel e Feuerbach.
Stirner scrive: «Der Gegensatz des Realen und Idealen ist ein unversöhnlicher, und es
kann das eine niemals das andere werden: würde das Ideale zum Realen, so wäre
es eben nicht mehr das Ideale, und würde das Reale zum Idealen, so wäre allein
das Ideale, das Reale aber gar nicht. Der Gegensatz beider ist nicht anders zu
überwinden, als wenn man beide vernichtet. Nur in diesem «man», dem Dritten, findet
der Gegensatz sein Ende; sonst aber decken Idee und Realität sich nimmermehr.
Die Idee kann nicht so realisiert werden, daß sie Idee bliebe, sondern nur,
wenn sie als Idee stirbt, und ebenso verhält es sich mit dem Realen ».
Spezzare la tradizione cristiana per Stirner
vuol dire rimettere in discussione tutto un mondo già costituito e la missione
che l’individuo si è trovato davanti, che per gli antichi era realizzare il
regno di Dio, per i moderni è, invece, realizzare lo sviluppo della storia
dell’umanità. Tale è la missione dell’uomo, del Dio incarnato e della religione
moderna. Ma avverte Stirner: «Das Ideal «der Mensch» ist realisiert, wenn
die christliche Anschauung umschlägt in den Satz: «Ich, dieser Einzige, bin der
Mensch». Die Begriffsfrage: «was ist der Mensch?» – hat sich dann in die persönliche
umgesetzt: «wer ist der Mensch?» Bei «was» suchte man den Begriff, um ihn zu
realisieren; bei «wer» ist’s überhaupt keine Frage mehr, sondern die Ant[412]wort
im Fragenden gleich persönlich vorhanden: die Frage beantwortet sich von selbst
».
Mi permetto a questo punto di presentare una
mia riflessione: per Stirner l’unico è
l’individuo che vive qui ed ora, e non esiste predicato che possa esaurire questo
suo stato di esistenza, poiché ogni concetto è ideale, mentre il singolo è reale.
Penzo ha posto in luce la differenza tra l’autentico, in quanto “proprio” e l’inautentico,
in quanto altro dall’io, come la santità, la fissazione e l’ossesso, realtà costituite
da una dimensione inautentica come quella dello stato e della chiesa.
Ancor di più egli pone in rilievo
precisamente la condizione del predicato, ovvero lo sforzo del pensiero
stirneriano di eliminare qualsiasi tipo di predicato, posizione tipica di un
nominalista, e soprattutto di Stirner che è il più nominalista tra tutti; in questo
stesso contesto scrive anche che eliminare il predicato è come eliminare, o meglio,
rigettare tutta la metafisica occidentale, la quale si fonda appunto sulla differenza
tra il soggetto e il suo predicato.
A mio parere è indicativa in quest’ambito, la
riflessione stirneriana sul linguaggio, in quanto Stirner classifica il
linguaggio essenzialmente come linguaggio cristiano, religioso, mostrando come
certi termini abbiano ricevuto un significato negativo proprio da questa
matrice religiosa. Il linguaggio è un costrutto e come tale anch’esso è
statico, dunque il suo sviluppo è da considerarsi, a mio avviso, soltanto formale,
visto che riguarda lo sviluppo di una lingua o di determinati termini, mentre i
contenuti che essi possono veicolare restano pur sempre invariati.
Ma perché Stirner nelle risposte ai critici
scrive che quello che lui scrive non è quello che sostiene (meinen)? E perché
quello che pensa è indicibile? Cos’è che in realtà pensa?.
Certo, l’esistenza è priva di concetto, e per
questo credo che vale quanto ho scritto nelle pagine di cui sopra. Ma non si
potrebbe supporre altro nel suo pensiero?
Non sapendo rispondere a questa domanda ho
creduto opportuno accostarmi al mondo letterario, ed ho osservato che in un
certo senso questa inadeguatezza del linguaggio era stata notata sia da Dante
Alighieri che da Giacomo Leopardi.
Beninteso, questa similitudine vuole porre in
evidenza l’incomunicabilità di un’esperienza o di una consapevolezza, a livello
di coscienza, che l’individuo nella sua esistenza ha la possibilità di
compiere, e nient’altro. Si tratta di un’esperienza o di una consapevolezza che
prescinde totalmente dalla quotidianità, e che si presenta, a mio avviso,
allorché ci si rapporti a Dio o a sé stessi. Significative sono le posizioni
del nostro filosofo e dei due poeti succitati con i loro rispettivi terreni di indicibilità.
Dio, l’Amore e il Singolo sono rispettivamente per Dante, Leopardi e Stirner gli ambiti dell’indefinibile.
L’indicibilità è intraducibilità, ma
soprattutto essa è per il soggetto l’occasione autentica, che non è sottoposta
a leggi e non ha bisogno di essere ragionata, dal momento che è intuizione e
non concetto. Soltanto il centro fondamentale del pensiero su cui si reggono
tutte le altre riflessioni è indicibile, esso si presenta come nucleo fondante.
Nell’ultimo canto del paradiso, trovatosi dinanzi a Dio, Dante non riuscì a
descriverlo; alla fine del suo viaggio la parola divenne insufficiente, ed
egli, maestro della lingua, scrisse: Oh quanto è corto il dire e come fioco/ al
mio concetto!
E questo, a quel ch’i’ vidi, / e tanto, che
non basta a dicer « poco ». Allo stesso modo il Leopardi non poté esprimere
l’amore che risiedeva nel suo cuore per la scomparsa Silvia, e scrisse: Lingua
mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno. Dio che è infinito e meraviglioso
è per Dante impossibile da tradurre in termini di linguaggio, in quanto il
linguaggio non è adatto a questo contenuto; parimenti l’amore che il Leopardi
provava è inesprimibile, pressoché indefinibile per ampiezza e profondità, in
quanto è sinonimo di vita.
Ebbene, è l’esistenza concreta che per
Stirner è indicibile, dal momento che essa è viva, in costante movimento e
sviluppo, e non appartiene alla schiera dei concetti, i quali possono essere
espressi adeguatamente tramite il linguaggio. Ma ancor più inesprimibile è la
consapevolezza della propria esistenza e delle proprie possibilità, così come e
l’appartenenza a sé stessi. E’ da tutta questa consapevolezza che deriva, a mio
avviso, quella connessione tra i termini unico e proprietà. L’unico è
quell’individuo che ha raggiunto questa consapevolezza, che ha riposto la sua
causa su null’altro che se stesso, liberandosi da una fitta tela di legami che
lo immobilizzavano: «Ich bin nur dadurch
Ich, daß Ich Mich mache, d. h. daß nicht ein Anderer Mich macht, sondern Ich
mein eigen Werk sein muß».
Non è mia intenzione riuscire ad esprimere
ciò che non può essere espresso, ma è pur certo che non ci sarebbe ragion di
questo modesto scritto, se in realtà il silenzio di Stirner non fosse stato, a
mio parere, almeno comprensibile. La comprensione, e di conseguenza il senso,
vengono a maturarsi tramite la lettura attenta dell’opera del nostro filosofo,
spesso difficoltosa, e non dimenticando mai il contesto storico in cui nacque.
La genealogia dell’opera stirneriana, pur
trattando una moltitudine di temi discussi in quel tempo, fa perno sempre sul
medesimo punto, ovvero quello del dominio dello stato e della chiesa
dell’epoca, un dominio che si presenta sia da un punto di vista psichico, che
fisico. Non credo che in Stirner il silenzio sia indice di comprensione e
traducibilità, come per quanto riguarda la riflessione heideggeriana, ma
ritengo che sia piuttosto indice di riflessione interiore.
La consapevolezza stirneriana è espressa, a
mio avviso, in tutta la sua produzione, non solo quella strettamente
filosofica, ma anche quella giornalistica, approdando con totale convinzione
alla pubblicazione della sua opera maggiore. Il suo pensiero non è
riconducibile in senso stretto a quella corrente filosofica denominata
esistenzialismo. Stirner affronta tematiche feconde per questa corrente, ma il
suo interesse è principalmente la condizione dell’esistenza e non l’esistenza fine
a se stessa. L’esistenza non ha bisogno di essere né spiegata né aiutata ad essere,
in quanto essendo, l’esistenza già è. Ma sono le sue condizioni che possono essere
migliorate e questo punto è forse il lato più problematico della filosofia dell’Unico,
in quanto si è soliti attribuire “vuotezza” ad individui che non ritrovano alcuna
trascendenza negli uomini e che non accettano quei valori che il sentimento religioso
ha creato; valutando negativamente qualsiasi posizione personale, egoistica, si
privilegia, in genere, un certo ideale di uguaglianza e di diritto che poi nella
vita reale manca. «Stirner e Marx – scrive K. Löwith – filosofano l’uno contro l’altro
nello stesso deserto della libertà», ma tra di loro vi fu incomprensione e assenza
di dialogo, manifestazione di uno scontro di diverse posizioni di base, ma volto
per vie differenti al miglioramento delle condizioni esistenti. L’Empörung stirneriano
non parte da una insoddisfazione dei singoli verso le istituzioni, ma da un’insoddisfazione
degli uomini verso sé stessi (von der Unzufriedenheit der Menschen mit sich
aus); non si tratta, avverte Stirner, di una levata di scudi (eine Schilderhebung),
ma di un sollevamento (Erhebung) dei singoli, cioè un emergere ribellandosi –
sollevandosi (ein Emporkommen).
E’ indubbio che l’Empörung e la Verein sono i
capisaldi della sua filosofia, in quanto sono i punti d’approdo della proposta
del nostro filosofo. Centrale in quest’ambito è anche la politica, ma essa
poggia su di una premessa particolare che fa di Stirner un esistenzialista
caratteristico. L’ordinamento sociale che permette ad una moltitudine di
persone di vivere insieme è lo stato, ma come abbiamo già detto, la staticità
delle forme statali che si erge al di sopra dell’individuo, tentando di dominarlo,
è un obiettivo che Stirner vuole abbattere. Ebbene, a mio avviso, vi è un legame
intrinseco tra l’individuo e l’associazione o unione. Quest’ultima si presenta,
infatti, come l’assetto sociale più vicino alla condizione dell’individuo
unico, giacché egli, essendo principalmente un essere caduco, crea condizioni
parzialmente durevoli - giammai a parere di Stirner condizioni eterne.
Anche se, tramite il presente scritto, ho
cercato di porre in luce il legame che a mio avviso esiste nel pensiero
stirneriano tra l’indicibilità e l’esistenza e la relativa riflessione sul
linguaggio, è in ogni caso indispensabile giungere fino alla teorizzazione
della Verein. In questo senso anche le dissertazioni stirneriane ricevono
particolare importanza allorquando l’intento stirneriano si esplica tramite le sue
successive opere. Proprio grazie a questa concatenanza il suo pensiero si mostra
e nel mostrarsi credo che abbia sempre qualcosa da avere, da aggiungere; l’intera
opera di Stirner non vuole essere letta in forma passiva, essa stuzzica il lettore
e man mano che le parole aumentano il suo pensiero si presenta sempre più forte,
aumentano vertiginosamente i concetti e, di conseguenza, il lettore è indotto ad
una riflessione personale, riflessione beninteso non astratta, non
sull’ontologia dell’essere, ma concentrata sulla sua situazione esistenziale
come individuo isolato che è sempre vissuto in una società, dal momento che la
sua condizione esistenziale è intrinsecamente legata a quella sociale.
Ma ritornando all’oggetto del presente scritto,
ossia l’esistenza e l’indicibilità dell’Unico, credo opportuno soffermarmi ora
sul concetto di esistenza. Nel principio del presente scritto ho posto in
relazione Stirner con gli esponenti del pensiero esistenziale, esprimendo
l’idea che in esso si possono ritrovare delle considerazioni che sono state
alla base dell’esistenzialismo del novecento. Un punto fondamentale del
pensiero stirneriano richiama una “caratteristica” della filosofia
esistenzialista, presente, in particolare, nelle figure di Heidegger e di
Sartre. La vicinanza di tematiche trattate ovviamente in modo differente da
Stirner e da Heidegger è stata rilevata grazie all’intuizione di Penzo, che
mette in luce tale “rapporto” tramite dei passi tratti dalle loro opere
maggiori. Sia Stirner che Heidegger non fanno alcuna differenza tra l’esistenza
e l’essenza, anzi entrambi sostengono che la vera essenza dell’uomo è la sua
esistenza: «Dagegen Eigenheit, das ist
mein ganzes Wesen und Dasein, das bin Ich selbst». Per quanto riguarda il
pensiero heideggeriano si può leggere: « L’essenza dell’Esserci consiste nella
sua esistenza. [...] Questi due caratteri dell’Esserci, il primato
dell’exsistentia, e l’esser-sempre-mio, bastano a far vedere che un’analitica
di questo ente si trova innanzi a un campo fenomenico del tutto particolare »,
« Se l’esistenza determina l’essere dell’Esserci e se la sua essenza è
costituita da un poter-essere, ne viene che l’Esserci, potendo-essere fin che
esiste, ha sempre ancora qualcosa da essere ».
Ma è soprattutto Sartre che pone l’accento
sulla questione, anche perché, rispetto a Heidegger, la sua filosofia è
incentrata sulla dimensione puramente esistenziale: « In termini filosofici,
ogni oggetto ha un'essenza e un'esistenza.
Un'essenza, cioè un assieme costante di proprietà;
un'esistenza, cioè una certa presenza effettiva nel mondo. Molti credono che
prima venga l'essenza e poi l'esistenza.[...] Tale idea trova la sua origine
nel pensiero religioso [...] E per tutti coloro i quali credono che Dio crei
gli uomini, bisogna pure ch'egli l'abbia fatto riferendosi all'idea che aveva
di loro. Ma anche quelli che non hanno la fede hanno conservato l'opinione
tradizionale secondo cui l'oggetto non esisteva mai se non in conformità con la
sua essenza; e l'intero XVIII secolo ha pensato che vi era un'essenza comune
per tutti gli uomini, chiamata natura umana. L'esistenzialismo reputa, al
contrario, che nell'uomo, e solo nell'uomo, l'esistenza precede l'essenza. Ciò
significa semplicemente che l'uomo anzitutto è e che poi è questo o quello. L'uomo
deve crearsi la propria essenza ».
Queste posizioni sembrano trovare la loro
fonte principale in Hegel, filosofo che indubbiamente ha influito su tutti i
pensatori sia a lui contemporanei che posteriori. Maestro di Stirner, Hegel
volle presentare la sua posizione intorno ad un tema tanto dibattuto dalla
scolastica, ossia la differenza ontologica dell’essenza dall’esistenza. La
concezione hegeliana dell’esistenza “superava” sia la distinzione aristotelica
tra atto e potenza, sia quella tomistica tra essere e atto d’essere, in cui l’esistenza
era considerata come actus essendi; in Hegel, infatti, la distinzione ontologica
tra essenza ed esistenza veniva colmata dallo spirito in quanto processo, e
nella Scienza della logica si trova una delle prime formulazioni di questo
concetto: « Così l’esistenza non è quindi da prendersi quasi un predicato o
quasi una determinazione dell’essenza, in modo di poter dire la proposizione:
L’essenza esiste, ossia ha esistenza; ma l’essenza è passata nell’esistenza;
questa è la sua assoluta estrinsecazione, al di là della quale l’essenza non è
rimasta. La proposizione dunque sarebbe: L’essenza è l’esistenza; essa non è
diversa dalla sua esistenza ».
Secondo Hegel, quindi, il predicato
dell’essenza e quello dell’esistenza convergono nella sintesi, ossia
nell’individuo vivente; la distinzione è tolta e il mediato (il processo) è
diventato immediato. Cartesio, infatti, fu contestato proprio per come faceva
realizzare l’esistenza soltanto attraverso il pensiero (Cogito ergo sum),
anteponendo il cogito al sum, come mostra Heidegger in Essere e Tempo. E se
Heidegger vuole approfondire la dimensione ontologica del sum attraverso un’analitica
esistenziale, per mettere a fuoco l’occultamento dell’Essere fatto dalla filosofia
scolastica e moderna a vantaggio dell’Ente, Stirner, dal canto suo, non mostra
interesse verso la problematica posta dalle meditazioni cartesiane, ma vede in
Cartesio un pensatore cristiano che fonda tutto sullo spirito, sul pensiero: «Das dubitare des Cartesius enthält den
entschiedenen Ausspruch, daß nur das cogitare, das Denken, der Geist – sei.
[...] Nur das Vernünftige ist, nur der Geist ist! Dies
ist das Prinzip der neueren Philosophie, das echt christliche. [...] Cartesius’
cogito, ergo sum hat den Sinn: Man lebt nur, wenn man denkt. Denkendes Leben
heißt: «geistiges Leben»! Es lebt nur der Geist, sein Leben ist das wahre
Leben.».
Heidegger e Stirner si soffermano sullo
stesso punto, quello riguardante il “sum”. Beninteso, Heidegger cerca attraverso
la filosofia, che per lui è ontologia, l’Essere e il suo senso, ed è costretto
a rivolgersi all’uomo, “l’Esser-Ci” per indagare sul proprio senso, dal momento
che l’Esser-Ci ex-siste in quanto progetto di se stesso, come essere di
volta-in-volta, non come semplice presenza, come l’ente (oggetto); solo
l’Esser-Ci, per Heidegger, è in grado di indagare angosciosamente circa il suo
senso.
Più volte abbiamo posto in luce l’importanza
della consapevolezza nel pensiero stirneriano dell’unicità dell’individuo. Per
demolire la schiavitù in cui l’individuo è caduto ad opera del regno dei
pensieri “divini” e “morali”, l’Unico stirneriano si richiama “al senso del suo
essere” irripetibile nella sua esistenza, passando da uno stato inautentico,
dove manca quell’autodeterminazione individuale, al riconoscimento da parte del
singolo della sua unicità e quindi alla dimensione autentica propria dell’Unico
stirneriano; mantenendo la differenza tra questi due pensatori, ci sembra che
l’Esserci heideggeriano e l’Unico stirneriano condividano sia il passaggio da
uno stato inautentico ad uno autentico, sia la consapevolezza che la vera
essenza dell’uomo è la sua esistenza. L’Esserci, infatti, vive “innanzitutto e
per lo più” nella “quotidianità media”, poiché il rapporto col mondo in
generale è essenzialmente deiezione, e raggiunge la dimensione autentica soltanto
nel momento in cui questo andare verso la dimensione autentica è spinto dalla
“voce della coscienza” che
lo porta a liberarsi dalla dimensione del “Si” impersonale, riconquistando la
sua autenticità: « L’apertura dell’Esserci implicita nel voler-aver-coscienza è
quindi costituita dalla situazione emotiva dell’angoscia, dalla comprensione
come autoprogettarsi nell’esser-colpevole più proprio, e dal discorso come
silenzio. L’apertura autentica, attestata nell’Esserci stesso dalla sua coscienza,
cioè il tacito ed angoscioso autoprogettarsi nel più proprio esser colpevole, è
ciò che chiamo decisione ».
L’Esserci tramite la situazione emotiva e la
comprensione si scoprirà colpevole della sua “nullità”, ovvero della sua
mancanza di fondamento, ma proprio in virtù di questo si comprenderà la
temporalità come orizzonte dell’Essere. Le ultime frasi dell’Unico e la sua
proprietà mostrano proprio che l’esistenza è la temporalità dell’unico, siccome
senza l’esistenza non esiste unico: «Jedes
höhere Wesen über Mir, sei es Gott, sei es der Mensch, schwächt das Gefühl
meiner Einzigkeit und erbleicht erst vor der Sonne dieses Bewußtseins. Stell’
Ich auf Mich, den Einzigen, meine Sache, dann steht sie auf dem Vergänglichen,
dem sterblichen Schöpfer seiner, der sich selbst verzehrt, und Ich darf sagen:
Ich hab’ mein’ Sach’ auf Nichts gestellt».
L’unico e l’Esserci, quindi, giungono
all’autenticità (Eigentlichkeit), ricordando lo stesso Heidegger, che insiste
sul fatto che questa espressione vada presa nel suo rigoroso significato
etimologico: ciò che è proprio (eigen-), termine d’altro canto fondamentale
nella filosofia dell’Unico. Crediamo che in entrambi i casi non sia un prendere,
ma un riprendere “una posizione” tolta da tutto ciò che tende a generalizzare
l’esistenza singola. Bonanno fa notare come in questi due pensatori la tematica
della morte e quella del silenzio si intreccino, ponendo in questi termini le basi
per un discorso esistenziale.
Renato D’Ambrosio
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