martedì 31 luglio 2012

Troppo pochi?

Troppo pochi?
Sire [Renato Souvarine]
I

Gli anarchici erano troppo pochi?...



Tutta la filosofia consolatrice e poltrona che gli anarchici unionisti hanno saputo ricavare dal periodo rivoluzionario del 19-20 è racchiusa in questa pietosa menzogna.

«La rivoluzione italiana fu sabotata e tradita dalla CGdL e dal PS. Noi anarchici eravamo troppo pochi per agire da soli!...».

Pietosa e dannosa menzogna, perché non si serve la rivoluzione con delle menzogne. A. Borghi la porta in giro per l’America.

Mille volte l’abbiamo letta nelle riviste e giornali unionisti. L. Fabbri non si è stancato di scrivere che: «L’UAI ha influito poco o punto negli eventi perché era sorta da troppo poco tempo: era troppo giovane!...».

Eccola ora fare capolino sul giornale anarchico Il Pensiero di Buenos Aires. Esso scrive:

«I pochi anarchici che arrivano ci dicono un’altra verità dolorosa. Essi in Italia erano così pochi da non poter iniziare per proprio conto nessun movimento di massa. Han dovuto sempre marciare affiancati o all’avanguardia dei partiti d’ordine».

Essi hanno voluto e non dovuto sempre marciare affiancati.

La sola UAI ha proclamato, in un suo Congresso tra ovazioni, 200 sezioni e 20.000 inscritti! Ed essa, nel movimento anarchico, era la minoranza!

Dove mi mette poi l’articolista tutti quegli anarco-sindacalisti reggenti le CdL da Sestri a Spezia, a Carrara, a Piombino, e altri centri importanti?

Solo se tutti noi sapremo dire e riconoscere la verità, noi renderemo un segnalato servigio alla causa della rivoluzione italiana e universale.

Bisogna aver il coraggio di riconoscere che abbiamo mancato al nostro specifico compito di anarchici, cioè più propriamente che non abbiamo agito da iniziatori e da animatori: che non siamo accorsi e non ci siamo gettati anima e corpo (oppure «col diavolo in corpo» come diceva Bakunin) nei centri e nei focolai delle rivolte per estenderle, svilupparle e generalizzarle, sul terreno stesso dell’insurrezione, conformemente alla teoria anarchica della rivoluzione.

Che abbiamo fatto invece?

Abbiamo agito da autoritari affiancati o alla coda dei partiti autoritari. Ci siamo paralizzati a vicenda in un tira e molla di 18 mesi sino a dar tempo alla reazione di pigliare l’iniziativa e batterci senza neanche l’onore e la bellezza d’un tentativo eroico generale. Solo gli anarchici del Diana — tanto vituperati! — salvarono l’onore dell’anarchismo bruciando e bruciandosi nel gigantesco tentativo di reagire — coll’ammonimento tremendo! — all’attacco brutale della reazione che ebbe inizio coll’arresto di Malatesta, Borghi e C.

L’errore iniziale, esiziale e fatale risiede nella grande disistima che gli anarchici e sindacalisti avevano di loro stessi; nella sfiducia nelle proprie capacità di iniziativa rivoluzionaria («eravamo troppo pochi per agire da soli»); nel disprezzo dell’istinto divinatorio del popolo insorto; nella sconoscenza assoluta della tattica e metodo anarchici nelle rivoluzioni, ecc. ecc. Essi rimasero vittime della loro superstite mentalità organizzatrice e accentratrice, cioè di tutto prevedere, di tutto preordinare, di tutto organizzare, di tutto comandare dall’alto dei ponti di comando delle Centrali o dei Comitati esecutivi!

Essi dunque hanno agito da autoritari e hanno applicato il metodo autoritario alla rivoluzione italiana. Ecco perché abbiamo influito poco o punto negli eventi italiani del 19-20.

Ah, bisognava essersi trovati in qualche grande rivolta, come noi, per sentirci spaccare il cuore alla constatazione che gli ostacoli maggiori, e unici a volte, allo espandersi, allo svilupparsi, al generalizzarsi delle spontanee rivolte di popoli interi e di intere regioni (carovita, rivolte di Ancona, Viareggio, Bari e Puglia, Firenze e tutta la Toscana) li trovavamo nei segretari sindacalisti reggenti le CdL e negli anarchici dell’UAI. Quelli delle città e delle regioni erano tutti insorti; ma non sapevano che pesci pigliare: erano come paralizzati dal loro concetto autoritario della rivoluzione. Erano le povere vittime del loro metodo e della tattica organizzatrice e accentratrice.

Si era arrivati al punto di deprecare i moti parziali e di diffondere l’idea che occorre preparare e organizzare un «moto simultaneo e generale» unitamente ai controrivoluzionari della CGdL e del PS!

Ricordiamo che in una città caduta nelle nostre mani, Meschi, Fellini e altri sindacalisti e anarchici, a noi, che proponemmo di gettarcisi di sorpresa, con dei treni armati (avevamo fucili, munizioni e mitragliatrici) in due direzioni opposte: su Spezia, attraverso Carrara; su Piombino attraverso Pisa e Livorno, ci urlarono che siamo i soliti matti irresponsabili; che vogliamo rovinare tutto coi moti parziali, mentre Malatesta e Borghi stavano proprio allora preparando un moto generale e simultaneo, come se esistesse un solo esempio d’una vera rivoluzione popolare generale e simultanea, proclamata dall’alto!

La Rivoluzione dei Vespri ebbe inizio con un atto individuale seguito dal moto parziale di Palermo che si estese poi, con lotta aspra e sanguinosa, in tutta la Sicilia. Fu Balilla a iniziare il moto parziale per la cacciata degli austriaci. Furono gli straccioni di Parigi, soli, affamati e disarmati, stretti da un potente cerchio di ferro e di fuoco, che compirono quel folle e sublime prodigio della presa della Bastiglia. Tutti i capi eran latitanti! Furono gli operai di Pietrogrado che, primi, affamati e disarmati, uscirono dalle officine a protestare sulle vie e a dar inizio così alla più grande rivoluzione della storia, assassinata poi dai bolscevichi.

In tutti questi classici esempi storici non solo non si nota alcuna preventiva organizzazione, o comando dall’alto della rivoluzione, ma vediamo che gli stessi attori e lottatori non avevano che l’obiettivo di protestare e lottare. Furono sorpresi di aver fatto e vinto la rivoluzione.

Se in Italia le masse fossero state sole, senza i pesi morti paralizzanti delle organizzazioni, unioni e partiti, almeno tre o quattro volte il popolo italiano si sarebbe sorpreso di avere fatto e vinto la rivoluzione. Ma ci pensarono le organizzazioni, le unioni e i partiti a impedirne lo scoppio col volerla comandare, a data ed a ora fisse, dall’alto.

Sì, le rivoluzioni, tutte le vere rivoluzioni, s’iniziano dal basso propriamente con moti parziali che diventano generali solo se essi trovano dei piccoli gruppi o minoranze audaci di iniziatori e animatori che si inseriscano in essi per estenderli, svilupparli e generalizzarli, sul terreno della rivolta. È questa l’opera delle minoranze anarchiche! Ma per molti anarchici il movimento anarchico libero è il disordine, il caos! Occorre organizzare, unificare, accentrare tutto e tutti.

Ora, l’idea esiziale e fatale, essenzialmente autoritaria, che dominò e fuorviò sindacalisti e anarchici, fu quella appunto di creare un’UAI per preparare e organizzare la rivoluzione (un «moto generale e simultaneo») d’accordo con la CGdL e il PS e altri organismi. È questa idea autoritaria che paralizzava tutti i compagni nei momenti culminanti delle rivolte. Anche essi attendevano gli ordini dalle loro centrali!...

Ora la CGdL lavorava ad evitare la rivoluzione. Il PS faceva la sua bella speculazione elettorale. Il PC lavorava a demolire i capi per soppiantarli, e L’Ordine Nuovo comandava: «Le rivolte siano regionali sino a che creeremo gli organi di comando».

Sindacalisti e anarchici unionisti lavoravano sin dal 1915 per creare un organismo centralizzato permanente e responsabile, che fosse preso in considerazione dalle organizzazioni riformiste e autoritarie suaccennate per preparare e organizzare un... «moto generale e simultaneo». Per fare la rivoluzione coi controrivoluzionari dall’alto del ponte di comando d’una centrale di partiti!

E i moti e le rivolte parziali scoppiavano e si esaurivano...

Questa è la dura lezione dei fatti che deve insegnarci ad agire da anarchici e ad applicare i nostri metodi anarchici alle rivoluzioni.

Le rivoluzioni si fanno solo buttandocisi «col diavolo in corpo», nei centri e nei focolai delle rivolte e delle sommosse per estenderle e generalizzarle sul terreno stesso dell’azione sino a farle trionfare.

Col creare organismi permanenti e responsabili e col correre per cinque anni dietro alla CGdL e al PS, abbiamo tradito il popolo, le nostre dottrine ed i nostri principi, noi stessi e sciupata una rivoluzione.

In Italia nel 19-20, il popolo intero insorgeva. C’erano armi e munizioni per armare un esercito.

Non è vero dunque che «gli anarchici erano troppo pochi per agire da soli per iniziare col popolo la rivoluzione...».

Il popolo parecchie volte l’aveva iniziata. Furono gli anarchici a non saper estenderla e generalizzarla.

Per la loro mentalità organizzatrice e accentratrice, per i loro metodi autoritari delle rivoluzioni.

Perché, in Italia, è mancato disgraziatamente un vero e proprio movimento anarchico autonomo. Perché esso era stato captato e subordinato al sindacalismo, o accentrato.

Ammaestrati dall’esperienza, è da anni che noi tendiamo a questo indispensabile e altissimo compito: creare un movimento anarchico libero, autonomo, integrale.

Ecco perché siamo contro l’organizzazione in partito politico degli anarchici.

I partiti non hanno mai preparato né organizzato né fatto rivoluzioni. I capi sono sempre spariti nei grandi giorni delle insurrezioni. In Italia, l’USI e l’UAI volevano comandare la rivoluzione dall’alto. Le rivoluzioni si fanno invece dal popolo e dagli iniziatori dal basso.

«Gli anarchici erano troppo pochi per agire da soli?».

In Italia, gli anarchici furono troppo poco o punto anarchici; e troppo autoritari.

Questo occorre dire e ripetere a quei sindacalisti e anarchici che, tutti estasiati, sono in adorazione davanti al... Comitato Esecutivo della Piattaforma.

Prima si paralizzarono nella loro UAI, poi si suicidarono nella corsa al fronte unico coi partiti politici autoritari.

Ma il maggiore male è che non hanno imparato nulla dalla lezione dei fatti.

Attualmente, tutta la loro attività è il mettere insieme i rottami dell’UAI, e star a bocca aperta dall’ammirazione per quel capolavoro di deviazione dell’anarchismo che è la bolscevista Piattaforma col suo inquadramento unitario, il suo Comitato Esecutivo, la sua armata nera, il suo stato maggiore...

Ah, se l’avessimo avuta in Italia!

Il fascismo non sarebbe venuto!


II

Organizzazione e Rivoluzione



Al nostro articolo «Gli anarchici eran troppo pochi?», Il Pensiero di Buenos Aires (quello delle... penne migliori autografate) ci risponde così:

«Su La Diana del 31 marzo, abbiamo avuto la sorpresa di trovare un articolo di Sire, scritto apposta per refutare alcune affermazioni.

Sire ci obbliga ad una chiarificazione.

Il Pensiero diceva: “I pochi anarchici che arrivano ci dicono un’altra verità dolorosa: essi in Italia erano così pochi da non poter iniziare per proprio conto nessun movimento di classe”.

E sono appunto queste parole che Sire discute. Dire che gli anarchici erano pochi, è secondo lui “una pietosa menzogna...”».

Aguzzi non ha capito niente o non ha voluto capire niente. E sì che la nostra tesi è chiara come la luce meridiana. Abbiamo parlato a suocera perché nuora intenda, ma nuora tace, cioè i dirigenti, anzi gli ispiratori dell’UAI tacciono da anni su questo spinoso argomento su cui noi insistiamo di tanto in tanto.

L’organizzazione, in Italia, ha nuociuto, ostacolato, paralizzato l’estendersi e il generalizzarsi dei moti spontanei. Tutti i partiti e tutte le organizzazioni. Anche l’UAI. Gli anarchici non erano troppo pochi per inserirsi nei moti popolari spontanei e propagarli, estenderli, compiendo la loro funzione dinamica di minoranza iniziatrice e animatrice.

Essi, al contrario, si sono posti sul terreno autoritario accettando i metodi autoritari dei partiti socialisti: del fronte unico con tutte le organizzazioni per fare d’accordo, al momento buono, la Rivoluzione, «perché da soli eravamo troppo pochi per iniziarla...».

Capisce ora la nostra tesi Il Pensiero?

Ma repetita...

Una delle idee fisse... autoritarie degli unionisti italiani durante la guerra era questa: «gli anarchici sono troppo pochi per poter iniziare un movimento da soli senza unirsi agli altri partiti socialisti autoritari...».

Di qui l’idea del fronte unico con questi partiti autoritari per organizzare e proclamare dall’alto d’un Comitato esecutivo, a giorno e ora fissi, e a freddo, la Rivoluzione... Allora eravamo... disorganizzati. Bisognava dunque prima organizzarci. Senza organizzazione nessuna possibilità di rivoluzione...

È bene anche ricordare che già l’indomani della guerra ci si andava ricantando: «la guerra è stata possibile, perché non eravamo organizzati!».

Quindi l’esperienza, secondo loro, provava che gli antiorganizzatori avevano torto marcio. E tutti furono presi dalla febbre dell’organizzazione per l’organizzazione.

Tanto più che c’era Serrati all’Avanti! e Lazzari alla direzione del PS che dicevano agli anarchici: «Ma, benedetti anarchici, come è possibile trattare con voi altri se non avete alcun organo che vi rappresenti collettivamente. Organizzatevi prima, e poi tratteremo l’azione da menare insieme contro la guerra...».

Per conto loro, però, i socialisti avevano già accettato e votato a Bologna l’odg vilissimo di Costantino Lazzari: «né aderire né sabotare».

E gli anarchici si misero a tutto pasto a gettar le basi dell’organizzazione per trattare da potenza a potenza col partito socialista e la sua CGdL. Superfluo ricordare che i socialisti menarono il can per l’aia e che gli anarchici si sono lasciati rimorchiare dal PS e dalla sua CGdL.

Perché erano troppo pochi per poter iniziare da soli qualche movimento...

Fissi in questa superstizione antirivoluzionaria e antianarchica, essi crearono l’UAI per organizzare la Rivoluzione d’accordo coi partiti autoritari, cioè antirivoluzionari per definizione.

Contro l’idea autoritaria del fronte unico col PS e la sua CGdL riformista e quindi controrivoluzionaria in principio; contro il concetto disistimatore di se stessi che «gli anarchici erano troppo pochi per iniziare qualsiasi movimento da soli», noi prendemmo posizione subito, e durante la guerra e l’indomani dell’armistizio e lungo i moti del 19-20 conducendo polemiche aspre e violente che ci valsero le note accuse di combattere l’Intesa per conto degli Imperi Centrali prima; di essere venduti al governo d’Italia e al fascismo per combattere l’UAI!

Che cosa sostenemmo e opponemmo noi allora contro l’idea fissa autoritaria del fronte unico coi partiti autoritari e riformisti per organizzare e proclamare dall’alto d’un Comitato ristretto di partiti la Rivoluzione?

Semplicemente questa teoria e questo metodo anarchici:

Che le rivoluzioni non si organizzano né si proclamano dall’alto, a data e a ora fisse; che i partiti politici autoritari sono antirivoluzionari per origine, essenza e definizione; ch’essi si valgono della piazza per premere sui pubblici poteri; ch’essi non hanno fatto né faranno mai alcuna rivoluzione per la contraddizione che nol consente..., che quindi unirsi a loro significa annullarsi, suicidarsi e mancare quindi al compito di anarchici nella Rivoluzione...

Là, sul posto, lungo tutte le lotte, tutti i moti del 19-20, a cui partecipammo attivamente noi tutti de La Diana, o signor Aguzzi de Il Pensiero, predicavamo coll’esempio, che ci si doveva gettare, conformemente alla teoria anarchica della Rivoluzione, nei centri di rivolta e inserirsi nei moti e tentare di propagarli e estenderli sul terreno stesso dell’azione da paese a paese, da città a città, da provincia a provincia sino a sollevare tutta la nazione trascinando partiti e uomini.

Iniziatori, animatori e travolgitori dovevano essere gli anarchici, anziché, scoppiato un moto, rincorrere D’Aragona o Serrati a Milano o a Roma per studiare insieme se è venuto il momento di... proclamare la rivoluzione! I riformisti non potevano fare da rivoluzionari per una ragione essenziale di principio.

Essi non hanno tradito nulla e nessuno. Hanno evitato la catastrofe della rivoluzione all’Italia, secondo le loro concezioni riformiste. Sono invece i rivoluzionari che hanno adottato il metodo autoritario dell’organizzazione.

Qui è in gioco propriamente il principio stesso dell’organizzazione.

La storia ci prova che nessuna organizzazione ha mai organizzato e proclamato nessuna rivoluzione. Queste sono esplosioni impreviste e spontanee sotto la pressione di grandi e irresistibili e profonde commozioni popolari.

Le organizzazioni sono fatti posteriori, che poi si costituiscono in governo ristabilente l’ordine. Esempio la Russia.

Se poi esse esistono avanti, allora l’esplosione avviene malgrado l’organizzazione, e contro la sua aperta ostilità. Esempio la rivoluzione austro-tedesca. I fatti di Vienna l’hanno provato ieri.

Quindi costituire delle organizzazioni per fare la rivoluzione è conforme alle teorie e ai metodi autoritari. Esse sono i governi di domani.

Così, in Italia, l’UAI ha ostacolato e paralizzato le iniziative, lo slancio e l’estendersi spontaneo dei moti per il solo fatto della sua esistenza, seppure individualmente anarchici e sindacalisti abbiano fatto tutti il proprio dovere.

Ma il fatto dell’esistenza dell’organizzazione tolse loro il senso della responsabilità, li paralizzò tutti nel momento dell’azione nei loro slanci...

Abbiamo potuto constatare questo fatto sui posti nei grandi giorni di rivolta. Superfluo pure constatare che nessuno degli ispiratori dell’UAI si sono rivelati dei grandi e audaci uomini d’iniziativa e d’azione...

È avvenuto sempre questo: scoppiato in un ipercentro un moto, gli anarchici chiedevano ai dirigenti dell’UAI «cosa dovevano fare», e rimanevano lì in attesa, «perché non sapevano se era bene o male estender il moto».

I “dirigenti” rincorrevano D’Aragona e Serrati per convincerli ad agire. Oppure rispondevano: «siete autonomi. Fate quello che credete». Intanto il momento psicologico passava.

Tutta la spontaneità dell’azione anarchica nei moti del 19-20 fu perturbata e paralizzata dal solo fatto dell’esistenza dell’UAI.

Perché è l’organizzazione in sé e per sé l’ostacolo maggiore all’esplodere e all’espandersi spontaneo della rivoluzione. Organizzazione e rivoluzione sono termini antitetici. L’una è l’ordine dall’alto; l’altra è l’esplosione disordinata, irresistibile e travolgente dal basso.

E a questo proposito dedichiamo alla riflessione degli anarchici questa bella e esatta enunciazione della teoria anarchica della Rivoluzione esposta dal prof. Gaetano Salvemini su La Libertà del 3 luglio 1927:

«La sola rivoluzione autentica, di cui Mazzini fu testimone nella sua lunga vita di congiurato, fu la rivoluzione del 1848. E Mazzini non se l’aspettava!

Nessuna rivoluzione di cui sia possibile conoscere storicamente il retroscena è mai avvenuta per ordine di un comitato.

Le organizzazioni gerarchizzate sono dannose. Una rivoluzione non è un campanello elettrico: il Comitato centrale pigia il bottone, e il campanello suona; il Comitato centrale smette di pigiare e il campanello smette di suonare. Una rivoluzione è una febbre che viene quando nessuno se l’aspetta.

Un bel giorno la gente che sembrava inerte, passiva, indifferente, incapace di muoversi, è messa in movimento da un fatto impreveduto. Chi non osava parlare, alza la voce. Chi faceva il gradasso si squaglia. Chi rifuggiva da ogni compagnia, va in cerca degli amici per domandare notizia, per sapere che cosa deve fare. Si leva un grido, vola una sassata. Parte un colpo di revolver. La tempesta si scatena. Non c’è stato nessun ordine di nessun comitato. Ve lo immaginate voi un comitato che si riunisce a Roma per deliberare se in questo momento c’è da tentare un colpo a Palermo o a Milano? Anche ammesso che del comitato non faccia parte alcuna spia (ricordarsi la regola che, su dieci congiurati, almeno uno è spia), come fanno i padreterni del Comitato a conoscere le condizioni degli animi nelle differenti regioni d’Italia in quel preciso momento in cui essi deliberano o nel momento in cui arriveranno colà dove dovrebbero essere eseguiti gli ordini deliberati?

Se non esiste nessun comitato di padreterni che si arroghi il diritto di far suonare al momento opportuno il campanello elettrico, e se la gente è avvezza all’idea che ognuno deve essere il comitato di se stesso, e deve muoversi di propria iniziativa sotto la propria responsabilità, allora può darsi che qualche cosa avvenga: forse che sì, forse che no. Ma se esiste un comitato di padreterni e se la gente prende sul serio i padreterni e si crede obbligata ad aspettare “disciplinatamente” l’ordine dei padreterni, allora è positivo che nessuno farà mai nulla, perché l’ordine non arriverà mai, o caso mai la gente farà degli spropositi perché l’ordine arriverà fuori proposito. L’attimo fuggente passerà certamente senza che nessuno pensi ad afferrarlo».

Qui è bellamente esposta tutta la teoria anarchica della Rivoluzione, così come del resto ce l’la insegnata P. Kropotkin nella sua Grande Rivoluzione.

Tutta la nostra opposizione all’organizzazione in sé è basata su questa teoria sperimentale.

Noi dicemmo sempre le stesse cose con altre parole.

«Nessuna rivoluzione è avvenuta per ordine d’un comitato. Le organizzazioni sono dannose...

Una rivoluzione è una febbre che viene quando nessuno se l’aspetta.

Se non esiste nessun comitato di padreterni..., se la gente è avvezza all’idea che ognuno deve essere il comitato di se stesso, e deve muoversi di propria iniziativa sotto la propria responsabilità, allora può darsi che qualche cosa avvenga. Ma se esiste un comitato di padreterni e se la gente li prende sul serio, allora è positivo che nessuno farà mai nulla, perché l’ordine non arriverà mai, o caso mai la gente farà degli spropositi perché l’ordine arriverà fuori proposito. L’attimo fuggente passerà certamente senza che nessuno pensi ad afferrarlo».

È quello che è avvenuto precisamente in Italia!

La sola esistenza di comitati e organizzazioni toglie a tutti il senso della propria responsabilità e paralizza l’azione spontanea dei rivoluzionari.

D’altra parte, i capi sono paralizzati dal peso di tutte le responsabilità e l’attimo fuggente passa!...

Ecco perché è ridicolo e meschino gridare al tradimento del PS e della sua CGdL.

Riformisti, non potevano non agire da riformisti!

Ecco anche perché dicemmo ch’è una pietosa menzogna il dire che gli anarchici erano troppo pochi per agire da soli.

Le rivoluzioni non le fanno solo gli anarchici. Sono commozioni popolari e generali profonde. Gli anarchici, in esse, pochi o molti, devono agire da anarchici: iniziatori, animatori, travolgitori. Essi ne devono essere la molla dinamica.

In Italia, gli anarchici non erano troppo pochi per agire anarchicamente nei moti spontanei del 19-20. Essi erano molti e bene armati sebbene essi siano, e saranno sempre, una minoranza.

È stata l’idea fissa dell’organizzazione e dell’unione delle organizzazioni per agire d’accordo sotto gli ordini dei padreterni a paralizzare gregari e capi e lasciare passare l’attimo fuggente. Perché è l’organizzazione in sé ch’è l’ostacolo maggiore all’esplodere e all’espandersi della rivoluzione.

Gli unionisti italiani sono stati — e lo sono ancora! — vittime del loro metodo organizzatorio, antianarchico per definizione.

L’anarchismo «avvezza la gente all’idea che ognuno deve essere il comitato di se stesso, e deve muoversi di propria iniziativa e sotto la propria responsabilità».

Noi possiamo quindi affermare legittimamente che, se in Italia i lavoratori e i rivoluzionari tutti si fossero trovati liberi, senza alcuna organizzazione o partito, anche senza UAI, ma con il loro senso vivo della loro responsabilità e padroni dell’iniziativa, la rivoluzione sarebbe scoppiata.

Le organizzazioni — tutte! — e i padreterni — tutti! — ne hanno impedito l’esplosione. Perché tale è la loro sola organica, immanente e peculiare funzione.

È questa la lezione storica dei moti del 19-20 in Italia.

Non quindi troppo pochi...; ma troppo poco o punto anarchici.


[La Diana, anno II, n. 14 del 31 marzo e n. 24 del 25 settembre 1927]

Discorso al popolo

Discorso al popolo

Carlo Michelstaedter

Michelstaedter scrisse queste pagine nei primi giorni del 1909, subito dopo aver letto in un giornale che degli operai, i quali si erano raccolti per protestare contro la condanna di Ferrer, avevano applaudito un aeroplano, che per caso era passato sopra la piazza in cui tenevano il comizio. Michelstaedter immagina di aver reagito violentemente contro questo loro entusiasmo e di esser stato perciò malmenato dalla folla, alla quale egli avrebbe poi tenuto questo discorso.


Voi mi battete e siete nel diritto! m’ucciderete e sarete ancora nel diritto! Ma diritto mio è la libera parola; e vostro dovere l’ascoltarmi. Poiché se l’atto fu brutale e se giustifica l’espressione brutale della vostra sorpresa, non fu brutale la mente, non fu nemica a voi. È l’amore per voi, per l’idea che oggi vi riunisce [che ha fatto si] ch’io mi son ribellato e mi ribello ad un entusiasmo che non corrisponde alla vostra volontà, o fratelli, a quella volontà che vi fa forti contro la tirannide in Spagna. Se domani voi doveste ancora riunirvi e non con lo sdegno indeterminato d’oggi, ma con l’indignazione fresca, con la ferita viva, con la minaccia presente, se doveste domani riunirvi qui, per affermare la vostra volontà fino in fondo, per far trionfare coi fatti e nella vita attuale, e per l’interesse vostro personale d’ognuno – contro le autorità costituite dalla legge, contro le autorità costituite dal danaro, contro governo e borghesia – quell’ideale che oggi vi muove, fratelli, quel mirabile istrumento che ora avete applaudito misurerebbe su di voi la sua forza – e alle fucilate dall’alto risponderebbero dal basso, davanti e a tergo e ai lati altre fucilate a seminar la morte fra le vostre file, a spegnere nel sangue il vostro sdegno, a rovinare per sempre le vostre speranze più care. Fin che queste speranze sono vaghe e lontane, fin che voi soffrite in silenzio la vostra miseria materiale e sociale, voi siete un’innocua moltitudine d’infelici da sfruttare; e la società borghese vi sfrutta in pace e in silenzio, – e perché vi tiene col giogo del vostro bisogno di farvi sentire la forza micidiale delle sue armi. Ma le sue armi le prepara nel silenzio e nella pace, e le sa coprire con le apparenze luminose d’umanità e di progresso, e voi – voi le applaudite!... – Ma il giorno che voi acquisterete piena coscienza dei vostri diritti e della vostra forza, il giorno che sarete raccolti attorno ai vostri eroi, attorno ai Ferrer* della vostra rivoluzione, sotto le bandiere della libertà popolare, il giorno che vorrete affermare l’inizio della nuova vita di giustizia e di fede – quel giorno, fratelli, l’umanità e il progresso della borghesia vi riveleranno la loro vera faccia, vi stringeranno in un cerchio di ferro e di fuoco, senza pietà per gli schiavi che si ribellano. – voi sarete schiavi in terno se non arriverete a smascherare la miserabile ipocrisia della potenza borghese, che copre di fiori le sue difese e nasconde in seno il pugnale. – Ma la potenza è vostra, fratelli, a voi appartiene il futuro, poiché voi avete la fede, e vostro è il diritto. – la società borghese poiché ha usurpato la potenza non sua, con la forza che le proviene soltanto dalla vostra attuale debolezza, poiché non ha altra fede che la sete di guadagno, non altro diritto che la tirannide, ha bisogno della scienza che le metta in codice gli obbrobri della sua prepotenza, della scienza che le dia le armi di forza smisurata e ordigni di guerra che dominino il mare la terra e il cielo, ha bisogno del governo che tragga dalle vostre stesse file gli uomini necessari a tener schiavi voi, guardie carabinieri soldati. Fratelli, voi avete applaudito al simbolo della potenza che vi schiaccia. – Ma vi scuoterete voi dalla vostra inerzia, v’unirete tutti, porterete ognuno il contributo del suo amore fraterno, e della sua forza disperata, nata dalla diuturna sofferenza – e allora sarete invincibili, allora questo vano edificio della potenza borghese che vi domina e che voi rispettate, che vi domina soltanto perché voi lo rispettate, crollerà tutto con le sue leggi, le sue istituzioni, la sua scienza vana, la sua morale ipocrita – gli eserciti dei preparatori, gli eserciti degli esecutori della tirannide spariranno: scienziati, impiegati, soldati saranno razze estinte, nel nuovo mondo.
E sarà il mondo dove regnerà l’uomo, l’uomo del lavoro, l’uomo sano nel corpo e nella mente, l’uomo che non avrà bisogno di leggi ingiuste, e perché ingiuste complicate, per esser sicuro del suo fratello, non di milizie e d’armi faticosamente congegnate per esser sicuro dai suoi nemici: ma la sua fede, e il lavoro comune, e la compagine stretta dall’amore fraterno – gli saranno governo e legge e difesa nel regno del lavoro e della giustizia. Fratelli, in ognuno di voi dorme quest’uomo del futuro e aspetta il giorno del risveglio – fratelli, io sono un oscuro, ma in me parla la voce di quest’uomo. Non anche uscito e rientro nell’oscurità, queste sono le mie prime parole e saranno le mie ultime. Domani forse nelle mani della giustizia borghese in agguato intorno a noi io subirò la sorte che attende Ferrer. Ma se ciò potra illuminare la vostra coscienza, affrettare il vostro risveglio e approssimare l’avvento dell’uomo e del suo regno, io sarò lieto della morte. – Addio Fratelli – viva il lavoro e la giustizia – morte alla borghesia. –


* Francisco Ferrer y Guardia (10 gennaio 1859 – 13 ottobre 1909), pensatore anarchico e agitatore, fu sensibile ai problemi dell’istruzione e dell’educazione. Fondò la Escuela Moderna per sottrarre i giovani, in particolare quelli provenienti dalle classi più disagiate, ai pregiudizi della società e per allevarli al libero pensiero. Sospettato nel 1906 di coinvolgimento nell’attentato al re Alfonso XIII, fu incarcerato e la sua scuola rivoluzionaria fu chiusa. Dopo la legge marziale del 1909, dichiarata a causa della rivolta della «Settimana Tragica», fu processato da un tribunale militare e giustiziato.


lunedì 30 luglio 2012

ORRIBILI DETTAGLI


ORRIBILI DETTAGLI



In un lago di sangue, la bella giovane ragazza era distesa, i capelli sciolti, la gola nuda. L'ombra ostile della sera si appesantiva già sulla parte alta degli alberi, mentre all'incrocio delle strade, in un cespuglio profondo, un lembo di gonna aveva appeso la sua nota chiara.
Eh! Lettore, non voi mio compagno per cui una mezza parola basta; ma tu, signore, ma tu, mio bravo, che avete sganciato il soldo perché il nostro titolo sanguina, dimmi, buonuomo, ti piace?... La giovane bella ragazza, la gola nuda, i capelli sciolti, il lago di sangue...
Ebbene, peggio per voi! peggio per voi tutti dotati di fiuto, coloro che si adescano con gli stupri ed i suicidi, il sangue, le lacrime, tanto peggio per voi, clienti, pubblico, non dirò come la giovane ragazza perse la sua gonna prima della vita...
Tre puntini, tutto qui.
Ma parlerò dell'immonda cucina della Stampa a titoloni rossi, giornali delle tre o della sera, e della quarta edizione. Domandate le ultime notizie! Leggete i titoli in grassetto. Richiedete il menù del giorno:

Antipasto

RAGAZZINA UCCISA
GLI INFANTICIDI A PARIGIA
SCANDALO! SCANDALO!

Arrosto

GRANDE INCENDIO - ELENCO DEI MORTI
IL FUOCO RIPRENDE
NUOVI FERITI, NUOVI MORTI

Dessert

MINACCE DI GUERRA
LE COMPLICAZIONI IN ORIENTE
ULTIMATUM ALL'INGHILTERRA
CONGEGNI E BOMBE.

Ogni giornale porta il suo piatto, dà la sua nota. Do, mi, sol, do, l’accordo perfetto- l’accordo di do, dei mastri-cantori e mastri-truffatori di false notizie. Cucina pepata, carni sanguinolenti, carne da omicidio e autopsia - con contorni di pettegolezzi.
Richiedete i giornali della sera!
Un uomo che chiamano già, nel mondo speciale della Mezzaluna, la Provvidenza dei Giornalisti, è quel Vacher [1] le cui imprese riempiono le colonne delle gazzette.
Si sa che un monomane si vanta di aver ucciso, mutilato, stuprato ragazze e ragazzi secondo i suoi percorsi. Bisaccia in spalla e coltello pronto, la rabbia nel petto, ci viene mostrato mentre fa il suo giro di Francia. È un'esibizione di pregio. La pubblicità è di lusso. Ci si ingegna.
A quando il cinematografo?
Persone comuni piuttosto cupe, articolisti e giornalisti, trovano la vena, ritrovano brio.
I cronisti si ringagliardiscono.
Questi bricconi che credono di saper scrivre perché spalmano della marmellata, si leccano i baffi deponendo. Dopo Troppmann [2], nulla di così vasto, di così coinvolgente. Gli scribacchini scuotono il torpore della loro anemia cerebrale. Hanno dell'immaginazione. Ogni giorno aggiungono un capitolo, un nuovo episodio al dramma, un osso in più al rosario. Si sovraffaticano e perdono la nozione della distanza e del tempo. A sentire la stampa, Vacher uccideva, la mattina, a Marsiglia, stuprava a Bordeaux verso mezzogiorno e, la sera, vicino a Roubaix, mutilava un giovane pastore.
Che stomaco!
La cosa migliore, è che Vacher, quando lo si interroga, sembra assumere la parte del giudice che vuole prendere la sua:
- Sì, sì, sono stato io a massacrare la signorina e questa vecchia di cui mi parlate ed anche il ragazzo e poi anche quest'altro, se la mia memoria mi aiuta. Cosa volte? è più forte della mia volontà. Non posso resistere al desiderio di fare ogni giorno delle vittime. Del resto, sono un pazzo cosciente...
Il sarcasmo di tale replica sfugge senza dubbio al finto giudice. I magistrati dovrebbero tuttavia comprendere- essi che vedono ovunque dei colpevoli, degli individui da colpire, essi che si avventano sull'imputato come sulla preda- che essi sono dei Vacher [3] a modo loro.
Soltanto, essi non sono coscienti...

Squartciatore e ammazza bambini, cari confratelli, preparano così, nel raccoglimento degli uffici di giudici istruttori, l'orrifica lista dei crimini;

Ai piccoli giornalisti essi danno la pastura.

Non sono dieci assassinii come, qui, molto modestamente annunciamo in bella vista. Il recordman che batte Lacenaire [4] di molte lunghezze ne confessa venti per ora.
Senza fare conti, noterei che l'omicidio dell'inizio ebbe luogo in un cantone dell'Isère che sporca il nome di un cattivo signore: Vacher uccise innanzitutto Beaurepaire [5].
Vacher, Beaurepaire: le parole si affiancano bene.
Ciò che costituirà comunque, per il celebre Vacher, una circonstanza attenuante, sono i raccomandabili antecedenti.
Lo squartatore fu un buon soldato.
Le sue prime armi furono felici. Arruolato volontario, divenne presto sottufficiale. Disprezzato dai suoi uomini, amato dai suoi capi, poteva sognare le Spalline.
L'avvenire si apriva.
La sua passione anche per il corpo a corpo, la corporatura ed i tratti di punta tradivano una bella furia molto utilizzabile nelle colonie.
Perché operò in Francia?
Se avesse capito la sua vocazione, e come dovevano utilizzarsi "Le Forze Malvagie"! In Dahomey, nel Tonchino, nel Madagascar, si sarebbe coperto di gloria.
Sarebbe stato il generale Duchêne o il governatore Galliéni.
Spagnolo, sarebbe stato Weyler.
Ma basta parlare di militari. E non parliamo più di Vacher. Così ogni attualità non è che un pretesto da pensare.
Il caso del sottufficiale arrabbiato ci interessa piuttosto per il modo in cui lo si utilizza. La cultura del gusto del sangue - la cultura per via della stampa.
Questa è più che attualità. È dello ieri, dell'oggi, di domani.
I giornali addebiteranno, sempre tanti assassinii per un soldo. Senza voler altro che la ricetta, sempre porranno la parola che seduce il volgo. E sempre riporteranno i dettagli delle atrocità e violenze rilevate, seguendo la formula, del letamaio sentimentale.
Nelle gazzette un po' facoltose abitualmente si danno cento soldi allo scrittore della casa che trova il più bell'occhiello.
È grazioso: l'Uccisore di Pastori? È poetico e pittoresco?... Questa sera troveranno altre cose.
Conoscono l'arte di sistemare i resti degli assassinati. Agghindano le ragazzine inaridite, le pastorelle fatte a pezzi.
Sono dei Watteau di barriera che agghindano, per il popolo, i buoni coltelli a ghiera.

Zo d'Axa

[Traduzione di Ario Libert]


NOTE
[1] Joseph Vacher. Serial killer vagabondo che uccise più di 11 vittime intorno alla zona di Lione tra il 1894-97, prediligendo ragazzine e pastorelli, sgozzandoli e asportandone spesso degli organi interni. Fu ghigliottinato il 31 dicembre 1898.

[2] Jean-Baptiste Troppmann. Autore dello sterminio di una famiglia, avvenuto nel 1869, composta dai due genitori e dei loro sei figli, per cercare di impossessarsi delle loro ricchezze. Il caso fece scalpore non soltanto per l'efferatezza del crimini in sé, ma perché coincise con l'epoca delal grande diffusione dei giornali quotidiani stampati a basso prezzo e ricchi di illustrazioni, anche a colori. Fu ghigliottinato il 18 gennaio 1870.

[3] Zo d'Axa gioca, com'è nel suo stile, sul significato del cognome del pluriomicida Vacher, e cioè Vaccaro, ottenendo un superbo doppio senso: non soltanto insulta con quel epiteto i giudici ma identificandoli con l'assassino, li reputa anch'essi degli assassini.

[4] Pierre-François Lacenaire. Figura romantica di criminale e di assassino-poeta cinico, che suscitò molto scalpore all'epoca e che scrisse in carcere le sue memorie. La sua figura ispirò molti scrittori tra cui Sthendal, Victor Hugo, Dostoevskij. Trasformò il suo processo in una tribuna teatrale interessando in tal modo i giornali dell'epoca che se ne occuparono a fondo. Durante la sua esecuzione pretese di essere ghigliottinato con la faccia rivolta verso la lama.

[5] Beaurepaire. Piccolo comune della regione del Rodano, il cui nome è traducibile in italiano come Belriparo.

sabato 28 luglio 2012

Attacco

Attacco


Nella giustificazione, quindi nel fare che rinvia all’infinito la presa di coscienza, mancando la qualità del mettersi in gioco fino in fondo, rimaniamo nel buio fitto della mancata percezione, mentre attorno ballano fantasmi spacciati per verità.

È errato pertanto parlare di una intima essenza della consapevolezza, per quanto si scavi nella documentazione, ricca e molteplice, ansiosamente cercata, non troviamo che corrispondenze e protocolli, piani conoscitivi che si rimandano e si giustificano uno con l’altro, mai nulla di realmente diverso, mai un urlo pienamente sano, alto nel cielo brumoso della repressione, un urlo capace di attaccare e colpire e non solo di minacciare vertiginosi contorcimenti organizzativi che, alla luce delle cose fatte, risultano banali rendiconti bottegai. Se la verità sta altrove, nella lotta, qui e subito, che si realizza operando nell’azione, tutto quello che esploriamo documentandoci e riflettendo, è parzialità angosciante, approssimazione controvertibile, discorso aperto a destino di fallimento, accordo siglato con parole che portano marchiato sulla loro pelle il segno di un lungo viaggio perfettamente racchiuso nelle regole della sopravvivenza bene amministrata.

Si può coltivare all’infinito il proprio campicello di patate, come il buon Pangloss. La cura non è mai fine a se stessa, e se lo è conduce da questa parte all’uniformità dei cimiteri, dall’altra all’eterogeneità della follia.
L’azione non è una pensione di anzianità, i vecchi parlano al vento di ricordi e di delusioni che la memoria traveste con le vesti colorate delle conquiste. Lontano da tutto ciò, lontano da cadaveri che sono rimasti dissepolti. Il mondo è desolato, un terreno brullo dove fattucchiere bizzarre fanno muovere apparizioni sul fondo della caverna, al cui cospetto tutti si inchinano e mimano dialoghi rispettosi.

Attaccare significa gettare sulla bilancia il proprio ferro, sia pure modesto, ma consistente, carico del significato che il gesto comprende in se stesso, senza magniloquenti “comunicati” che fanno diventare una lucciola il faro di Rodi.

Attaccare riesce sempre a mettere in moto forze che prima giacevano assopite, riesce a lanciare una sfida contro ombre e semioscurità, figure confuse e sgraziate, prive del contenuto carico di indecifrabile senso che le accompagna nella volontà di dominio.

È come se a un film fosse improvvisamente abbassato il sonoro e tutta la pellicola rallentata. Il brusio di fondo, che avvertiamo ritorto nelle orecchie, è una ridondanza della voce del potere che si riorganizza. E che importa ciò se l’iniziativa resta sempre nelle mie mani?

Tutto ha un costo, strisce di pelle vanno via, asportate dagli impietosi fendenti della repressione. Più il clima generale si fa miserabile e viscido, più aumentano i vermi terrestri che strisciano nella mota sperando in un riconoscimento sia pure minimo da parte del potere, e più il ruolo di chi non si piega, di chi non accetta, di chi reagisce e attacca, diventa visibile, si staglia nel buio della notte e richiama l’attenzione dei cani rabbiosi che hanno ricevuto da poco, insieme all’osso d’ordinanza, l’ordine di azzannare.

Dobbiamo diventare “cattivi”, ordina il tenutario del bordello canino, oggi con chi ha un nome diverso e la pelle di un altro colore, domani con tutti coloro che non si raggomitoleranno ai piedi del santissimo in terra, padrone dell’etere e del bon ton. Andiamo, miei cari compagni, da quando si sono così impunemente tollerate affermazioni del genere? Non sono certo le alleanze che ci mancano, dalla nostra i miserabili di ogni categoria, sindacalizzati e non, salariati e non, tra poco tutti accorpati sotto il comune ombrello dell’esclusione.

Non ci capiscono, non ci ascoltano, vocette impudiche ci soffiano all’orecchio, dicendoci di tenere i piedi per terra, di non sognare fantastiche apocalissi improbabili e fuori del tempo, per carità, lontano da noi questi cacasenno da segreterie comunali. Sappiamo bene che non ci ascoltano e non ci capiscono, e allora?
Sputiamo in faccia al potere la nostra rabbia – e non solo quella – e andiamo avanti, nessuno lavora al posto nostro, nessuno tutela le nostre idee, a nessuno stanno a cuore i nostri sogni, solo a noi, e non vi sembra sufficiente? Avete forse bisogno di un mallevadore che vi alzi il morale, qualche estratto chimico o il succo del nettare degli dèi? Avete bisogno di una piccola spinta per alzare lo sguardo al cielo della rivolta? Se ne avete bisogno siete di già fottuti anche se continuate a stringere in mano il manuale del piccolo guerrigliero.
Non vogliamoci bene.

[Editoriale di "SenzaTitolo", n. 3, primavera 2009]

Il canto dei violenti

 
Il canto dei violenti
Georges Henein


Quando avremo infine vuotato del suo lardo l'ultimo borghese in piedi
Quando avremo lacerato come un sacco l'ultimo utero
Dove poté crescere l'odioso germe dei Superbi
Allora riporremo il pugnale nella guaina.

Quando avremo abbattuto come una fragile muraglia l'ultimo tempio vivente
E impiccato l'ultimo re con le budella dell'ultimo prete
Quando avremo piantato l'orifiamma vendicatrice sulle rovine vilipese
Allora metteremo a posto il piccone e lo spiedo.

Noi servitori – aratori – metalmeccanici, noi disoccupati
Nere vittime della miniera
E cupe prede dei porti
Noi la fame – la miseria – il malanno
Noi che veniamo assassinati
È ora di assassinare.

Lavoratori piegati da tutto il passato
Quelli che patiscono e senza spiegazioni!
A cui si rifiuta tutto
Tranne la galera e la morte
Lavoratori piegati dovete raddrizzarvi.

Sì noi siamo negatori e siamo eretici
A noi la violenza che distruggerà i nostri padroni!
Dopo il tempo in cui si diceva loro di sì
È il momento di dire loro merda!

venerdì 27 luglio 2012

L'Utopia

L'Utopia

Era da un po’ di tempo che pensavo di scrivere di certi argomenti, e da alcuni scritti che ho letto mi è parso di capire che quello di cui scriverò è un sentire presente anche in altri compagni.
È una esigenza che avverto da sempre e che non solo non si è mai sopita, ma anzi negli ultimi tempi ha occupato uno spazio sempre maggiore nelle mie riflessioni: parlo dell’Utopia. La sua idea mi perseguita con nuova e rinforzata insistenza, e ciò forse è dettato dal fatto che la sua ricerca sia andata lentamente, ma inesorabilmente, se non venuta meno, quanto meno divenuta meno ossessiva all’interno di quello che, genericamente, possiamo definire come movimento anarchico. Questa almeno è la mia impressione. Forse delusi dagli anni in cui si sono incassate solo quelle che sono state avvertite come sconfitte, stanchi delle sonore bastonate che quando si lotta è sempre possibile incassare (morali più che fisiche), con la prospettiva di non vedere mai realizzati i propri sogni più proibiti, mi sembra ci sia una certa tendenza ad accontentarsi: meglio vincere una piccola lotta che dà morale, piuttosto che incassare un’altra sconfitta nella ricerca della vittoria definitiva. Meglio riuscire ad aggiustare un po’ le cose di questo misero esistente, piuttosto che rischiare di non migliorarle mai nella tentativo di sconvolgerlo definitivamente. La ricerca continua dell’adattarsi alle situazioni che offre la nostra epoca sta soppiantando la tensione che impediva di adattarsi; la frenesia del fare comunque qualcosa per sentirsi vivi ed attivi rischia di sostituire la capacità di analisi e critica utili a sviluppare una progettualità propria. Si arriva quindi a fare ciò che tutti gli altri fanno e a parlare come tutti gli altri parlano, perché usare un linguaggio diverso rende incomprensibili e si corre il rischio di restare isolati. Si partecipa tutti quanti alle stesse lotte ma, come se non bastasse, lo si fa tutti nello stesso modo, usando gli stessi mezzi che a lungo andare conducono alla sterilità, salvo scoprire che a furia di rincorrere quello che il movimento anarchico faceva, abbiamo abortito la nostra capacità immaginativa, atrofizzato la fantasia utile per proseguire le lotte che avevamo intrapreso…
E quelle stesse lotte? Da mezzo verso qualcosa di più ampio e grandioso, rischiano di trasformarsi in fine ultimo, ed è li che si perde di vista l’Utopia. Sempre più di rado mi capita di parlare, coi compagni, dei sogni più grandi, non intesi come sogni ad occhi aperti da mettere da parte una volta finito di fantasticare, ma come sublime aspirazione a cui tendere, come qualcosa da rincorrere per tentare di realizzarla. L’Utopia per me non rappresenta un’isola nel mondo che non c’è, ma una istanza che pompa il sangue al cuore e al cervello, un’idea che non dà tregua; è la tensione che mi spinge ad agire e la consapevolezza che permette di superare la paura. L’Utopia è uno dei motivi per cui sono anarchico, perché solo questo mi offre la possibilità di lottare non tanto e non solo per un mondo nuovo, quanto per qualcosa che non si è ancora mai realizzato.
È questa la mia Utopia: il tentativo di concretizzare questo qualcosa finora mai compiuto, l’aspirazione a vivere in un mondo che non sia quello attuale e nemmeno quello di qualche migliaio di anni fa. Qualcosa che è possibile tentare solo attraverso un momento di rottura insurrezionale, un momento che significherà unicamente l’apertura di una possibilità, che possa farmi affacciare su un baratro profondo e provare la vertigine, lasciando aperta la possibilità che in fondo ci sia qualcosa di terribilmente affascinante come pure di assolutamente terribile. Un salto verso l’ignoto, insomma, senza sapere in anticipo come dovrà essere la società che desidero, ma partendo da tutto ciò che non desidero.
Pensare l’impensabile, quindi, come condizione preliminare per tentare l’impossibile.

Chi contempla la meta fin dai primi passi,
chi ha bisogno della certezza di raggiungerla
prima di cominciare, non ci arriverà mai
A. Libertad

questa mia canzone...

 
"Lavoratori a voi diretto è il canto
di questa mia canzon che sa' di pianto
e che ricorda un baldo giovin forte
che per amor di voi sfidò la morte

A te Caserio ardea nella pupilla
delle vendette umane la scintilla
ed alla plebe che lavora e geme
donasti ogni tuo affetto ogni tua speme

Eri nello splendore della vita
e non vedesti che lotta infinita
la notte dei dolori e della fame
che incombe sull'immenso uman carname

E ti levasti in atto di dolore
d'ignoti strazi altero vendicatore
e ti avventasti tu sì buono e mite
a scuoter l'alme schiave ed avvilite

Tremarono i potenti all'atto fiero
e nuove insidie tesero al pensiero
ma il popolo a cui l'anima donasti
non ti comprese eppur tu non piegasti

E i tuoi vent'anni una feral mattina
gettasti al vento dalla ghigliottina
e al mondo vil la tua grand'alma pia
alto gridando: Viva l'Anarchia

Ma il dì s'appressa o bel ghigliottinato
che il tuo nome verrà purificato
quando sacre saran le vite umane
e diritto d'ognun la scienza e il pane

Dormi Caserio entro la fredda terra
donde ruggire udrai la final guerra
la gran battaglia contro gli oppressori
la pugna tra sfruttati e sfruttatori

Voi che la vita e l'avvenir fatale
offriste su l'altar dell'ideale
o falangi di morti sul lavoro
vittime de l'altrui ozio e dell'oro

Martiri ignoti o schiera benedetta
già spunta il giorno della gran vendetta
della giustizia già si leva il sole
il popolo tiranni più non vuole"

giovedì 26 luglio 2012

Davanti ai giudici

Davanti ai giudici
François Claudius Kœnigstein, detto Ravachol
Se prendo la parola, non è per difendermi degli atti di cui mi si accusa, poiché solo la società che, con la sua organizzazione, mette gli uomini in continua lotta gli uni contro gli altri, è responsabile. E in effetti, non vediamo in tutte le classi, in tutti gli ambienti, persone che desiderano, non dico la morte, poiché suonerebbe male all’orecchio, ma la disgrazia dei loro simili se questa può procurare loro dei vantaggi?
Esempio: un padrone non si augura di veder sparire un concorrente? Tutti i commercianti, in generale, non vorrebbero, reciprocamente, essere i soli a godere i vantaggi che possono venire dalla propria industria?
L’operaio senza impiego non sogna, per ottenere del lavoro che, per un qualsiasi motivo, colui che è occupato venga licenziato?
Ebbene, in una società dove si producono simili fatti non devono sorprendere atti come quelli che mi si rimproverano, i quali non sono altro che la logica conseguenza della lotta per l’esistenza tra gli uomini che per vivere sono obbligati ad impiegare tutti i mezzi possibili. Dal momento che ciascuno deve pensare a sé, colui che si trova nella necessità deve agire. Ebbene! Poiché così è, quando ho avuto fame non ho esitato ad impiegare i mezzi che erano a mia disposizione a rischio di fare delle vittime.
Quando i padroni licenziano gli operai si preoccupano poco di vederli morire di fame.
Tutti coloro che hanno il superfluo, si interessano di chi manca delle cose necessarie? Vi sono alcuni che danno qualche aiuto, ma sono impotenti a sollevare tutti coloro che si trovano in stato di necessità e che muoiono prematuramente in seguito a privazioni di ogni tipo, o volontariamente suicidandosi in ogni modo per porre fine ad un’esistenza miserabile o per non aver potuto sopportare i rigori della fame, le onte delle innumerevoli umiliazioni senza alcuna speranza di vederli finire. Così come hanno fatto la famiglia Hayem e la signora Soufrein che hanno dato la morte ai loro figli per non vederli ancora patire la fame. E tutte quelle donne che, nel timore di non poter dare da mangiare ai loro figli, non esitano a compromettere la loro salute e la loro vita distruggendo nel loro seno i frutti del loro amore!
Ebbene! tutto questo accade in mezzo all’abbondanza di ogni tipo di prodotto. Si capirebbe se tutto questo avesse luogo in un paese povero di prodotti, dove vi è carestia; ma in Francia, dove regna l’abbondanza, dove le macellerie sono stracolme di carni, i panifici di pane, dove i vestiti e le scarpe riempiono i magazzini; dove vi sono appartamenti vuoti, come ammettere che nella società tutto va bene quando si vede così bene il contrario? Vi sono persone che piangono tutte queste vittime ma dicono che non è possibile far niente! Che ognuno se la sbrogli come può! Cosa può fare colui che, pur lavorando, manca del necessario? Se non lavora, non gli resta che lasciarsi morire di fame, e allora qualcuno getterà qualche parola di pietà sul suo cadavere. Ecco ciò che ho voluto lasciare ad altri. Ho preferito diventare contrabbandiere, falsario, ladro e omicida!
Avrei potuto mendicare, ciò è degradante e vigliacco ed è anche punito dalle vostre leggi che fanno della miseria un delitto.
Se tutti i bisognosi, invece di aspettare, prendessero dove ce n’è e con qualsiasi mezzo, forse i benestanti comprenderebbero più in fretta che è pericoloso voler conservare l’attuale stato sociale in cui l’inquietudine è permanente e la vita è in ogni istante minacciata; finirebbero senza dubbio per comprendere che gli anarchici hanno ragione quando dicono che, per avere la tranquillità morale e fisica, bisogna distruggere le cause che producono il crimine e i criminali. Non è sopprimendo colui che preferisce afferrare con violenza ciò che gli serve per assicurarsi il benessere, piuttosto che morire di una morte lenta dovuta alle privazioni che sopporta, o che dovrebbe sopportare senza speranza di vederle finire (se ha un poco di energia). Dopo tutto la fine della propria vita non è altro che una fine delle sofferenze.
Ecco perché ho commesso gli atti che mi si rimproverano e che sono la conseguenza logica dello stato barbaro di una società che non fa altro che accrescere il numero delle sue vittime col rigore delle sue leggi che intervengono sugli effetti senza mai toccare le cause!
Si dice che bisogna essere crudeli per ammazzare un proprio simile: ma coloro che parlano così non vedono che lo si fa per evitare che lo facciano a noi stessi!
Anche voi, signori giurati, senza dubbio mi condannerete a morte perché ritenete che sia una necessità e che la mia scomparsa sarà una soddisfazione per voi che avete orrore di veder scorrere il sangue umano; ma quando credete che sia utile versarlo per assicurare la vostra esistenza, non esitate più di me a farlo. Con questa differenza, che voi lo farete senza alcun pericolo, al contrario di me che agivo a rischio e pericolo della mia libertà e della mia vita.
Ebbene, signori, non vi sono criminali da giudicare ma le cause del crimine da distruggere. Creando gli articoli del Codice, i legislatori hanno dimenticato che non attaccavano le cause ma semplicemente gli effetti e che in tal modo non distruggevano affatto il crimine. In verità, esistendo sempre le cause, scaturiranno sempre effetti e si avranno sempre dei criminali, poiché oggi ne distruggete uno ma domani ne nasceranno due.
Cosa bisogna fare allora?
Distruggere la miseria, questo genio del crimine, assicurando a ciascuno la soddisfazione di tutti i propri bisogni.
E quanto sarebbe facile realizzarlo. Bisognerebbe stabilire la società su nuove basi in cui tutto fosse in comune, in cui ciascuno producendo secondo le proprie possibilità e le proprie forze, potesse consumare secondo i propri bisogni.
Allora gli inventori, avendo tutto a loro disposizione, creerebbero delle meraviglie per fare in modo che i lavori che ci sembrano penosi o ripugnanti diventino una distrazione o un passatempo. Allora non vi sarebbe più quell’inquietudine per il domani che è un continuo tormento per l’operaio e anche per il padrone, per tutti.
Non si vedrebbe più gente, come l’eremita di Nostra Signora delle Grazie ed altri, mendicare un metallo del quale diviene la schiava e la vittima!
Non si vedrebbero più donne vendere il proprio corpo come una volgare merce, in cambio di quello stesso metallo che molto spesso ci impedisce di capire se l’affetto è veramente sincero!
Non si vedrebbero più uomini come Pranzini Prado e Anastay, pur adolescenti che, sempre per avere questo metallo, arrivano ad uccidere.
Tutto questo dimostra chiaramente che la causa di tutti i crimini è sempre la stessa; che bisogna veramente essere stupidi per non vederla!
Sì, lo ripeto, è la società che fa i criminali. E voi giurati, invece di colpire loro, dovreste impiegare le vostre forze a trasformare la società.
Di colpo sopprimereste tutti i crimini e la vostra opera, attaccando le cause, sarebbe più grande e più feconda di quanto non lo sia la vostra giustizia che si limita a colpire gli effetti.
Io sono solo un operaio senza istruzione ma, avendo vissuto l’esistenza dei miserabili, sento meglio di un ricco borghese l’iniquità delle leggi repressive.
Dove prendete il diritto di uccidere o di rinchiudere un uomo che, messo sulla terra con la necessità di vivere, si è trovato nella necessità di prendere ciò che gli era necessario?
Ho lavorato per vivere e far vivere i miei, tanto che io e i miei non abbiamo troppo sofferto, sono rimasto quello che voi chiamate onesto. Poi il lavoro è mancato e con la disoccupazione è venuta anche la fame!
Fu allora che questa grande legge della natura, questa voce imperiosa che non ammette repliche, l’istinto di conservazione, mi spinse a commettere i crimini e i delitti di cui mi riconosco l’autore.
Nego di aver commesso quelli della Varizelle [Ravachol era stato anche incolpato di omicidio volontario nella persona di Jean Rivolier abitante a La Varizelle, ndr] e delle signore Marcon [due donne trovate uccise a Saint-Etienne, ndr] poiché ne sono completamente estraneo e voglio evitare alla vostra coscienza i rimorsi di un errore giudiziario.
Giudicatemi, signori giurati e, se mi avete compreso, nel giudicarmi giudicate tutti i disgraziati che la miseria, alleata alla fierezza naturale, ha fatto diventare criminali e che in una società intelligente sarebbero state persone come tutte le altre.

ai rassegnati

Ai rassegnati 
 di Albert Libertad (13 aprile 1905)

Odio i rassegnati!
Odio i rassegnati, come odio i sudici, come odio i fannulloni.
Odio la rassegnazione!


Odio il sudiciume, odio l’inazione. Compiango il malato curvato da qualche febbre maligna; odio il malato immaginario che un po’ di buona volontà rimetterebbe in piedi. Compiango l’uomo incatenato, circondato da guardiani, schiacciato dal peso del ferro e del numero.
Odio il soldato curvato dal peso di un gallone o di tre stellette; i lavoratori curvati dal peso del capitale.
Amo l’uomo che esprime il suo pensiero nel posto in cui si trova; odio il votato alla perpetua conquista di una maggioranza.
Amo il sapiente schiacciato sotto il peso delle ricerche scientifiche; odio l’individuo che china il suo corpo sotto il peso di una potenza sconosciuta, di un X qualsiasi, di un Dio.
Odio tutti coloro che cedendo ad altri per paura, per rassegnazione, una parte della loro potenza di uomini non solamente si schiacciano, ma schiacciano anche me, quelli che io amo, col peso del loro spaventoso concorso o con la loro inerzia idiota.
Li odio, sì, io li odio, perché lo sento, io non mi abbasso sotto il gallone dell’ufficiale, sotto la fascia del sindaco, sotto l’oro del capitale, sotto tutte le morali e le religioni; da molto tempo so che tutto questo non è che una indecisione che si sbriciola come vetro… Io mi curvo sotto il peso della rassegnazione altrui.
Odio la rassegnazione! Amo la Vita.
Voglio vivere, non meschinamente come coloro che si limitano a soddisfare solo una parte dei loro muscoli, dei loro nervi, ma largamente soddisfacendo sia i muscoli facciali che quelli dei polpacci, la massa dei miei reni come quella del mio cervello. Non voglio barattare una parte dell’oggi con una parte fittizia del domani, non voglio cedere niente del presente per il vento dell’avvenire.
Non voglio curvare niente di me sotto le parole Patria – Dio – Onore. Conosco troppo bene il vuoto di queste parole: spettri religiosi e laici.
Mi burlo delle pensioni, dei paradisi, sotto la cui speranza religioni e capitale tengono nella rassegnazione.
Rido di tutti coloro che accumulano per la vecchiaia e si privano nella gioventù; di coloro che, per mangiare a sessanta, digiunano a vent’anni.
Io voglio mangiare quando ho i denti forti per strappare e triturare grossi pezzi di carne e frutti succulenti, e voglio farlo quando i succhi del mio stomaco digeriscono senza alcun problema; voglio soddisfare la mia sete con liquidi rinfrescanti o tonici.
Voglio amare le donne, o la donna secondo come converrà ai nostri comuni interessi, e non voglio rassegnarmi alla famiglia, alla legge, al Codice, nessuno ha diritti sul nostro corpo. Tu vuoi, io voglio. Burliamoci della famiglia, della legge, antica forma della rassegnazione.
Ma non è tutto: io voglio, poiché ho gli occhi e le orecchie, oltre che mangiare, bere e fare l’amore, godere sotto altre forme. Voglio vedere le belle sculture, le belle pitture, ammirare Rodin o Manet. Voglio ascoltare le migliori opere di Beethoven o di Wagner. Voglio conoscere i classici della Commedia, conoscere il bagaglio letterario e artistico che è servito per unire gli uomini passati ai presenti o meglio conoscere l’opera sempre in evoluzione dell’umanità.
Voglio gioia per me, per la compagna scelta, per i bambini, per gli amici. Voglio una casa dove poter riposare gradevolmente i miei occhi alla fine del lavoro. Poiché io voglio anche la gioia del lavoro, questa gioia sana, questa gioia forte. Voglio che le mie braccia adoperino la pialla, il martello, la vanga o la falce. Voglio essere utile, voglio che noi tutti siamo utili.
Voglio essere utile al mio vicino e voglio che il mio vicino mi sia utile. Desidero che noi operiamo molto perché la mia necessità di godere è insaziabile.
Ed è perché io voglio godere che non sono rassegnato.
Sì, sì, io voglio produrre, ma voglio godere; voglio impastare la farina, ma mangiare il miglior pane; fare la vendemmia, ma bere il miglior vino; costruire la casa, ma abitare nei migliori appartamenti; fare i mobili, ma possedere anche l’utile, vedere il bello; voglio fare dei teatri, tanto vasti, per condurvi i miei compagni e me stesso.
Voglio prendere parte alla produzione, ma voglio prendere parte al consumo. Che gli uni sognino di produrre per altri a cui lasceranno, oh ironia, la parte migliore dei loro sforzi; per me, io voglio, unito liberamente con altri, produrre ma consumare.
Guardate rassegnati, io sputo sui vostri idoli; sputo su Dio, sputo sulla Patria, sputo sul Cristo, sputo sulle Bandiere, sputo sul Capitale e sul Vello d’oro, sputo sulle Leggi e sui Codici, sui Simboli e le Religioni: tutte fesserie, io me ne burlo, me ne rido…
Essi non sono niente né per me né per voi, abbandonateli e si ridurranno in briciole.
Voi siete dunque una forza, o rassegnati, di quelle forze che si ignorano ma che sono delle forze ed io non posso sputare su voi, posso solo odiarvi…o amarvi.
Il più grande dei miei desideri è quello di vedervi scuotere dalla vostra rassegnazione, in un terribile risveglio di Vita.
Non esiste paradiso futuro, non esiste avvenire, non vi è che il presente.

Viviamo!
Viviamo!
La Rassegnazione è la morte.
La rivolta è la Vita.

Albert Libertad

mercoledì 25 luglio 2012

Joseph Dubois


«Era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita, senza esser capace neppure di sognarla. L’avevo trovata, è scoperto che cosa fosse. La felicità che mi era sempre stata negata, avevo il diritto di viverla quella felicità. Non me lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti. Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, in ogni caso nessun rimorso…»
Joseph Dubois


La rivoluzione non è una questione di classe

La rivoluzione non è una questione di classe
Meteor

L'esame e la considerazione di certe attitudini demagogiche, come quella che implica la parola d'ordine dei bolscevichi sull'unità del proletariato, ci hanno condotto, noi anarchici, di nuovo in faccia d'una questione punto facile a risolversi: l'idea delle classi e della lotta di classi. Noi non abbiamo dato alcuna soluzione teorica fondamentale a questo problema; non abbiamo fatto altro che mettere in dubbio la concezione marxista, criticarne le basi e, forse, preparare il terreno a qualcuno dei nostri che un giorno s'occupi seriamente del soggetto dal punto di vista libertario.
Costi quel che costi alla nostra divergenza naturale con la dottrina marxista, dobbiamo riconoscere che molte delle nostre idee correnti procedono da Marx, al quale – pur negandogli certe qualità morali fondamentali ed attribuendogli smisurate ambizioni autoritarie – non possiamo togliere il merito d'aver creato un sistema sociale alla tedesca, cioè accuratamente elaborato, con una risposta per ogni domanda e una teoria per ogni atteggiamento.
I primi anarchici accettarono le dottrine economiche di Marx molto prima che apparissero i marxisti; ma, come ha detto Malatesta, se non c'inganniamo, questo fu dovuto al fatto che non rimaneva tempo a trattar queste questioni da loro stessi. Gli anni son passati, il marxismo, nella sua parte politica, fu totalmente estirpato nell'ambiente anarchico; mentre le sue impronte rimangono nelle affermazioni economiche, e se si può con esse transigere finché la realtà non reclama posizioni definite e chiare o risposte concrete, il momento arriva in cui noi notiamo delle contraddizioni e in cui sentiamo la necessità di attenerci alle nostre idee e di subordinare il marxismo alla concezione libertaria della rivoluzione e della vita sociale.
L'idea di classe, nella nostra opinione, contraddice i principi sostenuti dall'anarchismo. Noi crediamo di vedere in essa l'ultimo rifugio dell'autoritarismo; noi ci vantiamo di aver rimosso l'influenza dei partiti politici dal movimento operaio, ma lasciando fomentare l'idea di classe prepariamo il terreno ad un nuovo dominio. A questo è servito meravigliosamente il sindacalismo. I sindacalisti, anche quelli che si pretendono libertari, vedono il mondo attraverso il prisma unilaterale che mette una classe di fronte all'altra; essi si sono creati un'idea fissa di sfruttatori e di sfruttati, di capitalisti e di salariati, e invece di confermare con l'esame della vita reale il contenuto di quest'idea, l'esistenza dell'omogeneità delle classi in lotta, fanno l'operazione contraria.
Se ciascuno di quelli che militano e occupano il loro posto nella lotta sociale e rivoluzionaria si domanda perché agisce in un dato modo, non risponderà come membro d'una classe sociale, ma come partigiano di un'idea. Quando intraprendiamo un'azione contro i capitalisti o contro lo Stato, lo facciamo più per le nostre concezioni di giustizia, d'uguaglianza e di libertà che come membri d'una classe economica. La miseria individuale o collettiva può essere uno stimolante alla ribellione, alla considerazione dei mali attuali, alla ricerca dei rimedi, cosa che non facciamo come operai, ma come uomini. I riformisti corporativisti e marxisti hanno fatto tutto il possibile perché il pensiero dei lavoratori sia in accordo col mestiere che esercitano e non col loro stato di uomini.
Inoltre la vita quotidiana ci offre uno spettacolo che è tutto il contrario della lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori; la lotta che noi osserviamo è quella degli sfruttati contro… se stessi; rarissimamente i privilegiati sono ricorsi all'azione diretta, e si servono generalmente dell'ignoranza, della miseria ecc., del subordinato per difendere le proprie posizioni e piazzare uno sfruttato in faccia all'altro.
I sindacalisti dicono: «tutti i lavoratori, tutti i salariati devono unirsi per la lotta comune contro il comune nemico, il capitalista; gli interessi di tutti i lavoratori sono gli stessi, tutti i lavoratori sono fratelli!».
Noi dubitiamo che l'interesse dello scioperante sia identico a quello del crumiro, che l'interesse del salariato operaio sia uguale a quello del salariato gendarme, o che l'interesse del lavoratore rivoluzionario sia pari a quello del lavoratore cristiano; lungi dal constatare l'esistenza di linee generali di lotta comune fra i salariati noi notiamo la più grande divisione, e anarchici noi non dovremmo combattere questa divisione (la quale sarà come si vedrà altrettanto artificiale e inconsistente) in nome di supposti interessi di classe comune, ma nel nome degli interessi umani. Noi non dovremmo ripetere, come i sindacalisti, «tutti i lavoratori sono fratelli!», ma «tutti gli uomini sono fratelli!», perché l'idea di classe contiene implicitamente l'idea di dominio di classe. È certo che i combattenti della rivoluzione sociale appartengono, sono appartenuti e apparterranno quasi esclusivamente alle masse lavoratrici; è comprensibilissimo che la parte ribelle della società sia quella che soffre, ed è ugualmente comprensibile che sia la parte della società che soffre dello sfruttamento e del dominio, ad aspirare, ad essere capace di aspirare alla soppressione di questi mali fondamentali per tutti. Ciò non ci autorizza però a proclamare che la rivoluzione è una questione di classe, che la soluzione dei problemi della vita sociale sia secondo i punti di vista d'una parte della società che pensa come tale e non come frazione dell'umanità. Sinora la storia ci ha dato bastanti esempi di questo esclusivismo di razza, di casta, di dinastia, di partito. L'anarchismo patirebbe la più grande disfatta se stimolasse gli uomini a pensare come meccanici o come contadini, come salariati o come negri e non come uomini; al disopra del mestiere, della razza, del colore si trova l'umanità.
Si è troppo trascurato l'apprezzamento dal valore delle idee nella vita sociale mentre gli uomini sono separati o uniti più dalle idee o dalla mancanza di idee, che dalla nazionalità, dal mestiere, dal colore. La pretesa dei sindacalisti (appoggiata da qualche anarchico) di misurare gli uomini dal lavoro e da ciò che pensano, ci è sempre sembrato un grande assurdo. Se il sindacato ha una missione più elevata che quella di mantenere un segretario stipendiato, se ha un'intenzione di lotta per una società più equa, quando agirà constaterà conflitti senza fine e dovrà riconoscere che fra lavoranti d'uno stesso mestiere son le idee che determinano la condotta degli individui: il cristiano considererà la ribellione come un crimine, perché il suo scopo è di conquistare un posto in cielo e non in terra; il marxista vorrà evitare i terribili momenti d'un urto col salariato poliziotto o coi soldati dell'esercito e preferirà affidare la missione di difendere i suoi interessi a un rappresentante parlamentare. Gli anarchici non potranno transigere né con la rassegnazione cristiana né con la panacea marxista. Vediamo quindi che l'armonia dei lavoratori sindacati d'una corporazione cessa nel momento in cui si voglia fare più che pagare le quote e mantenere il segretario stipendiato.
I sindacalisti dicono anche che i lavoratori devono unirsi in base agli interessi di classe; non sappiamo di qual classe d'interessi si tratti, perché non è tanto facile immaginarsi di definire ciò che una classe è. Certo si è che non conosciamo interessi che non siano legati ad idee rispettive e non si può parlare d'interessi senza tener conto delle idee che essi suscitano o di quelle che li hanno fatti nascere. È possibilissimo che in qualcuno l'idea di giustizia nasca dall'interesse per il giusto, ma è anche vero che l'interesse per il giusto può nascere dall'idea di giustizia. Cioè, la libertà, per esempio, può nascere dall'interesse per la vita libera, ma essa può essere anteriore e indipendente anche da questo interesse. Non amiamo il bene solo quando questo è unito a un interesse, l'amiamo anche quando è pregiudizievole ai nostri interessi.
Noi non abbiamo mai creduto alla logica delle associazioni rivoluzionarie basate sugli interessi e non abbiamo potuto concepire che si facesse astrazione delle idee, senza le quali qualunque associazione è artificiale.
L'idea di classe esclude naturalmente l'azione delle idee nella vita delle collettività; l'idea di classe fomenta il determinismo storico, il fatalismo marxista; essi sono inseparabili. E se noi siamo convinti che la classe lavoratrice non è chiamata fatalmente a rimpiazzare la classe borghese o a muoversi in alcun senso, noi dobbiamo far entrare nel movimento sociale un nuovo fattore: la volontà umana; e se accettiamo la volontà umana nel movimento sociale, non potremo affermare che la rivoluzione sia un affare esclusivo di questa o di quella classe, perché non verificheremmo l'esistenza di questa volontà attraverso un prisma unilaterale di partito o di frazione economica. Nel secolo scorso si credeva ai Popoli-Messia; i sindacalisti hanno escogitato la leggenda delle Classi-Messia. Noi anarchici vediamo le cose da un punto di vista più vasto, ed affermiamo che la rivoluzione che deve apportare la libertà e l'eguaglianza non può essere fatta nel nome d'una classe ma nel nome dell'umanità, benché fermamente convinti che essa sarà realizzata quasi esclusivamente dai lavoratori rivoluzionari.
Protestiamo contro i sindacalisti che dicono che la rivoluzione è una questione di classe per la stessa ragione che protestiamo quando i bolscevichi o i social-democratici affermano ch'essa è una questione di partito, del loro proprio partito.
Abbiamo visto la dittatura del proletariato diventare in ultima analisi la dittatura di Lenin. Se l'esperimento sindacalista si farà un giorno noi vedremo che l'idea di classe si limiterebbe ai lavoratori sindacati, e, più, alle commissioni esecutive, e, più ancora, ai più abili, ai più astuti di queste commissioni esecutive. E come Lenin avrebbe potuto dire: «la dittatura del proletariato son io», noi potremo vedere un qualunque sindacalista dire: «la classe son io!».
Vi fu, nel 1908, sulle colonne della Protesta (Buenos Aires) una polemica interessante sulla questione delle classi; i principali protagonisti furono E.G. Gilimon, uno dei cervelli più solidi che siano passati nella redazione del vecchio quotidiano anarchico, e Antonio Loredo, allora redattore de L'Azione Operaia di Montevideo. Sarebbe interessante rileggere gli argomenti di quella polemica. Gilimon espone in quella occasione le idee che abbiamo di nuovo visto sulla Protesta una dozzina d'anni più tardi e che meriterebbero un'ancor più ampia discussione.
L'idea di classe non può soddisfare gli anarchici e noi vorremmo soltanto attirare l'attenzione dei compagni su ciò, e se ci manca un Marx che l'esamini dal punto di vista libertario, potremmo sostituire l'assenza d'un teorico col nostro sforzo comune.

[da L'Adunata dei Refrattari, anno IV, n. 36 del 5-9-1925]