sabato 14 luglio 2012

alcune considerazioni


Le “organizzazioni” che si qualificano rivoluzionarie rimproverano agli individualisti antiautoritari di tenersi generalmente in disparte dall’azione rivoluzionaria qual è comunemente intesa: manifestazioni di piazza, incitamenti, sommosse, guerra civile –di non condividere i propositi che muovono i partiti cosiddetti avanzati allorché si accende una scaramuccia tra “borghesi” e “proletari”- di non collocarsi né da un lato né dall’altro della barricata allorché rumoreggia l’insurrezione, e di attendere da semplice spettatore che il conflitto giunga ala fine. Gli individualisti da parte loro affermano che, isolati od associati, la professione delle loro opinioni implica la resistenza, la rivolta allo stato permanente, che l’individualismo incarna in sé lo spirito della ribellione, d’insottomissione, d’irriducibilità nella maniera più profonda, più energica, più durevole, più permanente, più vera, infine. […]
È esatto che gli individualisti considerano con precauzione ed esaminano con la più grande attenzione le manifestazioni rivoluzionarie che si producono in seno agli ambienti umani nei quali essi vivono. È esatto altresì che essi non si lasciano abbagliare né dalla facciata esteriore e dalla bandiera che si sventola, né dagli appelli sonori e sentimentali cui ricorrono i condottieri di folle per farsi seguire dai loro greggi. Essi si dimostrano conseguenti alle loro opinioni allorché desiderano sapere, anzitutto, a profitto di chi o di che si produce o si svolge un dato movimento rivoluzionario.
Inoltre a torto si rimprovera loro di nutrire una non sol’quale ostilità pregiudiziale contro la forza: ad essi che aspirano a rendere forte ciascuna unità umana senza monopolio o privilegio speciale. Per la verità, non è contro la forza, contro l’energia che si erigono gli individualisti; al contrario, è un tratto caratteristico delle loro rivendicazioni il veemente desiderio di vedere l’essere umano affermarsi forte e vigoroso, intellettualmente come moralmente, dal punto di vista fisico come dal punto di vista psichico. Non è contro la forza che essi si pongono, ma bensì contro l’autorità, la coercizione, l’obbligazione, delle quali la violenza è un aspetto, il che è tutto differente.[…]
Gli individualisti sono del parere che una qualunque trasformazione dell’ambiente – sia essa d’ordine intellettuale, etico, economico, politico, od altro – non può o non ha probabilità di prodursi realmente se essa non è preceduta da un’intensa azione di propaganda, destinata a preparare i componenti dell’ambiente in questione alla modificazione o al rivolgimento che sta per aver luogo ed a metterli così in grado di prendere posizione. In altri termini, gli individualisti non concepiscono un’azione rivoluzionaria senza una preliminare educazione e iniziazione dell’ambiente ove essa dovrà svolgersi […].
Aver compiuta la propria rivoluzione individuale, vuol dire essersi sbarazzati il più e meglio possibile delle influenze che pesavano sul proprio io ed essersi così rivelato a se stesso; vuol dire, una volta liberatosi dal gioco delle influenze ereditarie, dell’educazione e delle tradizioni sociali, o in ogni caso dopo avervi lottato contro, essersi fatta, forgiata, una concezione personale della vita; vuol dire ancora possedere la piena conoscenza delle proprie passioni, dei propri slanci […].
È stato affermato che gli individualisti anarchici negano alla violenza un qualunque valore educativo: che le negano una qualsiasi utilità pratica nella soluzione dei conflitti che pongono di fronte gli uomini o le collettività. L’impiego della violenza nulla risolve: esso è un segno di superiorità bruta, un procedimento assolutamente contro-individualista, poiché richiede l’impiego della autorità fisica. E’ stato ugualmente affermato che la sola forma di azione rivoluzionaria riconosciuta tale dagli individualisti antiautoritari sarebbe la tattica speciale chiamata comunemente “resistenza passiva”.
La “resistenza passiva” è un atto di ribellione o un’insieme di azioni insurrezionali che si estrinsecano non per mezzo di manifestazioni di piazza né con la sommossa, né con la lotta armata; che, in altre parole, ripudiano il metodo della violenza per affermarsi, e non si basano, in alcun caso, sull’eccitazione superficiale e passeggera delle moltitudini. La resistenza passiva, che si può impiegare per ogni specie di obbiettivi, suppone l’educazione e la iniziazione preliminare di coloro che la impiegano a preferenza di tutte le altre tattiche rivoluzionarie.
Si può, ad esempio, senza innalzare barricate, astenersi da ogni attività, da ogni lavoro, da ogni funzione che implichi il mantenimento o il consolidamento di un dato regime imposto, rifiutarsi di pagare delle imposte o delle tasse destinate al funzionamento di istituzioni e di servizi dei quali si contesta l’utilità e la necessità, dei quali si combatte il concetto informatore stesso: dal dazio consumo alla imposta “del sangue” voluta dalla guerra. Si può rifiutarsi di mandare i propri figlioli alle scuole dello stato il cui insegnamento si giudica tendenzioso, unilaterale, pernicioso alla formazione e allo sviluppo della propria progenitura.
Si può rifiutarsi di utilizzare come medici o come professori coloro che sono tali grazie soltanto ad un diploma ufficiale. Si può rifiutarsi di rispondere ai commissari, ai giudici, ai magistrati delle assisi, dei tribunali, delle corti di giustizia civili, correzionali o criminali. Si può rifiutarsi di obbedire, di conformarsi ad un decreto, ad una legge, ad una ordinanza che si considera come contraria alle opinioni che si professano od alla propria concezione della vita. Si può rifiutarsi di lavorare per un salario che si giudica troppo basso o per un numero di ore quotidiane che si considera troppo elevato. Si può erigersi contro tutte le specie di pretese e di usurpazioni sociali, governative, amministrative, giuridiche, che si considerano tali da portare un colpo decisivo alla autonomia dell’unità umana in generale o della propria personalità in particolare.
Si supponga che un movimento a base di “resistenza passiva” si svolga su grande scala; non più attuata dietro l’ordine di capi o di “leader”, ma studiato, premeditato, deciso individualmente da ciascuno di coloro che vi prendono parte; si supponga di un movimento di resistenza passiva parziale o generale, applicato ad uno qualunque degli esempi succitati; che potrebbe fare, - domandano gli individualisti – contro questo sciopero silenzioso, ma deciso, contro questa “astensione”, uno Stato, un governo, una dittatura qualunque?
[…]
Chi non si accorge che la resistenza passiva, che l’astensione, preparata, maturata, praticata scientificamente, avrebbe ben altra portata, ben altro valore di un’agitazione chiassosa, tumultuosa, irriflessiva, trascinante nei suoi gorghi, volenti o nolenti, una folla di seguaci pronti a fuggire al primo serio ostacolo, gli uni perché si sono lasciati trascinare non osando andare contro corrente, gli altri perché mai avevano pensato a tutte le conseguenze che potevano derivare da uno sciopero che si prolungasse un poco? […]
emile armand

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