L’ITALIA MUORE
L’umanità sì spegne lentamente consumata dalla più orribile di tutte le malattie: il gregarismo.
E questo significa invigliacchimento, impecorimento, impoverimento
dell’energia vitale, sparizione dello spirito d’indipendenza e di
fierezza, menomazione della capacità di difesa e di attacco, perdita
dell’attitudine alla creazione, libera ed originale.
Gli uomini, purtroppo, stanno diventando
tanti fantocci uguali, che sentono, pensano ed agiscono tutti nello
stesso modo, cioè come i capi stabiliscono. E una simile, spaventosa
degenerazione, ch’è, contemporaneamente, un’offesa alla natura e
all’interesse umano, costituisce il frutto di una millenaria educazione
religiosa, morale e sociale che ha spinto gl’individui all’ubbidienza e
al conformismo, spogliandoli di ogni carattere proprio, di ogni velleità
di ribellione, d’ogni impulso a far da sé, a volere particolarmente.
Nell’epoca attuale gregarismo e conformismo sono stati potenziati ed estesi da nuove cause malauguratamente prodottesi.
Prima: lo sviluppo ipertrofico del macchinismo e della civiltà da esso
creata che costringe gli uomini ad un’organizzazione maggiore, ad una
interdipendenza più stretta, ad una disciplina più rigida senza le quali
non sarebbe possibile la sincronizzazione degl’intenti e degli sforzi
che permette il funzionamento di quel complesso congegno ch’è la
produzione industriale. L’operaio non è più il libero artigiano del
medioevo che lavora nella sua bottega come meglio gli piace e crea, da
solo, la sua opera, dandole la sua impronta; ma è il fantoccio meccanico
che, coi compagni, entra ed esce dalla fabbrica a fischio di sirena;
che nelle ore stabilite di lavoro è costretto a starsene nel suo reparto
e a compiere meccanicamente gli stessi gesti meccanici che i compagni
compiono fabbricando un solo pezzo dell’opera della quale gli altri
pezzi vengono fabbricati nei reparti vicini; è che, per conseguenza, si
trasforma: in automa, non sapendo e non potendo costruire, da solo,
l’opera intera.
Così pure il contadino, isolato ed autonomo, viene
assorbito dalla grande azienda agricola in cui non può più coltivare la
terra a modo proprio e lavorare o riposare a suo estro, ma è costretto à
svolgere la sua attività in quel numero di ore invariabilmente fissate;
a seguire un metodo unico di coltivazione, quello che, a tutti, imposto
dal dirigente dei lavori; e a comportarsi come tutti si comportano,
sacrificando la sua volontà, le sue esperienze, le sue singole vedute.
Perciò lo stesso lavoro, impersonale e meccanico, conformizza gli
individui.
Fuori del lavoro essi trovano il sindacato e il partito, i
servizi pubblici standardizzati, l’uniformità dei consumi essenziali,
il divertimento collettivo e per tutti uguale in base alla stessa radio,
allo stesso stadio e al medesimo cinema, la stampa a rotocalco, gli
stessi slogan culturali e tante altre influenze che li attirano e li
imprigionano in una fitta rete di rapporti sociali, che prestabiliscono,
per, tutti, gusti, costumi ed abitudini e tutti livellano sul piano di
una disciplina collettiva.
La seconda causa dell’accresciuto
gregarismo e dell’accentuazione dei caratteri, casermistici e carcerari
della società, umana, è stata l’urbanesimo, favorito dal capitalismo il
quale vuole attirare molta gente nelle città per irreggimentarla e
sfruttarla nelle sue fabbriche e nelle sue aziende.
Gli antichi
greci avevano compreso che l’eutassia, cioè il buon ordine nella vita
cittadina, non è possibile che in piccole associazioni. Oltre un certo
numero scompare la libera intesa fra gl’individui e opera, fatalmente,
la spinta all’organizzazione delle masse sotto la direzione dei capi.
La terza causa va ricercata nella diffusione delle ideologie
totalitarie (fascismo, nazismo, bolscevismo) che, col pretesto di
realizzare l’ordine perfetto e il paradiso sulla terra, tendono ad una
invadente e calcolata regolamentazione autoritaria della vita umana e
dei bisogni individuali che, secondo i dirigisti, dovrebbero essere
uniformati, guidati e controllati fino all’impossibile.
Ne consegue
che l’umanità si gregarizza sempre più, mentre i suoi capi, duci,
maestri, benefattori, liberatori aguzzano l’ingegno per trovare misure
ancor più vessatorie per perfezionare i congegni della complessa
macchina sociale. E l’uomo, spersonalizzato e ridotto una rotella che
meccanicamente s’ingrana nei congegni di questa macchina, degenererà
indefinitamente se un risveglio improvviso dei suoi istinti sopiti e
della sua natura, narcotizzata e compressa, non lo restituirà alla
vivente Anarchia dei primordi e ai rapporti, liberi e mutevoli, con i
propri simili.
Il processo degenerativo del genere umano e
l’affogamento, sistematico e progressivo, degli spiccati e distinti
colori dell’individualità nell’uniforme grigiore della vita collettiva,
non si osservano soltanto in paesi standardizzati come l’America o
casermizzati come la Russia, ma anche in un paese che per lo spirito, un
tempo indisciplinato e ribelle, dei suoi abitanti, avrebbe dovuto
rimanere meno colpito da tale male.
L’Italia muore consunta dal
gregarismo. Gl’italiani non hanno più iniziativa, sentimenti, volontà
propria, spirito d’indipendenza, senso della personalità, coraggio,
orgoglio, impulsi di ribellione. Sono diventati tante pecore contente
d’essere guarite e tosate dal pastore, sempre pronte a genuflettersi ai
suoi piedi, a credere a tutto quanto egli dice, ad eseguire zelantemente
i suoi ordini e a farsi ammazzare per lui quando lo esige.
Da
trent’anni a questa parte gl’italiani considerano una fatica pensare:
c’è il capo che pensa per tutti e a tutti comunica ciò che essi debbono
ritenere bene e ciò che essi debbono stimare male, quello che debbono
fare e quello che non debbono fare, quali idee sono tenuti ad accettare e
altre sono tenuti a respingere, i gusti ch’è necessario avere e i gusti
ch’è necessario non avere. I pecoroni ascoltano a bocca aperta,
accettano passivamente ogni cosa, senza beneficio d’inventario, e,
comuni e concordi nel generale servilismo, credono ubbidiscono e
combattono per la maggiore gloria del capo. Fra i pecoroni quelli che
sono più ambiziosi e aspirano a far carriera e ad elevarsi un tantino al
di sopra dei compagni, si mettono al seguito del capo, diventano suoi
adulatori, ruffiani, lustrascarpe, schiavi, e a furia d’inchini e di
servizi, di umiliazioni e d’avvilimento, riescono infine a guadagnare un
pugno di denaro e un gallone da caporale. Allora si mostrano, con
gl’inferiori, prepotenti, altezzosi, sprezzanti, tiranni mentre con i
superiori, con il capo e con gli altri pezzi grossi, rimangono
ubbidienti, striscianti, tremanti e petenti. E questi essi lo chiamano
senso della gerarchia.
Il fascismo ha potuto dominare per ventitre
anni l’Italia e la dominerebbe ancora se la guerra non l’avesse
travolto, proprio per il pecorismo degl’italiani che, dai fascisti, sono
stati resi ancora più pecore. Benito Mussolini era un pagliaccio
megalomane; Pure le sue pose camorristiche, i suoi discorsi altisonanti,
il pugno chiuso e le ciglia aggrottate hanno talmente impressionato
gl’iloti fino a farli cadere in ginocchio davanti a lui e a spingerli a
baciare la mano che li percoteva. Sotto il regime tutti gl’italiani,
meno pochissimi, erano iscritti al fascio, ubbidivano con zelo agli
cordini ricevuti, acclamavano entusiasticamente le concioni
sgrammaticate dell’istrione di Predappio e ripetevano con convinzione
"il duce non sbaglia mai».
Quando Mussolini, per conquistarsi
l’impero, ha chiesto l’oro al popolo, tutti si sono affrettati a
darglielo; non solo i ricchi, ma arche i poveri, anche le femminucce che
hanno sfilato l’anellino del matrimonio e si sono private volentieri
dell’unico oggetto di valore posseduto. Io però non ho mai mollato. Per
ventitre anni ho subito le persecuzioni più terribili, senza cedere di
un passo. Cinque aggressioni nell’ultima delle quali fui ferito
gravemente; innumerevoli arresti; cinque anni di ammonizione politica;
la perdita di un cospicuo patrimonio donatomi da una mia zia; la
miseria, le calunnie, l’esistenza resa impossibile dalla ferocia dei
nemici; non sono valse a piegarmi. Ebbene ricordo che in tutti quegli
anni ho sempre passeggiato solo nelle strade di Caserta; tutti mi
fuggivano come se fossi stato un cane idrofobo, perfino i pochissimi
amici temevano di mostrarsi al mio fianco e mi evitavano; e quando le
persone, assennate e per bene, mi vedevano fra i poliziotti che mi
conducevano al carcere, commentavano: «Lo vuole lui. Perché non cedi?
Perché non fa come noi? Ah, quel ragazzo è proprio pazzo...».
Il
vice questore di Caserta, comandante supremo della sbirraglia locale,
era, in quel tempo, un certo Morice, vero tipo di poliziotto alla
Peccheneda, perfido ed ipocrità, bigotto e traditore. Costui aveva già
aiutato — e, forse, non gratuitamente — le oblique manovre dei miei
parenti che erano riusciti a portarmi via il patrimonio ricevuto da mia
zia. Non contento egli, un poco per naturale malignità ed un altro poco
per ingraziarsi i suoi superiori littorii continuava a perseguitarmi e
mi aveva alfine ridotto nella più crudele indigenza. Come ammonito
politico io non potevo uscire da Caserta. In quella cittadina, dov’ero
conosciuto e sfuggito da tutti perché antifascista e bersagliato, non
trovavo alcun lavoro , alcun mezzo per guadagnare. Non ricevevo aiuti da
nessuno, l’ambiente mi era ostile, la mia mi aveva rinnegato fin da
quando, sedicenne, m’ero dichiarato anarchico. Sopportavo le più atroci
privazioni, saltavo i pasti quasi tutti i giorni, mi torturavo
inutilmente il cervello per escogitare un espediente qualsiasi che mi
salvasse da quell’inferno. I miei nervi erano tesi fino allo spasimo, la
mia anima lanci nata dall’agitazione, dall’ira, dal dolore di non poter
reagire. Riuscii infine, dopo sforzi inauditi, a procurarmi un
impieguccio nello studio di un avvocato. Ma egli fu subito chiamato in
questura e invitato a licenziarmi. Disperato, mi trovai di nuovo sul
lastrico, alla fame, nei tormenti. Senza una via di uscita, col capestro
alla gola e con l’albergo che dovevo pagare se non volevo rimanere sul
marciapiede ed essere arrestato dalle guardie come contravventore agli
obblighi dell’ammonizione.
Tutti, tutti mi vedevano soffrire e
sghignazzavano. «Perché non ti pieghi — mi chiedeva qualcuno con tono di
rimprovero — Perché non entri anche tu nel fascio e ti liberi da queste
pene?».
Ma io non volevo cedere ed ero disposto ad ogni sbaraglio piuttosto che genuflettermi davanti ai nemici.
Denunziai al procuratore del re presso il tribunale di Santa Maria
Capua Vetere il vice questore Morice per «attentato alla libertà di
lavoro». Sapevo che non avrei ricavato nulla, ma sporsi ugualmente la
denunzia per provocare uno scandalo, per dimostrare pubblicamente che la
polizia costringeva a morire di fame un italiano solo perché
antifascista. Dopo qualche settimana il procuratore del re m’invitò nel
suo studio e mi disse: «Caro Martucci, lei ha ragione, dalle indagini
espletate è risultato che veramente le impediscono di lavorare e di
guadagnarsi da vivere. Ma se procedessi legalmente contro un’autorità,
in favore di un anarchico, mi giuocherei il posto e finirei anch’io
nelle sue condizioni. Quindi sono costretto a non mandare avanti la
pratica».
Non mi rimaneva che piantare nella testa di Morice un
colpo di pistola. Non lo feci e feci male. Ma amavo una donna e, per
tema di perderla, non seppi affrontare, in quell’istante, la morte o la
galera che avevo già tante volte affrontato. E ripresi l’ascesa del
calvario.
Un giorno Morice, nel suo ufficio, fissandomi in viso i
suoi occhietti maligni, mi espresse, in dialetto napoletano, la sua
intenzione di vendicarsi «Dicette u pappice vicino a noce: dammi tiempo
ca te spertoso» (disse il verme alla noce: dammi tempo che ti foro).
Prontamente risposi: «Dicette u scarrafone nfaccia a ti gnostro: ai
voglia e cluovere e che cchiù niro e chello che songo nun pozzo
addiventà» (disse lo scarafaggio all’inchiostro: puoi piovere quanto
vuoi che più nero di quello che sono non posso diventare).
Ma ebbi torto. Morice riuscì a farmi più male di quanto me ne aveva fatto fino allora.
Ordì, con la sottile perfidia della sua anima poliziesca e gesuitica,
le più mostruose montature a mio danno, mi calunniò ripetutamente, cercò
di infangarmi con tutti i mezzi e, infine, mi mandò al confino, non
avendo potuto farmi trattenere in galera per parecchi anni, come
sperava.
La notte che, ammanettato e fra i carabinieri, uscii dal
carcere, diretto all’isola, trovai fuori l a mia giovane compagna che
aveva con me diviso, per sette anni, miseria, persecuzioni e tormenti.
Aveva saputo che quella notte mi avrebbero portato via ed attendeva, da
ore ed ore, sotto la pioggia, per darmi l’ultimo saluto.
Voleva
baciarmi, ma gli sbirri glielo impedirono. E lei, piangendo, ritornò a
casa con le vesti inzuppate dall’acqua che cadeva rabbiosamente.
Mori, dopo pochi giorni, di polmonite.
Al confino ci sono stato otto anni: cinque nelle isole di Lampedusa,
Tremiti, Ventottenne; tre nei comuni del continente. Macchiagodena e
Isernia.
Specialmente nelle isole ho sofferto immensamente. Non era
permesso uscire fuori le quattro case dell’abitato e in uno spazio
angusto e nell’eterna monotonia delle cose e degli uomini, si moriva
asfissiati di noia e di disgusto. L’esistenza vegetativa si svolgeva
uniforme fra il camerone e il paese, il paese e il camerone. I
poliziotti che ci sorvegliavano, trovavano spesso un passatempo nel
provocarci, esigendo da noi il saluto romano. Molti si piegavano ma io
mi sono parecchie volte ribellato. A Lampedusa, nel 1934, fra sei o
settecento confinati, politici e comuni, soltanto io, Vittorio Domiziani
e Francesco De Rubeis ci rifiutammo di salutare romanamente, e, per
punizione, ci tennero dieci giorni a pane ed acqua, in un orribile
sotterraneo, tenebroso e puzzolente, su di un fetido giaciglio, pieno
d’insetti.
A Tremiti, nel ‘37, sono insorto, con altri, contro
l’obbligo del saluto romano stabilito dal direttore Fusco. I poliziotti
ci rinchiusero in un camerone che non poteva contenere più di quindici
persone e aveva una sola finestra. E noi eravamo trenta, stavamo pigiati
come sardine, l’aria ci mancava, il caldo soffocante di luglio ci
procurava le smanie. Abbiamo sopportato quel tormento per ben quindici
giorni, durante i quali uno dei nostri, il comunista Ferrari, ch’era
debole e malato, non ha resistito ed è morto.
Mentre noi pochi
pativamo questi spasimi, il popolo italiano acclamava il suo duce e
mandava i suoi figli a conquistare l’Abissinia e ad insanguinare la
Spagna.
Quanti sono stati veramente gli antifascisti che hanno
lottato e sofferto per le loro idee? AI confino costituivano un’infima
minoranza; nelle carceri un pugno d’uomini e sempre quelli; fuori
c’erano quarantasei milioni di pecore contente che cantavano
«Giovinezza» adattandosi alla schiavitù.
Mussolini, nei suoi
colloqui con Ludwig, ha detto: «Ricevo ogni giorno centinaia di lettere
da persone che desiderano un impiego, un lavoro, un sussidio, una
concessione, un guadagno. Tutti mi chiedono pane: nessuno mai mi ha
chiesto la libertà».
Aveva ragione. I servi non si preoccupano che
di raccattare le briciole che cadono dal banchetto del padrone. La
libertà è, per essi, un lusso inutile. E Ferdinando II, re delle Due
Sicilie, diceva al mio bisnonno ch’era il suo architetto: «Don Domenico,
per governare i popoli occorrono tre f: festa, farina, forca».
Gl’italiani sono rimasti, soddisfatti e tranquilli, sotto le insegne del littorio per oltre vent’anni.
Nessuno ha mai pensato a ribellarsi. (1)
Io, appena ritornato dal confino mi trovavo a Napoli, e progettai di
far saltare, con una bomba ad orologeria, la sede della federazione
fascista.
Ma mi mancavano i mezzi e siccome non potevo procurarmeli
da solo, confidai il mio proposito ad un avvocato antifascista che si
trovò d’accordo con me e promise grandi aiuti. Per il suo tramite
conobbi altre persone che anch’esse promisero. Ma, Verba volant; alla
fine non ebbi né gli esplosivi, né il tecnico che doveva costruire la
bomba e solo pochissimo denaro.
Cercai fare da solo. Trovai a
Caserta un meccanico, Amedeo Di Capua, che accettò di fabbricare
l’ordigno, e un professore, Enzo Bizzarri, che mise a nostra
disposizione la sua casa. Incaricai un amico impiegato in una fabbrica
di munizioni di procurarmi gelatina e tritolo ma, mentre attendevo, fui
arrestato in seguito a denunzia di un tale cui mi ero confidato.
Ma
come poteva dimostrare che era vero? Perciò il capo dell’Ovra, Pastore,
venuto da Roma per condurre le indagini, volendo entrare in possesso di
una pezza d’appoggio che rendesse possibile la denunzia all’autorità
giudiziaria, pretendeva che firmassi una confessione, scritta da lui e
basata sulle confidenze ricevute.
Io mi opposi quaranta giorni di
camera di sicurezza, sevizie, minacce, lusinghe, premesse di libertà e
denaro, non servirono a piegare la mia volontà. Rifiutai sempre la
firma. Infine il diabolico poliziotto mi costrinse a cedere, arrestando
la mia vecchia madre e dichiarandomi cinicamente che, se non avessi
firmato subito, l’avrebbe passata in guardina dove lei, ammalata di
pleurite e febbricitante, sarebbe stata uccisa dal freddo e dal disagio.
Per salvare la mia povera mamma, ch’è la sola persona della mia
famiglia che mi ha voluto sempre bene e non mi hai mai rinnegato,
dovetti cedere. Ma appena trasferito al carcere e interrogato dal
giudice istruttore, smentii la confessione, specificando che la firma mi
era stata estorta con la violenza. Cosi tutti uscirono e rimasi, in
carcere solo io, vittima di una nuova montatura ordita dallo sbirro
Pastore. Riacquistai la libertà otto mesi dopo, nel settembre del ‘43,
giusto a tempo per battermi contro le orde di Scholl durante le quattro
giornate napoletane.
Ma fui costretto a subire ancora altre delusioni.
Gli alleati che conquistarono l’Italia, tolsero di mezzo i gerarchi più
noti ma lasciarono il potere a quelle forze reazionarie che, durante il
ventennio, avevano sostenuto il fascismo: monarchia, chiesa,
capitalismo, militarismo, burocrazia, polizia.
E il popolo?
Una
parte si è riversata nella sagrestia democristiana, adora il papa e De
Gasperi, e... spera la ricompensa nell’oltretomba. Un’altra parte si è
irreggimentata nella caserma bolscevica, sotto la guida del duce
Togliatti, e si lascia comandare e sfruttare dai caporali rossi, accetta
tutte le panzane che questi ammanniscono e attende ansiosamente il
paradiso terrestre portato sulla punta delle baionette cosacche.
I
due partitoni, il papalino e lo staliniano, sono entrambi retti da
demagoghi e saltimbanchi, da opportunisti e politicanti che hanno
tenuto, quasi tutti, fino ad ieri la tessera fascista in tasca.
Vi sono, è vero, anche i partitini: ma presentano fedelmente gli stessi caratteri dei partitoni.
Gl’intellettuali non si differenziano dalla massa e sono riuniti in
cricche nelle quali s’incensano mutuamente, si sorreggono a vicenda, si
aiutano l’un l’altro per conservare il monopolio delle cattedre
universitarie e delle case editrici, della direzione dei grandi giornali
e degl’incarichi onorifici e remunerativi. Fino ad ieri tutte le
cricche non hanno riconosciuto che un dio: Benito l’Altissimo. Oggi,
alcune tessono l’elogio del Vaticano altre quello del Cremlino. E
continuano a pontificare, a dominare, a far quattrini. Il pensatore,
libero e solitario, il vero grande cui ripugna imbrancarsi e che aspira
ad eccellere unicamente con il suo merito, trova la strada sbarrata da
queste cricche che lo soffocano con i mezzi più abietti. Giulio
Colesanti, filosofo profondo ed originale, autore del saggio su «La
morale Superiore», vive in miseria in un paesetto del Molise e non ha
nemmeno la possibilità di pubblicare i suoi scritti. Ma, per grazia del
papa, Gonella è ministro della Pubblica Istruzione. E, per grazia di
Togliatti, Bontempelli non è divenuto senatore comunista... per un pelo!
In Italia oggi non domina che lo spirito di chiesa e di cricca, di
caserma e di gregge. Ma a questo spirito pesante ed asfissiante, a
questa tetra bruma che soffoca gli ultimi guizzi di vita, io reagisco
opponendo la filosofia dello spontaneismo. Io che sono più che mai
combattuto, ostacolato, boicottato, vilipeso da governi e partiti,
caporali e soldati, non disarmo, non indietreggio, ma dopo trent’anni di
strenua lotta, rimango al mio posto di battaglia, audace come Prometeo,
risoluto come Capanéo. E dico all’uomo o, almeno, a quel raro uomo che
non è stato ancora avvelenato del tutto dall’influenza sociale e può
riprendersi e guarire:
1) Sii te stesso. Rimani come la natura ti ha
fatto. Sviluppati seguendo le tue inclinazioni e i tuoi istinti,
svolgiti secondo il tuo modo particolare di esistere. Non sforzarti di
divenire uguale agli altri, ma conserva la tua originalità, la tua
maniera personale di sentire, pensare ed agire.
2) Sii libero.
Ricorda che nulla v’è al di sopra di te e, se anche qualcuno o qualche
cosa ci fosse, tu dovresti ribellarti contro la sua autorità che
pretenderebbe comandarti o dirigerti. La gioia di vivere puoi gustarla
solo quando vivi come ti piace, quando ti abbandoni alla spontaneità e
non sei costretto a comportarti come altri esigono. Quindi diventa
anarchico. Sbarazzati del gregarismo che t’hanno istillato per domarti,
conquista la tua libertà e difendila con ogni mezzo contro chiunque
voglia strappartela.
3) Disprezza tutti i partiti. Allontanati da
tutte le chiese. Insorgi contro tutti i governi. Respingi tutte le
leggi. Ridi di ogni religione e di ogni morale. Fatti gioco di ciò che
chiamano sacro e che reclama da te sottomissione e rispetto. Sputa sulle
convenzioni, sui riguardi, sulle ipocrisie. Ritempra, novello Anteo, le
tue forze nella comunione con la natura non più compressa ed evirata.
Discaccia i capi, i preti, i direttori, gli educatori, i benefattori,
cioè tutti gl’impostori che, col pretesto di migliorarti, correggerti,
guidarti, salvarti, non tendono ad altro che a renderti loro schiavo e a
profittare di te. Diventa il titano scatenato che né la violenza né
l’inganno, potranno mai piegare.
Se alcuni uomini vorranno accettare
e seguire tali consigli ci sarà, in Italia, una reazione al conformismo
e un principio di rigenerazione. Altrimenti gl’italiani moriranno
consumati dal mal sottile che li insidia e che, distruggendo in ciascuno
la personalità, distrugge con questa, la vita.
Enzo Martucci
Nessun commento:
Posta un commento