martedì 31 luglio 2012

Troppo pochi?

Troppo pochi?
Sire [Renato Souvarine]
I

Gli anarchici erano troppo pochi?...



Tutta la filosofia consolatrice e poltrona che gli anarchici unionisti hanno saputo ricavare dal periodo rivoluzionario del 19-20 è racchiusa in questa pietosa menzogna.

«La rivoluzione italiana fu sabotata e tradita dalla CGdL e dal PS. Noi anarchici eravamo troppo pochi per agire da soli!...».

Pietosa e dannosa menzogna, perché non si serve la rivoluzione con delle menzogne. A. Borghi la porta in giro per l’America.

Mille volte l’abbiamo letta nelle riviste e giornali unionisti. L. Fabbri non si è stancato di scrivere che: «L’UAI ha influito poco o punto negli eventi perché era sorta da troppo poco tempo: era troppo giovane!...».

Eccola ora fare capolino sul giornale anarchico Il Pensiero di Buenos Aires. Esso scrive:

«I pochi anarchici che arrivano ci dicono un’altra verità dolorosa. Essi in Italia erano così pochi da non poter iniziare per proprio conto nessun movimento di massa. Han dovuto sempre marciare affiancati o all’avanguardia dei partiti d’ordine».

Essi hanno voluto e non dovuto sempre marciare affiancati.

La sola UAI ha proclamato, in un suo Congresso tra ovazioni, 200 sezioni e 20.000 inscritti! Ed essa, nel movimento anarchico, era la minoranza!

Dove mi mette poi l’articolista tutti quegli anarco-sindacalisti reggenti le CdL da Sestri a Spezia, a Carrara, a Piombino, e altri centri importanti?

Solo se tutti noi sapremo dire e riconoscere la verità, noi renderemo un segnalato servigio alla causa della rivoluzione italiana e universale.

Bisogna aver il coraggio di riconoscere che abbiamo mancato al nostro specifico compito di anarchici, cioè più propriamente che non abbiamo agito da iniziatori e da animatori: che non siamo accorsi e non ci siamo gettati anima e corpo (oppure «col diavolo in corpo» come diceva Bakunin) nei centri e nei focolai delle rivolte per estenderle, svilupparle e generalizzarle, sul terreno stesso dell’insurrezione, conformemente alla teoria anarchica della rivoluzione.

Che abbiamo fatto invece?

Abbiamo agito da autoritari affiancati o alla coda dei partiti autoritari. Ci siamo paralizzati a vicenda in un tira e molla di 18 mesi sino a dar tempo alla reazione di pigliare l’iniziativa e batterci senza neanche l’onore e la bellezza d’un tentativo eroico generale. Solo gli anarchici del Diana — tanto vituperati! — salvarono l’onore dell’anarchismo bruciando e bruciandosi nel gigantesco tentativo di reagire — coll’ammonimento tremendo! — all’attacco brutale della reazione che ebbe inizio coll’arresto di Malatesta, Borghi e C.

L’errore iniziale, esiziale e fatale risiede nella grande disistima che gli anarchici e sindacalisti avevano di loro stessi; nella sfiducia nelle proprie capacità di iniziativa rivoluzionaria («eravamo troppo pochi per agire da soli»); nel disprezzo dell’istinto divinatorio del popolo insorto; nella sconoscenza assoluta della tattica e metodo anarchici nelle rivoluzioni, ecc. ecc. Essi rimasero vittime della loro superstite mentalità organizzatrice e accentratrice, cioè di tutto prevedere, di tutto preordinare, di tutto organizzare, di tutto comandare dall’alto dei ponti di comando delle Centrali o dei Comitati esecutivi!

Essi dunque hanno agito da autoritari e hanno applicato il metodo autoritario alla rivoluzione italiana. Ecco perché abbiamo influito poco o punto negli eventi italiani del 19-20.

Ah, bisognava essersi trovati in qualche grande rivolta, come noi, per sentirci spaccare il cuore alla constatazione che gli ostacoli maggiori, e unici a volte, allo espandersi, allo svilupparsi, al generalizzarsi delle spontanee rivolte di popoli interi e di intere regioni (carovita, rivolte di Ancona, Viareggio, Bari e Puglia, Firenze e tutta la Toscana) li trovavamo nei segretari sindacalisti reggenti le CdL e negli anarchici dell’UAI. Quelli delle città e delle regioni erano tutti insorti; ma non sapevano che pesci pigliare: erano come paralizzati dal loro concetto autoritario della rivoluzione. Erano le povere vittime del loro metodo e della tattica organizzatrice e accentratrice.

Si era arrivati al punto di deprecare i moti parziali e di diffondere l’idea che occorre preparare e organizzare un «moto simultaneo e generale» unitamente ai controrivoluzionari della CGdL e del PS!

Ricordiamo che in una città caduta nelle nostre mani, Meschi, Fellini e altri sindacalisti e anarchici, a noi, che proponemmo di gettarcisi di sorpresa, con dei treni armati (avevamo fucili, munizioni e mitragliatrici) in due direzioni opposte: su Spezia, attraverso Carrara; su Piombino attraverso Pisa e Livorno, ci urlarono che siamo i soliti matti irresponsabili; che vogliamo rovinare tutto coi moti parziali, mentre Malatesta e Borghi stavano proprio allora preparando un moto generale e simultaneo, come se esistesse un solo esempio d’una vera rivoluzione popolare generale e simultanea, proclamata dall’alto!

La Rivoluzione dei Vespri ebbe inizio con un atto individuale seguito dal moto parziale di Palermo che si estese poi, con lotta aspra e sanguinosa, in tutta la Sicilia. Fu Balilla a iniziare il moto parziale per la cacciata degli austriaci. Furono gli straccioni di Parigi, soli, affamati e disarmati, stretti da un potente cerchio di ferro e di fuoco, che compirono quel folle e sublime prodigio della presa della Bastiglia. Tutti i capi eran latitanti! Furono gli operai di Pietrogrado che, primi, affamati e disarmati, uscirono dalle officine a protestare sulle vie e a dar inizio così alla più grande rivoluzione della storia, assassinata poi dai bolscevichi.

In tutti questi classici esempi storici non solo non si nota alcuna preventiva organizzazione, o comando dall’alto della rivoluzione, ma vediamo che gli stessi attori e lottatori non avevano che l’obiettivo di protestare e lottare. Furono sorpresi di aver fatto e vinto la rivoluzione.

Se in Italia le masse fossero state sole, senza i pesi morti paralizzanti delle organizzazioni, unioni e partiti, almeno tre o quattro volte il popolo italiano si sarebbe sorpreso di avere fatto e vinto la rivoluzione. Ma ci pensarono le organizzazioni, le unioni e i partiti a impedirne lo scoppio col volerla comandare, a data ed a ora fisse, dall’alto.

Sì, le rivoluzioni, tutte le vere rivoluzioni, s’iniziano dal basso propriamente con moti parziali che diventano generali solo se essi trovano dei piccoli gruppi o minoranze audaci di iniziatori e animatori che si inseriscano in essi per estenderli, svilupparli e generalizzarli, sul terreno della rivolta. È questa l’opera delle minoranze anarchiche! Ma per molti anarchici il movimento anarchico libero è il disordine, il caos! Occorre organizzare, unificare, accentrare tutto e tutti.

Ora, l’idea esiziale e fatale, essenzialmente autoritaria, che dominò e fuorviò sindacalisti e anarchici, fu quella appunto di creare un’UAI per preparare e organizzare la rivoluzione (un «moto generale e simultaneo») d’accordo con la CGdL e il PS e altri organismi. È questa idea autoritaria che paralizzava tutti i compagni nei momenti culminanti delle rivolte. Anche essi attendevano gli ordini dalle loro centrali!...

Ora la CGdL lavorava ad evitare la rivoluzione. Il PS faceva la sua bella speculazione elettorale. Il PC lavorava a demolire i capi per soppiantarli, e L’Ordine Nuovo comandava: «Le rivolte siano regionali sino a che creeremo gli organi di comando».

Sindacalisti e anarchici unionisti lavoravano sin dal 1915 per creare un organismo centralizzato permanente e responsabile, che fosse preso in considerazione dalle organizzazioni riformiste e autoritarie suaccennate per preparare e organizzare un... «moto generale e simultaneo». Per fare la rivoluzione coi controrivoluzionari dall’alto del ponte di comando d’una centrale di partiti!

E i moti e le rivolte parziali scoppiavano e si esaurivano...

Questa è la dura lezione dei fatti che deve insegnarci ad agire da anarchici e ad applicare i nostri metodi anarchici alle rivoluzioni.

Le rivoluzioni si fanno solo buttandocisi «col diavolo in corpo», nei centri e nei focolai delle rivolte e delle sommosse per estenderle e generalizzarle sul terreno stesso dell’azione sino a farle trionfare.

Col creare organismi permanenti e responsabili e col correre per cinque anni dietro alla CGdL e al PS, abbiamo tradito il popolo, le nostre dottrine ed i nostri principi, noi stessi e sciupata una rivoluzione.

In Italia nel 19-20, il popolo intero insorgeva. C’erano armi e munizioni per armare un esercito.

Non è vero dunque che «gli anarchici erano troppo pochi per agire da soli per iniziare col popolo la rivoluzione...».

Il popolo parecchie volte l’aveva iniziata. Furono gli anarchici a non saper estenderla e generalizzarla.

Per la loro mentalità organizzatrice e accentratrice, per i loro metodi autoritari delle rivoluzioni.

Perché, in Italia, è mancato disgraziatamente un vero e proprio movimento anarchico autonomo. Perché esso era stato captato e subordinato al sindacalismo, o accentrato.

Ammaestrati dall’esperienza, è da anni che noi tendiamo a questo indispensabile e altissimo compito: creare un movimento anarchico libero, autonomo, integrale.

Ecco perché siamo contro l’organizzazione in partito politico degli anarchici.

I partiti non hanno mai preparato né organizzato né fatto rivoluzioni. I capi sono sempre spariti nei grandi giorni delle insurrezioni. In Italia, l’USI e l’UAI volevano comandare la rivoluzione dall’alto. Le rivoluzioni si fanno invece dal popolo e dagli iniziatori dal basso.

«Gli anarchici erano troppo pochi per agire da soli?».

In Italia, gli anarchici furono troppo poco o punto anarchici; e troppo autoritari.

Questo occorre dire e ripetere a quei sindacalisti e anarchici che, tutti estasiati, sono in adorazione davanti al... Comitato Esecutivo della Piattaforma.

Prima si paralizzarono nella loro UAI, poi si suicidarono nella corsa al fronte unico coi partiti politici autoritari.

Ma il maggiore male è che non hanno imparato nulla dalla lezione dei fatti.

Attualmente, tutta la loro attività è il mettere insieme i rottami dell’UAI, e star a bocca aperta dall’ammirazione per quel capolavoro di deviazione dell’anarchismo che è la bolscevista Piattaforma col suo inquadramento unitario, il suo Comitato Esecutivo, la sua armata nera, il suo stato maggiore...

Ah, se l’avessimo avuta in Italia!

Il fascismo non sarebbe venuto!


II

Organizzazione e Rivoluzione



Al nostro articolo «Gli anarchici eran troppo pochi?», Il Pensiero di Buenos Aires (quello delle... penne migliori autografate) ci risponde così:

«Su La Diana del 31 marzo, abbiamo avuto la sorpresa di trovare un articolo di Sire, scritto apposta per refutare alcune affermazioni.

Sire ci obbliga ad una chiarificazione.

Il Pensiero diceva: “I pochi anarchici che arrivano ci dicono un’altra verità dolorosa: essi in Italia erano così pochi da non poter iniziare per proprio conto nessun movimento di classe”.

E sono appunto queste parole che Sire discute. Dire che gli anarchici erano pochi, è secondo lui “una pietosa menzogna...”».

Aguzzi non ha capito niente o non ha voluto capire niente. E sì che la nostra tesi è chiara come la luce meridiana. Abbiamo parlato a suocera perché nuora intenda, ma nuora tace, cioè i dirigenti, anzi gli ispiratori dell’UAI tacciono da anni su questo spinoso argomento su cui noi insistiamo di tanto in tanto.

L’organizzazione, in Italia, ha nuociuto, ostacolato, paralizzato l’estendersi e il generalizzarsi dei moti spontanei. Tutti i partiti e tutte le organizzazioni. Anche l’UAI. Gli anarchici non erano troppo pochi per inserirsi nei moti popolari spontanei e propagarli, estenderli, compiendo la loro funzione dinamica di minoranza iniziatrice e animatrice.

Essi, al contrario, si sono posti sul terreno autoritario accettando i metodi autoritari dei partiti socialisti: del fronte unico con tutte le organizzazioni per fare d’accordo, al momento buono, la Rivoluzione, «perché da soli eravamo troppo pochi per iniziarla...».

Capisce ora la nostra tesi Il Pensiero?

Ma repetita...

Una delle idee fisse... autoritarie degli unionisti italiani durante la guerra era questa: «gli anarchici sono troppo pochi per poter iniziare un movimento da soli senza unirsi agli altri partiti socialisti autoritari...».

Di qui l’idea del fronte unico con questi partiti autoritari per organizzare e proclamare dall’alto d’un Comitato esecutivo, a giorno e ora fissi, e a freddo, la Rivoluzione... Allora eravamo... disorganizzati. Bisognava dunque prima organizzarci. Senza organizzazione nessuna possibilità di rivoluzione...

È bene anche ricordare che già l’indomani della guerra ci si andava ricantando: «la guerra è stata possibile, perché non eravamo organizzati!».

Quindi l’esperienza, secondo loro, provava che gli antiorganizzatori avevano torto marcio. E tutti furono presi dalla febbre dell’organizzazione per l’organizzazione.

Tanto più che c’era Serrati all’Avanti! e Lazzari alla direzione del PS che dicevano agli anarchici: «Ma, benedetti anarchici, come è possibile trattare con voi altri se non avete alcun organo che vi rappresenti collettivamente. Organizzatevi prima, e poi tratteremo l’azione da menare insieme contro la guerra...».

Per conto loro, però, i socialisti avevano già accettato e votato a Bologna l’odg vilissimo di Costantino Lazzari: «né aderire né sabotare».

E gli anarchici si misero a tutto pasto a gettar le basi dell’organizzazione per trattare da potenza a potenza col partito socialista e la sua CGdL. Superfluo ricordare che i socialisti menarono il can per l’aia e che gli anarchici si sono lasciati rimorchiare dal PS e dalla sua CGdL.

Perché erano troppo pochi per poter iniziare da soli qualche movimento...

Fissi in questa superstizione antirivoluzionaria e antianarchica, essi crearono l’UAI per organizzare la Rivoluzione d’accordo coi partiti autoritari, cioè antirivoluzionari per definizione.

Contro l’idea autoritaria del fronte unico col PS e la sua CGdL riformista e quindi controrivoluzionaria in principio; contro il concetto disistimatore di se stessi che «gli anarchici erano troppo pochi per iniziare qualsiasi movimento da soli», noi prendemmo posizione subito, e durante la guerra e l’indomani dell’armistizio e lungo i moti del 19-20 conducendo polemiche aspre e violente che ci valsero le note accuse di combattere l’Intesa per conto degli Imperi Centrali prima; di essere venduti al governo d’Italia e al fascismo per combattere l’UAI!

Che cosa sostenemmo e opponemmo noi allora contro l’idea fissa autoritaria del fronte unico coi partiti autoritari e riformisti per organizzare e proclamare dall’alto d’un Comitato ristretto di partiti la Rivoluzione?

Semplicemente questa teoria e questo metodo anarchici:

Che le rivoluzioni non si organizzano né si proclamano dall’alto, a data e a ora fisse; che i partiti politici autoritari sono antirivoluzionari per origine, essenza e definizione; ch’essi si valgono della piazza per premere sui pubblici poteri; ch’essi non hanno fatto né faranno mai alcuna rivoluzione per la contraddizione che nol consente..., che quindi unirsi a loro significa annullarsi, suicidarsi e mancare quindi al compito di anarchici nella Rivoluzione...

Là, sul posto, lungo tutte le lotte, tutti i moti del 19-20, a cui partecipammo attivamente noi tutti de La Diana, o signor Aguzzi de Il Pensiero, predicavamo coll’esempio, che ci si doveva gettare, conformemente alla teoria anarchica della Rivoluzione, nei centri di rivolta e inserirsi nei moti e tentare di propagarli e estenderli sul terreno stesso dell’azione da paese a paese, da città a città, da provincia a provincia sino a sollevare tutta la nazione trascinando partiti e uomini.

Iniziatori, animatori e travolgitori dovevano essere gli anarchici, anziché, scoppiato un moto, rincorrere D’Aragona o Serrati a Milano o a Roma per studiare insieme se è venuto il momento di... proclamare la rivoluzione! I riformisti non potevano fare da rivoluzionari per una ragione essenziale di principio.

Essi non hanno tradito nulla e nessuno. Hanno evitato la catastrofe della rivoluzione all’Italia, secondo le loro concezioni riformiste. Sono invece i rivoluzionari che hanno adottato il metodo autoritario dell’organizzazione.

Qui è in gioco propriamente il principio stesso dell’organizzazione.

La storia ci prova che nessuna organizzazione ha mai organizzato e proclamato nessuna rivoluzione. Queste sono esplosioni impreviste e spontanee sotto la pressione di grandi e irresistibili e profonde commozioni popolari.

Le organizzazioni sono fatti posteriori, che poi si costituiscono in governo ristabilente l’ordine. Esempio la Russia.

Se poi esse esistono avanti, allora l’esplosione avviene malgrado l’organizzazione, e contro la sua aperta ostilità. Esempio la rivoluzione austro-tedesca. I fatti di Vienna l’hanno provato ieri.

Quindi costituire delle organizzazioni per fare la rivoluzione è conforme alle teorie e ai metodi autoritari. Esse sono i governi di domani.

Così, in Italia, l’UAI ha ostacolato e paralizzato le iniziative, lo slancio e l’estendersi spontaneo dei moti per il solo fatto della sua esistenza, seppure individualmente anarchici e sindacalisti abbiano fatto tutti il proprio dovere.

Ma il fatto dell’esistenza dell’organizzazione tolse loro il senso della responsabilità, li paralizzò tutti nel momento dell’azione nei loro slanci...

Abbiamo potuto constatare questo fatto sui posti nei grandi giorni di rivolta. Superfluo pure constatare che nessuno degli ispiratori dell’UAI si sono rivelati dei grandi e audaci uomini d’iniziativa e d’azione...

È avvenuto sempre questo: scoppiato in un ipercentro un moto, gli anarchici chiedevano ai dirigenti dell’UAI «cosa dovevano fare», e rimanevano lì in attesa, «perché non sapevano se era bene o male estender il moto».

I “dirigenti” rincorrevano D’Aragona e Serrati per convincerli ad agire. Oppure rispondevano: «siete autonomi. Fate quello che credete». Intanto il momento psicologico passava.

Tutta la spontaneità dell’azione anarchica nei moti del 19-20 fu perturbata e paralizzata dal solo fatto dell’esistenza dell’UAI.

Perché è l’organizzazione in sé e per sé l’ostacolo maggiore all’esplodere e all’espandersi spontaneo della rivoluzione. Organizzazione e rivoluzione sono termini antitetici. L’una è l’ordine dall’alto; l’altra è l’esplosione disordinata, irresistibile e travolgente dal basso.

E a questo proposito dedichiamo alla riflessione degli anarchici questa bella e esatta enunciazione della teoria anarchica della Rivoluzione esposta dal prof. Gaetano Salvemini su La Libertà del 3 luglio 1927:

«La sola rivoluzione autentica, di cui Mazzini fu testimone nella sua lunga vita di congiurato, fu la rivoluzione del 1848. E Mazzini non se l’aspettava!

Nessuna rivoluzione di cui sia possibile conoscere storicamente il retroscena è mai avvenuta per ordine di un comitato.

Le organizzazioni gerarchizzate sono dannose. Una rivoluzione non è un campanello elettrico: il Comitato centrale pigia il bottone, e il campanello suona; il Comitato centrale smette di pigiare e il campanello smette di suonare. Una rivoluzione è una febbre che viene quando nessuno se l’aspetta.

Un bel giorno la gente che sembrava inerte, passiva, indifferente, incapace di muoversi, è messa in movimento da un fatto impreveduto. Chi non osava parlare, alza la voce. Chi faceva il gradasso si squaglia. Chi rifuggiva da ogni compagnia, va in cerca degli amici per domandare notizia, per sapere che cosa deve fare. Si leva un grido, vola una sassata. Parte un colpo di revolver. La tempesta si scatena. Non c’è stato nessun ordine di nessun comitato. Ve lo immaginate voi un comitato che si riunisce a Roma per deliberare se in questo momento c’è da tentare un colpo a Palermo o a Milano? Anche ammesso che del comitato non faccia parte alcuna spia (ricordarsi la regola che, su dieci congiurati, almeno uno è spia), come fanno i padreterni del Comitato a conoscere le condizioni degli animi nelle differenti regioni d’Italia in quel preciso momento in cui essi deliberano o nel momento in cui arriveranno colà dove dovrebbero essere eseguiti gli ordini deliberati?

Se non esiste nessun comitato di padreterni che si arroghi il diritto di far suonare al momento opportuno il campanello elettrico, e se la gente è avvezza all’idea che ognuno deve essere il comitato di se stesso, e deve muoversi di propria iniziativa sotto la propria responsabilità, allora può darsi che qualche cosa avvenga: forse che sì, forse che no. Ma se esiste un comitato di padreterni e se la gente prende sul serio i padreterni e si crede obbligata ad aspettare “disciplinatamente” l’ordine dei padreterni, allora è positivo che nessuno farà mai nulla, perché l’ordine non arriverà mai, o caso mai la gente farà degli spropositi perché l’ordine arriverà fuori proposito. L’attimo fuggente passerà certamente senza che nessuno pensi ad afferrarlo».

Qui è bellamente esposta tutta la teoria anarchica della Rivoluzione, così come del resto ce l’la insegnata P. Kropotkin nella sua Grande Rivoluzione.

Tutta la nostra opposizione all’organizzazione in sé è basata su questa teoria sperimentale.

Noi dicemmo sempre le stesse cose con altre parole.

«Nessuna rivoluzione è avvenuta per ordine d’un comitato. Le organizzazioni sono dannose...

Una rivoluzione è una febbre che viene quando nessuno se l’aspetta.

Se non esiste nessun comitato di padreterni..., se la gente è avvezza all’idea che ognuno deve essere il comitato di se stesso, e deve muoversi di propria iniziativa sotto la propria responsabilità, allora può darsi che qualche cosa avvenga. Ma se esiste un comitato di padreterni e se la gente li prende sul serio, allora è positivo che nessuno farà mai nulla, perché l’ordine non arriverà mai, o caso mai la gente farà degli spropositi perché l’ordine arriverà fuori proposito. L’attimo fuggente passerà certamente senza che nessuno pensi ad afferrarlo».

È quello che è avvenuto precisamente in Italia!

La sola esistenza di comitati e organizzazioni toglie a tutti il senso della propria responsabilità e paralizza l’azione spontanea dei rivoluzionari.

D’altra parte, i capi sono paralizzati dal peso di tutte le responsabilità e l’attimo fuggente passa!...

Ecco perché è ridicolo e meschino gridare al tradimento del PS e della sua CGdL.

Riformisti, non potevano non agire da riformisti!

Ecco anche perché dicemmo ch’è una pietosa menzogna il dire che gli anarchici erano troppo pochi per agire da soli.

Le rivoluzioni non le fanno solo gli anarchici. Sono commozioni popolari e generali profonde. Gli anarchici, in esse, pochi o molti, devono agire da anarchici: iniziatori, animatori, travolgitori. Essi ne devono essere la molla dinamica.

In Italia, gli anarchici non erano troppo pochi per agire anarchicamente nei moti spontanei del 19-20. Essi erano molti e bene armati sebbene essi siano, e saranno sempre, una minoranza.

È stata l’idea fissa dell’organizzazione e dell’unione delle organizzazioni per agire d’accordo sotto gli ordini dei padreterni a paralizzare gregari e capi e lasciare passare l’attimo fuggente. Perché è l’organizzazione in sé ch’è l’ostacolo maggiore all’esplodere e all’espandersi della rivoluzione.

Gli unionisti italiani sono stati — e lo sono ancora! — vittime del loro metodo organizzatorio, antianarchico per definizione.

L’anarchismo «avvezza la gente all’idea che ognuno deve essere il comitato di se stesso, e deve muoversi di propria iniziativa e sotto la propria responsabilità».

Noi possiamo quindi affermare legittimamente che, se in Italia i lavoratori e i rivoluzionari tutti si fossero trovati liberi, senza alcuna organizzazione o partito, anche senza UAI, ma con il loro senso vivo della loro responsabilità e padroni dell’iniziativa, la rivoluzione sarebbe scoppiata.

Le organizzazioni — tutte! — e i padreterni — tutti! — ne hanno impedito l’esplosione. Perché tale è la loro sola organica, immanente e peculiare funzione.

È questa la lezione storica dei moti del 19-20 in Italia.

Non quindi troppo pochi...; ma troppo poco o punto anarchici.


[La Diana, anno II, n. 14 del 31 marzo e n. 24 del 25 settembre 1927]

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