NEMO ME IMPUNE LACESSIT
La prova
dell’esistenza dell’io non ci è data dal pensiero. Il cogito, ergo sum
cartesiano non dimostra proprio nulla. Infatti il giudizio «io penso,
dunque seno» non è che un pensiero come tutti gli altri pensieri: esso
non è identico all’oggetto al quale si riferisce. Inutile dire che il
pensiero è una qualità che presuppone la sostanza: ma una cosa è la
qualità, una cosa la sostanza. Per la
logica la sostanza non può essere meno della qualità, ma è sempre più di
questa, ha sempre qualche altra cosa oltre questa qualità. Quindi se la
qualità è il pensiero che è un’attività e, come tale, è, la sostanza
potrebb’essere ciò che non è, o potrebbe possedere, accanto a quello che
è, anche quello che non è. Perciò si rimane incerti se dire: io penso,
dunque sono; o pure, io penso, dunque non sono; o pure, io penso, dunque
sono e non sono.
Vanamente si obbietta: non è possibile supporre la
sostanza identificata col non-essere. Perché il non-essere è ciò che
non è, è il nulla. E il nulla produce nulla, non può produrre una
qualità che è, che è attiva, che è il pensiero.
Ma qui si risponde:
il non-essere è ciò che non è. Ma ciò che non è, è già per se stesso,
qualche cosa: è il non-essere. Ora noi possiamo affacciare l’ipotesi che
esso non sia il nulla assoluto, ma bensì il non-essere dell’essere,
ossia una realtà che esiste in modo opposto alla realtà dell’essere, e
riceve da quest’ultimo, unendosi ad esso od incontrandosi con esso, la
qualità del pensiero.
L’esistenza dell’io, però, se non è provata
dal pensiero, è provata dall’apparenza. Io esisto perché appaio a me
stesso, sia pure in modo diverso dalla mia reale esistenza. Se io non
esistessi non potrei apparirmi. La mancanza del rappresentante
determinerebbe la mancanza della rappresentazione; non vi sarebbe che
l’assoluto nulla. Quindi se la rappresentazione si presenta, significa
che il rappresentante esiste o come essere, o come non-essere, o come
unione di essere e di non-essere.
Dunque io esisto se mi rappresento
me stesso ed un mondo che a me appare esteriore, ma che tanto può
esistere oggettivamente, al di fuori di me, quanto può essere
proiettato, al di fuori, da me che pur rimango in me medesimo.
L’io, quindi, esiste. Ma esiste come appare a me?
No, perché mi appare nel modo che comporta la conformazione dei miei
sensi e del mio intelletto, ossia in un modo che non rispecchia la
realtà in sé. La mia apparenza non è che un segno, non una copia della
realtà. La coscienza del mio io è formata dalla mia apparenza. Essa mi
rende consapevole di un io che non è il mio vero io. Pure questo vero io
si rivela, raramente e incompletamente, a sprazzi, prorompendo dai
sotterranei e tenebrosi abissi del subcosciente e dandomi l’impressione,
vaga e confusa, che non sono quello che a me sembra, ma bensì qualche
cosa di misterioso e diverso.
L’io vero, l’io reale, non si trova
che nell’inconscio. Ed è lì che è necessario cercarlo e comprenderlo,
per quanto è possibile. Cioè in minima, infinitesima parte.
Il
surrealismo vuole sprofondarsi nei meandri più oscuri della psiche e,
ritornando alla superficie, crede di avere intravvisto un io alogico in
cui è cancellato il principio di non contraddizione ed essere e
non-essere si uniscono, si confondono, si amalgamano.
«La surrealtà —
scrive Bretón — è un certo punto dello spirito in cui la vita e la
morte, il reale e il fantastico, il passato e il futuro, il comunicabile
e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti
contraddittoriamente ».
Gli uomini non sono mai riusciti a fare a
meno del principio di non-contraddizione grazie al quale sanno che il
pane non è la carne e la carne non è il pane, che se si è grandi non si è
piccoli e se si è piccoli non si è grandi, che non si cammina
sull’acqua e che andare avanti o indietro non è la stessa cosa. Ma i
surrealisti sperano di riuscire e si tuffano come palombari nel baratro
del subcosciente nel cui fondo la logica non opera. Essi cercano
impadronirsi del segreto dell’io vero che non riusciranno mai a carpire,
anche se qualche vago barlume potrà tenuamente, approssimarli alla
realtà.
Prima ancora del surrealismo altre filosofie
irra-zionaliste, l’esistenzialismo, il freudismo, ecc., hanno tentato —
se pur con scarsi risultati che, probabilmente, rimarranno sempre tali —
di superare la conoscenza fenomenica per giungere fino al cuore del
noumeno, alla scoperta dell’io in se.
Ma il precursore di tutti è
stato Fëdor Dostoevskij, il gigante russo, l’eroe che è disceso nelle
abissali profondità dello spirito umano e, nelle tenebre cupe che
avvolgono i tortuosi meandri, ha intravvisto appena — o ha intuito
credendo intravvedere — un àpeiron psicologico, un impasto di
contraddizioni, un miscuglio, strano ed indefinibile, di bene e di male
tanto stretti insieme fino a confondersi e a compenetrarsi.
E questo
miscuglio è, per lui, l’io vero, quello che è nel fondo di ciascuno di
noi, a nostra insaputa, e si cela sotto la fragile costruzione dell’io
che conosciamo e che è un prodotto non solo della nostra conformazione
sensoriale e intellettuale (che può falsare la realtà noumenica soltanto
in parte), ma anche e soprattutto dell’educazione ricevuta, delle
abitudini acquisite, delle influenze dell’ambiente e delle convenzioni
sociali (che finiscono con l’ingannarci del tutto).
Per esempio se,
come sostiene kant, spazio e tempo non esistono in sé ma sono forme, a
priori, della nostra sensibilità che noi, percependoli, applichiamo agli
oggetti che l’esperienza ci offre: se quantità, qualità, relazione e
modo non sono che forme, a priori, dell’intelletto che condizionano,
oggetti percepiti; allora noi non conosciamo noi stessi quali siamo
realmente, ma ci conosciamo fittiziamente come esistenti nello spazio,
succedenti nel tempo e aventi qualità, quantità, relazione e modo.
Però in quest’io fenomenico si rivelano, accanto a quelle transitorie
dettate dall’apparenza, anche certe tendenze profonde, costanti,
irriducibili, che ci accompagnano fino alla morte e che non possono che
provenire dall’io noumenico, dalla realtà in sé. L’egoismo è una di
queste tendenze.
L’edonismo n’è un’altra. Noi siamo portati a godere
e a preferirci ad ogni altro essere e ad ogni altra cosa, anche al di
fuori delle condizioni di tempo, spazio, materia, ecc. Quindi queste
sono tendenze essenziali, eterne dell’io, se l’io è immortale; o pure
tendenze che si spengono solo con la distruzione dell’io, se questo è
perituro.
L’educazione sociale, le abitudini gregarie imposte
dall’ambiente, la suggestione della condanna religiosa o morale, il
timore della galera o della miseria, e tante altre forze di ugual
genere, ci costringono a soffocare, in tutto o in parte, tali tendenze
fondamentali. Ed allora si forma un io fittizio che si stende, come una
crosta, sulla superficie della nostra anima. Ed è l’io di cui siamo
coscienti. Ma sotto rugge, ignorato, l’io vero. Quando — e qui ritorno a
Dostoevskij — una violenta passione ci sconvolge o una malattia
inesorabile ci conduce lentamente alla tomba; quando la vita non tollera
più nessun freno e nessuna menzogna perché deve difendere se stessa;
nei momenti in cui si è, faccia a faccia, col pericolo incombente e la
morte che vuol ghermirci; allora l’io vero prorompe, spezza la crosta, e
si mostra, sia pure per un istante. Noi non possiamo vederlo bene; non
possiamo scorgerne le forme, i lineamenti, i particolari; ma nella
visione, fulminea e indefinita, cogliamo qualche cosa che ci permette
sollevare sia pure un solo lembo del velo del mistero.
Ecco perché
Dostoevskij ha studiato gli anormali, i tormentati, i passionali, gli
ammalati e li ha descritti nei suoi libri. Perché in essi la realtà più
facilmente erompe.
Io sono relativista. So che posso conoscere
soltanto l’apparenza. So che la conoscenza fenomenica è l’unica
possibile per l’uomo. Ma ammetto che, oltre tale conoscenza, l’uomo — o
almeno certi uomini privilegiati dalla natura — possono avere delle
intuizioni che ad essi permettono cogliere, sia pure in minima parte,
l’io vero, l’io che è assoluto o che, pur non essendo assoluto,
costituisce però la nostra intima essenza, e che, ignorato e sepolto
negli abissi della psiche, balza fuori solo quando la tragedia ci
sprona.
Dostoevskij è stato uno dei pochi privilegiati ed è sceso
più in fondo degli altri nel pozzo del mistero. Seguendo la sua massima
«sempre e ovunque io vado fino all’ultimo confine», egli si è lanciato
nei baratri insondabili per esplorare l’inconscio, il pauroso,
l’inconcepibile. E risalendo dai sotterranei, ritornando alla luce
solare, ha dichiarato: «L’uomo non cerca che la libertà a qualunque
costo ».
Sì, l’uomo vuol essere libero. Quello strano miscuglio di
contraddizioni, quel tenebroso ed indefinibile impasto di passioni, di
sentimenti e di tendenze opposte ch’è l’io, avverte l’imperioso bisogno
di soddisfare i suoi diversi impulsi man mano che dal suo seno si
sprigionano. Esso cerca fare tutto ciò che gli pare e piace, ora in un
modo, ora in un altro. Non si preoccupa delle conseguenze, non si lascia
dirigere dalla ragione, o dall’interesse, o dal calcolo, ossia da un
solo principio che regola le sue azioni, le ordina coerentemente e le
sospinge verso un fine che assicura il bene concreto, duraturo dell’ego.
Invece esso segue la spontaneità, vive nell’attimo fuggente, appaga la
passione che, in questo istante, predomina e, subito dopo, appaga la
passione contraria divenuta, a sua volta, vincitrice nella lotta fra le
opposte inclinazioni. Trova il suo vero profitto nel soddisfare la sua
volontà, i suoi istinti, i suoi capricci più folli. E quindi fa il bene e
il male, indifferentemente. Ma quando l’uomo fa il male ottiene, come
conseguenza il dolore.
Qui l’anarchismo di Dostoevskij sfocia nel
cristianesimo. Dio, mio creatore, mi lascia libero di scegliere fra il
bene e il male; ma quando scelgo quest’ultimo mi punisce; la sofferenza
lancina l’anima mia. Ed allora sono indotto a pentirmi, a ritornare al
bene, a cercare la pace e il conforto nel grembo di Cristo. Cosi in
«Delitto e castigo» lo studente Raskolnikoff, dopo avere ideato ed
attuato l’assassinio, a scopo di furto, di una vecchia usuraia, è
torturato dai rimorsi finché, vinto, va a denunziarsi.
Così ne «I
fratelli Karamazov» Ivan, l’intellettuale raffinato e cinico che ha
preparato moralmente il delitto, è poi spinto, dallo strazio della
propria anima, a confessare la sua colpa al tribunale che sta giudicando
il fratello. Dunque il crimine porta con sé, fatalmente, la pena.
A
questo punto mi permetto obbiettare al pensiero del gigante
Dostoevskij: è possibile che il mio vero io sia assoluto per me, ma
relativo rispetto ad un altro assoluto, ancor più assoluto, che potrebbe
trovarsi dietro di esso. In questo caso avremmo: l’io fenomenico; l’io
individuale, assoluto come tale; l’io sovra individuale assoluto, ossia
Dio.
Ora, il mio io che cosa è: un’emanazione di Dio nel quale tutti
gl’io individuali si unificano? In tale caso Dio non può punirmi
qualunque sia la cosa che faccio, perché, punendo me, punirebbe se
stesso. Infatti io, come emanazione di Dio, sono una parte di Lui, sono
consubstanziale e coeterno con Lui, ho m me i sentimenti, la volontà
l’intelligenza di Dio. Quindi quello che ho sentito, voluto e pensato
io, l’ha sentito, voluto, pensato Dio. E quello che io ho fatto, l’ha
fatto Dio insieme a me.
Invece, il mio io, il mio spirito, è una
creazione della divinità? In questa ipotesi Dio mi ha creato con una
sostanza spirituale simile alla propria, ma che non è la propria. Mi ha
dato la sua perfezione, ma non me l’ha data tutta, altrimenti io sarei
stato uguale a Lui e non sarebbe più esistita distinzione fra creatura e
creatore. E allora io risulto assoluto come spirito umano, come uomo,
come la realtà che Dio ha voluto creare; ma relativo, imperfetto,
incompleto rispetto a Dio al quale somiglio solo debolmente.
Ora il
male che penso e compio non è che la conseguenza della mia imperfezione:
come il bene è il prodotto della perfezione ch’è in me. Quando scelgo
il male, l’imperfezione soverchia la perfezione, non sono libero ma
determinato perché una passione più forte trionfa, in quell’istante,
sulle passioni apposte e la volontà non riesce a frenarla. Se dunque Dio
stesso mi ha creato imperfetto, negandomi tutta quanta la sua
perfezione e concedendomene solo una parte; se mi ha composto con
un’unione di essere e di non-essere ed ha permesso che, in certi
momenti, il non-essere, l’imperfezione, potesse trionfare e trascinarmi
al male, con quale giustizia, poi, mi punisce quando questo male compio?
Con quale diritto infierisce sull’effetto del quale Egli ha preparato
la causa?
Delle due, l’una: o Dio mi creava, come sé, assolutamente
perfetto, e allora non avrei mai fatto il male, sarei stato anch’io Dio
come Lui. O mi creava come mi ha creato e, in tal caso, non doveva
punirmi per qualunque cosa da me fatta.
Inutile dire: con la volontà
posso frenare i sentimenti cattivi, posso trattenermi; se non mi
trattengo è perché non voglio. Ma appunto perché sono imperfetto la mia
volontà non può essere sempre la più forte, non può riuscire ad
imbrigliare sempre le passioni, anzi, spesso, subisce l’influenza di
queste ultime e vuole come le passioni vogliono.
Dunque la scelta è
dettata dall’intensità delle forze contrastanti in me e l’impulso più
potente mi trascina seco. La mia libertà consiste nel seguire tale
impulso e nel godere, appagandolo. Se Dio mi nega questa libertà, se mi
castiga quando compio il male, Dio è un tiranno. Ed io non debbo
pentirmi, non debbo sottomettermi alla volontà divina e fare solo il
bene che a Dio piace. Non debbo seguire questo insegnamento di
Dostoevskij, ma ribellarmi al despota, ricavandone, sia pur fra
gl’infiniti tormenti ch’ Egli, per vendetta, m’infliggerà, la suprema
soddisfazione di non essermi piegato, di aver difeso la mia libertà, di
aver conservato la mia indipendenza.
Del resto potrebbe anche darsi
che non vi fosse né il Dio trascendente dei cristiani, né il Dio
immanente dei panteisti, ma sola la materia retta da leggi meccaniche,
come pretendono i materialisti. In questo caso un meccanismo universale
incosciente determinerebbe tutte le mie azioni, buone e cattive, e non
vi sarebbe castigo né premio. Il noumeno, da noi appena intuito dietro
la conoscenza fenomenica e fenomenicamente distinto in mondo interno e
mondo esterno, s’identificherebbe con la materia unica e muoventesi. I
rimorsi non sarebbero che il prodotto dell’educazione etico - sociale e
della suggestione che questa esercita su noi. I tipi più forti che
reagiscono a tale suggestione, non avvertono rimorsi per qualunque cosa
facciano.
La vita dev’essere vissuta soddisfacendo tutti gli
istinti, al di là del bene e del male. E solo così godiamo intensamente.
Solo così acquistiamo l’intera gioia.
Dostoevskij, cristiano, crede
nella punizione divina. Ma Nietzsche, pagano ed ateo, la nega e canta
la canzone della bellezza e della forza.
Il bene e il male, come
principa oggettivi ed eterni, non esistono. Noi non li troviamo in alcun
luogo. Non li troviamo nella realtà fenomenica. Se questa la osserviamo
nel mondo esteriore, vediamo che nella natura apparente tutte le
manifestazioni vitali si equivalgono perché sono tutte necessarie alla
natura stessa. Se la studiamo nell’anima umana notiamo che ad essa sono
indispensabili tutti i sentimenti che possiede e che quello che, in un
certo momento, ci fa del male, in un altro momento ci arreca bene.
Dunque nella realtà fenomenica — esterna ed interna — manca una
gerarchia qualitativa fra le diverse espressioni di vita.
Il bene ed
il male non riusciamo ad intenderli nemmeno nell’assoluto che intuiamo
dietro il mondo dei fenomeni. Infatti se tale assoluto lo concepiamo
come l’infinita ed eterna materia dotata di movimenti meccanici, allora
alla materia tutti i movimenti sono ugualmente necessari ed hanno,
quindi, lo stesso valore per essa.
Se l’assoluto lo supponiamo come
il Dio immanente dei panteisti, a questo Dio, che muove dal di dentro
tutte le Cose e gli esseri per sviluppare un’armonia sempre maggiore,
tutti i pensieri e le azioni più opposte occorrono e perciò le
determina, in quanto tutte contribuiscono al raggiungimento del suo
fine. Quindi il demiurgo non può elogiare una parte della sua opera e
considerarla superiore, e condannare un’altra parte e reputarla
inferiore perché l’opera è ugualmente in ognuna delle sue parti e se ne
mancasse una sola, non sarebbe più quell’opera.
Se infine l’assoluto
l’immaginiamo come il Dio trascendente dei cristiani, tale Dio non può
stimare un male l’imperfezione ch’esso lascia nell’uomo e nel mondo, e
un bene la sua perfezione. Infatti, a Dio, l’esistenza dell’imperfezione
è tanto necessaria quanto l’esistenza della perfezione. Se
l’imperfezione non vi fosse, se tutto esistesse perfetto, il mondo e
l’uomo s’identificherebbero con Dio e Dio si confonderebbe con la sua
creazione. Quindi perfezione e imperfezione condizionano, nella stessa
misura, la realtà del creatore che si distingue dalle cose create, dalle
quali vuole rimanere distinto. Ergo: perfezione e imperfezione sono
ugualmente necessarie a Dio che deve considerarle alla stessa stregua,
anche se punisce l’imperfezione dell’uomo.
Il pensiero umano non
riesce a trovare il bene e il male né nel mondo dell’apparenza, né
nell’assoluto che cerca rendere intelligibile. In tale assoluto bene e
male potrebbero esistere in modo inintelligibile, ma siccome noi non
conosceremmo mai questo modo, per noi sarebbe come se non vi fosse.
Quindi al pensiero non resta che ridurre a puro soggettivismo i principi
ai quali aveva prima conferito un carattere di oggettività.
Pensare
che il bene e il male non esistono in se stessi, che non v’è che il mio
bene e il mio male; quello che a me piace ed è utile, in questo momento
e potrebbe non piacermi e non essermi utile, in seguito; e quell’altro
che a me non piace e non è utile nel presente e potrebbe piacermi e
riuscire utile in avvenire. La morale varia da uomo ad uomo, ed anche
nello stesso individuo. Una morale oggettiva non è che un’assurdità
sognata da dogmatici. Oggettivamente Francesco d’Assisi
vale quanto Cesare Borgia.
Dostoevskij non accetta però questa concezione amorale e rimane
ancorato alla favola cristiana. Ma, malgrado questo, egli continua a
considerare la libertà come l’esigenza fondamentale dell’uomo. Anche se
ci trascina al peccato, anche se ci porta ad incorrere nel castigo di
Dio, noi vogliamo la libertà, vogliamo fare a modo nostro, passare dal
bene al male e viceversa, tendere «verso l’ideale di Sodoma e l’ideale
della Madonna che sono entrambi nella nostra anima».
La libertà è
l’espansione della vita. Chi comprime la libertà, soffoca la vita.
Dostoevskij insorge perciò contro coloro che, in nome della felicità
universale, cercano trasformare l’uomo in uno schiavo e il mondo in una
prigione.
Ne «I demoni» egli condanna il movimento nichilista che,
attraverso una fitta rete di delitti, legava tra loro i congiurati.
Prevede che questi fanatici se riusciranno a conquistare il potere,
diverranno feroci tiranni e opprimeranno crudelmente gli uomini per
renderli tutti uguali, tutti docili, tutti ubbidienti, pecore
soddisfatte del gregge universale. Profetizza mirabilmente ciò che il
bolscevismo ha poi realizzato in Russia e, leggendo i fogli del processo
di Netchaiev, impara a conoscere l’anima spietata che rivive oggi in
Stalin.
Ma c’è un altro e più antico nemico della libertà che il
cristiano eretico Dostoevskij detesta: ed è il cattolicesimo. Ne «I
fratelli Karamazov» il grande pensatore pone chiaramente i termini della
questione. Nel capitolo intitolato «Il grande inquisitore» egli
immagina che Ivan Karamazov, l’intellettuale ipocrita e sottile,
racconti al giovane fratello Alioscia la trama di un suo poema.
L’azione si svolge in Spagna, a Siviglia, nei tempi più terribili
dell’inquisizione. Cristo ritorna sulla terra proprio nel luogo dove
ardono i roghi degli eretici, e il popolo lo riconosce e l’acclama. Ma
il Grande Inquisitore appena vede Gesù, lo fa arrestare; e la notte
stessa recatosi a trovarlo nel carcere, gli’ tiene, in sintesi questo
discorso: «A che t’è servito soffrire tanto per dare agli uomini la
libertà. Tu hai rifiutato le tentazioni del Maligno di convertire le
pietre in pane, di gettarti dal più alto pinnacolo del tempio e cadere
incolume, d’impugnare la spada di Cesare, perché volevi che il popolo
fosse libero di amarti per te stesso e non per i tuoi miracoli. Ma non
sai che l’uomo appena ottenuta la libertà non ha altra preoccupazione
che quella di prosternarsi, di adorare qualcuno, che gli promette non il
pane celeste, ma il pane terrestre con cui sfamarsi?
«Tu, in nome
della libertà, non hai voluto fare miracoli; ma l’uomo non può restare
senza miracoli e se ne creerà egli stesso di propri, e si prosternerà
davanti ad un mago, ad una fattucchiera, foss’egli anche cento volte
ribelle, eretico e ateo. Così noi abbiamo corretto l’opera tua, piena
d’eroismo, e l’abbiamo fondata sul mistero sul miracolo e sull’autorità.
Se tu avessi agito altrimenti, accettando i consigli del Maligno,
l’uomo avrebbe trovato l’essere cui affidare la propria coscienza, e il
modo, infine, di riunirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune
e concorde. Poiché in tutti i tempi, l’umanità ha sempre teso ad
un’organizzazione universale. Ma non hai voluto, sempre in omaggio alla
sua libera bandiera.
«Noi invece sapremo persuadere l’umanità che
essa diverrà veramente libera solo quando rinuncerà alla sua libertà e
si assoggetterà a noi. Sì, noi la obbligheremo a lavorare, ma nelle ore
libere organizzeremo la sua vita come un giuoco infantile, con canti,
cori e balli innocenti. Noi giudicheremo tutto, i più tormentosi segreti
della coscienza degli uomini; ed essi si sottometteranno al nostro
giudizio con piacere, perché ciò toglierà loro tante preoccupazioni e
tutte le torture che costa la decisione personale e libera. Per avere
dato la libertà agli uomini, hai meritato il rogo più di chiunque altro.
Domani sarai bruciato. Dixi ».
Secondo me Dostoevskij ha ragione
quando insorge contro il formicaio che i cattolici vogliono realizzare
in nome della chiesa e i bolscevichi in nome dello Stato. Ma ha torto
quando vede in Cristo il campione della libertà umana. Perché se Cristo
non ci ha obbligato a compiere il bene, con la minaccia dei roghi e
delle galere, come hanno fatto i cattolici e i bolscevichi; se ci ha
lasciato liberi di scegliere fra il bene e il male e ci ha riconosciuto
il diritto di amarlo o di non amarlo a piacere nostro ha però confermato
che chi farà il bene sarà premiato, chi farà il male punito, e coloro
che lo ameranno e metteranno in pratica i suoi insegnamenti, andranno,
dopo morti, in paradiso, e quegli altri che non lo ameranno e non
seguiranno la sua morale finiranno nell’inferno.
Ma qui mi domando: che razza di libertà è quella che ci riconosce Gesù?
La scelta non è libera, su essa pesano la paura del castigo e
l’allettamento della ricompensa. Io non posso scegliere come voglio,
come mi piace, perché so che se la scelta cadesse spontaneamente sul
male, sarei ferocemente torturato; mentre se essa cadrà sul bene
riceverò, in seguito, un ricco premio. E allora io scelgo il bene anche
se preferisco il male.
Mi trovo nella condizione di un uomo
rinchiuso in una cella che ha due porte: l’una, quella di destra, mette
in un giardino; l’altra, di sinistra, porta in un letamaio. Si presenta
il carceriere e dice al recluso:
«tu sei libero. Scegli la porta per
la quale vuoi uscire. Però ti avverto che se uscirai per la porta di
destra, troverai fuori un mio collega che ti spezzerà le reni a
bastonate; se uscirai per la porta di sinistra incontrerai un altro
collega che ti consegnerà una borsa piena di monete d’oro».
Il
recluso avrebbe voluto andare a destra per aspirare il profumo dei fiori
nel giardino; ma la paura delle percosse e l’avidità del danaro lo
spingono invece ad uscire per l’uscio di sinistra e a sopportare il
fetore nauseante del letamaio.
Qualcuno potrà obbiettare: mi è
possibile scegliere il male, pur sapendo che sarò castigato, perché il
dolore futuro viene compensato dalla gioia immediata che ottengo facendo
a modo mio, soddisfacendo le mie passioni. Ma l’obbiezione è vana: non
c’è compenso fra una gioia transitoria ed un dolore eterno. Solo uomini
eccezionali possono, coscientemente, preferire l’intensità dionisiaca
del carpe diem alla perennità della sofferenza. Ma gli uomini comuni
tremano davanti alla minaccia delle fiamme dell’inferno. Se fanno il
male è perché dubitano della vita d’oltre tomba, della pena e della
ricompensa. O pure perché, anche credendo in esse, sono trascinati
irresistibilmente dalla loro natura a soddisfare gl’istinti, a seguire
gl’impulsi contrari che dalle loro anime emanano. Ma se gli uomini
credessero assolutamente nelle parole di Cristo e potessero sempre, con
la volontà, frenare l’irruenza naturale, diverrebbero tutti santi, non
per libera scelta ma per determinazione della cupidigia e della paura.
Dunque Cristo costringendoci, con il miraggio del castigo e del premio,
ad optare, in ogni occasione, per il bene e a rinunziare al male,
soffoca la nostra spontaneità che ci spinge, come lo stesso Dostoevskij
riconosce, a vivere liberamente, ad appagare tutte le passioni, a
passare dal male al bene e dal bene al male. Inoltre Gesù obbligandoci
ad accettare e a rispettare la legge che colpisce il perverso e compensa
il giusto, ci forza ad inchinarci dinanzi al legislatore, al padre suo,
a Dio. Ecco l’autorità che balza fuori dal cristianesimo.
Dio è il
creatore. Dio è il padrone. Dio può fare di me quello che vuole. Egli mi
fa torturare nelle bolge infernali se agisco come mi piace. Mi permette
deliziarmi nei giardini del paradiso se agisco come piace a Lui. Io
debbo adorarlo, servirlo, ubbidirlo, accettare con letizia qualunque
cosa mi faccia, prosternarmi ai suoi piedi. Ma allora non sono più
libero; sono schiavo. E Cristo accetta tale schiavitù. Cristo dichiara:
«Io non sono venuto per negare ma per confermare l’antica legge». Cristo
non insorge contro l’ingiustizia che Jehovah ha commesso dannando
all’eterno dolore Adamo e la sua discendenza. Ma da buon figliolo,
rimane sottomesso al padre e, come osserva Ferrari, « immagina di
placarlo e di soddisfarlo facendosene schiavo fino a subire l’estremo
supplizio. Il padre gradisce l’offerta, lo fa crocifiggere dal popolo
eletto; poi punisce Io stesso popolo per aver compiuto il voluto
parricidio; ed è questo il pegno dell’era nuova: la maledizione antica
deve cessare perché Jehovah ha oltrepassato la propria ingiustizia
punendo il figlio innocente, quasi fosse uno dei figli innocenti di
Adamo. La maledizione cessa ma negli eletti; cessa, ma la giustizia è
mero favore; cessa, ma la libertà degli eletti è ordinata nel vuoto dei
cieli, cessa, ma l’eletto vive di martirio sulla terra, vive nemico di
sé, imitatore del supplizio di Cristo, carnefice d’ogni suo istinto; e
se, per un istante, si ricorda d’essere uomo, perduto per sempre, cade
vittima di Jehovah e di Cristo, unanimi nel furore e nella vendetta.
Cristo diserta la causa degli oppressi nell’atto stesso che la difende:
lascia la terra a Cesare, ai conquistatori, ai barbari; non offre altro
al povero che la derisione del pane eucaristico; lo santifica ma lo
abbandona affamato alle porte dei palazzi; gli dà a bere il proprio
sangue versato dal padre, ma deve lasciar versare il suo sangue da ogni
tiranno. Se egli è luce, la sua luce sorge per illuminare l’ingiustizia
della terra, senza toglierla, senza alterarla... ».
Io credo dunque
che Dostoevskij non dovrebbe usare la figura mistica di Cristo come
simbolo di libertà. Gesù non è l’antitesi del Grande Inquisitore. E’
colui che l’ha reso possibile. Se il cristianesimo non fosse nato, non
avrebbe potuto degenerare nel cattolicesimo per cui l’umanità è afflitta
da una tirannia che, partendo da Jehovah, attraverso Cristo, finisce in
Torquemada.
Il simbolo della libertà umana, è invece un altro
personaggio mitico: Capanéo. L’eroe disteso sulla landa deserta, sotto
la pioggia di fuoco, il ribelle che, non domato dai supplizi, sfida Dio
eternamente.
Ed è il simbolo che gli uomini dovrebbero riconoscere per non finire nel formicaio che Dostoevskij aborriva.
Nietzische sostiene che la vita è del più forte. Ha ragione. Ma io per
non farmi uccidere o assoggettare dal più forte, debbo acquistare,
servendomi di qualunque mezzo, la potenza che mi manca e che mi
permetterà di resistergli. Se riuscirò ad ottenerla lo arresterò con la
mia difesa, e ci equilibreremo. Altrimenti cadrò con la soddisfazione di
aver tentato, di non essermi rassegnato: morrò con l’arma in pugno,
sputando l’ultimo fiotto di sangue sulla faccia del nemico.
Morrò
come Bonnot soverchiato dalla sbirraglia. O, come Capanéo, sopporterò
stoicamente il dolore che non ha fine, insegnando agli uomini che la
libertà non sarà mai di colui che sposa la rinunzia degli stupidi e
l’arrendevolezza dei vili, ma solo dell’audace che saprà conquistarla
lottando e soffrendo per essa lanciando all’universo l’ammonimento
supremo: Nemo me impune lacessit.
E. Martucci
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