martedì 10 luglio 2012

RISPOSTA AD UN TEOLOGO


RISPOSTA AD UN TEOLOGO

Tempo fa sostenni a Terni, col teologo Zòffoli, un contraddittorio che fu intempestivamente interrotto dall’intervento dell’autorità la quale mi impedì di replicare alla risposta del frate. Ecco perché lo faccio ora su queste pagine. E comincio con lo stabilire la differenza che separa la filosofia dalla teologia.
Io allora dichiarai «la filosofia è quella scienza che cerca ridurre la pluralità dei fenomeni ad unità intelligibile. Invece la teologia tenta ridurre questa pluralità di fenomeni ad un unità che non è percepibile né intelligibile. Quindi la teologia, pur derivando dalla filosofia, le si oppone nettamente». 


A questa mia affermazione Zòffoli contrappose: «io dico che, attraverso i secoli la filosofia si è sempre affermata come ricerca dell’infinito che, per questo, è intelligibile. La storia del pensiero è la ricerca dell’assoluto indefinibile non riducibile ai concetti umani». 


D’accordo professor Zòffoli! Ma io stavo per spiegarvi allora e ve lo spiego ora perché, in quella sera, me l’impedì il sindaco marxista, che mentre la filosofia cerca eternamente, senza mai trovarlo, quest’assoluto intelligibile, la teologia, al contrario, crede d’averlo trovato, conosciuto e compreso e vuole spiegarne a tutti l’esistenza con le tre famose prove da me successivamente criticate: Dio dimostrato con le idee, con le cause, con il fine.


Riguardo alle obiezioni da me mosse alla prima prova, Zòffoli si affrettò a dichiarare: «Non è vero che l’argomento di Anselmo d’Aosta sia, come ha detto Martucci, il maggiore argomento per provare l’esistenza di Dio. In secondo luogo quello di cui ha parlato il mio contraddittore non è l’argomento ontologico, bensì quello della quarta via».
Descartes e Leibniz non sono stati d’accordo con Zòffoli, avendo ritenuto che la prova mediante le idee fosse la maggiore rispetto alle altre. Ma ciò non ha importanza. Vediamo invece cosa dimostra l’argomento ontologico e se la sua dimostrazione può reggere alla critica.


Il nostro pensiero — ha detto Alselmo — può pensare ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore. Ma questo non può esistere nel solo intelletto perché, se così fosse, si potrebbe pensare una cosa maggiore, tale cioè che esistesse anche in realtà; il che è in contraddizione con l’assunto.
Esiste, dunque, senza dubbio, qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore, e nell’intelletto e nella realtà. 


Ma vediamo se ciò è vero. Io penso un’isola della quale non se ne può pensare una maggiore. Un’isola immensa, bizzarra, straordinaria, solcata da fiumi più vasti degli oceani e pullulante di montagne che s’elevano fino alle stelle. Cerco quest’isola nella realtà e non la trovo. Percorro il mondo, in lungo ed in largo, per rintracciarla, ma non la rinvengo. Quindi l’isola non c’è. Essa esiste nel mio pensiero ma non nella realtà. Ergo, ciò che si trova nel pensiero non deve, necessariamente, trovarsi anche nella realtà.
Trattiamo ora l’altro argomento di Anselmo, quello della quarta via, che Zòffoli mi accusò di aver confuso con l’argomento ontologico.


«Io — dice il santo d’Aosta — in presenza d’ogni oggetto concepisco un oggetto superiore in forza, in grandezza, in bellezza; io posso sempre oltrepassare ogni perfezione finita; oltrepassando il finito, posso concepire un essere del quale la perfezione è infinita. Ma l’essere che si suppone perfetto deve riunire tutte le perfezioni; l’esistenza è una perfezione ed io debbo aggiungere la perfezione dell’esistenza all’essere che concepisco eccelsamente perfetto: dunque l’essere perfetto esiste ».


Alla dimostrazione anselmiana obiettai, nella mia conferenza, ch’è impossibile concepire un essere nel quale si trovano riunite tutte le perfezioni perché queste sono contraddittorie. La perfezione dell’uomo, ch’è forza, virilità, energia, sarebbe l’imperfezione della donna: la renderebbe una Virago. La perfezione della donna, ch’è dolcezza, bontà, raffinatezza, deformerebbe l’uomo: lo trasformerebbe in un effeminato. Cerne concepire, dunque, un essere che in se, riunirebbe tutte le perfezioni? Che fosse, contemporaneamente, perfettamente grande e perfettamente piccolo, perfettamente buono e perfettamente cattivo, perfettamente bello e perfettamente brutto? Quest’essere sarebbe un mostro, così strano e grottesco che il pensiero umano non saprebbe concepire. 


A tale mia dimostrazione Zòffoli, s’affrettò a contrapporre che «tutte le perfezioni si riducono alla medesima semplicità in cui tutte le perfezioni conciliano concetto classico dell’assoluto. Le perfezioni non sono contraddittorie, non si escludono, ma si completano perché esse sono perfezioni di esseri, diversi nella forma ma uguali nella sostanza».


Benissimo, prof. Zòffoli! Nell’assoluto gli opposti si unificano, i generi scompaiono, le diversità svaniscono, tutto si riduce ad unità, alla stessa sostanza, ad un solo Essere. Ma le perfezioni sono perfezioni dei generi cioè di quelle manifestazioni dell’assoluto che hanno assunto forme particolari, diverse da quelle prese da altre manifestazioni. Ora se le manifestazioni spariscono rientrando nell’unità dalla quale promanano, se i generi s’immedesimano e s’identificano retrocedendo alla semplicità primitiva, allora scompaiono anche le perfezioni e quest’assoluto indistinto non può più riunirle in . Esso diviene allora la causa delle perfezioni che le sue manifestazioni producono, ma è una causa distinta dall’effetto che non può ricondurre in senza annientarlo.


Inoltre se noi ammettiamo che in un Essere si possano trovare riunite tutte le perfezioni, dobbiamo ritenere pure che la sua perfezione è infinita. Ma, siccome la perfezione è una qualità che presuppone la sostanza della quale essa è qualità, se ne desume che, se è infinita la qualità dell’Essere, infinita è anche la sua sostanza. Perciò la sostanza spirituale di Dio è infinita.
Ma se Dio è infinito non può esistere il mondo, composto da sostanza materiale; giacché laddove la sostanza materiale comincerebbe, finirebbe la sostanza spirituale di Dio. Dio dunque avrebbe un limite e non sarebbe più infinito. 


Così ugualmente non potrebbe esistere nemmeno lo spirito umano. Perché questo è composto da una sostanza spirituale che però è imperfetta, non ha la pienezza dell’Essere ch’è solo del Creatore. Ma allora dove s’inizierebbe la sostanza spirituale imperfetta, cesserebbe la sostanza spirituale perfetta, cioè Dio sarebbe limitato una seconda volta. Ma ciò è impossibile perché Dio è infinito, e l’infinito è quello che ha tutto in esso e al di fuori del quale non vi è nulla. Quindi o il mondo e lo spirito umano esistono in Dio, sono sue manifestazioni diverse, sue emanazioni distinte nella forma, ma uguali nella sostanza. Ed allora non v’è dualità di sostanze, tutto è Dio, noi e il mondo siamo in esso, ne siamo una parte, ma il Dio diventa il Dio immanente del panteismo che Zòffoli, cristiano, non vorrà certo accettare. O pure il Dio è trascendente ma allora non può creare al di fuori di sé altre sostanze che limiterebbero la sua infinità. In tal caso v’è soltanto Dio, infinito ed eterno, ed il mondo e lo spirito umano non esistono.


A questo mia dimostrazione Zòffoli rispose che: « Dio è l’infinito, l’assoluto, il necessario. Il mondo è una realtà finita, se invece fosse infinito allora non ci sarebbe poiché due infiniti si escludono a vicenda. Ma poiché il mondo è finito fra i due termini non c’è incompatibilità. Supponiamo due linee dirette, la prima non circoscrive la lunghezza dell’altra, non sono contraddittorie, la finita non limita l’infinito ch’è inesauribile, le due linee rimangono distinte. Un esempio: il potere dell’ufficiale non limita quello del re. L’ufficiale non è contrapposto al re che rimane re, eppure altro è il re e altro l’ufficiale. Concepiamo quindi il mondo finito e Dio infinito».


Ma non è cosi, teologo Zòffoli. Le due linee si svolgono entrambe nello spazio nel quale sono, tutte e due, contenute. L’una segue lo spazio all’infinito, l’altra si ferma a un certo punto. La seconda non limita la prima ma rimane distinta da essa perché ambedue rimangono sempre separate nello stesso spazio. Ma se la linea finita si trovasse fuori lo spazio allora limiterebbe sia questo che la linea infinita che con questo si prolunga all’infinito.


L’autorità dell’ufficiale non limita quella del re perché si realizza nell’ambito dell’autorità reale. Se non si sviluppasse in questo ambito ma ne fosse al di fuori, allora limiterebbe sì l’autorità del re che verrebbe a cessare nel punto dove comincerebbe l’autorità dell’ufficiale.
Zòffoli dichiarò anche quanto riporto testualmente dal suo discorso che ho qui stenografato;
«Martucci dice: come fate a stabilire quale il bene e qual è il male? Voi dite che Dio solo è buono, ma cos’è la bontà, cosa amore, cosa giustizia e rispondo: il bene e il male non esistono in ma è l’uomo che giudica bene o male secondo come crede. Protagora dice: l’uomo è misura di tutte le cose. Io però rispondo a Martucci come si stabilisce il bene e il male: noi arriviamo a formulare i concetti con l’induzione, con l’intuizione, con l’esperienza ed è con ciò che diciamo che possiamo stabilire i fenomeni e costruire la scienza e giudicare uomini e storia. E’ vero che il bene e il male sono creazioni dell’uomo? In questo caso questi concetti non hanno valore assoluto, ciò che è bene sembra bene a me e non ad un altro e in questo modo ci leghiamo le mani. E allora come Martucci può prendersela con Dio cattivo, ingiusto, se Dio ha pensato di fare bene come ha fatto? Come possiamo giudicare dell’operato dei preti? Si parla dell’ingiustizia dell’Inquisizione ma come si può giudicare se non si sa qual è il bene e quale il male? Ognuno può fare il comodo suo...».


Effettivamente io non credo nell’esistenza della Morale, della Giustizia, del Dovere e di tutte quelle altre menzogne inventate da alcuni uomini per meglio ingannare e opprimere gli altri, senza tema d’incontrare resistenza. Io penso, con Stirner e Nietzsche, che l’essenza dell’uomo è l’egoismo, che può essere appagato soltanto dalla forza (intendendosi per forza non solo quella fisica ma anche l’intellettuale).
In natura non esiste una gerarchia qualitativa fra le manifestazioni vitali ma tutte si equivalgono perché sono tutte necessarie, tanto le manifestazioni che danno la vita come le altre che producono la morte dalla quale nasce nuova vita. Il bene e il male in non esistono, è l’uomo che giudica buona o cattiva ogni cosa, ma ogni uomo giudica a modo proprio, cioè diversamente dagli altri. Quindi il mio bene è il tuo male e il tuo male è il mio bene. Ciascuno fa quello che crede, se le azioni altrui offendono i miei sentimenti o i miei interessi posso reagire difendendomi, ma non posso giudicare e condannare gli avversari, non posso dire che essi non dovevano fare come hanno fatto.


Quindi io non biasimo né condanno Dio se, per soddisfare un suo capriccio, mi ha tolto dal nulla per buttarmi nelle braccia del dolore. Non lo recrimino per le sue azioni, per il castigo inflitto ad Adamo che aveva usato della libertà concessagli da Dio stesso ed aveva scelto come meglio gli pareva. Non lo giudico per l’immeritata sofferenza decretata contro la discendenza innocente di Adamo, per il diluvio col quale affogò uomini e bestie, per il massacro ordinato dei bambini primogeniti degli egiziani. Non lo critico per il comando impartito a Mose di fare scannare dai leviti gli adoratori del Vitello d’oro, e per la peste mandata agli ebrei che Davide aveva voluto censire. Se Dio, per il suo egoismo, ha voluto fare così, ha fatto bene, per , ad agire in tal modo. Ugualmente non giudico nemmeno i preti, non li condanno, non rimprovero l’Inquisizione per i roghi sui quali arse vivi milioni di eretici. Se gli inquisitori, per il loro egoismo di fanatici o per la tutela dei loro interessi materiali, credevano bene eliminare tutti i nemici della fede cattolica o tutti coloro che non volevano sopportare la tirannia o lo sfruttamento della chiesa, non potevano agire altrimenti.


Ma in questo caso se Dio non è un padre amoroso e pensa solo a se stesso; se la Chiesa non è una tenera madre ma cura solo il suo tornaconto, sacrificando i propri figli quando ciò le reca vantaggio; allora noi uomini non dobbiamo sacrificare il nostro egoismo ai piedi di Dio e della chiesa, non dobbiamo essere più servi timorati e devoti, non dobbiamo più accettare la legge di Dio e dei suoi rappresentanti sulla terra. Ma occorre invece che ci ribelliamo per riconquistare la libertà la quale permette a ciascuno di vivere come meglio gli pare e piace. Dunque quando ricordo la ferocia del Dio biblico e i misfatti dei preti, non è per condannarli in nome di una norma morale nella quale non credo; ma è per smascherare l’ipocrisia della chiesa la quale vuol darci ad intendere che il Padreterno è clemente e misericordioso, che i Sacerdoti sono buoni ed altruisti e che perciò noi dobbiamo rispettarli, amarli e sottostare alla giusta disciplina che essi ci dettano.


Egoismo contro egoismo: se la chiesa, per il suo interesse ci ha imposta la sua tirannia e l’ha mantenuta con tutti i mezzi, noi, per il nostro interesse, possiamo insorgere e spezzare le catene, servendoci di tutti i mezzi. Questo è il senso della mia critica, esimio teologo. Non un giudizio etico,
ma una valutazione utilitaria. 


Riferendosi poi all’argomento cosmologico di Tommaso d’Aquino, da me brevemente esaminato, Zòffoli s’affannò a dimostrare che l’insufficiente deve venire dal sufficiente, il finito dall’infinito, il movimento dal motore immobile ch’è fuori e dietro le cose. Il mondo è finito quindi è opera di Dio infinito.
Ma, caro frate, l’infinito non può creare, fuori di , il finito, altrimenti si limita. Può creare in , ma allora crea l’infinito perché ad una causa infinita non può corrispondere che un effetto infinito. Se infinito è Dio, che è l’unità di tutto ciò che si spiega nell’universo, è infinito anche l’universo il quale non è altro che l’esplicazione dell’essenza divina La perfezione infinita deve manifestarsi attraverso un’infinità di esseri e di mondi. Ma questa è la filosofia di Giordano Bruno per il quale la causa, che è l’unità infinita considerata come contrapposta al mondo che da essa scaturisce, è anche il principio ch’è quella stessa unità considerata come immanente nel mondo.


Però per Tommaso d’Aquino la causa è trascendente, produce fuori di l’effetto. Il mondo non è emanato, non è l’esplicazione della divinità, ma è creato da Dio che rimane separato da esso. E allora o la causa infinita attua un effetto infinito, ma in questo caso due infiniti non possono coesistere. O la causa infinita genera un effetto finito e v’è contraddizione. Inoltre l’effetto finito limiterebbe l’infinità della causa. Dio sarebbe limitato dal mondo che avrebbe creato fuori di .


In merito alla critica da me mossa all’argomento teologico o finalistico dell’Aquinate, Zòffoli osservò: «Secondo S. Tommaso in natura abbiamo la finalità. Le bestie non pensano, non sono libere e allora c’è un altro essere che le ha ordinate. Per esempio l’orologio non pensa ma segna le ore. Se non dipende dall’uomo deve dipendere da un altro essere divino. Martucci dice che in natura v’è l’ordine ma v’è anche il disordine, ma io rispondo che l’ordine è più normale del disordine.
In noi tutti c’è un ordine, la natura tende all’ordine, non c’è caos in essa, ma leggi e finalità... ».
Così parlò il teologo. Ma egli dimenticò che, in natura, l’ordine e il disordine, stanno l’uno accanto all’altro, ugualmente necessari. Al fianco di ogni regola si trova l’eccezione, vicino ad ogni legge si presenta l’anormalità. Per la natura hanno valore uguale: sono entrambe necessarie. La vita e la morte, la creazione e la dissoluzione, l’armonia ed il caos, la normalità e l’anormalità, sono indispensabili alla natura perché indispensabile per essa è manifestarsi in modi diversi ed opposti. Come si può dunque dire che la natura tende più verso l’uno che verso l’altro? Più verso l’ordine che verso il disordine?


«Un ordine ed un giudizio delle cose secondo il loro valore — ho scritto nel mio libro «Più Oltre» — è sognato soltanto dalla limitatezza del pensiero umano il quale attribuisce al mondo i fini suoi propri».
Del resto anche se si potesse dimostrare che la natura tende verso un fine, questo proverebbe, come ha osservato Kant, l’esistenza del Demiurgo non del Dio trascendente. Dio agirebbe sulle cose non come una forza straniera ma come l’artefice che dal di dentro spingerebbe tutte le cose a conservarsi e ad ordinarsi sempre meglio e a realizzare una superiore armonia.
Zòffoli infine soggiunse: «La conclusione del discorso di Martucci è stata questa: la mia non è la posizione dell’ateo, non quella dell’agnostico, ma quella dell’uomo libero che vuol essere senza Dio e senza padrone. Ma io domando se questo atteggiamento si possa dire di un pensatore o di uno che si è lasciato prendere la parola dalla foga. Io dico: non è ammissibile ciò in una persona seria perché se le si dimostrasse l’esistenza di Dio non dovrebbe fare altro che inginocchiarsi ed adorarlo».


In effetti io, dopo aver confutato tutte le prove dell’esistenza di Dio, anche quelle di Kant e di Pascal che Zòffoli si rifiutò di discutere col pretesto che non sono accettate dalla filosofia cattolica, conclusi: i sensi non percepiscono Dio, la ragione non me lo dimostra anzi mi attesta la debolezza delle argomentazioni con le quali i teologi cercano provarlo. Però io so che i sensi non mi fanno conoscere la realtà in , so che la ragione umana è limitata, e quindi ammetto anche che Dio potrebbe esistere se pur a me appare impossibile. Ma se anche esistesse e, all’improvviso, si rivelasse a me io dovrei dichiarargli che non vorrei riconoscere la sua autorità e sottomettermi ad essa.


Secondo Zòffoli invece dovrei inginocchiarmi ed adorare. Ma perché? Forse perché Dio è il mio creatore? Ma gli ho chiesto io di trarmi dal nulla? E se mi ci ha tratto di sua volontà, perché mi ha dannato alla condizione di schiavo che deve ubbidire sempre alla legge imposta dal padrone divino, se vuole evitare più terribili castighi?
Del resto, anche ubbidendo, non mi libero dal dolore. Questo continua a tormentarmi. E’ inseparabile dalla vita. E perché Dio ha creato il dolore che eternamente ci strazia?


Sant’Agostino afferma che il dolore proviene dal male che è in noi. Ma questo male non è una realtà ma una privazione, una deficienza di quell’unica realtà ch’è il bene, la perfezione. Dio ci crea buoni, perfetti come lui. Ma non ci dà tutta la sua bontà, tutta la sua perfezione, altrimenti noi uomini saremmo uguali a Dio, saremmo tanti dei e diverrebbe impossibile distinguere ha il creatore e le sue creature. Quindi quel tanto di bene, di perfezione che ci manca costituisce il male, l’imperfezione umana.


Ma perché Dio non ci ha creato uguali a , non ci ha fatto dei? Forse perché non voleva condividere con noi il governo dell’universo e intendeva rimanere despota unico? E allora perché Dio non s’è astenuto dal creare? Perché la sua bontà non ha resistito all’impulso che lo spingevi, a manifestarsi limitandosi? Contro Dio, dunque, opporrei la mia rivota. Ed anche se egli scatenasse su me tutti i fulmini della sua ira, non potrebbe piegare la mia volontà come non piegò quella di Promèteo, incatenato alla roccia del Caucaso, e di Capanco disteso sotto la pioggia di fuoco.


Questa rivolta frenetica, questo desiderio parossistico di libertà che spinge l’individuo anarchico ad insorgere contro ogni autorità, divina o umana, e a spezzare ogni freno religioso, etico e legale, produrrebbe, nella sua generalizzazione, lo sfacelo della società ed il trionfo della bellum omnium contra omnes.
Cosi disse Zòffoli ma gli oppongo che un equilibrio fra gli egoismi liberi è possibile perché determinato in certi casi dall’utilità reciproca che gli uomini trovano nell’accordo, e in certi altri casi dalla resistenza che ogni attacco incontra quando tutti sono agguerriti nella difesa della propria personalità.


Zòffoli affermò ancora l’esistenza dell’assoluto e lo descrisse minutamente, dimostrando la vanità della teologia la quale non solo pretende di aver trovato questo assoluto, ma asserisce anche che lo conosce a fondo e sa ch’è composto di una sostanza spirituale dotata degli attributi d’infinità, eternità, indivisibilità, indivisibilità, ecc. Tutti i teologi concordano nel definire Dio nello stesso modo, - mentre i filosofi anche quando credono di aver scoperto l’assoluto, lo concepiscono però ciascuno a modo proprio. Esso è per Platone il mondo spirituale, per Epicuro la materia eterna, per Spinoza l’unica ed infinita sostanza dotata degli attributi spirituali e materiali, per Leibniz una folla di monadi, per Kant il noumeno inconoscibile, per Hegel l’idea immanente. Ma la filosofia non è soddisfatta ancora, non accetta definitivamente nessuno di questi assoluti e continua l’eterna ricerca destinata a non trovare mai l’ap-pagamento completo. Si può ritenere inutile l’attività filosofica e passare, come auspicava Comte, dal tentativo d’intendere l’ultrafenomenico all’osservazione e allo studio del fenomenico. Cioè si può rinunziare alla metafisica e dedicarsi solo alla scienza. Ma fin quando la filosofia esisterà, rincorrerà sempre il fantasma dell’assoluto; e nel momento in cui «n filosofo crederà d’averlo raggiunto, l’altro gli dimostrerà che non è quello e la corsa sarà ripresa.


Invece i teologi non hanno bisogno di correre. Essi credono d’aver trovato l’assoluto e sono tutti d’accordo nel concepirlo ugualmente perché lo vedono tutti con gli stessi occhi. E pure il loro assoluto non è percepibile né intelligibile. E a questi signori dico: io non so se c’è o non c’è l’assoluto, ma so di non poterlo conoscere mai. Io sono uno scettico, dubito di lutto, ma siccome, par vivere, debbo accettare una realtà, allora accetto e tratto come tale l’apparenza, pur sapendo ch’essa potrebbe non essere la realtà. Ma se anche mi fosse dato conoscere l’assoluto e constatare ch’è proprio quello che dite voi, cioè Dio Padre onnipotente creatore del cielo e della terra non mi genufletterei ai suoi piedi, ma rimarrei diritto, più diritto che mai.


Perché se i vari Zòffoli amano l’inchino, io preferisco la fierezza. Se le pecore desiderano il pastore, io aspiro alla libertà. E sulla bandiera della mia rivolta ho scritto, da trent’anni, col sangue delle mie vene, il motto che esprime la suprema necessità della mia anima tormentata: frangar, non flectar.


Enzo Martucci "La bandiera dell'anticristo"

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