domenica 15 luglio 2012

l’uomo in camicia di seta

Anarchici italiani in Argentina:
Severino Di Giovanni, l’uomo in camicia di seta

di Camilla Cattarulla

Abstract: Severino Di Giovanni (Chieti 1901 - Buenos Aires 1931) was one of the anarchists in Argentina most famous in the 1920s for his violent revolts against public and private institutions. Executed by firing squad on the orders of the dictatorial government of General José Félix Uriburu, he is remembered as a fierce and ambitious man. This paper analyses some of the literary sources dating from after his death which, minimising his political aims, depict Severino as a legendary figure.

Perché quest’italiano ribelle fucilato era la figura paradigmatica del nemico di questa società, con un’ideologia antiargentina, ateo, immorale – ricordate il suo amore adulterino con l’adolescente – e che per giunta utilizzava la violenza per esprimere la propria ribellione.
Manuel Vázquez Montalbán, Millennio. Pepe Carvalho sulla via di Kabul (Milano, 2004)

La prima grande ondata dell’emigrazione di massa in Argentina (orientativamente 1870-1915) comporta l’arrivo – soprattutto da Spagna e Italia – di una forma di proletariato “moderno” che, pur tra i conflitti, permette la penetrazione in Argentina di nuove ideologie (socialismo e anarchismo) e con esse di nuove forme di aggregazione (associazioni sindacali) e di lotta (sciopero, boicottaggio, volantinaggio). In particolare, il movimento operaio anarchico, a partire dagli inizi del Novecento, conobbe nella Repubblica del Plata un periodo di grande diffusione e auge specialmente grazie alla presenza italiana. Osvaldo Bayer individua Errico Malatesta e Giorgio Gori, due figure dell’anarchia italiana appartenenti alla tendenza organizzatrice che soggiornarono in Argentina dal 1885 al 1889 il primo, e dal 1892 al 1902 il secondo, come coloro che contribuirono al consolidamento dell’associazionismo anarchico. Ma grande diffusione ebbe anche la tendenza all’individualismo (i cosiddetti anarchici “espropriatori”), caratterizzato da atti violenti (rapine, attentati alle istituzioni, azioni di disturbo, spesso finanziati grazie alla produzione di moneta falsa) che minavano la sicurezza del paese.
Negli anni ’20, l’affermazione del fascismo in Italia e le conseguenti emigrazioni politiche in Argentina, determinarono da un lato la crisi (anche nella madrepatria) del movimento anarchico organizzato, dall’altro un incremento dell’anarchismo espropriatore. In effetti, come segnala Gino Cerrito:

La crisi della libertà che caratterizza il movimento fra le due guerre, la debolezza mostrata dal movimento anarchico di fronte al diffondersi dei regimi fascisti, l’aggravarsi dei conflitti di classe e un’analisi superficiale della rivoluzione sovietica e dei suoi effetti sul movimento determinano fra gli anarchici aspetti assai interessanti: un breve ritorno alla propaganda individualistica e terroristica con manifestazioni singolari […] in Italia e in Argentina. In seguito a questi fatti – generalmente caratteristici di tutti i periodi di carenza ideologica – si riaccendono le polemiche ideologiche nel movimento, che in linea generale condanna le manifestazioni terroristiche. Diverso è ovviamente il contegno degli anarchici di fronte alla violenza rivoluzionaria dei conflitti di classe, particolarmente aspri in Spagna e in Argentina […]; alle azioni contro dittatori e diretti responsabili delle repressioni; o agli attentati dimostrativi incruenti, come quelli che negli Usa sono giustificati da una reazione massiccia. Qui […] i gruppi di lingua italiana continuano a perseguire una linea intransigente e conoscono anni di particolari persecuzioni poliziesche, di cui il “caso Sacco e Vanzetti” è il più clamoroso.

Fra coloro che emigrarono subito dopo l’avvento del fascismo vi è Severino Di Giovanni, il quale a Buenos Aires, dove arriva nel maggio del 1923 con moglie e figli, instaurerà un periodo di violenza che è stato considerato come l’antecedente, sia pur dettato da una diversa impronta ideologica, della violenza urbana degli anni ’70.
Severino Di Giovanni è nato a Chieti nel 1901. Il suo nome compare per la prima volta nei registri della polizia bonaerense nel 1925 in occasione del volantinaggio antifascista organizzato da un gruppo di anarchici al teatro Colón dove, alla presenza del presidente della Repubblica Argentina Marcelo T. de Alvear, la collettività fascista celebrava l’anniversario dell’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III. Da quel momento Di Giovanni diventa un osservato “speciale” e il principale indiziato di tutti gli atti cruenti che si verificano nella capitale e in altre città argentine fino alla sua morte, all’alba del 1° febbraio 1931, giustiziato a Buenos Aires nel carcere di Las Heras dal governo dittatoriale del generale José Félix Uriburu due giorni dopo essere stato catturato dalla polizia in uno scontro a fuoco che lascia sulla strada due vittime e diversi feriti. Il 2 febbraio, la pena di morte verrà eseguita anche per Paulino Scarfò, membro del gruppo di Severino, catturato il 30 gennaio nella casa di campagna Ana María, a Burzaco, ultima roccaforte di Di Giovanni.
Negli anni tra il ’25 e il ’31 Di Giovanni aveva sovvenzionato il circolo anarchico “Renzo Novatore”; aperto una tipografia clandestina dove stampava la rivista Culmine e aveva iniziato la pubblicazione delle opere di Reclus; partecipato con il suo gruppo ad azioni violente a favore di Sacco e Vanzetti, mantenendo contatti con gli anarchici newyorchesi de “L’Adunata dei Refrattari” (alla cui linea individualista apparteneva Vanzetti); assassinato Emilio López Arango, direttore del giornale La protesta (il principale organo anarchico); e fatto esplodere una bomba al Consolato generale d’Italia, provocando nove morti e trentaquattro feriti. Era stato soprattutto quest’ultimo atto cruento a determinare l’ostilità nei confronti degli anarchici individualisti del sindacato operaio FORA e de La protesta, che accusava Severino di essere un agente fascista, nonché a scatenare una feroce persecuzione da parte della polizia diretta a tutto il movimento libertario.
Dopo la sua fucilazione, due sono le immagini di Di Giovanni che perdurano nell’immaginario collettivo: la prima, creata dalla stampa e dalla polizia, lo ritrae come un assassino feroce, un uomo sfruttatore di donne, violento e brutale; la seconda, diffusa quarant’anni dopo grazie agli studi di Osvaldo Bayer, di un idealista, un eroe romantico e dai sentimenti puri, in particolare nella sua relazione amorosa con Josefina América Scarfò, l’adolescente sorella di Paulino. L’opera di Bayer Severino Di Giovanni. El idealista de la violencia, pubblicata per la prima volta nel 1970 e “vietata” nel 1973 (siamo negli “anni di piombo” argentini) per applicazione del decreto 1774 durante il governo peronista di Raul Lastiri, è stata oggetto di numerose critiche e interpretazioni, a volte contestate dallo stesso autore. Fra queste, merita di essere ricordata la polemica che Bayer ha instaurato con il peronista Alvaro Abós, il quale vede in Di Giovanni colui che esercita un terrorismo da canaglia, aspetto tacciato da Bayer come sintomo di un retaggio interpretativo teso a spiegare “la delincuencia social como un producto de monstruos y pecadores y no un resultado de la sociedad toda”.
Proprio perché l’opera di Bayer è stata abbondamente interpretata e criticata, questo lavoro, più che analizzare l’immaginario bayerano su Di Giovanni, si concentrerà su alcune fonti successive alla morte dell’anarchico italiano che hanno contribuito a delinearne quell’immagine contraddittoria, se non anche fuorviante che, comunque, ha determinato un tale interesse intorno alla sua figura, tanto da essere ancora oggi oggetto di riletture finzionali in Argentina e in Italia. Sul fronte argentino, ad esempio, voglio segnalare il monologo di Marcelo Camaño Severino: la otra historia, rappresentato a Buenos Aires nel 2007 con la regia di Norberto Trujillo, in cui il personaggio di Severino ripercorre la sua vita (dall’arrivo in Argentina fino alla fucilazione) nel corso di un immaginario dialogo con una vestaglia (metafora della moglie italiana) e un grembiule (metafora di América Scarfò) che mette in rilievo i sentimenti provocati in lui dalle proprie azioni politiche.
Sul fronte italiano, invece, nel 1996 è uscito il romanzo Un caffè molto dolce della giornalista Maria Luisa Magagnoli in cui l’autrice/narratrice/protagonista, dopo essersi imbattuta in una fotografia di Di Giovanni, parte per l’Argentina e, attraverso l’incontro e l’amicizia che allaccia con una ormai anziana América Scarfò, ripercorre una storia di passioni politiche e non solo, attratta quasi magneticamente da Severino.
Ancora nel 2007 è uscita una biografia romanzata di Nico Faralanci (L’anarchico che cade nelle mie mani deve aver litigato con la vita se continua a essere anarchico) che ricostruisce la vita di Severino dal punto di vista di un giornalista che segue le azioni politiche del gruppo legato all’anarchico abruzzese nel tentativo, fallito, di fornire una versione dei fatti diversa da quella ufficiale. Stimolato anche dalle dichiarazioni di Severino ai giudici che lo stavano per condannare a morte (“Io ho due personalità mio malgrado. Dinanzi a voi avete Severino Di Giovanni in carne e ossa. Ma esiste un Di Giovanni che è frutto della leggenda, che è creatura da novella poliziesca.”), ecco come il giornalista avrebbe voluto commentare i fatti:

Come al solito un plotone d’esecuzione ha cancellato ogni dubbio – ogni perplessità – ogni tentativo di ricerca della verità.
Il giochino è semplice e viene ripetuto ogni volta: c’è un mucchio di merda talmente grosso che non si riesce nemmeno a sotterrare – bisogna distogliere in qualche modo l’attenzione dalla puzza nauseante – allora si prende un anarchico, uno di quelli che non stanno tanto tranquilli, uno di quelli che alle parole fanno seguire i fatti, e lo si trasforma nel colpevole di tutto ciò che di male succede. Se poi quell’anarchico è anche un immigrato italiano, tanto meglio. Chi mai si prenderebbe la briga di indagare sui fatti per come sono avvenuti? La polizia? I giornalisti?

Le considerazioni dell’immaginario giornalista rinviano al pregiudizio in base al quale l’immigrato italiano in Argentina comunque è causa di conflitti che destabilizzano la società. Insomma, l’aggravante non sta nel fatto di essere anarchico, ma piuttosto in quello di essere italiano e immigrante. Del resto le leggi promulgate nel 1902 e nel 1910 andavano nella direzione di selezionare la presenza migratoria nel paese rioplatense. La prima, la Ley de Residencia (perfezionamento di un progetto di legge di Miguel Cané che nel 1899 era stato rifiutato perché ritenuto eccessivo) prevedeva l’espulsione di qualsiasi straniero che compromettesse la sicurezza nazionale o perturbasse l’ordine pubblico; mentre la seconda, la Ley de Defensa Social, regolamentava l’ingresso degli stranieri e, in più, identificava esplicitamente quelle ideologie (sostanzialmente socialismo e anarchia) che ledevano la sicurezza del paese; e in questo senso proibiva qualsiasi tipo di propaganda anarchica, nonché le riunioni politiche, anche con la pena di morte.
Torna qui alla memoria Marco Severi (1905), pièce teatrale di Roberto Payró in cui il personaggio principale, accusato di anarchia in Italia, una volta emigrato in Argentina si nazionalizza cambiando nome (Luis Vernengo), lavora come tipografo, ma continua a vivere nel timore di essere espulso in Italia dove pende sul suo capo una condanna come falsario, fino a quando, arrestato, ottiene l’indulto dal ministro degli Esteri italiano. La difesa di Marco Severi/Luis Vernengo si basa sul fatto di aver accettato a Roma la proposta di un amico di spacciare soldi falsi per la necessità di curare la madre malata, perché, fino a quel momento, era stato “un anarquista lírico, por exceso de juventud, por exceso de ardor en la sangre, por curiosidad y por novelería”. Si aggiungono qui altri elementi alla tipologia dell’anarchico in Argentina: è straniero, è giovane, curioso e amante dell’avventura, e, inoltre, è tipografo e falsario. Sono tutte caratteristiche poi appartenenti anche di Di Giovanni, a cui si sommano gli appellativi di criminale e terrorista, caratteri propri anche di molto immaginario occidentale su tale figura (si pensi, ad esempio, al personaggio di Souvarine – un ex nichilista russo esiliato – nel romanzo Germinal, del 1866, di Emile Zola, o a quello del tedesco Diedrich Hoffendal in The Princess Casamassima, del 1886, di Henry James).
Tornando a Di Giovanni, vediamo allora come alcune fonti letterarie hanno contribuito a delinearne quell’immagine di feroce criminale per nulla idealista che poi si è mantenuta a lungo nell’immaginario argentino. Tra queste fonti spicca il romanzo d’appendice, di tal Aristodemo, La vita di Severino Di Giovanni pubblicato in 82 puntate dal 3 febbraio al 12 maggio 1931 sul quotidiano fascista in lingua italiana, edito a Buenos Aires, Il Mattino d’Italia. La tempestività della pubblicazione, iniziata solo due giorni dopo la fucilazione dell’anarchico, fa ritenere che anche per la redazione del giornale (all’epoca diretto da Mario Appelius) Severino Di Giovanni fosse un osservato speciale per la sua attività antifascista (cominciata con il volantinaggio al teatro Colón), tanto da tenere pronto un romanzo biografico che abbraccia anche gli anni italiani di Severino.
Naturalmente Il Mattino d’Italia aveva pure dedicato ampio spazio alla cattura di Di Giovanni e del suo gruppo, al rapido processo e alla cronaca dell’esecuzione (riportata anche con disegni in un’intera pagina). In questi articoli, il giornale oscilla tra l’odio politico e la pietas cristiana di fronte all’imminenza della morte, in un’alternanza di giudizi sull’anarchico che lo rappresentano ormai vinto di fronte alla legge, dopo essere stato un “personaggio da leggenda” (“nella fantasia popolare e dei gazzettieri”), o da romanzo poliziesco:

Di fronte alla sua condanna il Di Giovanni si è spogliato di tutte le caratteristiche che lo facevano personaggio poliziesco per cedere il posto ad un povero mortale che ha paura di perdere la vita …

Come nota Vanni Blengino, il giornale stabilisce, anche attraverso le parole di Mario Appelius, “un rapporto ambiguo con Di Giovanni, un misto fra repulsione politica e ammirazione per l’uomo d’azione”. E ancora:

Appelius sul “Mattino” esulta nel riferire la notizia dell’arresto e lo fa come chi ha una questione personale con l’anarchico arrestato: “La notizia non ci sorprese. Il Di Giovanni ci conosce vis a vis da anni, ci ha visto di petto, tentando più volte con la sua banda di sopprimerci e sa che di lui abbiamo anche un ciuffo di capelli biondastri, setolosi, quelli della fronte. […] mentre tutti credevano ormai che il Di Giovanni fosse un personaggio da leggenda, irreale, inventato dalla polizia per attribuirgli tutti i delitti orrendi di cui non era capace di trovare gli autori, noi insistemmo sulla sua realtà”.

Il giornale, quindi, si arroga il diritto di non aver contribuito a scatenare l’immaginario popolare, ma piuttosto di aver individuato in Di Giovanni un nemico pericoloso e reale, come conferma la pubblicazione del romanzo a puntate, estremamente documentato anche per quanto riguarda gli anni italiani di Severino.
E veniamo allora al romanzo. Nella prima puntata, l’autore, Aristodemo, illustra il doveroso obiettivo:

Sfatare la leggenda dell’idealismo di cui si ammantarono con cinismo e con teatralità – dall’adolescenza al patibolo – i debiti del protagonista. Quest’esposizione obbedisce soprattutto ad una cosa sostanziale: la verità storica attraverso la quale, nello spazio e nel tempo, la figura del criminale-tipico lombrosiano appare nella sua vera luce.

E poi:
Non era, la sua, la solita irrequietezza che si riscontra nei ragazzi normali della sua età, vivaci, esuberanti, birichini ma nel fondo buoni, anche se a volte capricciosi e irruenti. No. In Severino c’era qualcos’altro che bisogna ricercare in quelle che i criminali[sti] chiamano degenerazioni innestate all’atavismo.

Le cause, per Aristodemo, sono da ricercare nel nonno, morto alcolista: “la tabe ereditaria si innestò nell’organismo di Severino, ai centri volitivi”. E i suoi tratti somatici confermano la tendenza alla criminalità:

sguardo felino, brutale, che nulla aveva assolutamente di umano. Per esempio, fra le linee somatiche c’erano i lobi auricolari attaccati al tessuto epidermico delle guance, l’asimmetria nella linea mediana antero-posteriore, delle lievi ma significative depressioni delle bozze frontali accidentate.

L’influenza e il lungo successo, fin dagli ultimi decenni del XIX secolo, delle teorie lombrosiane in Argentina, così come nel resto dell’America Latina, è ormai un fatto assodato. L’antropologia criminale di Cesare Lombroso, con la sua teoria sull’atavismo, permetteva di individuare il criminale tipo a partire dai tratti somatici (base per l’identificazione) a cui si aggiungevano i caratteri della recidività. Come segnala Eugenia Scarzanella, non è un caso che la tecnica dattiloscopica venga specializzata in Argentina, “paese dell’immigrazione, delle liste di sbarco, della babele di volti, nome, biografie spezzate”. In questo contesto, l’anarchico era stato identificato come un tipo di criminale a parte, in linea con il trattato criminologico che lo stesso Lombroso gli aveva dedicato e che era stato pubblicato anche in Argentina (Los anarquistas, 1894). Ma a differenza di Lombroso, il quale, analizzando famosi casi di anarchici regicidi, aveva dimostrato una certa simpatia per essi in quanto li considerava presi dalle passioni oppure mentalmente insani, e quindi impunibili, in Argentina, come già detto, la Ley de Defensa Social prevedeva finanche la pena di morte.
L’esordio del romanzo biografico di Aristodemo fa diretto riferimento a Lombroso e all’anarchico come criminale tipo, aspetto che contribuisce a considerarlo una figura ai margini della società civile, tanto più che, andando avanti nella storia, l’autore ricorda come Di Giovanni, dopo il primo arresto a seguito di un duello con il coltello, fosse stato considerato, più che come detenuto, come un
oggetto di studio in base alle teorie lombrosiane ed agli esperimenti criminologici del prof. Ottolenghi della Facoltà di Diritto della Università di Roma, organizzatore della polizia scientifica.

Aristodemo riporta anche il cartellino del casellario giudiziario riferito a Di Giovanni che così recitava:

Corpo: slanciato, piuttosto snello. Aspetto: quasi distinto. Carnagione: bianca. Capelli: castani. Barba: rasa. Fronte: retta, inclinazione media. Sopracciglia: arcuate, divise. Palpebre: semiumide. Occhi, colore: verdognoli. Naso: dorso retto; base orizzontale. Bocca: regolare. Mento: con fossetta. Orecchie: regolari, lobo aderente al tessuto epiteliale. Statura: m. 1.68.

In tutto ciò è evidente il tentativo di Aristodemo, e con lui probabilmente di tutta la stampa della collettività italiana a prescindere dall’orientamento politico, di spiegare la devianza sociale di Severino attraverso l’analisi criminologica e, in questo modo, combattere il pregiudizio verso gli immigranti italiani. Insomma, è l’atavismo che determina il delitto e l’atavismo può colpire anche all’interno di gruppi etnici in maggioranza sani e produttivi.
Ma non vanno dimenticati gli elementi culturali che pure concorrono a indirizzare un individuo verso le forme della criminalità anarchica. Tornando a Severino, ecco come Aristodemo ne descrive il bagaglio culturale:

Di notte leggeva… Letteratura da quattro soldi, malsana, pericolosa, eccitante, morbosa. Divorò Severino tutti i romanzacci di Carolina Invernizio, le novelle d’avventure brigantesche, le gesta di Arsenio Lupin, di Sherlock Holmes, di Nat Pinkerton, di Petrosino, di Buffalo Bill […].

A queste letture, considerate cattiva letteratura popolare, Aristodemo ne aggiunge altre

tutte mal digerite per difetto di preparazione culturale, come per es. il Manifesto dei Comunisti di Marx, l’Utopia di Moro, l’opera sociologica di Augusto Comte, le teorie di Saint-Simon, di Tarde, di Emerson, di Nietzsche, di Stirner, di Prudhon, di Eliseo Reclus, di Kropotkine, ecc. Ma non ne capiva nulla e nella sua impotenza interiore una sola cosa germogliava: la violenza ed il delitto educati alla scuola del cinismo.

È il germoglio della violenza che porta Di Giovanni prima a diffondere volantini contro il capitalismo perché causa della Prima guerra mondiale, e poi a far circolare soldi falsi tanto che, una volta scoperto dalla polizia e colpito da mandato di cattura, è costretto a una fuga a Roma e quindi a Genova da dove, con moglie e figlia, nel 1923 lascia l’Italia su una nave diretta in America come emigrante clandestino:“Altro che profugo politico”. Il romanzo offre anche una giustificazione al fatto che nessuno lo riesca ad individuare ed espellere fin dall’arrivo. Di Giovanni, infatti, non avrebbe i caratteri fisici dell’italiano, o, per meglio dire, la sua fisionomia non corrisponde allo stereotipo dell’italiano immigrante:

s’avvicinava di più allo slavo per il colore biondiccio della pelle e dei capelli, per lo sguardo strano, fosforescente, verdastro… per cui solo chi l’aveva conosciuto ed osservato poteva rintracciarlo e riconoscerlo.

È qui che Aristodemo conclude la prima parte del suo romanzo biografico che ha lo scopo di

illuminare la opinione pubblica sulla vera figura del criminale, figura che appare nella sua vera luce, gravida di foschie, priva di ideali, specialmente di quell’ideale che contorse e di cui pretese di assumere l’etichetta, poiché in verità in lui tutto fu perversione anziché perfezione …

A Buenos Aires, grazie alla nascita di una figlia, ottiene la cittadinanza argentina rinnegando la propria patria, entra in contatto con i gruppi anarchici locali, nei quali semina la discordia, e “debutta” con il volantinaggio al teatro Colón, prova di alta “vigliaccheria individuale”. Poi si trasferisce presso la famiglia Scarfò, di cui prende in affitto un’ala della casa e coinvolge nella sua
attività criminale i due giovani figli, Alessandro e Paulino, ma soprattutto, allaccia con la giovanissima Josefina América una relazione che Aristodemo definisce per nulla innocente perché Josefina è come Beatrice Cenci e in più è un soggetto patologico morboso (e sull’influenza “maledetta” della ragazza il giornale aveva insistito molto nelle cronache sugli ultimi giorni di Severino). Ed è proprio per l’ascendente negativo di América che Severino, nell’ultimo anno e mezzo della sua esistenza di “brigante da strada maestra”, comincia ad ambire alla ricchezza:

Ormai s’era dirozzato, e, giacché… la proprietà era un furto, perché non doveva vestire anche lui di seta? Da America e dalle altre femmine di conio ch’egli aveva conosciuto e praticato, aveva appreso a disprezzare la miseria, a scialacquare, a non aver misura in nulla.

Il romanzo insiste molto sul rapporto di Severino con le donne. Tre sono le categorie femminili indicate: le “sante”, come la moglie Teresa da lui costretta a vivere nella miseria; le donne “insignificanti” dall’intelligenza inferiore alla media, come Teresa Serra, fidanzata di Alessandro Scarfò; e le donne di malavita e le prostitute, delle quali l’anarchico era stato protettore fin da quando viveva in Italia, categoria a cui appartiene América. È proprio a causa della ragazza, oltre che del “libellismo di sinistra”, che Severino, secondo l’autore del romanzo, “aveva finito col credersi immortale, sovrumano, onnipotente ed onniscente”, originando così quella fama di inafferrabilità che lo rendeva simile a un fantasma, tanto da aver egli stesso “finito col credere alla propria reincarnazione di uomo terribile-fantasmainvulnerabile”. Ed è ancora a causa di América se Severino, dopo una escalation di attentati tutti rigorosamente registrati nel romanzo biografico, si mette alla ricerca del “colpo grosso” che lo arricchisca, colpo che gli riesce il 2 ottobre 1930 tanto da poter così installare nella casa di campagna di Burzaco, dove si è trasferito con il suo gruppo, una tipografia per stampare soldi falsi, evento che segna l’inizio della sua fine. Inoltre, con i proventi del colpo Severino arreda lussuosamente la casa dove vive e finalmente può “vestire di seta da capo a piedi”.
Trent’anni dopo, Ernesto Sabato, nel romanzo Sobre héroes y tumbas, definisce Severino Di Giovanni un uomo che “al fin de su vida vestía con camisas de seda”. L’espressione lo connota in maniera negativa perché contrapposto a quegli anarchici che, invece, destinavano il frutto delle loro imprese criminali interamente al sindacato. Il romanzo, pubblicato nel 1961, riflette quell’immaginario collettivo creato ad hoc (dai media e dalla polizia) intorno alla figura di Di Giovanni e che evidentemente, a metà degli anni ’50, epoca in cui è ambientato il romanzo, era ancora vivo. Anche Beatriz Guido, nel romanzo Escándalos y soledades (1970), ricorda Di Giovanni che nel teatro Colón, nel corso di una rappresentazione de l’Aida, mette in atto un’azione di volantinaggio contro Mussolini. Severino veste il frac a differenza degli umili abiti di coloro che assistono al suo atto dimostrativo e che professano il socialismo, considerato “la única teoría de la clase obrera,” mentre l’anarchia “es un juego individual que no cree en el porvenir sino en el presente” , a ricordare lo scarso consenso delle organizzazioni sindacali argentine nei confronti dell’anarchia libertaria.
Ma attorno alla figura dell’anarchico non si è sviluppata quell’aurea mitica che invece circonda altri personaggi della storia e della cultura argentina, come Carlos Gardel o Eva Perón. Anche se con Evita Severino ha in comune una leggenda che associa la storia della sua sepoltura alle vicende del cadavere della moglie di Perón. Fucilato e sepolto anonimamente nel cimitero della Chacarita, nei giorni immediatamente successivi la sua tomba è completamente cosparsa da fasci di fiori rossi portati da una mano sconosciuta, tanto che viene dato ordine alla polizia di applicare un ferreo servizio di vigilanza dentro e fuori del cimitero. Allo stesso modo, vera o inventata che sia la storia, sembra che intorno al camion che dopo la caduta di Perón nasconde il corpo di Evita appaiano margherite e petali di fiori senza che si riesca a scoprire l’autore del fatto.
Eppure un tentativo di far uscire la figura dell’anarchico dalla leggenda e ricondurlo alla realtà dell’epoca c’era stato ed è la cronaca della fucilazione narrata da Roberto Arlt in una delle Aguafuertes che scriveva per El Mundo. Non va dimenticato, infatti, che l’esecuzione di Severino si svolge con tutti i rituali scenografici che accompagnano, ancora oggi, eventi di questo genere. Vi assistono circa cinquanta persone, fra le quali i parenti della tredicenne morta nello scontro a fuoco che aveva preceduto la cattura dell’anarchico, e quattro giornalisti oltre ad Arlt, ovvero: Gauna (La Razón), Álvarez (Ultima Hora), Enrique González Tuñón (Crítica), Gómez (El Mundo). Così Arlt descrive Severino mentre l’ufficiale legge l’ordine di morte: “Di Giovanni mira el rostro del oficial. Proyecta sobre ese rostro la fuerza tremenda de su mirada y de la voluntad que lo mantiene sereno.” Muore gridando: “¡Viva la anarquia!”, forse nell’estremo tentativo di recuperare quella dimensione politica (e reale) perduta. Ma invano perché, se si esclude l’obiettività di Arlt, il quale più che preoccuparsi di teorizzare il significato dell’anarchia osserva il contrasto con i costumi della società borghese, tutte le altre cronache sull’esecuzione pubblicate il giorno seguente continuano a insistere sulla sua figura di bandito. Vediamo, ad esempio, il commento di Crítica nell’articolo intitolato “El hombre del misterio y del asalto”:

Ha caído, por fin, el hombre del misterio y del asalto. Ha caído el bandido aventurero del film por serie que arrebata el interés emocionante de las criaturas y deja una sensación de intranquilidad en el ciudadano de honestas costumbres que transita la apacible medianoche de la urbe luego de una sección de cine.
Ha caído, por fin, el hombre del misterio y del asalto. Su nombre adquirió trágica popularidad. Pronunciábase después de cometido cualquier hecho delictuoso audaz, en la abosoluta seguridad que nadie sino Severino Di Giovanni era capaz de perpetrar un asombro de crimen.
[…]
El público llegó a creer en la inexistencia del criminal. ¿Sería una ficción este Severino Di Giovanni, autor de todos los delitos cometidos y de los esperados asaltos sensacional?
Detrás de su paso corría la justicia. Sabíase que visitaba tal lugar, que frecuentaba tal refugio. Mas siempre resultaban infructuosos los allanamientos. Severino Di Giovanni desaparecía como una sombra.
Pero la gente preguntábase: ¿sería en verdad, el auténtico Severino Di Giovanni?
Ha caído, por fin, el hombre del misterio y del asalto. Un personaje extraordinario. Un personaje de película del hampa o de novelón por entregas.

Per l’articolista di Crítica, Severino è stato un delinquente urbano in grado di seminare il terrore: nessuna connotazione sociale o politica, opinione sulla quale in Argentina concorda tutta la stampa, quale che sia la tendenza politica rappresentata. Da questo punto di vista si potrebbe definire un fallito: non ha avuto neanche l’onore di essere insultato come anarchico come succede al cadavere di Erdosain, nel romanzo Los lanzallamas (1931) di Roberto Arlt. Ma forse sulla storia e sulla fine di Di Giovanni hanno pesato anche alcune contingenze. Negli anni ’20, infatti, l’oligarchia argentina, preoccupata dalla presenza della piccola borghesia cresciuta anche grazie all’immigrazione, si avvicina ai militari con i quali cospira tanto da favorire il colpo di stato del generale Uriburu, lo stesso che poi farà fucilare Di Giovanni per dare alla società un forte segnale di ripristino dell’ordine avvalendosi di quella legislazione emanata due decenni prima per contrastare la presenza di anarchici e sovversivi nel paese. Inoltre su Severino pesa la bomba fatta esplodere al Consolato italiano, atto che aveva impedito al fascismo italiano (compreso quello presente in Argentina) di difendere l’anarchico in nome dell’italianità, come invece era accaduto con Sacco e Vanzetti, quando lo stesso Mussolini aveva presentato domanda di grazia per i due condannati a morte per fare sfoggio del senso di giustizia del regime.
In ogni caso, l’immagine di Severino come uomo del mistero ha continuato ad aleggiare nei decenni successivi alla sua morte, tanto che le notizie sul suo conto sono rimaste confuse, se non equivocate, sia in Italia, sia in Argentina. Si pensi, ad esempio, alla prima edizione italiana del già citato romanzo di Roberto Arlt Los lanzallamas (I lanciafiamme, 1974), quando nel capitolo “Gli anarchici”, in cui compare il personaggio di Severino Di Giovanni, una nota del traduttore ci informa che Severino “[s]orpreso dalla polizia nella sua tipografia clandestina, uccise molti poliziotti prima della cattura”, mentre sappiamo che il poliziotto ucciso fu soltanto uno. Ancora, in una edizione dello stesso romanzo curata da Gerardo Mario Goloboff, si legge sempre in nota al medesimo capitolo: “En 1931 la policía comunicó su muerte en un tiroteo, aunque se afirmó que el cadáver tenía un solo balazo en la nuca”.
Il nome di Severino è tornato, per così dire, alla ribalta quando nel 1999 América Scarfò ha chiesto e ottenuto la restituzione delle poesie e delle lettere d’amore a lei dirette, sequestrate dopo la cattura dell’anarchico e conservate nel Museo de la Policía Federal (testi che, peraltro, erano già stati pubblicati da Osvaldo Bayer). Ma a Severino non è stato concesso né di fare Storia, né di essere parte della Storia. È stato un ribelle, ma non ha avuto neanche il privilegio di entrare nel panteon dei rivoluzionari latinoamericani. Attraverso le pagine di Culmine ha cercato di essere un teorico, ma il suo essere un anarchico espropriatore lo ha relegato ai margini della delinquenza comune, un agente del disordine e del caos sociale. Intanto la leggenda è prevalsa sulla realtà.

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