PARTE SECONDA --- IO
L'INDIVIDUO PROPRIETARIO
Potrò io conquistar me stesso e ciò che è mio per opera del
liberalismo?
Chi è il "prossimo" pel liberalismo? L'uomo! Sii uomo (e
tu sei tale) e il liberale ti chiamerà fratello. Egli non si curerà affatto
delle tue opinioni personali, dei tuoi gusti o de' tuoi capricci privati purché
scorga in te l' uomo.
Ma poiché egli poco o nulla si cura di ciò che tu sei
privatamente, anzi se vuole essere coerente ai suoi principi non dà a questo
alcuna importanza, egli non vede se non quel che tu sei in astratto. Con altre
parole: egli non vede in te il tuo essere individuale, bensì la specie;
non Pietro o Paolo, ma unicamente l'uomo; non però l'uomo reale,
l'Unico, bensì l'essenza o il concetto dell'uomo; non l'individuo in carne ed
ossa, sì invece lo spettro-uomo. Se tu fossi semplicemente
Pietro, non saresti suo uguale, perchè egli e Paolo e non Pietro.
Quale uomo soltanto tu sei uguale a lui. E siccome
sotto forma di Pietro tu non esisti per lui — se davvero egli sia un liberale e
non già un egoista incosciente — cosi egli si è reso molto facile l' "amore
fraterno del prossimo" egli non ama in te Pietro, cui non conosce e non
vuole conoscere bensì l'uomo.
Lo scorgere in te ed in me null'altro che l'uomo, si
chiama esagerare sopra misura la teorica cristiana secondo la quale gli uomini
non rappresentano che un concetto (per esempio, il concetto di
esseri chiamati alla beatitudine eterna, ecc.).
Il Cristianesimo propriamente detto ci accomuna ancora sotto un
concetto universale: "Noi siamo i figli d'Iddio" e lo "spirito di Dio ci
agita" (Rom. 8, 14). Non tutti però possono vantarsi d'essere figli di
Dio, poiché lo stesso spirito che ci rende testimonianza che noi siamo i figli d'Iddio,
ci rivela anche quali siano i "figli del demonio" (Rom. 8, 14). Ora
un uomo, per esser figlio di Dio, non deve esser figlio anche del demonio: la
figliolanza di Dio esclude dunque certi determinati uomini. Per contro a noi,
per essere figli dell'uomo, cioè uomini, basta far parte della specie umana,
esser altrettanti esemplari d'una medesima specie.
Il mio io individuale non deve importare a te, che
sei buon liberale, poiché ciò è per me faccenda privata; ti basta che siamo
figli della stessa madre, cioè della specie umana; quale figlio dell'uomo
io sono uguale a te.
Che cosa sono io adunque per te? Forse l'essere in carne ed
ossa: che tu vedi? Tutt'altro.
Questo io vivente, con i suoi pensieri, le sue
risoluzioni e le sue passioni, rappresenta ai tuoi occhi una "cosa
particolare" della quale "te nulla importa, una "cosa a
sé". Quale "cosa per te" io non esisto che come concetto, —
concetto della specie, uomo, del quale è affatto indifferente se ha
nome Pietro o Paolo. Tu non vedi in me qualcosa che esiste in realtà, bensì
qualcosa d'irreale, uno spettro, in una parola: l'Uomo.
Nel corso dei secoli dell'êra cristiana noi proclamammo nostro
eguale le genti più diverse, però sempre in proporzione del grado di spirito
che da loro ci attendevano, accogliendo per esempio quelli il cui spirito
sentiva il bisogno d'una redenzione, poi tutti quelli che erano animati
dallo spirito di rettitudine, finalmente tutti coloro che avevano
spirito e faccia umani. Cosi variò il principio dell'
"eguaglianza".
L'eguaglianza, intesa quale parità degli spiriti umani,
comprende certo tutti gli uomini; chi infatti potrebbe negare che noi uomini possediamo uno spirito
umano, o meglio che non possediamo nessun altro spirito all'infuori dell'umano?
Ma con ciò abbiamo noi forse avanzato il Cristianesimo pur
d'un solo passo? Un tempo si esigeva da noi che avessimo uno spirito divino, ora
ci si richiede uno spirito umano; ma se il divino non giungeva ad
esprimere compiutamente la nostra essenza, come potrà lo spirito umano rivelare
tutto quello che noi siamo? Feurbach, per esempio, crede che,
umanizzando ciò ch'è divino, si sia trovato la verità. No, se Dio ci ha
torturati, l'uomo può bene infiggerci torture ancor maggiori. A
dirla in breve, il fatto d'esser uomini non è di alcuna rilevanza per noi se
anche non vi si aggiunga qualche carattere che ci distingua da tutti gli altri
e che in proprio ci appartenga.
Tra l'altro io sono anche uomo, allo stesso modo che sono anche un
essere vivente, un animale, o un europeo, un berlinese,
ecc. Ma se alcuno volesse tenermi in pregio soltanto perchè sono uomo o perchè
sono berlinese, egli mi dimostrerebbe una stima assai indifferente. E perchè? Perché
egli non stimerebbe che una sola delle mie qualità, ma non già la
mia individualità.
La stessa cosa è in rapporto allo spirito. Uno
spirito cristiano, retto, può, esser una proprietà da me acquisita, ma io non
sono quello spirito; quello spirito appartiene a me, non io a
lui.
Nel liberalismo noi vediamo adunque soltanto la continuazione del
disprezzo cristiano per l'io. Invece di prendermi tal quale io mi
sono, si pretende di considerar soltanto le mie qualità, (159) le mie
proprietà, e si conclude con me un'alleanza onesta; si cerca quello che io
posseggo, non già quello che io sono. Il cristiano si attiene al mio spirito,
il liberale alla mia umanità.
Ma se lo spirito, che vien riguardato non quale una proprietà
dell'io vivente, ma come l'io stesso propriamente detto,
è uno spettro, anche l'uomo del quale non si vuol riconoscere l'individualità
ma l'io astratto, non è altro che uno spettro, un'idea, un
concetto.
Perciò il liberale s'aggira entro la medesima cerchia in cui si
avvolge il cristiano, perchè lo spirito dell' umanesimo, vale a dire l'uomo,
alberga in te, come alberga in te lo spirito di Cristo.
Siccome esso è in te come un secondo io (quantunque
questo secondo io sia anche il migliore), esso per te resta
confinato in un di là, quale un' ideale, e tu devi aspirare ad essere
interamente l'uomo. Un intento altrettanto infruttuoso quanto
quello del cristiano di diventare interamente uno spirito beato!
Ora si può affermare che, proclamando l'uomo il
liberalismo altro non ha fatto che recare all'ultima conseguenza il principio
del Cristianesimo, il quale sin dalle sue origini non s'era proposto
altro fine se non quello di attuare il concetto del "vero uomo". Da
ciò proviene l'illusione che il cristianesimo assegni un valore
immenso all'io, come parrebbe rivelarsi dal dogma
dell'immortalità, dalla cura delle anime, ecc. No, tale valore il Cristianesimo
lo attribuisce all'uomo solamente. L'uomo solo è
immortale; io sono tale perchè uomo. Infatti il Cristianesimo doveva insegnare
che tutti sono uguali dinanzi a Dio come il liberalismo insegna che tutti sono uguali
dinanzi alla legge. Ma l'una e l'altra eguaglianza si riferiscono non all'individuo
sì all'uomo. Io sono immortale come uomo.
In uno stesso senso si dice che il re — come tale — non muore. Muore Luigi, ma
il re rimane. Del pari io muoio — ma il mio spirito, l'uomo, rimane.
E per identificarmi interamente coll'uomo si è trovato e affermato
il principio che io devo farmi conforme alla vera essenza della specie (p. es. Marx
negli Annali franco-germanici, pag. 197).
La religione "umana" non è che l'ultima
forma della religione cristiana. Il liberalismo è religione in quanto separa il
mio essere da me stesso e lo pone al disopra di me, perché innalza l'uomo
alla stessa guisa che le religioni innalzano i loro dei o idoli, perchè
di ciò ch'è mio egli fa qualcosa di trascendentale, e, in generale, perchè
delle mie qualità, della mia proprietà, egli fa una cosa straniera, un'essenza,
in breve perchè mi assegna un posto tra gli uomini e con ciò mi attribuisce una
predestinazione. Ma anche nella forma il liberalismo si manifesta quale
religione allorquando egli vuole che in codesto "ente supremo",
l'uomo, si abbia una credenza "religiosa" una credenza che a suo
tempo si chiarirà animata e pervasa di fanatico zelo. Uno zelo che sarà invincibile,
(Br. Bauer, La questione giudaica, pag. 61). Ma siccome il
liberalismo è religione umana, quegli che professa il liberalismo è tollerante
verso coloro che professano un'altra religione (la cattolica,
l'ebraica, ecc.), allo stesso modo che Federigo il Grande era
tollerante verso chiunque adempiva ai suoi doveri di suddito, lasciando poi
libero ognuno di acquistarsi la beatitudine eterna come meglio credesse. Questa
religione si vuole ormai innalzata al grado di religione universale,
separandola da tutte le altre che si considerano quali follie private,
ma che si tollerano per la loro inconcludenza.
Si può chiamarla la "religione dello Stato", la
religione dello Stato libero, non già nel senso, sin qui
accettato, ch'essa sia la religione preferita o privilegiata dello Stato, bensì
perchè essa è la religione che lo Stato libero è, non solo
autorizzato, ma bensì obbligato a pretendere rispettata e osservata da ognuno
dei suoi, sia poi questi privatamente ebreo o cristiano. Essa rende cioè gli stessi
servigi allo Stato che la pietà figliale rende alla famiglia. Perché
l'esistenza della famiglia possa esser riconosciuta da ogni singolo dei suoi
membri, è necessario che i vincoli del sangue gli sieno sacri e ch'egli nutra
un senso di pietà, di rispetto verso quei vincoli, si che ogni consanguineo
diventi per lui cosa sacra. E così pure ad ogni membro d'una comunità la
comunità stessa dev'esser sacra, e quel concetto che per lo Stato è il supremo
dev'esser il supremo anche per lui.
Ma quale concetto è il supremo per lo Stato? Certamente questo:
formare una comunità realmente umana, una società nella quale possa esser
accolto ognuno che sia veramente uomo, cioè che non sia inumano.
Per quanto grande possa esser la tolleranza di fronte al barbaro, di fronte al non-uomo
essa viene meno. Eppure se quel barbaro è un uomo, anche
l'inumano è tale. Si: ma quantunque l' inumano sia anch'esso un
uomo, lo Stato cionondimeno lo respinge: cioè lo chiude in un carcere; di
compagno dello Stato lo muta in compagno di prigione (o in compagno di
manicomio o d'ospedale secondo i principi del comunismo).
Dire che cosa sia all'incirca un essere antiumano non è difficile:
è un essere che non corrisponde all'idea dell'uomo. La logica
chiamerebbe questa sentenza un controsenso. Si può infatti
esprimere un giudizio sì fatto: che vi possa essere un uomo che non sia uomo,
se non si muove dall'ipotesi che il concetto dell'uomo possa esser separato
dalla sua esistenza, e la essenza di esso dal fenomeno? Si dice: questo è apparentemente
un uomo ma non è tale in realtà.
Questo "giudizio-controsenso" gli uomini l'hanno
espresso pel corso di molti secoli!
E — cosa singolare — in tutto quel corso di tempo non ebbero
esistenza che esseri antiumani. Quale singolo individuo avrebbe
corrisposto al concetto ideale? Il Cristianesimo riconosce un solo "uomo",
e quest'uno, Cristo, è, per converso, un anti-uomo, cioè un uomo
sovrumano, un Dio.
Veramente "uomo" sarebbe dunque solo il
non-uomo. Ma uomini che non sono uomini che altro sono se non fantasmi?
Ma se quest' umanità che fino ad ora era esclusivamente un ideale io la faccio
un attributo mio; se, in altri termini, io costringo l'uomo a non
rappresentare più che il mio modo di essere sì che ciò che io compio debba
dirsi umano non già perchè risponde alla nozione astratta dell'uomo,
ma perchè io — essere concreto e individuale — lo compio; potrà
dirsi ancora che io sia un non-uomo? Io sono realmente l'uomo e il non-uomo in
pari tempo; poiché io sono uomo e in pari tempo più che uomo; o,
in altre parole, io sono il soggetto di questa individualità che a me solo
appartiene.
Si doveva venire a tale da non pretendere da noi d'esser
cristiani, bensì d'esser "uomini".
Poiché se bene non c'era concesso di diventare veramente cristiani
sì che restavamo pur sempre "poveri peccatori" (essendo il cristiano
un ideale irraggiungibile), il controsenso non si rendeva tuttavia così
manifesto, e l'illusione era più facile di quello che sia ora, che da noi,
quantunque uomini che operiamo umanamente (ne in altro modo potremmo), si esige
che dobbiamo essere uomini secondo un'astratta significazione e un ideal tipo —
cioè uomini veri.
I nostri Stati odierni, tuttodì servi della religione, impongono
ancora vari obblighi (per esempio la pietà) che ad essi, a dir il vero, nulla
dovrebbero importare, ma, in complesso, non rinnegano il lor significato col
voler esser riguardati quali società umane delle quali ogni uomo,
come tale, può far parte anche quando goda di minori privilegi che non gli
altri. La maggior parte d'essi ammettono i seguaci di tutte le sètte religiose,
e tutte le accolgono senza distinzione di razza e di nazionalità: così, per un
esempio ebrei, tedeschi, mori possono diventare cittadini francesi.
Lo Stato adunque nell'accoglierli riguarda in essi l'uomo
unicamente. La Chiesa, essendo una società di credenti, non potrebbe accogliere
nel proprio seno ogni uomo; lo Stato, quale una società d' uomini, lo può.
Ma allorquando lo Stato avrà recato alle ultime conseguenze il suo
principio di non ammettere nei suoi membri se non la lor sola qualità di uomini
(oggi persino gli americani del Nord esigono dai cittadini che abbiano una
religione, per lo meno quella della rettitudine), egli si sarà scavato la
propria fossa. Mentre egli riterrà di possedere nei suoi null'altro che uomini,
questi nel frattempo saranno diventati altrettanti egoisti, ciascuno dei quali
sfrutterà lo Stato a seconda dei propri bisogni. L'egoista sarà la rovina della
società umana; poiché gli egoisti non avranno più tra di loro
rapporto di uomo ad uomo, bensì agiranno ciascuno per fini propri: individui
contro individui, ciascuno dei quali rappresenta per gli altri qualche cosa,
non pur di distinto, ma di opposto.
Tener conto della nostra umanità, significa per lo Stato tener
conto della nostra "moralità".
Vedere in sé stesso l' uomo ed operare umanamente nei reciproci
rapporti, si chiama aver una condotta morale. E una cosa che corrisponde
perfettamente all' "amore spirituale" del Cristianesimo. Se io vedo in te 1’uomo, come vedo l'uomo in me, io
avrò cura di te come l'avrei di me stesso, perchè noi non rappresentiamo altro
che l'assioma matematico A = C e B = C, quindi A = B. In altri termini: io
non rappresento che un uomo e tu del pari; dunque io e tu rappresentiamo la
medesima cosa. La moralità non si confà con l'egoismo, poiché essa non ammette
l'io bensì soltanto l'uomo ch'io rappresento. Ma se lo Stato è una
società d' uomini, e non un'associazione d'altrettanti esseri ognuno
dei quali non si cura che di sé stesso, è manifesto ch'esso non può esistere
senza la moralità e che deve tenerne conto.
Perciò noi due lo Stato ed io — siamo nemici. A me,
che rappresento l'egoismo, nulla importa del bene della "società
umana"; nulla io le sacrifico, ne d'altro mi curo che di adoperarla ai
miei fini; e per poterla meglio sfruttare io la faccio mia proprietà, mia
creatura; io la distruggo e metto al suo posto una società d'egoisti.
Così lo Stato mi si rivela nemico col pretendere, prima, da me che
io sia uomo (la qual cosa presuppone che io possa anche non esser tale e ch'esso
possi avermi in concetto di "inumano"), poi con l'impormi di nulla
fare di ciò che potrebbe metter in pericolo la sua esistenza, quasi che questa
mi debba essere sacra. Per lo Stato io non devo essere un egoista, bensì un
uomo di retto pensare, cioè un uomo morale. Col che egli viene in somma a
pretendere di ridurmi all'impotenza.
Uno Stato tale — non già quello tuttora esistente, bensì uno Stato
futuro, ancor da creare — è l'ideale del liberalismo progressista. Questo sogna
una "vera società umana", nella quale ogni uomo possa
trovare posto. Il liberalismo intende ad attuare il concetto dell'uomo, a
creare cioè un mondo, che sarebbe il mondo umano o la società
umana universale (comunista). Si disse: la Chiesa non poteva prendere in
considerazione che lo "spirito", ma lo Stato deve considerare l'uomo
tutto intero (HESS, Triarchia, pag. 76). Ma l'uomo non
è forse anche spirito? Il nucleo dello Stato è l'uomo,
concetto astratto, e lo Stato non è che una società d'uomini. Il
mondo creato dal credente (dallo spirito religioso) si chiama Chiesa, quello
creato dall'uomo (spirito umano) si chiama Stato. Ebbene, questo non è il mio
mondo. Io non opero mai umanamente "in astratto",
bensì a seconda delle mie qualità; le mie azioni differiscono
dalle azioni di qualsiasi altra persona, e appunto per questa differenza il mio
modo d'operare è cosa mia. La parte umana che v'ha in esso è come tale
un'astrazione, cioè spirito. Bruno Bauer (Questione ebrea, p. 87) conferma che la verità della critica è la verità ultima ricercata
dal Cristianesimo, cioè "l'uomo".
Egli dice: "La storia del mondo cristiano è la storia della
suprema lotta per la verità, poiché in essa — e soltanto in essa — si tratta
della conquista dell'ultima che è anche la prima verità: la conquista dell'uomo
e della libertà".
Ebbene, accettiamo questa conquista: e supponiamo pure che l'uomo
sia il risultato finale, lungamente ricercato dall'indagine cristiana e in genere dalle
aspirazioni religiose e ideali degli uomini. Sia: ma chi è l'uomo? Io sono
tale! L'uomo, fine e risultato del Cristianesimo,
è, quale individuo, il principio della storia moderna che non è già una storia
di uomini in astratto, ma di individui.
L'uomo — si oppone — rappresenta l'universale. Ebbene, se così è,
l'individuo e l'egoismo saranno il vero universale poiché tutti sono egoisti e non v'ha
alcuno che non debba posporre gli altri a se stesso. L'ebreo non è interamente
egoista, perchè egli si dà ancora a Jeova: il cristiano nemmeno
perchè egli vive della grazia divina ed è ad essa soggetto. Tanto l'ebreo
quanto il cristiano non soddisfano che a certi loro bisogni, non già a sé
stessi: ciascun di essi è egoista a mezzo, mezzo uomo e mezzo ebreo,
mezzo uomo e mezzo cristiano, mezzo padrone e mezzo schiavo. Per questo ebrei e
cristiani si escludono reciprocamente a metà, cioè s'affratellano quali uomini,
ma si escludono poi quali schiavi perchè entrambi sono schiavi di due padroni
diversi.
Se potessero essere egoisti perfetti essi si escluderebbero interamente.
Il male non è già nell'escludersi, ma nell'escludersi solo a metà. Per contro Bauer
pensa che ebrei e cristiani non possono considerarsi quali uomini se
non allorquando abbiano ripudiati i caratteri particolari che li distinguono e
riconosciuta quale lor propria l'essenza generale dell'uomo. A
suo modo di vedere l'errore degli ebrei e dei cristiani sta in ciò che essi
vogliono essere ed avere alcunché di proprio, anziché contentarsi d'esser
uomini e d'aspirare a cose umane, ad ottenere cioè i "diritti universali
dell'uomo". Egli ritiene che il loro errore fondamentale consista nella
credenza ch'essi sono "privilegiati", che possiedono delle
"prerogative"; in generale dunque nella loro credenza in un privilegio.
Ed egli oppone loro il diritto universale dell'uomo.
Il diritto dell'uomo!
L'uomo è l'uomo in genere e tale è ognuno in quanto
è uomo. Ora ognuno dovrebbe possedere gli eterni diritti dell'uomo e nella
perfetta società democratica o — come si dovrebbe chiamarla più
acconciamente — antropocratica, ne dovrebbe godere, secondo l'opinione
dei comunisti. Ma solo io ho tutto quello che so procurarmi; quale uomo non ho
nulla. Si vorrebbe che all'uomo convergessero tutte le cose buone, solamente
perché egli ha il nome di uomo. Ma io proclamerò me stesso il mio
io, non già l'ente uomo.
L'uomo per me non è che una mia qualità (o
proprietà) come l'esser maschio o femmina. Gli antichi ponevano l'ideale umano
nel dimostrarsi maschio in tutto il senso della parola; nella "virtus"
o areth vale a dire nella virilità. Che cosa si dovrebbe pensare di una
donna la quale non volesse essere perfettamente donna? Esser tale
non è possibile a tutte, e per molte di loro questa sarebbe una mèta
inarrivabile. "Femmina" ciascuna è invece già per sua
natura: la femminilità è la sua qualità, ed essa non ha bisogno di ricercare la
vera femminilità perchè già la possiede. Io sono uomo allo stesso
modo che l'astro è astro. Allo stesso modo che sarebbe ridevole il pretendere
dalla terra che essa fosse un "vero astro", altrettanto è vano il
ricercare da me ch'io sia un vero uomo.
Quando Fichte dice: l' "io è tutto"
parrebbe ch'egli affermasse cosa in armonia con la mia tesi.
Ma non già l'io è tutto, bensì l'io distrugge tutto
— soltanto l'io che dissolve sé stesso, l'io finito è il vero io.
Fichte parla dell' io assoluto, ma io parlo di me, dell'io
passeggero.
Facilmente potrebbe credersi che uomo ed io significhino
la stessa cosa: e pure si vede, per esempio in Feuerbach, che
l'espressione "uomo" designa l'io assoluto, la specie,
e non l'io singolo passeggero. Egoismo ed umanità dovrebbero significare la
stessa cosa: e pure a detta di Feuerbach il singolo (l'individuo)
non può innalzarsi che al disopra delle barriere, della sua individualità, non
al disopra delle leggi, delle disposizioni positive degli esseri della sua
specie (Essenza del cristianesimo, II, pag. 400). Ma la specie
non è nulla; e se il singolo si innalza al disopra delle barriere della sua
individualità, egli ciò fa quale singolo, egli esiste perchè si innalza, egli
esiste solo perchè non rimane fermo; altrimenti egli non sarebbe o sarebbe
morto.
L'uomo non è che un ideale; la specie non
è che un'immagine. Essere un uomo non vuol già dire raggiungere l'ideale dell'uomo,
bensì rappresentare sé stesso, un uomo, un singolo. Il mio compito
non deve già consistere nel ricercare in qual modo io rappresenti
l'universalmente umano, bensì come io sappia soddisfare a me
stesso. Io sono la mia specie: sono senza nome, senza leggi, senza modelli,
ecc.
Potrà accadere che di me stesso io riesca a fare ben poca cosa; ma
questo poco è tutto, e vale assai più di quello che potrebbesi ottenere da me
per la forza degli altri con la disciplina della morale, della religione, delle
leggi, dello Stato, ecc. Molto meglio — poiché siamo a parlare del meglio — un
fanciullo male educato, che non uno precocemente saggio; meglio un uomo che fa ogni
cosa di mala voglia, che non uno che si sobbarca a qualunque più vil carico di
buon grado.
Al male educato ed al caparbio è ancora aperta la via di poter
formare se stessi secondo la propria volontà, mentre il prematuramente saggio e
l'accomodevole son già predestinati ad esser foggiati secondo le esigenze della
" specie ". La specie non rappresenta forse per essi la
"destinazione" o la "vocazione" ? V'ha forse divario nella
sostanza in ciò che per raggiungere l'ideale io rivolga i pensieri
all'umanità o che li rivolga a Dio o a Cristo?
Tutto al più si potrà dire: quell'ideale è più incolore di questo. Come ogni
singolo rappresenta la natura tutta, così egli rappresenta anche tutta la specie.
Ciò che io sono determina indubbiamente tutto quello
che io faccio, penso, ecc.; in breve ogni manifestazione della mia persona.
L'ebreo, per esempio, non può volere che in tal modo o in tal'altro, non può
insomma rivelarsi che per quello che è; il cristiano non può manifestarsi che cristianamente.
Se ti fosse possibile di non esser nient'altro che ebreo o cristiano, tu
certamente non ti manifesteresti che giudaicamente o cristianamente; ma poiché
ciò non è possibile, così con tutto il tuo buon volere tu rimani un egoista,
cioè un peccatore in rapporto a quel tuo concetto.
Siccome l'egoismo fa capolino da per tutto, così si è ricercato un
concetto più perfetto, il quale potesse esprimere interamente tutto quello che
tu sei. E il più perfetto di tali concetti parve essere l' "uomo".
Quale ebreo tu sei troppo poco, e il giudaismo non è il tuo fine; l'essere greci
o tedeschi non basta: sii un uomo e tu avrai tutto;
poiché tu devi riporre nell'umano ogni tua cura.
Ormai io so quello che devo fare, e posso accingermi a comporre il
catechismo nuovo. Anche qui il soggetto è nuovamente sottomesso al predicato,
il singolo alla generalità; un'altra volta è assicurato il dominio di un'idea,
un'altra volta sono poste le basi di una nuova religione. Questo è
un progresso nel campo religioso, e specialmente nel campo cristiano, ma non un
passo di più oltre quel campo.
Un tale passo condurrebbe all'indicibile. Per l'io
il misero linguaggio non ha alcuna parola, e la parola, il
"logos", applicato all'io è semplicemente
un'espressione vana.
Si ricerca la mia essenza, e la si ritrova nell' uomo.
Io ripugno a me stesso; sento paura e schifo di me stesso; non
basto a me stesso; non faccio abbastanza per me stesso. Da tali sentimenti
scaturisce la dissoluzione dell'io, l'autocritica.
Incominciata con la rinnegazione dell'io, la
religiosità si chiude colla autocritica assoluta.
Io sono ossesso e voglio liberarmi dallo "spirito
maligno". In qual modo ci riuscirò? Io commetterò a cuor leggero il
peccato più tristo agli occhi d'un buon cristiano, il peccato contro lo spirito
santo. "Chi bestemmia contro lo spirito santo, non sarà perdonato in
eterno, e si renderà meritevole di dannazione senza fine". Io non domando
perdono e non temo il giudizio universale.
L'uomo è l'ultimo spirito maligno, l'ultimo tristo
fantasma, il più terribile degli ingannatori, il più astuto mentitore dal viso falsamente ingenuo, il padre della
menzogna.
Rivolgendosi contro le pretese ed i concetti del presente,
l'egoista traduce inesorabilmente in atto la più smisurata profanazione.
Nulla gli è sacro !
Sarebbe stolto affermare che non vi sia alcun potere superiore al
mio. Tuttavia la posizione che io assumerò di fronte a quel potere superiore
sarà ben differente da quella che si assumeva nelle età religiose. Io sarò l'avversario
d'ogni potere superiore, mentre la religione c'insegnava a cercar
d'amicarcelo con l'adulazione e con l'umiliazione.
Il profanatore adoprerà le sue forze contro ogni timor
di Dio, poiché il timor di Dio lo costringerebbe a venerare ogni cosa
tenuta per sacra. Che sia Dio o l'uomo che nell'uomo-Dio esercita il potere
sacro, che noi alla santità di Dio o a quella dell'uomo rivolgiamo i nostri omaggi,
ciò nulla importa all'essenza del timor di Dio: l'uomo divenuto essere
supremo sarà oggetto della stessa venerazione che il Dio: entrambi
ricercheranno da noi e ci imporranno timore e rispetto.
Il vero timore di Dio da lungo tempo è scosso: un ateismo più
o meno cosciente, riconoscibile per un diffuso anticlericalismo, è divenuto involontariamente
di moda. Però quello che fu tolto a Dio fu aggiunto all'uomo, e la potenza
dell' umanità s'accrebbe in proporzione di ciò che veniva a mancare alla
religione; " l'uomo " è il Dio dell'oggi e il timore dell'uomo è
sottentrato al timor di Dio.
Ma siccome l' uomo non rappresenta che un altro "ente
supremo", così ne consegue che l'ente supremo ha subito una semplice
modificazione e che il timore dell'uomo non è che il timor di Dio sotto mutata
forma.
I nostri atei sono gente pia.
Se nei cosiddetti tempi feudali noi riconoscevamo il possesso di
ogni cosa alla grazia divina, nel periodo liberale noi siamo vassalli dell'uomo.
Il padrone, il mediatore, lo spirito era Dio prima, ora è l'uomo.
Sotto questo triplice rapporto il vassallaggio è mutato. Poiché oggidì in primo
luogo noi abbiamo in feudo dall'uomo onnipotente la nostra potenza,
la quale, provenendo da un essere più elevato, non si chiama potenza o forza,
bensì "diritto"; abbiamo poi in feudo dall'uomo la nostra condizione
nel mondo, imperocché egli, il mediatore, è l'arbitro dei nostri rapporti,
i quali per conseguenza non possono essere che umani: infine teniamo da lui in
feudo noi stessi, cioè il nostro proprio valore, o quello che noi
siamo, nel mondo. Poiché nulla siamo, se esso, l'uomo,
non risiede in noi, e se noi non siamo " umani ". — La potenza è
dell'uomo, il mondo e dell'uomo, l'io e dell' uomo.
Ma non dipende forse da me il dichiarare me stesso quale mio
proprio signore, mio proprio mediatore, mio proprio dominatore? Dunque io dovrò
dire cosi:
La mia potenza è la mia proprietà.
La mia potenza mi concede la proprietà.
Io sono la mia potenza, per essa io sono proprietà di me stesso
Max Stirner
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