'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''
PARTE SECONDA --- IO
I MIEI RAPPORTI [ secondo frammento ]
E. Bauer sostiene esser ingiusto che il sovrano
acquisti i suoi diritti colla nascita in forza del caso.
Ma se il popolo diventa "la sola forza dominante" nello Stato, non
avremo noi anche in esso un padrone datoci dal caso? Che cosa è
il popolo? Il popolo è sempre stato soltanto il corpo del
governo. Il popolo si compone di molte persone raccolte sotto una sola
dominazione (governo del principe), o composte in una unica costituzione. E la
costituzione è in fin dei conti una dominazione pur essa. Principi e popoli
esisteranno sino a tanto che non cadranno insieme.
Se vari popoli trovansi riuniti in un'unica costituzione, essi
prendono nome di "province". Per me il popolo è nulla più che una
potenza accidentale, una forza elementare, un nemico del quale io devo riuscir
vittorioso.
Che cosa si deve intendere per un popolo organizzato?
(p. 132). Un popolo non più soggetto, che si governa da sé medesimo. Dunque un
popolo nel quale non emerge l'io, un popolo retto con l'ostracismo.
Il bando inflitto all'io, l'ostracismo, rende signore di sé il
popolo.
Se parlate di popoli siete costretti a parlare dei principi;
poiché il popolo, per poter fare della storia da sé, deve avere, come tutto ciò
che opera, una testa, un capo che lo guidi. Weitling ci
espone questo nel "Trio" e Proudhon ribadisce: "une
société pour ainsi dire acphale ne peut vivre".
La vox popoli oggidì ci viene sempre addotta come un
argomento di ragione: "l'opinione pubblica" deve predominare sui
principi. Certamente la vox popoli è anche la vox dei,
ma hanno poi l'una e l'altra qualche valore? E la vox principis non
è anche essa la vox dei?
Vogliamo accennare di passaggio ai nazionalisti.
Pretendere che i trentotto Stati germanici operino come se costituissero una nazione
sola è altrettanto assurdo quanto volere che trentotto sciami d'api,
guidati da trentotto regine, debbano riunirsi in un unico sciame. Api resteran
tutte, ma non già quali api esse sono unite sì per esser soggette alle
regine che hanno il dominio. Api e popoli non
possiedono una volontà; li guida l'istinto della propria regina.
Se si tentasse di far conoscere alle api, che esse sono api, si
farebbe quella medesima cosa che oggidì col pretendere di insegnare ai tedeschi
il loro germanesimo. L'esser germano ha con l'esser ape questo di comune: che
importa la necessità di scissioni e di separazioni senza fine, anche se non si
vogliono ammettere le ultime conseguenze che trarrebbero seco con la
separazione assoluta il dissolvimento stesso del germanesimo. La Germania si
divide, è vero, in vari popoli e rami, vale a dire "alveari", ma il
singolo, al quale solo è proprio l'esser tedesco, è altrettanto impotente
quanto un'ape solitaria. Eppure i singoli soltanto hanno potere di formare una
società, e tutte le alleanze e tutte le leghe dei popoli non sono per contro
che unioni artificiali e meccaniche, poiché le parti che si uniscono, cioè i popoli,
sono senza alcuna volontà. Soltanto con l'estrema separazione finisce
la divisione ed incomincia l'associazione.
Ora i nazionalisti s'affannano a costituire l'unità astratta,
senza vita, del regno delle api; ma gli individualisti lotteranno per l'unità
voluta da essi — per l'associazione. E comune a tutti i desideri reazionari l'intento di costituire qualche cosa di generale
e di astratto, un concetto vuoto, senza, vita, mentre gli
individui mirano a liberare la forte, la vivida originalità dall'
involucro di astrazione in cui è avvolta. I reazionari vorrebbero far sorgere
dalla terra un popolo, una nazione; gli individualisti non guardano che a sé
stessi. Nell'essenza le due aspirazioni che oggi prevalgono, cioè quella alla
ricostituzione delle franchigie provinciali, delle antiche divisioni per stirpi
(Franchi, Bavari, ecc.), e quella alla ricostituzione dell'unità
nazionale non sono l'una dall'altra diverse. Ma i tedeschi non saranno uniti se
non quando saranno riusciti a spogliarsi delle loro consuetudini di api, ed
avranno rovesciati tutti gli alveari; con altre parole — quando saranno qualche
cosa più che tedeschi. Soltanto allora potranno formare l'associazione dei tedeschi.
Non devono tendere a rientrare nella nazionalità — nel grembo materno — per rinascere,
bensì devono rientrare in sé stessi. Quanto sentimentalismo
ridicolo è nell'atto con cui un tedesco stringe a un suo connazionale la mano,
con un sacro brivido, perchè anche l'altro "è tedesco"! Quasi che
l'esser tedesco sia proprio qualcosa di particolare! Ma questa stessa commozione
prevarrà finché non riusciremo a spogliarci dei "sentimenti di
famiglia". Dal pregiudizio della "pietà" e della
"fraternità" (quali che siano i nomi che si vogliono dare a questi concetti
sentimentali), dallo spirito della famiglia insomma, i
nazionalisti che ambiscono a formare una grande famiglia tedesca non
sanno liberarsi.
Del resto se i cosiddetti nazionalisti sapessero comprendere bene
sé stessi, uscirebbero tosto dall'unione coi sentimentali pantedeschi.
Poiché la riunione per scopi ed interessi materiali, quale è quella che essi
richiedono dai tedeschi, non tende ad altro che alla libera associazione.
Carrière applaude entusiasticamente al cammino che
mena ad "una vita popolare di cui non si è ancora manifestata
l'eguale". Sta bene, sarà una vita non mai rivelatasi per l'innanzi
appunto perchè non è da vero "una vita popolare". E Carrière
contraddice a sé stesso quando aggiunge: (pag. 10): "Il vero
umanesimo non può esser meglio rappresentato che da un popolo che compie la sua
missione". Con ciò soltanto ci si presenta la popolarità. "La
nebulosa generalità" è posta più basso che non la figura chiusa in se
stessa. Appunto il popolo è quella "generalità nebulosa" e l'uomo è
soltanto una "figura chiusa in se stessa".
L'astrattezza di quello che si chiama "popolo, nazione" appare
evidente anche da ciò, che un popolo il quale voglia svolgere nel miglior modo
le proprie forze, è costretto ad innalzare sopra di se un regnante senza
volontà. Esso si trova nell'alternativa di esser soggetto al proprio
principe — il quale non cercherà di attuare che quello che a lui aggrada,
quale individuo — o di porre sul trono un sovrano senza volontà
propria, il quale potrebbe esser sostituito benissimo da una orologeria
ben congegnata. Perchè non occorre molta sagacia per comprendere che il popolo
è una potenza astratta, spirituale: è la legge. L' "io"
del popolo — ciò viene di conseguenze — è un fantasma, non già un
"io" reale. Io non sono io, se non in quanto creo me stesso; cioè in
quanto non vengo già creato da un altro, ma sono opera mia. Invece che cosa è
l' "io" popolo? Il caso è l'arbitro del popolo, il caso
gli concede quel tale padrone o quell'altro. Il dominatore ch'egli accetta od
elegge non può dirsi il prodotto suo, a quel modo che io posso dirmi il
prodotto di me stesso. Pensa un po' che alcuno volesse darti a intendere che tu
non sei il tuo io, bensì Pietro o Paolo. La stessa cosa avviene pel popolo, e
con ragione poiché il popolo possiede tanto poco un proprio "io"
quanto lo posseggono gli astri presi tutti insieme, quantunque si muovano
intorno ad un centro comune.
È significativa l'espressione di Bailly sul servilismo da cui
tutti sono animati verso il popolo e verso il principe : "La mia, propria
ragione non conta più nulla, quando la ragione universale s'è dichiarata. La
mia prima legge fu la volontà della nazione quando la nazione si compose, io
non riconobbi altro all'infuori della sua volontà sovrana". Egli rinuncia
alla ragione propria eppure, nel suo concetto, è questa ragione che sa tutto.
Non diversa è l'affermazione, declamatoria del Mirabeau:
"Nessuna potenza al mondo ha il diritto di dire ai
rappresentanti della nazione: io voglio!"
Come già al tempo degli antichi greci, si vorrebbe anche oggi
ridurre l'uomo ad un zoon politicon, ad un animale politico. Per
un non diverso errore egli fu tenuto gran tempo in conto di "cittadino del
cielo". Ma il cittadino politico fu consacrato insieme col suo stato,
il cittadino celeste insieme col suo cielo.
Noi vogliamo perire insieme col popolo, non vogliamo
essere esclusivamente uomini politici.
"La felicità del popolo" è il fine supremo della
rivoluzione in poi, e mentre si mira a render felice il popolo, a farlo grande,
potente, ecc. si rende in realtà infelice l'individuo, il singolo! La felicità del
popolo è la "mia infelicità".
Quanto siano sciocche le chiacchiere, le frasi vuote di senso dei
liberali politici, si può vedere dall'opera del Neuwerk.
"Sulla partecipazione al governo dello Stato". In quel libro si
biasimano gli indifferenti e gli apatici, che non sono cittadini dello Stato
nel vero senso della parola, e l'autore fa intendere che non si può esser
uomini degni di questo nome se non si prende viva parte alle cose dello Stato.
In ciò egli è logico, poiché, ammesso che lo Stato sia tutore di tutto ciò che
è "umano", noi non possiamo aver in noi nulla di umano se non
prendiamo parte alle cose dello Stato.
Ma che prova cotesto contro l'egoista? Nulla poiché l'egoista
considera sé stesso quale unico tutore dell'essenza umana e si contenta a dire
allo Stato: Fatti in là perchè mi nascondi il sole.
Solo quando lo Stato entra in rapporti o in conflitto con la
proprietà individuale, l'egoista prende un interesse diritto alle cose dello
Stato. Se il dotto, solito a studiare tra le quattro pareti della sua stanza,
non si sente oppresso dalle condizioni che impone ai cittadini lo Stato, dovrà
egli occuparsi della cosa pubblica perchè "tale è il suo dovere"?
Fino a tanto che lo Stato agisce in modo da non turbare i suoi interessi, che
bisogno ha il dotto di levar gli occhi dai suoi libri? Lo facciano coloro che
vogliono mutare quelle condizioni in modo più conforme ai loro bisogni. Il sacrosanto
dovere non potrà mai costringere la gente a riflettere sulle condizioni dello
Stato, come non la può costringere a dedicarsi alle scienze, o alle arti.
L'egoismo soltanto può spingerli a far ciò, e lo farà, non appena
le condizioni accennino a peggiorare. Se dimostrerete agli uomini che l'utile loro richiede
ch'essi si occupino delle condizioni dello Stato, voi non avrete bisogno di
stimolarli per molto tempo; ma se fate appello al loro amor di patria, ecc.,
voi dovrete predicare lungamente e invano a sordi che non vogliono udire.
Certamente dunque nel senso che voi desiderate gli egoisti non parteciperanno
mai alle cose dello Stato.
Una frase schiettamente liberale la troviamo nel Neuwerk a
pag. 16: "L'uomo adempie interamente alla sua vocazione solo quando ha
coscienza d'esser parte dell' umanità, e come tale spiega l'attività sua. Il
singolo non può attuare l'idea dell'umanesimo senza richiamarsi
alla umanità tutta intera, e trarre da essa la forza, come Anteo dalla
terra".
Alla stessa pagina si legge: "I rapporti dell' uomo colla res
publica sono dalla teologia abbassati al grado d'una faccenda privata e
per ciò disconosciuti ". Come se l'opinione politica agisse diversamente
verso la religione! Per essa la religione non diventa forse una questione privata?
Se invece di parlar alla gente di "sacri doveri", di
"destinazione dell'uomo", di "vocazione a svolgere interamente l'umana essenza" le si facesse capire
che essa risente un danno col lasciar che le cose dello Stato vadan così come
vanno, si raggiungerebbe lo scopo desiderato senza tanto sciupìo di vuote
frasi, A questo si deve venire quando il momento è decisivo. Invece
l'avversatore dei teologhi scrive: "Se mai ci fu un tempo in cui lo stato
deve far appello a tutti i suoi, si è il nostro. L'uomo
pensatore scorge nella partecipazione teorica e pratica alla cosa pubblica un dovere
uno dei più sacri doveri che gli incombano" e prende poi a
considerare più da presso la "necessità incondizionata che ciascuno abbia
parte alle faccende dello Stato".
Politico è e sarà eternamente colui che porta lo Stato nel
cervello o nel cuore, l'ossesso dello Stato, il credente nello Stato.
Lo Stato — si dice — è il mezzo più "necessario per il
perfezionamento dell' umanità". Certo esso fu tale sino a tanto che la
perfezione da noi ricercata rimase quella della società, ma se della nostra
invece, della nostra unicamente, ci curiamo, lo Stato non potrà esserci che
d'ostacolo. Si può anche ora riformare e migliorare lo Stato ed il popolo?
Tanto poco quanto si può migliorare la nobiltà, il clero, la Chiesa, ecc.
Possiamo eliminarli, distruggerli, abolirli, non mai riformarli Posso io forse
mercé le riforme render sensata una cosa che non sia tale? Meglio dunque distruggerla
senz'altro.
Si tratta quind'innanzi non più dello Stato (della sua
costituzione, ecc.) bensì di me stesso.
Con ciò svaniscono tutte le questioni intorno ai poteri del
principe, alla costituzione, e ad altre cose si fatte. Esse dileguano nel
nulla. Io, che rappresento questo nulla, farò uscire da me quelle che sono le
mie creazioni.
* * *
Al capitolo della società si ricollega anche l'argomento del
"partito" che di recente fu esaltato.
Nello Stato ha solo valore il partito. Ma il singolo
è l'unico, e come tale non appartiene ad alcun partito. Egli si associa liberamente, e volontariamente esce
dall'associazione. Il partito non è altro che uno Stato nello Stato, nel quale
si esige che regni la "concordia" come nell'altro.
Tant'è che appunto coloro i quali gridano più forte che nello
Stato debba esistere un'opposizione combattono ogni discordia nel
partito. Ciò prova come anche essi non vogliono che uno Stato solo. Soltanto il
concetto del singolo può distruggere tutti i partiti.
Nessuna ammonizione suona oggi più frequente di questa: che
conviene restar fedeli al proprio partito. Nessuno più del rinnegato è oggetto
di disprezzo per parte degli uomini di partito. Bisogna seguire in tutti i modi
il proprio partito e riconoscere e propagare incondizionatamente le sue idee
fondamentali. Nel partito si sta ad ogni modo meglio che nelle società chiuse,
perchè in queste i singoli sono vincolati da determinate leggi, dagli statuti,
ecc. (p. es. gli ordini religiosi, la Compagnia di Gesù). Ma il
partito cessa d'essere una libera associazione nel momento in cui rende obbligatori
certi principî e tende ad assicurarli contro gli assalti di terzi; e
pure quel momento è appunto l'atto suo di nascita. Come tale esso è già un'associazione
morta, una idea divenuta fissa. Il partito dell'assolutismo non può tollerare,
ad esempio, che i suoi membri dubitino della verità inconfutabile di quel
principio; potrebbero dubitarne se fossero tanto egoisti da voler essere
qualche cosa anche fuori del proprio partito, vale a dire
"imparziali". E "imparziali" non possono essere quali
uomini di parte, bensì solamente quali egoisti. Se tu sei protestante ed
appartieni a questa setta, tu non puoi che giustificare, e tutt'al più
riformare il protestantismo, ma non già ripudiarlo; se tu sei cristiano non ti
è possibile abbandonare o respingere i principi del Cristianesimo, se non
allora quando il tuo interesse proprio ti faccia giudice imparziale della
dottrina comune. Quanti sforzi non hanno fatto i cristiani venendo giù sino
all'Hegel ed ai comunisti, per render forte il loro partito? E
oggi ancora essi persistono ad affermare che il Cristianesimo contiene la
verità eterna, e che tutto sta nel sapervela trovare, determinare e
giustificare.
In breve, il partito non ammette imparzialità. Ma che importa a me
del partito! Troverò all'infuori di esso molti che si uniranno a me, senza
obbligarmi a giurare in una comune fede.
Chi passa da un partito all'altro vien chiamato
"apostata". Certamente la morale esige che si resti
fedeli alla propria parte: abbandonarla per un'altra significa macchiarsi d'infedeltà;
ma l'individualità non conosce obblighi di fedeltà; essa ammette tutto, anche
l'apostasia. Senza avvedersene, gli stessi moralisti si lasciano guidare da
questo principio quando si tratta di giudicare alcuno che possa nel loro
partito, e cercare anche di far proseliti; ma essi dovrebbero avvertire in pari
tempo con cosciente chiarezza che è necessario operare immoralmente,
affermare di fronte alla collettività la propria natura, vale a dire, in questo
caso concreto, che è necessario rompere la giurata fedeltà per affermar sé
stessi anziché lasciarsi determinare da considerazioni morali. Agli occhi delle
persone strettamente morali un apostata è sempre una natura equivoca, indegna
della lor fiducia, poiché porta impresso il marchio incancellabile dell'infedeltà,
cioè d'una immoralità. Presso il popolo quest'opinione è pressoché generale; i
più illuminati, anche in questo caso come in tanti altri, divengono preda della
incertezza e della confusione, e il contrasto, necessariamente fondato sul
principio della moralità, per la confusione dei concetti non riesce a
manifestarsi chiaramente nella loro coscienza. Chiamare senz'altro immorale
l'apostata non osano, poiché essi stessi cercano d'indurre altri all'apostasia,
al passaggio cioè alla lor religione, e d'altra parte non hanno il coraggio di
sacrificare il concetto convenzionale della moralità. Eppure dovrebbero
afferrare quest'occasione per uscir dal campo della morale comune; forse che i
singoli formano un partito? Come potrebbero a questo patto essere singoli ed
unici?
Dunque dovremmo tenerci lontani da ogni partito? Certo, poi che
questo non mi può giovare se non fino a tanto ch'io proseguo interessi ad esso
comuni. Se l'utile mio sia col suo in contrasto, m'è forza divenirgli infedele.
Il partito non ha dunque nulla d'obbligatorio per me e non può pretendere
al mio rispetto; anzi se non fa più per me, io lo avverserò.
In ogni partito che voglia esser duraturo, i singoli sono
dipendenti e schiavi; l'individualità loro di tanto è sacrificata di quanto
s'accrescono le esigenze dell'associazione. L'indipendenza del partito ha per
condizione la dipendenza dei singoli.
Un partito, quale che esso sia, ha bisogno d'una professione
di fede. Poiché nel principio del partito si ha obbligo di credere,
quel principio non può esser per chi v'appartiene argomento di dubbio, ma deve
per ciascuno rappresentare ciò che v'ha di più certo. Ciò significa che bisogna
darsi al partito corpo ed anima, altrimenti non si è veramente uomo di parte,
ma un egoista, in un maggiore o in un minor grado.
Se tu metti in dubbio un dogma cristiano, tu già non sei più un
vero cristiano, poiché sei stato tanto "insolente" da voler prender
in esame quel dogma e da giudicarlo dinanzi al tribunale del tuo egoismo.
Tu hai peccato contro il Cristianesimo. Ma fortunato te se non ti
lasci impaurire: la tua insolenza ti aiuta a conquistare la tua individualità.
* * *
Sicché un egoista non dovrebbe mai appartenere ad alcun partito?
Si; ma egli non deve lasciarsene legare. Il partito dev'esser per lui
semplicemente un mezzo del quale si serve finché gli giova.
Il miglior Stato sarà evidentemente quello che possiede i
cittadini più ligi; quanto più va perdendosi il sentimento di soggezione alla legalità,
tanto più lo Stato, questo sistema fondato sulla morale, sarà diminuito
nell'esser suo. Insieme coi "buoni cittadini" anche lo Stato perisce
e si dissolve nell'anarchia. Il rispetto alla legge è il cemento che tiene
unita la compagine dello Stato. La legge è sacra e chi le
contravviene è un malfattore. Senza delitti non c'è Stato: il mondo
morale — e tale è lo Stato — pullula di furfanti, d'imbroglioni, di ladri ecc.
E siccome lo Stato rappresenta il "dominio della legge", così
l'egoista in tutti i casi nei quali il suo interesse sarà diverso da quello
dello stato non potrà soddisfarlo che col delitto.
Lo Stato non può rinunziare al principio che le sue leggi e
le sue istituzioni devono esser tenute in conto di sacre. Perciò
il singolo viene da esso considerato quale cosa non sacra (barbaro? uomo di natura egoista), come in altri tempi fu
considerato dalla Chiesa. Così per esempio, si decreta una legge contro il
duello. Due persone che si sono accordate tra loro di voler esporre la propria
vita per una causa, quantunque essa sia, non devono poterlo fare, perchè lo Stato
non lo permette, anzi colpisce con una pena i contravventori. Qual conto è
fatto della libertà di disporre della propria vita? Le cose stanno
diversamente, quando, come avviene nell'America del Nord, la società ha
convenuto di far provare ai duellanti talune dannose conseguenze della
loro azione, negando loro, ad esempio, la stima di cui avevano goduto sino allora.
Negare la stima è un diritto di ciascuno, e se una società ciò fa verso una
determinata persona, questa non può lagnarsi che la sua libertà personale sia
stata in alcun modo menomata.
La società fa valere il suo diritto e niente di più. Questa non è
una pena, non è un'espiazione per un "delitto". Il
duello in tal caso non è un crimine ma semplicemente un atto contro il quale la
società prende certe misure repressive. Invece lo Stato colpisce il duello col
marchio del delitto, cioè di una violazione delle sue sacre leggi: ne fa un caso
criminale. Se la società americana lascia al libero arbitrio di
ciascuno il sopportare le conseguenze dannose derivanti dal suo modo di agire,
riconoscendo con ciò la libertà delle sue risoluzioni, lo Stato fa precisamente
l'opposto, poiché nega al singolo ogni diritto di liberamente determinarsi, e
attribuisce tale diritto unicamente a sé stesso, sicché chiunque contravvenga
alle leggi sue è tenuto nello stesso conto di chi contravvenga ai precetti
divini; opinione che fu tenuta un dì anche dalla Chiesa. Dio è il santo per sé
stesso, e i comandamenti della Chiesa e dello Stato sono ordini di quel santo
che li trasmette al mondo col mezzo dei suoi sacerdoti e dei suoi principi per
grazia di Dio. Se la
Chiesa aveva i peccati mortali, lo Stato ha i suoi delitti
capitali; se quella aveva gli eretici, lo Stato ha i rei
d'alto tradimento; se quella ha le pene della Chiesa,
questo ha le pene criminali; se quella i processi inquisitoriali
questo i processi fiscali; in breve quella ha i peccatori e questo i malfattori,
e l'inquisizione è da una parte come dall'altra. La santità dello Stato non
cadrà essa al pari di quella della Chiesa? Il terrore delle sue leggi, la
venerazione della sua sovranità, l'umiltà dei suoi "soggetti"
dovranno prevalere in eterno? Il viso del santo non verrà mai deturpato?
Quale stoltezza il pretendere che la forza dello Stato sostenga
una lotta leale contro ogni singolo, distribuendo — come si domanda per la
libertà di stampa — equamente il sole e il vento. Se lo Stato, questa idea, deve essere una forza che si fa
valere, è necessario che tal forza sia superiore a quella del singolo. Lo Stato
è sacro e non può esporsi agli "impudenti assalti" dei singoli.
Se lo Stato è sacro, la censura è necessaria. I liberali ammettono la prima
parte di quest'assioma e negano la seconda. Ma in tutti i casi attribuiscono
allo Stato il diritto di misure repressive poiché convengono anch'essi che lo
Stato è da più del singolo individuo e che a ragione per ciò esso
esercita la sua vendetta, cui dan nome di punizione.
La punizione non ha un significato se non quando
deve servire d'espiazione per la violazione di qualche cosa sacra.
Se alcuno ha per sacra una cosa, giusto è che egli sia punito allorquando la profana.
Uomo religioso è appunto colui che rispetta la vita umana perchè essa gli è
sacra.
Weitling imputa ai delitti la colpa del
"disordine sociale" e spera che con le istituzioni comunistiche essi
saranno tolti di mezzo perchè mancherà la tentazione a commetterli: il denaro, tra
altro. Ma poiché anche la sua società organizzata è sacrosanta e inviolabile,
egli sbaglia nel conto, non ostante tutta la sua buona volontà. Non farebbero
certamente difetto coloro che professandosi con le labbra per zelatori dalla
società comunistica, lavorassero di sottomano alla rovina di essa. Malgrado
tutto Weitling deve limitarsi ai "rimedi" contro il
resto delle malattie e debolezze naturali e la parola "rimedi" rivela
sempre che egli considera i singoli come chiamati ad una
determinata salute, e che fa conto di trattarli in conformità di
tale "vocazione umana". Il "rimedio" non è che il rovescio
della medaglia: la teoria dei rimedi salutari corre
parallelamente a quella delle pene; se questa intravede in un
atto un peccato contro la legge, quella vi scorge un peccato dell'uomo contro se
stesso e per ciò quasi un principio di malattia. Ma la verità è che io considero
una cosa nel rispetto che meglio mi è a grado come una mia proprietà che io
posso conservare o spezzare a mio piacere. Tanto il "delitto" quanto
la "malattia" non sono concetti egoistici d'una cosa,
sono giudizi che procedono non da me ma da altra persona.
Se non che, col "delitto" si è inesorabili, con la
"malattia" si abbonda invece di pietà e di compatimento.
Al delitto tiene dietro il castigo. Se il delitto, col dileguarsi
del concetto del "sacro", scomparisce, è giusto che scompaia anche la
punizione; poiché anche essa non ha valore che in quanto ha rapporto con la
cosa "sacra". Si sono abolite le punizioni ecclesiastiche. Perchè?
Perché ognuno è padrone di condursi come meglio crede verso il
buon Dio. Ma allo stesso modo che sono scomparse quelle punizioni della
chiesa devono pur sparire tutte le punizioni. Allo stesso
modo che il peccato contro Dio è faccenda privata d'ogni singolo, cosi faccende
private devono essere tutte le altre contravvenzioni contro le cose
"sacre". Secondo le nostre teorie di diritto criminale, che invano ci
arrovelliamo a riformare a norma delle "esigenze moderne", si vorrebbero
punire gli uomini per questa o per quella "inumanità"
commessa, e si rende invece più manifesta la puerile illogicità di tali sforzi
coll'impiccare i ladri piccoli e lasciar correre i grandi. Per le violazioni
della proprietà si hanno le case di pena, e per la "costrizione del pensiero",
— per l'oppressione dei "diritti naturali umani" non si hanno che gli
argomenti logici e le preghiere.
Il codice penale non sussiste che in virtù del concetto religioso,
e si dissolve da sé, con l'abolizione delle pene. Da per tutto si vuol creare
un nuovo Codice penale, senza tuttavia riguardi circa le pene da infliggere. Ora ciò che appunto importa
è che la pena ceda il posto alla soddisfazione non già della legge e
della giustizia ma di noi stessi. Se alcuno farà a noi cosa che non
tolleriamo ci sia fatta, noi spezzeremo la sua forza, e faremo
valere la nostra: noi soddisfaremo su di lui noi stessi e non
commetteremo la sciocchezza di voler soddisfare la legge (un fantasma). Non è
già il "sacro" che debba difendersi dell'uomo, bensì l'uomo
dall'uomo. Cosi ora Dio più non si difende dall' uomo, mentre in altri tempi e
in qualche parte anche oggi, tutti "i servi di Dio si univano a punire il
sacrilegio", proprio come ai di nostri si collegano per punire chi viola
una cosa "sacra". Tale devozione alla cosa sacra fa si che senza
farci un giudizio proprio, noi diamo i delinquenti in mano alla polizia ed ai
tribunali: e poniamo un'apatica fiducia nell'autorità, che sola è in condizione
di tutelare ciò ch'è "sacro". Il popolo poi ha un cotal pazzo uso di
chiamare in aiuto la polizia a proposito d'ogni cosa che gli sembri immorale, o
anche semplicemente indecente, e questa mania protegge la polizia meglio che
non la potrebbe proteggere qualsiasi governo.
Sin qui l'egoista si è affermato col delitto, ridendosi di tutto ciò
che è tenuto sacro. Perchè non lo dovremo tutti imitare? Se oggi una
rivoluzione non è più possibile, potremo aver di meglio.
Un delitto collettivo, oltrepossente, impetuoso, irrefrenato, si
annuncia col rumore d'un tuono lontano. Non vedi tu come il cielo si fa cupo
per un presagio silenzio?
Colui che si rifiuta di odoperarsi a vantaggio di società così
ristrette come la famiglia, il partito, la nazione, desidera nondimeno sempre
una società più degna e più vasta, e crede di aver trovato nella "società
umana" o nell' "umanità" il vero oggetto del suo amore, e
considera come un onore il sacrificarsi ad essa; da quel momento egli non vive
che per l'umanità.
Popolo si chiama il corpo, Stato lo
spirito di quella persona dominante che per tanti anni m'ha oppresso. Si cercò gran tempo di trasfigurare i popoli e gli
Stati con l'innalzarsi al grado di "umanità" e col nobilitarli nel
nome della "ragione universale". Ma in forza di quest'esaltazione la
schiavitù divenne ancor più trista, e i filantropi e gli umanisti si chiarirono
padroni assoluti al pari dei politici e dei diplomatici.
Alcuni critici moderni gridano contro la religione, perché essa
pone — dicono — Dio, la divinità, la moralità ecc., fuori dell'uomo,
mentre essi li vorrebbero riporre nell'uomo. Ma essi pure ricadono nel vero
errore della religione, di voler cioè imporre una destinazione all'uomo, poiché
anch'essi esigono dall'uomo che sia divino, umano, ecc., pretendono che la
moralità, la libertà, la umanità ecc. formino la sua essenza. E come già la
religione, cosi ora anche la politica vuole "educare" l'uomo,
guidarlo verso la attuazione del suo vero "essere", dei suoi
"destini", fare insomma di lui un "vero
uomo": se non più nella forma "d'un vero credente", in quella almeno
del "buon cittadino o del buon suddito". La cosa non muta: il divino
e l'umano devono essere la destinazione dell'uomo.
Per virtù della religione e della politica l'uomo si trova sempre
sul punto del dover fare e del dover essere. Con
questo postulato egli si presenta non soltanto innanzi al suo prossimo, ma pure
innanzi a se stesso. I critici poc’anzi accennati dicono: Tu devi essere un
uomo, genuino, un uomo libero. E così essi pure stanno per cedere alla
tentazione di proclamare una nuova religione, un nuovo assoluto,
un nuovo ideale: la libertà. Gli uomini devono esser liberi. In tal caso
vedremo sorgere i missionari della libertà allo stesso modo
Cristianesimo — mosso dalla persuasione che tutti non avessero altra
destinazione da quella in fuori di diventar cristiani — sorsero i
missionari della fede. E così la libertà si costituirebbe, come finora la fede,
in "comunità", e ordinerebbe una propaganda consimile. E ben vero che
non si può sollevare alcuna obbiezione contro un'unione per fini comuni. Ma
bisogna opporsi con tutte le forze all'intendimento, al principio di voler fare
degli uomini qualche cosa; cristiani o maomettani, sudditi o
liberi cittadini.
Si può affermare bensì con Feuerbach e con altri che
la religione abbia strappato all'uomo ciò che è umano, per collocarlo a una
grande distanza da lui, in un di là, dove l'inaccessibile poté condurre
un'esistenza propria, personale, sotto il nome di Dio; ma con ciò l'errore
della religione non è ancora finito. Mutate Dio nel "divino" e la
religione continuerà ancora. Poiché il concetto religioso muove dal fastidio
che si prova per l' "uomo" qual'egli è; e così dal desiderio di contrapporgli
una "perfezione" da raggiungere, prestando alla fantasia l'immagine
di un "uomo che lotta per la sua perfezione". (Epperciò voi dovete
esser perfetti, come il vostro padre nei cieli, Matt., V. 481). Esso
consiste insomma nel foggiare un ideale, una cosa assoluta. La
perfezione è il "supremo bene", il finis bonorum;
l'ideale di tutti è l'uomo perfetto, il vero uomo, l'uomo libero, ecc.
Le aspirazioni dell'età moderna tendono a comporre l'ideale dell'
"uomo libero". Se si potesse trovarlo — ne risulterebbe una nuova
religione, poiché un nuovo ideale darebbe vita a nuovi desideri, a nuovi
affanni, a nuove devozioni, a nuove divinità, a nuove costrizioni.
L'ideale della "libertà assoluta" ci trae in inganno
come ogni assoluto. Secondo l'Hess quella libertà
deve attuarsi nella società umana assoluta; poco dopo essa è chiamata
destinazione; in fine viene trasformata in moralità: bisogna iniziare il regno
della giustizia (eguaglianza) e della moralità (libertà) ecc.
Certo è ridicolo colui che mena vanto delle lodi ottenute dalla
sua stirpe, dalla sua nazione, dalla sua famiglia; ma non è forse accecato del
pari colui che pretende di attuare in sé "l'uomo"?
Poiché né l'uno né l'altro ripongono il lor valore nella propria individualità,
sì invece nella comunanza o nel vincolo che li lega agli altri: nei vincoli
famigliari, nazionali, umani. In grazia degli odierni nazionalisti è
risorto il litigio tra coloro che si vantano del lor sangue puramente umano e
de' lor legami puramente umani e gli altri che si gloriano della lor stirpe
speciale e dei lor portentosi legami.
Concediamo pure all'orgoglio il nome di coscienza nazionale;
esiste nondimeno un immenso divario fra l'orgoglio di appartenere ad
una nazione e quello di possedere una propria nazionalità. La nazionalità è il
mio possesso, ma la nazione è quella che mi possiede, è la mia padrona. Se tu
disponi di muscoli robusti, tu potrai far valere all'occasione la tua forza ed
andarne orgoglioso; ma se invece il tuo corpo robusto possiede te, quella forza
si manifesterà anche nei momenti più inopportuni, e tu non potrai, per un
esempio, stringer la mano ad alcuno senza fargli male.
La coscienza d'esser da più che un semplice membro
della famiglia, della stirpe, della nazione, ci ha condotto finalmente a dire:
siamo da più di tutto ciò, perchè siamo uomini, oppure: l'esser uomo
vale più che non l'esser ebreo, tedesco, ecc. Ciascuno dunque sia solamente e
veramente uomo! Non si poteva dire piuttosto: Se l'essere nostro significa
qualche cosa che oltrepassa i nomi che gli usan dare, noi vogliamo essere da
più che uomini per la stessa ragione per cui voi volete essere da più che
tedeschi od ebrei? I nazionali hanno ragione; non si può rinunziare alla propria
nazionalità; e gli umanisti hanno ragione del pari: bisogna emanciparsi dagli
angusti concetti dei nazionalisti. Nella individualità il contrasto si risolve.
La nazionalità è una mia proprietà. Ma la nazionalità non comprende tutto il
mio essere. Cosi anche l'umanità è una mia proprietà, ma soltanto l'individualità
mia può far di me un uomo.
La storia va in cerca dell'uomo: ma l'uomo sono io,
sei tu, siamo noi. Dopo averlo cercato quale un essere misterioso — quale un essere divino, quale un Dio,
poi quale uomo — io lo trovo al fine quale singolo finito —
quale unico.
Io sono il possessore dell'umanità, io sono l'umanità e
nulla faccio pel benessere d'un'altra umanità. Quanto sei stolto, tu, che essendo per te stesso
un'umanità unica, ti affanni a vivere per un'umanità diversa dalla tua!
I rapporti, sin qui considerati, che corrono tra me e
il mondo degli uomini, presentano una tale ricchezza di fatti da
non potersene trattare che di proposito e a parte; ma qui devo
interrompermi per discorrerne sotto due altri aspetti. Con gli
uomini io non ho rapporto soltanto in quanto rappresentano in sé il concetto
"uomo" e in quanto sono figli dell'uomo (dico figli dell'uomo,
nel senso stesso in cui si parla dei figli di Dio), ma anche per ciò che essi
posseggono di proprio quali uomini. Dunque bisognerà far entrare nel campo
della nostra discussione, oltre al mondo degli uomini, anche il mondo dei sensi
e delle idee, e dir qualche cosa a proposito dei beni, sì materiali si
spirituali di proprietà umana.
Man mano che si svolse il concetto dell'uomo e che gli si poté
dare una forma concreta, lo si fece conoscere a noi quale un ente che esige rispetto
per molte ragioni; e dalla più lata compressione di questo pensiero uscì finalmente il precetto:
"rispetto l'uomo in ciascuno". Ma se io rispetto l'uomo, il mio
rispetto deve estendersi a ciò che è umano e a ciò che è pertinente all'uomo.
Nessun commento:
Posta un commento