L'unico e la sua proprietà
L'UOMO
Capitolo 3
§ 2
Noi siamo nati liberi, pure dovunque giriamo lo sguardo ci vediamo
fatti schiavi dagli egoisti!
Dovremo perciò divenir egoisti anche noi? Dio ne guardi! Piuttosto
procureremo di abolire gli egoisti! Faremo si che tutti diventino
straccioni, e che nessuno più possegga affinchè tutti abbiamo
qualche cosa.
Cosi i socialisti.
Che volete significare con questa parola; "tutti"
? — La società! — Ma è forse essa un essere corpo reo? — Noi ne formiamo il
corpo! — Voi! ma se non avete corpo voi stessi Io sì, quegli ancor più, ma voi tutti uniti
non formate corpo, sicché la società ha bensì dei corpi a sua disposizione, ma
non un corpo unico e proprio. Esso non sarà mai, come la "nazione"
dei politici, che uno "spirito", del quale il corpo sarà lo spettro.
La libertà dell'uomo nel liberalismo politico è l'indipendenza
dalle persone, dal dominio personale, dal regime:
assicurazione della singola persona contro le altre persone, in somma libertà
personale.
La legge sola impera.
Ma se le persone sono divenute eguali, varia
tuttavia sempre il loro potere. Eppure hanno bisogno il ricco del povero, il povero del ricco:
l'uno del lavoro, l'altro del denaro.
E il bisogno non è della persona, ma della cosa che la persona ha
o dà: sicché quel che conferisce valore all'uomo è ciò che egli possiede.
Ebbene, nell'avere negli "averi", gli uomini sono
disuguali.
In conseguenza, conclude il liberalismo socialista, nessuno deve
avere, come secondo il liberalismo politico nessuno deve comandare;
sicché, come lo Stato soltanto ha il diritto di comandare, così
la società soltanto ha il diritto di possedere. Lo Stato,
proteggendo le persone, e la loro proprietà contro le altre persone, le divide;
ognuno è ed ha per sé. Chi si contenta di ciò che è
e di ciò che ha si trova bene in tale condizione di cose;
ma chi vorrebbe essere ed avere di più, guarda
intorno a sé e vede che questo "di più" è in potere di altri. E qui
egli si trova di fronte ad una contraddizione: quale persona nessuno è da meno
d'un altro, eppure una tale persona ha ciò che l'altra non ha e
vorrebbe avere. Ed allora egli ne inferisce che una persona può valere più d'un'altra,
perchè essa ha ciò di cui abbisogna, e l'altra no; questa è povera, quella è
ricca.
Dobbiamo noi (cosi egli continua ad interrogar sé stesso),
dobbiamo noi far rivivere ciò che abbiamo sepolto: dobbiamo noi lasciar
sussistere questa disuguaglianza delle persone, ristabilita per vie torte? No:
al contrario noi dobbiamo condurre a termine ciò che fu interrotto a mezzo!
Alla nostra libertà manca ancora l'indipendenza da ciò di cui può
disporre la persona d'un altro, da ciò ch'essa tiene in suo potere personale,
in breve dalla "proprietà individuale". Aboliamo adunque la proprietà
personale. Nessuno abbia più cosa alcuna: tutti diventino straccioni.
La proprietà sia impersonale: appartenga d'ora in poi non ai
singoli, ma all'associazione.
Di fronte al capo supremo, il solo che avesse diritto a
comandare, noi eravamo divenuti tutti uguali, senza valore.
Di fronte all'unico e supremo proprietario — noi
diventeremo ancora tutti uguali: straccioni.
Oggi un individuo può esser da un altro tenuto in conto d'un
miserabile, d'un "nullatenente".
Domani cesserà anche questa valutazione, e noi saremo tanti
straccioni uguali: e poiché tutti uniti formeremo la società comunista, potremo
chiamarci col nome collettivo di "canaglia".
Quando il proletario avrà potuto fondare la "società"
dei suoi sogni, mercé la quale sarà tolta per sempre la distinzione tra poveri
e ricchi, allora egli sarà uno "straccione", la qual cosa non toglie
però che egli possa far assorgere questo appellativo a un titolo onorifico,
come la rivoluzione ha fatto della parola "borghese". Lo straccione è
l'ideale del proletario e noi tutti dobbiamo diventare straccioni.
Ecco, nell'interesse dell' "umanità", il secondo furto
fatto alla proprietà personale. Non si lascia al singolo né il
comando né la proprietà; l'uno fu preso dallo Stato, la Società prenderà l'altra.
Siccome nella società privata si fanno sentire le miserie più
opprimenti, cosi gli oppressi, cioè gli appartenenti alle classi sociali
inferiori, pensano che la colpa ne risieda nella società, e si accingono in
conseguenza al compito di scoprire la società quale dov'essere realmente.
Ed è antica illusione questa: che la causa d'un male la si
ricerchi in tutti gli altri piuttosto che in noi stessi: nello Stato,
nell'egoismo dei ricchi, ecc., mentre è colpa nostra, e nostra soltanto, se esiste
uno Stato e se esistono i ricchi.
Le riflessioni e le conclusioni del comunismo sono in apparenza
molto semplici.
Come le cose stanno adesso, cioè nelle condizioni politiche
presenti, gli uni, che sono la maggior parte, si trovano svantaggiati rispetto
ad altri, che sono la parte più esigua. In questo stato di cose,
quelli stanno bene, questi male.
Perciò è necessario abolire il presente stato di
cose, cioè lo Stato (Status). E che cosa si metterà al suo posto
? Invece del bene dei singoli — il bene generale il bene di
tutti.
Con la rivoluzione la borghesia divenne onnipotente ed ogni
disuguaglianza fu tolta con l'elevare o l'umiliare ciascuno alla dignità di cittadino:
l'uomo del popolo fu innalzato, — il nobile degradato: il terzo Stato divenne
l'unico Stato vale a dire lo Stato comprendente tutti i cittadini.
Ora il comunismo afferma a sua volta: la nostra dignità e la nostra ragion
d'essere non sono già in ciò che noi tutti siamo gli uguali figli
dello Stato, tutti nati con gli stessi diritti al suo amore ed alla sua
protezione, bensì in ciò che noi tutti dobbiamo vivere l'uno per l'altro.
Questa è la nostra uguaglianza, in ciò solo siamo uguali:
io, e tu, e voi, tutti insomma lavoriamo l'uno per l'altro.
Dunque la nostra uguaglianza è in ciò che ciascuno di noi è un lavoratore.
A noi non importa d'essere cittadini, né della condizione che come tali
abbiamo; ma si, invece, d'esser l'uno per l'altro, cioè che
ognuno di noi non esista che per il suo simile, si che io provveda ai vostri
interessi, e voi, alla vostra volta, vi curiate dei miei.
Il tale lavora, per farmi un vestito quale sarto, io penso a
divertirlo quale autore drammatico o quale funambolo, ecc., egli pensa alla mia
alimentazione, io alla sua istruzione, ecc.
Dunque nell'essere lavoratori consiste la nostra
dignità e la nostra uguaglianza.
Quali vantaggi ci offre lo Stato borghese? Carichi! E come vi è
considerato il nostro lavoro?
Più basso che sia possibile! Eppure il lavoro rappresenta l'unico
nostro valore; l'esser lavoratori è il più alto titolo nostro, il
più importante di tutti, e per ciò deve essere da noi fatto valere e
dovrà esser riconosciuto nel suo vero valore. Che cosa potete voi
opporci? Null'altro che il lavoro.
Soltanto in ragione del vostro lavoro o per le vostre prestazioni
noi vi dobbiamo una ricompensa, non già dunque perchè voi esistete, o per ciò
che voi siete, ma per quello che siete per noi.
Su che cosa fondate le vostre pretese verso di noi? Forse sulla
vostra nascita illustre? No, ma soltanto sul fatto che voi operate cose a noi
gradite o sgradite. Ebbene, sia pure cosi: voi non terrete conto di noi che per
l'utilità che vi recheremo; e noi adopreremo con voi allo stesso modo.
Le prestazioni determinano il valore, in quanto esse
abbiano qualche pregio; dunque i lavori che anno un valore
reciproco che sono utili alla collettività.
Ciascuno rappresenta agli occhi d'un altro un operaio.
Colui che produce cosa utile non è da meno di chi che sia: dunque
tutti i lavoratori (sempre — s'intende — nel senso di lavoro reciprocamente
utile, di lavoro comunista) sono uguali tra loro.
Ma siccome il lavoratore ha diritto alla mercede
che gli compete, così anche la mercede sia uguale.
Sino a tanto che la fede bastava all'onore ed alla dignità
dell'uomo, nulla si poteva obbiettare contro il lavoro per quanto grave esso
fosse, dacché esso non distoglieva l'uomo dalla sua fede.
Per contro oggi, per l'aspirazione dell'uomo ad esser veramente
uomo, obbligarlo ad un lavoro macchinale val quanto renderlo schiavo. Se
l'operaio d'una fabbrica è obbligato a logorare le sue forze per dodici ore o
anche più, le sue aspirazioni di umana dignità sono deluse. Ogni lavoro deve
aver per fine di rendere soddisfatto l'uomo. E così nel lavoro, quale ch'esso
sia deve esser concesso ad ognuno di poter diventare maestro,
cioè di creare un'opera che sia un tutto. Quegli che in una fabbrica di spille
non ha altro compito che d'attaccarvi le capocchie, o di stirare il filo di
ferro, ecc., quegli lavora meccanicamente, e resterà sempre un operaio
ignorante senza poter mai diventare un maestro; il suo lavoro non potrà giammai
renderlo soddisfatto e non riuscirà che a stancarlo.
Il lavoro ch'egli fa, preso in sé, non ha nessun scopo proprio,
non riesce a nulla di compiuto: altro fine non ha che di render
più facile il lavoro di un altro dal quale in tal guisa viene sfruttato. Da un
siffatto lavoro al servizio d'un altro non può uscire alcun godimento per
uno spirito colto, tutt'al più vi potranno aver luogo dei rozzi
passatempi la "coltura" a un tale operaio è preclusa.
Per esser un buon cristiano basta aver la fede, e ciò non è impedito
nemmeno dalle condizioni di vita più opprimenti. Per ciò coloro che pensano
cristianamente non si prendono altra cura che della pietà, della pazienza,
della rassegnazione delle classi oppresse, le quali non impararono a sopportare
la lor miseria che quando si fecero "cristiane", e ne divennero insofferenti
quando cessarono d'esser tali: poiché il cristianesimo non permette loro di manifestare
il malcontento col mormorare e col ribellarsi. Ora non basta più l'ammassare
le concupiscenze, ma si richiede di poterle soddisfare.
La borghesia ha proclamato il vangelo del godimento mondano,
del godimento materiale, e ora stupisce che quel vangelo abbia trovato dei
fedeli anche tra noi. Essa ha dimostrato che non già la fede e la povertà, ma
la cultura e il possesso rendono l'uomo felice; e ciò lo comprendiamo oggi
anche noi, proletari.
Dal comando e dall'arbitrio dei singoli la borghesia s'è liberata.
Ma è rimasto quell'arbitrio che viene dalla sorte e che può esser chiamato il
capriccio della sorte: è rimasta la fortuna che favorisce, son rimasti i favoriti
dalla fortuna.
Se, per esempio, una qualche industria deperisce e migliaia di
operai restano senza pane, a nessuno verrà in mente di darne colpa a singole
persone, ma tutti ne recheranno la causa alle "circostanze".
Mutiamo adunque le circostanze, ma cangiamole in modo così
radicale da renderle libere dal capriccio e regolate dalla legge.
Non continuiamo ad esser più oltre gli schiavi del caso!
Decretiamo un nuovo ordine di cose che metta un fine a tutte le oscillazioni.
E il nuovo ordine sia sacro!
Prima della rivoluzione bisognava operare al modo dei padroni
per riuscire a qualche cosa: dopo corse la parola: Acciuffa la fortuna!!
Nella caccia alla fortuna, nel giuoco d'azzardo si compendiava la
vita borghese. Con l'aggiunta dell'obbligo di non arrischiare quello che la
fortuna ci aveva fatto guadagnare.
Strana, eppur naturale contraddizione! La concorrenza, entro la
quale si svolge esclusivamente la vita borghese o politica, è in tutto simile a
un giuoco d'azzardo, a cominciar dalle speculazioni di borsa per
finire alla caccia agli impieghi, al cliente, al lavoro, alle promozioni, agli
ordini, ecc.
Se si riesce a scavalcare e superare i concorrenti il "buon
colpo è riuscito" poiché il vincitore deve già tenersi a fortuna d'esser
dotato d'una capacità o d'una intelligenza (per quanto aiutata da un'attività
indefessa) superiore a quella degli altri, si da non trovarsi di fronte
concorrenti più capaci o più intelligenti. E coloro che vivono di questa vita,
in balia dei casi, senza, per così dire, accorgersene, manifestano la più viva
indignazione se il loro stesso principio sia troppo crudamente e
pericolosamente rivelato sotto la forma del "giuoco d'azzardo"!
Questa forma è troppo cruda; e offende, al pari di qualsiasi nudità, il pudore
borghese.
A tali capricci del caso vogliono mettere fine i socialisti e
formare una società i cui membri,
resi in tutto liberi, non abbiano a dipendere più oltre dalla fortuna.
Nel modo più naturale tale tendenza si rivela nell'odio degli
"sfortunati" contro i "fortunati",
cioè di quelli ai quali la fortuna non ha arriso verso quelli
ch'essa ha colmato dei suoi favori. Veramente l'odio è maggiormente rivolto non
tanto contro i prediletti della fortuna quanto contro la fortuna stessa,
che è il cane o della borghesia.
Siccome i comunisti affermano che soltanto nella libera attività è
la vera natura dell'uomo,
così essi abbisognano (né altrimenti può pensar chi lavora
meccanicamente tutti i giorni) d'una domenica, al modo stesso che ogni
aspirazione materiale sente il bisogno d'un Dio, di qualche cosa che innalzi e
compensi del lungo lavoro intellettuale.
Se il comunista vede in te l'uomo, il fratello, questo non è che
il lato domenicale del comunismo. Nei giorni di lavoro egli non
vede in te l'uomo, bensì il lavoratore-uomo o l'uomo-lavoratore il principio
liberale risiede nel primo modo di vedere, nel secondo si nasconde la reazione
al liberalismo. Se tu fossi un individuo "rifuggente dal lavoro",
egli ti riconoscerebbe ancora per uomo ma per un uomo "poltrone ", e
farebbe il possibile per indurti al lavoro e convertiti alla sua fede che
nel lavoro vede lo "scopo e la vocazione" dell'uomo.
Epperciò il comunismo ha due intenti: da un lato si prende cura
che l'uomo spirituale venga soddisfatto, dall'altro ricerca i mezzi per
soddisfare l'uomo materiale.
Esso assegna all'uomo una doppia occupazione, quella
dell'acquisto materiale e quella dell'acquisto spirituale.
La borghesia aveva resi disponibili i beni materiali
e spirituali lasciando libero a ciascuno d'appropriarseli. Il comunismo li
procura realmente a ciascuno, glieli impone e lo obbliga ad acquistarseli.
Poiché solo i beni spirituali e materiali ci rendono uomini egli vuole che noi
ce li appropriamo per diventare uomini veramente.
La borghesia rese libero l'acquisto dei beni, il comunismo ci costringe
a conseguirli e non riconosce se non coloro che li acquistarono, cioè coloro che esercitano
un'industria. Non basta che l'industria sia libera: tu devi procurartela.
In tal modo alla critica non resta altro la dimostrare se non
questo: che l'acquisto di quei beni non basta ancora a renderci uomini.
Il precetto liberale: a che ciascuno è tenuto "formarsi
uomo", presupponeva la necessità che ognuno si procurasse il tempo
occorrente a tale bisogna, cioè che fosse reso possibile ad ognuno di lavorare
alla propria redenzione. La borghesia credette d'aver ottenuto questo col dare
in balia della concorrenza tutto ciò ch'è umano, con l'autorizzare il singolo a
tutto ciò che è umano.
"Ciascuno può aspirare ad ogni cosa".
Il liberalismo socialista trova che col "può" non è
finita ogni cosa, dopotutto "poter fare" una cosa significa che non è
proibito di farla, ma non ancora che con ciò sia reso possibile di
farla.
Esso sostiene perciò che la borghesia è molto liberale a parole,
ma nei fatti è illiberale; e quindi vuol procurarsi i mezzi che rendano
possibile a ciascuno di lavorare pel proprio bene.
Il principio del "lavoro" è superiore senza dubbio a
quello della "fortuna" e della "concorrenza". E in pari
tempo il lavoratore, essendo convinto che ciò che v'ha di meglio in lui è l'essere
che lavora, si tiene lontano dall'egoismo e si sottomette alla
autorità d'una società d'operai, allo stesso modo che il borghese era ligio
allo Stato che aveva per norma la concorrenza. Il bel sogno del "dovere
sociale" va ancor più lontano. Si ritiene che la società dia ciò
che ci abbisogna, e che per ciò noi le siamo obbligati, anzi che
noi le dobbiamo tutto [(1) PROUDHON, Création de l'ordre, esclama, p. es., a
pag. 414: «Nell'industria come nella scienza la pubblicazione di una nuova
invenzione è il primo ed il più sacro dei doveri ».]. Si continua a restar
ligi all'idea di voler servire ad un "supremo dispensatore
d'ogni bene". Che la società non sia un "io" il quale possa dare,
conferire o concedere, bensì uno strumento, dal quale, tutt'al più, potremo
trarre un vantaggio; che noi non abbiamo doveri sociali ma tutt'al più
interessi che la società deve favorire; che noi non siamo tenuti a fare alcun
sacrificio alla società, bensì, se vogliamo sacrificare qualche cosa, dobbiamo
sacrificar essa a noi; tutto ciò è ignoto ai socialisti, perchè essi, quali liberali,
sono ancora irretiti entro il principio religioso e intendono a creare — a
similitudine dello Stato ora esistente — una società sacra!
La società, dalla quale dobbiamo riconoscere ogni cosa è una nuova
signora, un nuovo fantasma, un nuovo "ente supremo", che ci
"obbliga e ci asservisce!".
Un apprezzamento più compiuto del liberalismo politico si troverà
in seguito nel nostro libro.
Noi vogliamo ora tradurlo dinanzi al Tribunale del liberalismo critico
e umano.
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