giovedì 8 agosto 2013

LA GERARCHIA [ parte 1° ]

L'unico e la sua proprietà  
L'UOMO  
Capitolo 2
§ 3 [ parte 1° ]



La riflessione storica circa il nostro mongolesimo, che io voglio inserire a mo' d'episodio in questo punto, non ha pretesa di esser fondata, ma è necessaria per servir di spiegazione al rimanente.
La storia universale, il cui svolgimento appartiene quasi per intero alla razza caucasica, sembra aver percorso sinora due ere; noi fummo costretti a manifestare e a perfezionare nella prima la nostra essenza di razza negra, nella seconda il mongolesimo (la cineseria) con cui è necessario finirla egualmente. Il primo periodo rappresenta l'evo antico, i tempi della dipendenza dalle cose (dal cibarsi dei galli, dal volo degli uccelli, dallo starnutare, dal lampo e dal tuono, dallo stormire degli alberi, ecc.); il mongolesimo segna l'età della dipendenza dalle idee, l'evo cristiano. All'avvenire sono riserbate le parole: "io sono il possessore del mondo delle cose, io sono il possessore del mondo dello spirito".
Nel primo periodo avvengono le gesta di Sesostri e si rivela in generale l'importanza storica dell'Egitto e dell'Africa settentrionale. All'era mongolica appartengono le invasioni degli Unni e dei Mongoli, sino a quella dei Russi.
Il valore del mio io non può essere che ancor molto basso, finché il duro diamante del "nonio" è cosi costoso, come erano allora "Dio" e il "mondo" Il "non-io" è ancor tenuto quale un frutto troppo immaturo ed acerbo per poter essere mangiato ed assorbito dell' Io. Gli uomini s'accontentano di strisciare su quella sostanza immobile, e vi si affaccendano faticosamente; simili a insetti parassiti, che succhiano l'alimento da un corpo, senza perciò consumarlo. L'attività dei Mongoli è veramente l'affaccendarsi dei vermi. Presso i Cinesi ogni cosa è immutabile; nulla di ciò che è "essenziale" e "sustanziale" è capace di mutamento; ma appunto per questo maggiore è l'affaticarsi intorno a ciò che è immanente e porta il nome di "antico".
Per tal modo nella nostra êra mongolica non v'é mutamento che non si proponga di riformare o di migliorare; non mai di distruggere o di consumare. La sostanza, l'oggetto resta. Tutta la nostra operosità non è paragonabile che a quella delle formiche o delle pulci, ai giuochi degli acrobati sulla corda immobile dell'oggettività, al servizio della gleba sotto la signoria dell' "immutabile", dell' "eterno". Il cinese è certo il più positivo di tutti i popoli, perchè interamente sepolto in mezzo alle sue istituzioni; ma dalla "libertà limitata", dalla "libertà entro certi limiti", neppure il Cristianesimo ha saputo affrancarsi. Nel più alto grado di civiltà questa attività ha nome di scientifica; ed è tenuta in conto di lavoro su di una premessa irremovibile, su di una ipotesi irrefutabile.
Nella sua forma primitiva e misteriosa la moralità si presenta quale consuetudine. Condursi secondo il costume e la usanza del paese — si chiama allora esser morali. Perciò una condotta prettamente morale, una moralità pura e genuina, si trova particolarmente nella Cina; ove l'uomo si attiene alle consuetudini e ai costumi antichi, e odia quale un delitto degno di morte ogni innovazione. Poiché l'innovazione è il nemico mortale della consuetudine, dell'antico, del costante. È fuor di dubbio che l'uomo mercé l'assuefazione assicura sé stesso contro l'invadenza delle cose del mondo e si forma un mondo a parte, nel quale egli si trova a suo agio; si edifica, insomma, il proprio cielo. Il cielo al postutto non ha altro significato se non quello di vera patria dell'uomo, dov'egli non è soggiogato da alcuna cosa straniera né a sé sottratto da alcun allettamento mondano; dove, deposto il velo terrestre, egli ha visto il fine delle sue lotte contro il mondo; dove nulla insomma gli è più ricusato. Il cielo significa la fine della rinunzia, il libero godimento. Là l'uomo più nulla rifiuta a sé stesso, perchè nulla più gli è estraneo o avverso. Ora, l'abitudine è una "seconda natura", la quale rivela e redime l' uomo dalla natura sua primitiva, assicurandolo da ogni capriccio di questa. La consuetudine sapiente dei Cinesi ha previsto tutti gli avvenimenti possibili, e a tutti ha "provveduto" checché possa accadere il cinese sa sempre come deve contenersi e non ha bisogno di dirigersi a seconda dei casi: dal cielo della sua quiete nessun accidente imprevisto lo può precipitare. Il cinese ligio alla moralità e alle sue usanze non si lascia sorprendere e cogliere all' improvviso; egli conserva la serenità in ogni occasione, giacche l'animo suo è fatto sicuro per la previdenza che gli viene dalle consuetudini inveterate.
Sulla scala della civiltà l'umanità ascende perciò il primo gradino in forza dell'assuefazione; e siccome essa salendo verso la civiltà pensa di raggiungere il cielo (il regno della seconda natura), così essa ascende realmente il primo gradino della scali celeste.
Se il mongolesimo ha accertata l'esistenza d'enti spirituali e creato il mondo degli spiriti (un cielo), gli uomini della razza caucasica hanno lottato per secoli contro quegli esseri spirituali, tentando di comprenderli. Che altro dunque hanno fatto se non continuare ad edificar sulle fondamenta mongoliche? Essi non hanno edificato sulla sabbia, bensì nell'aria; hanno lottato contro il mongolesimo; hanno dato la scalata al cielo mongolo, al Tien. Quando riusciranno essi a distrugger quel cielo? Quando ridiverranno dei Caucasei autentici e ritroveranno sé stessi?
Quando l' "immortalità dell'anima" che negli ultimi tempi tentò farsi più certa col proclamare la "immortalità dello spirito", si convertirà finalmente nella "mortalità dello spirito?".
Nelle loro industriose lotte gli uomini della razza mongola avevano edificato un cielo, mentre quelli della razza caucasica, occupati — perchè tuttavia intinti di mongolesimo — del cielo impresero il compito opposto: dare l'assalto a quel cielo della morale. Minare tutte le istituzioni umane per fondare — sulle loro rovine — nuove e migliori istituzioni, distruggere ogni morale per sostituirvi una nuova e miglior morale, ecco a che la loro attività, si restringe. Ma con questa il compito è raggiunto; o altro ancora le rimane da tentare? No, nella sua ricerca del meglio, essa è tuttavia ammorbata di mongolesimo. Essa dà, sì, l'assalto al cielo, ma unicamente per sostituirlo con un altro; fa crollare una podestà, ma per legittimarne un'altra; né altro sa che recare dei miglioramenti. Con tutto ciò la meta, per quanto si sia smarrita la via, è il crollo effettivo e definitivo del cielo, della morale, ecc., in breve dell'uomo che non ha assicurato sé stesso contro il mondo; la fine, dunque, dell'isolamento dell'uomo. Mediante il cielo della civiltà l'uomo intende a separarsi dal mondo, a spezzarne la potenza malvagia. Ma anche questo isolamento nel cielo deve essere sfatato; la vera meta dell'assalto dato al cielo dev'essere la sua distruzione finale. Miglioramenti e riforme sono avanzi di mongolesimo nel Caucasico, poiché con ciò egli fa risorgere il passato: le istituzioni, l'assoluto, il cielo. Egli nutre un odio invincibile contro il cielo, e pur crea ogni dì nuovi cieli; e in quest'opera vana fa che l'uno prema sull'altro e lo distrugga; il cielo degli Ebrei, quello dei Greci, quello dei Cristiani l'ebreo, il protestante quello dei cattolici. Quando gli uomini di razza caucasica, che danno l'assalto al cielo, avranno svestita la pelle del mongolo, essi seppelliranno l'uomo sentimentale sotto le macerie dell'immane mondo dei sentimenti, l'uomo isolato sotto il suo mondo isolatore, l'uomo che anela al cielo sotto il suo cielo. E il cielo è il regno degli spiriti, il regno della libertà spirituale.
Il regno celeste degli spiriti e degli spettri ha avuto la sua classificazione perfetta nella filosofia speculativa. La quale lo proclamò il regno dei pensieri, dei concetti e delle idee; e lo fece rappresentativo della realtà.
Voler procacciare libertà allo spirito è pretto mongolismo; la libertà dello spirito è una libertà mongola; e tali appunto sono la libertà dei sentimenti e la libertà morale.
La parola "moralità" vien riguardata quale sinonimo di indipendenza, di libera disposizione di sé stessi. Ma ciò non è; che anzi se il Caucaseo ha dimostrato una certa indipendenza ciò fu nonostante la sua morale mongola. Il cielo mongolo o la morale era la torre inespugnabile; e soltanto col darle assalto senza tregua il Caucaseo si dimostrò uomo morale; se egli non avesse più avuto a che far colla morale, se non l'avesse riguardata come la sua eterna nemica, che non gli dava posa, sarebbero cessati i suoi rapporti con essa, e la sua stessa moralità sarebbe con ciò stata distrutta. E appunto l'essere la sua attività ancor morale dimostra che gli tien del mongolo, e che pure non ha saputo rendersi intiera ragione dell'esser suo. L' "attività indipendente morale" corrisponde in tutto alla "filosofia religiosa e ortodossa", alla "monarchia costituzionale" allo "stato cristiano", alla "libertà entro i dovuti limiti", alla "libertà della stampa limitata dalla censura" o, per adoperar un' immagine più propria ad un eroe confinato in un letto di dolore.
Solo allora l'uomo si sarà liberato dallo sciamannesimo e dalle fantasmagorie, quando avrà avuto la forza di liberarsi non solo della credenza negli spiriti, ma pure nello spirito.
Chi crede negli spiriti ammette, al pari di chi ha fede nello spirito, l' "ingerenza d'un mondo superiore"; entrambi cercano, dietro a quello dei sensi, un altro mondo soprannaturale in cui credono e che generato dalla lor fantasia, è una creazione tutta fittizia: e poi che i loro sensi non sanno e non possono comprendere, invece, altro mondo che il materiale, il lor spirito soltanto si trova a suo agio.
Il passaggio dalla credenza mongolica nell'esistenza d'enti spirituali alla teorica che anche l'intima essenza dell'uomo sia il suo spirito e che ogni cura debba esser rivolta a questo spirito soltanto (dunque alla "salute dell'anima"), non è difficile. E con ciò il dominio sullo spirito è assicurato, e s'è ottenuta la cosiddetta "influenza morale".
E quindi certo che il mongolesimo rappresenta la spogliazione intera dei diritti dei sensi, il controsenso e la contronatura, e che il peccato e la coscienza del peccato sono la piaga mongolica che ci affligge da secoli.
Ma chi dissolverà nel nulla anche lo "spirito"? Solo colui che ha compreso la vanità, la fugacità della natura potrà anche dello spirito fare ugual conto; io lo posso; e lo può ciascuno di voi il quale si comporti nell'opera e nel pensiero quale un "io" che non conosce costrizioni; lo può, in una parola, l'egoista.
Dinanzi alla « santità » si perde ogni sentimento della forza ed ogni coraggio; si diviene impotenti e vili. Eppure nessuna cosa è sacra per sé stessa, ma perché tale fu proclamata; per il nostro giudizio, dunque, per le nostre genuflessioni; insomma — per la nostra coscienza.
Sacro è tutto ciò, che dev'esser intangibile per l'egoista, ciò che e sottratto al suo potere, ed è per ciò al disopra di lui : sacro è in una parola ogni caso di coscienza, giacché il dire: "questa cosa è per me affare di coscienza" vale quanto il dire: "questo io ho in conto di cosa sacra".
Per i bambini, come per gli animali, nulla esiste di sacro, giacché, per poter giungere a questo concetto, è d'uopo saper già distinguere il bene dal male, il legittimo dall'illegittimo, e così via.
Soltanto a un tale grado di riflessione o d'intelligenza — che è il vero fondamento della religione — può subentrare in luogo del timore naturale la venerazione, che è frutto del pensiero: il "timor santo". Per venire a ciò è necessario che si ritenga esistere all'infuori di noi qualche cosa di più potente, di più grande, di, più, legittimo, di migliore, cioè che si riconosca il predominio di alcunché d'estraneo; e dico si riconosca e non si senta, volendo significare l'atto dell'intelletto per cui ci si rende, prigionieri di tale predominio (devozione, umiltà, soggezione, sudditanza, ecc.).
Ed ecco che qui incomincia la fantasmagoria di tutte le "virtù cristiane".
Tutto ciò per cui voi provate rispetto e venerazione merita il nome di « santo »; voi stessi riconoscete che provate un « sacro timore » a toccarlo. E persino ciò che non è santo voi sapete scialbarlo di quella tinta sacra (le forche, i delitti, ecc.). Vi coglie un brivido al solo pensiero di venir in contatto con una cosa sacra; quasi che in essa si celasse alcunché di terribile, di non proprio alla natura umana.
"Se l'uomo nulla riguardasse come sacro, l'arbitrio, il soggettivismo sfrenato non troverebbero ostacoli!"
Si principia dalla paura; ora, non v'è uomo, per quanto selvaggio, che non si possa incutere paura; ecco già un argine contro la sua insolenza. Ma alla paura resta ancora un mezzo di liberazione; l'astuzia, l'inganno, ecc. Mentre per la venerazione non può dirsi altrettanto.
Quando si venera qualche cosa, non la si teme unicamente ma anche la si onora: la cosa temuta diviene una potenza interna alla quale noi non possiamo sottrarci: noi abbiamo in onore una cosa; ne siamo conquisi; le apparteniamo senza più saperci sottrarre al suo potere. Alla cosa che reputo santa io m'attacco con tutta la forza della mia fede; io credo. Io e la cosa temuta diventiamo una cosa sola: "non già io vivo, bensì vive quello che da me è venerato".
Poiché é infinito, lo spirito non può mutare, e resta quale è: esso teme la morte; non può decidersi ad abbandonare il suo piccolo Gesù; la grandezza del "finito" non è più comprensibile pel suo occhio abbacinato: per tal modo la cosa temuta, innalzata alla venerazione, diviene intangibile; ciò che si venera diviene eterno, e ciò che si rispetta invidiato. L'uomo non è più un essere che crea, ma uno che impara (mediante la conoscenza, le indagini, ecc.), un essere cioè che si occupa d'un dato oggetto, e si oblia in quello studio, senza far ritorno a sé stesso.
Quest'oggetto egli lo può indagare, penetrare, conoscere; ma non dissolverlo. " L'uomo dev'esser religioso" è principio non discusso; tutto si riduce sempre a ricercare com'ei possa divenir tale, quale sia il senso del fervore religioso, e così via. Ma altro è se si ponga in questione l'assioma stesso, a rischio anche di distruggerlo.
La moralità è anch'essa una cotal rappresentazione di cosa sacra: morali si deve essere, soltanto bisogna ricercare il vero modo d'esser tali.
Però nessuno ha ardire di domandare se la moralità non sia essa stessa opera della fantasia : essa è tenuta superiore ad ogni esame: immutabile. E così procede dal sacro al santo, e, grado grado, dal "santo" al "sacrosanto".
E’ uso distinguere gli uomini in due classi: quella dei colti e quella degli ignoranti.
I primi, per rendersi degni del loro nome, si occupano dei pensieri, dello spirito, e poiché, vivendo nell'êra cristiana in cui la idea è il principio supremo, erano essi i padroni, pretendevano un cieco rispetto ai pensieri da loro riconosciuti per buoni. Lo Stato, la Chiesa, Dio, la moralità, l'ordine, tali nomi hanno queste idee, spiriti che non esistono che per lo spirito. Di esse il bruto ha tanta cura quanto n'ha il fanciullo. Però gli ignoranti altro non sono che fanciulli, e chi non pensa che a soddisfare i bisogni del corpo, si mantiene indifferente verso quegli spiriti; ma poiché si sente troppo debole di fronte ad essi, egli s'assoggetta alla loro potenza ed è per ciò dominato dalle idee. Ecco il significato della gerarchia.
La gerarchia importa dominazione dell'idea dominazione dello spirito!
Noi siamo gerarchici anche ai giorni nostri, oppressi da coloro che traggon la loro potenza dalle idee. L'idea è la cosa "sacra".
Ma l'uomo colto e l'ignorante contrastano in ogni tempo tra loro: né il conflitto avviene sempre tra due persone diverse, ma talvolta anche nello stesso uomo. Poiché nessun uomo è così colto da non trovar piacere nelle cose esteriori (e in ciò egli procede da barbaro), e nessun ignorante, per contro, è del tutto sprovvisto d'idee. In Hegel s'appalesa finalmente l'ardente ispirazione dell'uomo colto verso le cose e la ripugnanza a ogni teorica vana, Secondo Hegel all'idea dovrebbe corrispondere in tutta la realtà il mondo delle cose, e fuori della realtà non dovrebbe esistere alcun concetto.
Perciò il sistema di questo filosofo fu detto il più oggettivo, come se in lui il pensiero e le cose celebrassero la loro unione. Ma questa non era in fondo che l'estrema violenza, il massimo dispotismo, l'autocrazia del pensiero, il trionfo dello spirito; e per conseguenza il trionfo della filosofia.
Oltre a questo confine la filosofia non può procedere; giacché il suo fine supremo è il dominio assoluto, l'onnipotenza del pensiero. [(1) Rousseau, i filantropi ed altri ancora, avversarono la cultura e l'intelligenza, ma non considerarono che queste si trovavano in tutti i cristiani e si restrinsero a combattere la cultura raffinata dei dotti.].
Gli uomini spirituali si sono fitti in capo una qualche cosa, che dev'esser attuata. Essi hanno certo il loro concetto dell'amore, che vorrebbero veder tradotto in realtà; quindi si danno a credere di poter fondare sulla terra un regno, nel quale ogni azione non sarà più informata all'egoismo, ma all' "amore" soltanto. L'amore deve imperare. Ora ciò che costoro si sono fitti in capo, come potrebbe aver nome diverso da quello di idea fissa?
Un qualche guasto è nel loro cervello. E l'incubo più opprimente è l'uomo come tale. Si pensi al proverbio: "la via della perdizione è lastricata di buoni propositi". Il proposito di attuare in sé stesso l'umanità, di diventar uomo perfetto, è uno di quelli che conducono alla perdizione di cui parlammo poc'anzi. Alla stessa specie appartengono i propositi di diventar "buoni, nobili, affettuosi, ecc."
Nel sesto fascicolo delle sue Cose memorabili, a pagina 7, BR. BAUER, dice :
"Quella classe borghese che doveva avere una sì triste azione sulla storia moderna, non è capace di alcun sacrifizio, di alcun entusiasmo per un'idea, di nessuna elevazione: essa non altro consegue che l'interesse della sua mediocrità; e, sempre racchiusa in sé stessa, non ottiene la vittoria finale che o per la forza del numero — con la quale sa rintuzzare gli assalti della passione dell'entusiasmo, della logica — o per la forza della propria superficialità, che seppe assorbire una parte delle idee nuove".
Ed a pagina 6 : "Essa sola ha saputo trarre profitto delle idee rivoluzionarie, per le quali non essa, ma altri uomini disinteressati o entusiasti, si sacrificarono; essa ha cambiato lo spirito in denaro. — Ma ciò le venne fatto solo dopo avere spuntate quelle idee, dopo aver tolto loro la logica, la serietà della lotta contro l'egoismo". Codesta gente non è adunque pronta al sacrificio, non è entusiasta, non è ideale, non è coerente. Secondo l' intelligenza comune essa è una gente egoista, interessata, calcolatrice, spregiudicata e crudele.
Ebbene, chi è "pronto al sacrificio"? Colui che dà tutto sé stesso ad una cosa, ad una scopo, ad una volontà, ad una passione. L'amante, che abbandona padre e madre, che affronta tutti i pericoli e tutti i disagi per raggiungere il suo fine, non è forse un di coloro che si sacrificano? E non è tale l'ambizioso, che dà in olocausto all'unica sua passione tutte le sue brame, e tutte le sue soddisfazioni; l'avaro che rinunzia a tutto, per la smania di accumular tesori; l' uomo che d'altro non ha cura che del piacer suo? Costoro sono dominati da una passione cui sacrificano tutte le altre.
E questa gente che sacrifica se stessa, non è forse egoista, interessata?
Siccome in loro una passione travolge tutte le altre, essi non d'altro si danno pensiero che di soddisfarla, ma vi si adoperano con tutto l'impegno, sì da dimenticare ogni altra cosa.
Il loro affaccendarsi e il loro affannarsi non è altro che egoismo, ma un egoismo unilaterale, racchiuso, di corta veduta: e insomma un'occasione.
"Ma queste sono passioni meschine, da cui l'uomo non deve lasciarsi soggiogare. Solo per una grande idea, per una causa sublime egli deve sacrificare sé stesso". Son forse "idee sublimi" o "grandi cause" la gloria di Dio, per la quale innumerevoli uomini hanno trovato la morte; il Cristianesimo che ha avuto i suoi martiri volenterosi; la Chiesa fuor della quale non è salvezza e che tanto avida fu di sacrifici d'eretici: la libertà e l'uguaglianza che vollero a lor strumento la ghigliottina?
Chi vive per una grande idea, per una giusta causa, per una dottrina o un sistema o una vocazione sublime, non deve permetter a sé stesso alcun desiderio mondano, alcun egoistico interesse. Questo ci riconduce al concetto del sacerdozio, che anche potrebbe chiamarsi (chi riguardi al suo ufficio pedagogico) pedantismo; poiché un ideale è sempre un pedante.
Il sacerdote è per eccellenza chiamato a vivere per l'idea, ad operare per la buona causa. Per ciò il popolo sente intimamente quanto poco si addica al prete il mostrar arroganza, il desiderare una vita agiata, di prender parte ai divertimenti, quali la danza ed il giuoco, il far mostra, in una parola, di altri interessi all'infuori dei "sacri". In ciò forse ha giustificazione la scarsa retribuzione dei maestri, i quali si sentono già premiati dalla santità della loro professione e sono costretti a rinunziare agli altri vantaggi.
Né manca una gerarchia delle idee sacre, che in tutto o in parte l'uomo deve professare. La famiglia, la patria, la scienza devono trovare in lui un servo fedele agli obblighi professionali.
E qui ci abbattiamo alla falsa credenza, antica quanto il mondo (il quale non ha ancora appreso a fare di meno dei preti): che, cioè, vivere e creare in favore d'un'idea sia il vero fine dell'uomo e che il valore di lui debba commisurarsi alla riguardosa esattezza con cui adempie a quell'intento.
E questo il dominio dell'idea o, se meglio vi piace la parola, il pretismo. Robespierre, ad esempio. St. Just ed altri, erano preti nell'anima, entusiasti, strumenti obbedienti dell'idea, uomini ideali. St Just esclama in una delle sue orazioni: " Vi è qualcosa di terribile nell'amor di patria; esso è così imperioso da sacrificar tutto senza misericordia, senza tema, senza riguardi umani alla salute pubblica. Esso precipita Manlio nell'abisso, sacrifica gli affetti privati, guida Regolo a Cartagine, spinge un Romano a gettarsi nella voragine e colloca Marat, vittima della sua devozione, nel Pantheon ".
A tali rappresentanti di interessi ideali o sacri si oppone una folla d'innumerevoli interessi "personali" e profani. Ma nessuna idea, nessun sistema, nessuna causa santa è così grande che essa non debba essere soverchiata dagli interessi personali. Se questi tacciono a tratti nella età di sconvolgimenti e di fanatismo, riprendono in breve il loro predominio in virtù "del buon senso del popolo". Quelle idee non riescono vittoriose se non allorquando cessano dall'essere avverse all'interesse personale e soddisfanno l'egoismo.
Il mercante d'acciughe che offre la sua mercé, gridando sotto la mia finestra, ha un interesse personale a venderla in gran quantità, e se sua moglie o gli amici gli augurano che ciò avvenga, ciò è pur sempre per l'interesse puramente personale di lui. Se invece un ladro gli rubasse il canestro che contiene la sua mercanzia, si ridesterebbe l'interesse di molti, di tutta la città, di tutto il paese o — a dirla in breve — l'interesse di tutti coloro che hanno in orrore il furto: a questo interesse sarebbe del tutto estranea la persona del merciaiuolo, e gli sottentrerebbe la classe dei «derubati».
Ma anche in questo caso tutto si risolverebbe alla fin fine in un interesse personale giacché ognuno penserebbe esser suo dovere di concorrere alla punizione del ladro, per impedire che il furto si estenda e ne possa diventar vittima egli stesso. E per quanto sia difficile ammettere un tale ragionamento conscio presso molte persone, si udrà tuttavia proclamare generalmente che "il ladro è un delinquente". Ecco che ci troviamo di fronte a un giudizio dacché l'azione del ladro è dichiarata un "delitto".
Ora le cose stanno in questo modo: quand'anche il delitto non recasse il più lieve danno né a me né ad altri, malgrado ciò io imprecherei sempre contro esso. Perchè? Perché io sono entusiasta della moralità, sono compreso dell'idea della moralità; e per ciò combatto ciò che le è contrario. Appunto perchè crede degno di biasimo il rubare, Proudhon può ritenere d'aver abbastanza vilipesa la proprietà definendola un furto. Agli occhi dei preti esso è senz'altro e in tutti i casi un delitto o per lo meno una contravvenzione.
E quì finisce l'interesse personale. Quella persona che ha rubato il canestro mi è del tutto indifferente: io mi interesso unicamente, al furto per sé stesso — al concetto, cioè, che nel ladro è rappresentato.
Ladro e Uomo son nel mio spirito termini inconciliabili, poiché non si è veramente uomo essendo ladro; si disonora l'uomo o la umanità quando si ruba. E dimenticato il lato personale della cosa si cade per tal modo nel filantropismo, nell'amore per tutti gli uomini, che non è già amore per ogni uomo singolo, sì invece amore dell' uomo in astratto, d'un concetto irreale cioè, d'un fantasma; poi che non è già todx anqrwpoux, gli uomini, bensì tdnanqrwpon, l'uomo, quel che il filantropo accoglie nel suo cuore. Vero è che egli si occupa anche dei singoli, ma unicamente perchè spera di veder da per tutto attuato il suo prediletto ideale.
Dunque non si tratta d'aver cura di me stesso, di te, di noi: ciò sarebbe interesse personale e apparterrebbe al capitolo dell' "amore del mondo"; si tratta invece d'un amore celeste, spirituale, pretino; ché tale è il filantropismo. L' uomo deve esser edificato in noi, anche se noi, che lo rappresentiamo, dovessimo perire tutti quanti.
È una massima clericale al pari di quella che dice: fiat justilia pereat mundus; l'uomo, la giustizia, sono idee, fantasmi ai quali tutto s'immola: per questo gli spiriti pretini sono quelli che si "sacrificano".
Chi è entusiasta dell'uomo, non considera le persone, ma l'ideale. L'uomo, per lui non è già una persona, bensì è un ideale, un fantasma.
Le cose più diverse possono esser considerate come attributi dell'uomo. Se l'attributo è la pietà, abbiamo il pretismo religioso; se è la moralità, abbiamo il pretismo morale. Perciò i chierici della nostra età vorrebbero trasformare ogni cosa in "religione"; nella religione della libertà, in quella dell'uguaglianza, ecc. Tutte le idee per loro diventano "cause sante", persino l’appartenenza ad uno Stato, la politica, la pubblicità, la libertà di stampa, la istituzione delle giurie, ecc. Che cosa significa allora, presa in questo senso, la parola "disinteresse"? L'avere soltanto un interesse ideale senza considerazioni della persona!
Contro questo modo di considerar le cose si ribella il duro cervello dell' uomo mondano, ma per secoli e secoli egli ha dovuto sempre soccombere, e curvare il collo caparbio, e "adorare la potenza superiore". Il pretismo lo seppe conculcare. Se l'egoista mondano era riuscito a respingere lontano da sé una "potenza superiore" (per esempio, la legge dell'antico testamento, il papa romano, ecc.); una nuova potenza dieci volte superiore sorgeva ad avvincerlo (per esempio, in luogo della legge la fede, in luogo del clero limitato il mutarsi di tutti i laici in sacerdoti e cosi via). Così succedeva all'ossesso nel quale entravano sette diavoli quando egli credeva d'averne cacciato uno.
Nelle parole del Bauer che abbiamo sopra citate si nega ogni idealità alla classe borghese. Ed è vero proprio che essa falsò da prima la conseguenza ideale che Robespierre voleva trarre dai principi affermati. L'istinto del proprio interesse diceva alla borghesia che quella conseguenza poco armonizzava coi fini ai quali essa mirava, e che il favorire l'entusiasmo per il principio sarebbe stato un lavorar contro se stessa. Doveva essa forse condursi così disinteressatamente, abbandonare tutti i suoi fini pel trionfo di una teoria immatura? Ciò si conviene bensì egregiamente ai preti, quando trovino chi presti ascolto a queste lor massime: "Fa getto d'ogni cosa e seguimi", oppure, "vendi tutto ciò che possiedi, e dallo ai poveri, con ciò ti acquisterai un tesoro nel cielo; dunque vieni e seguimi". Alcuni idealisti risoluti obbediscono a tale voce ; ma la maggior parte di essi fanno come Anania e Saffira, conducendosi mezzo da preti e mezzo da mondani, sacrificando cioè insieme a Dio ed al mammone.
Io non rimprovero già alla classe borghese di essersi lasciata distrarre dai suoi fini da Robespierre, d'aver cioè interrogato il proprio egoismo, finché questo poteva consentire coll'idea rivoluzionaria. Ma il rimprovero sarebbe appropriato a coloro (se proprio qui e il caso di muover rimproveri) che per servire agli interessi della classe borghese hanno cagionata la ruina dei propri. Ma non è da supporsi che, presto o tardi, anche essi impareranno a conoscere ciò che torna a loro vantaggio? Augusto Bceker dice [(1) Filosofia del popolo dei nostri giorni, pag. 22]: "A guadagnarsi i produttori (proletari), non è sufficiente la negazione dei principi del diritto vigente. La gente s'occupa purtroppo assai poco del trionfo delle idee. Bisogna provare loro "ad oculos", in qual modo la vittoria possa tornar di pratico vantaggio". Ed a pag. 32: "Bisogna prendere la gente dal lato dei loro interessi reali, se si vuol agire su di essa". E subito dopo egli dimostra come tra i nostri contadini si faccia strada un'immoralità sempre maggiore, perchè essi guardano assai più al loro interesse che non alle leggi della moralità.
I preti e i maestri della Rivoluzione volevano servire all'uomo; per ciò essi tagliavano la testa agli uomini. I laici o i profani della Rivoluzione non erano meno restii nel tagliare le teste, ma essi lo facevano pel proprio interesse e poco si curavano dei diritti dell'uomo.
Onde avviene dunque che l'egoismo di coloro che propugnano l'interesse personale, e con esso si consigliano in ogni occasione, sia subordinato sempre a qualche interesse ideale? Da ciò che la propria persona apparisce loro troppo meschina, troppo poco importante (e ciò è di fatto vero), per poter esigere che ogni cosa si pieghi al suo volere. Un sicuro indizio di ciò sta nel dualismo che si trova in ogni uomo, per cui egli è come scisso in due parti, l'una eterna, l'altra caduta, delle quali ora l'una ora l'altra prevale. La domenica si pensa alla salute della parte eterna, negli altri giorni a quella temporale; colla preghiera all'una, col lavoro all'altra. Costoro hanno in sé veramente del pretino e non possono liberarsene! sicché tutte le domeniche, nel loro interno, si sentono fare il sermone.
Quanto "non hanno lottato e durato gli uomini per rendersi conto del dualismo del loro essere! Le idee succedono alle idee i principi ai principi, i sistemi ai sistemi; eppure nulla finora seppe vincere le obbiezioni dell'uomo "mondano", del cosiddetto "egoista". Non prova ciò forse che tutte quelle idee erano impotenti a comprendere in se stesse intera la volontà e a soddisfarla?
Esse mi erano e mi sono rimaste avverse, benché la loro ostilità mi sia restata nascosta per lungo tempo. Sarà la stessa cosa anche dell' "individualità"? È anch'essa un semplice tentativo di mediazione? Qualunque sia il principio cui mi rivolsi, io fui costretto poi ad allontanarmene.
Eppure posso io esser sempre ragionevole, ordinare tutta la mia vita secondo ragione? Io posso bensì aspirare alla "ragionevolezza", io posso amarla allo stesso modo che amo Dio e le altre idee. Io posso essere filosofo, posso amar la sapienza allo stesso modo che amo Dio. Ma quello che io amo, quello a cui aspiro, non esiste che nella mia idea, nella mia rappresentazione, nei miei pensieri: si trova nel mio cuore, nella mia testa, m'è tanto caro quanto il cuore; eppure non è l' "io"; non sono io.

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