'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''
PARTE SECONDA --- IO
La mia gioia [ primo frammento ]
Noi ci troviamo all'estremo confine d'un periodo. Il mondo, qual'è
stato sinora, non s'è curato che di conquistar la vita — né d'altro s'è preso
pensiero che della vita. Poiché — sia che noi ci adoperiamo per
conservarci la vita quaggiù, sia che ci travagliamo per acquistar la vita lassù
— sia che aneliamo al "pane quotidiano" (dacci il nostro pane
quotidiano), sia che aspiriamo al pane celeste (il vero pane del cielo,
il pane divino, che viene dal cielo e dà vita al mondo, il pane della
vita, Giov., 6) — sia che provvediamo alla " misera vita
" sia che intendiamo alla "salute eterna" — il nostro fine si
chiarisce pur sempre questo solo: la vita. Le tendenze moderne si
presentano forse sotto diverso aspetto ?
Si vuole che a nessuno più sia tolto il modo di procacciarsi ciò
di cui abbisogna per la vita e che l'uomo abbia a prendersi cura della terra e
del mondo reale senza preoccuparsi del di là.
Consideriamo la stessa cosa di un altro punto di vista. Chi è
preoccupato soltanto di vivere, dimenticherà facilmente di godere
la vita. Or in qual modo si gode la vita? Consumandola al pari d'una
candela.
Ebbene — noi andiamo in cerca della gioia! Che fece il mondo
religioso? Esso ricercava la vita. "In che cosa consiste la vera vita, la beatitudine della
vita, ecc.? Come si può raggiungerla?
Che cosa deve fare l'uomo per vivere veramente? Come
adempie esso alla sua vocazione?
Queste e simili questioni denotano che quelli che così interrogano
ricercavano prima d'ogni cosa se stessi. Quello che io sono non è che fumo ed
ombra; quello ch'io sarò è il mio vero io". Dar la caccia a quest'io, attuarlo,
ecco il difficile compito proposto dalla religione ai mortali, i quali non muoiono
che per risuscitare, non vivono che per morire e ritrovar nella
morte la vera vita.
Io non appartengo a me stesso se non quando son sicuro di me e più
non mi cerco. Per contro sino a tanto che penso che il mio vero io sia ancora
da scoprire, e che per ottener questo sia d'uopo ch'io creda che non io, ma Cristo
o qualche altro io spirituale — vale a dire fantastico — viva in me, io
non posso essere soddisfatto di me stesso.
Una distanza immensa separa queste due concezioni. Nell'antica io
cammino verso me stesso, quale mia mèta; nella moderna io parto da me stesso.
Nell'una io provo desiderio di me; nell'altra io mi possiedo e dispongo di me,
come faccio di qualunque altra cosa che m'appartenga, — io godo di me stesso
secondo il piacer mio. Io non trepido più per la vita: la "consumo".
La ricerca non è più questa dunque: come io debba acquistare la
vita; ma quest'altra; come io possa spenderla, goderla; non più come io debba
formare il mio io, bensì come io abbia e dissolverla, ed esaurirlo.
Che cosa è l'ideale se non l'io lontano di cui si va in cerca? Si
cerca sé stessi, dunque non si ha finora il possesso di sé stessi; si anela a
ciò che dobbiamo diventare: dunque si riconosce che l'ideale è
ancora inattuato. Si vive nella brama inappagata: e per millenni
di che altro si visse se non di brame e di speranze? Ma ben altra
sarà la vita della gioia.
Queste parole son forse rivolte ai soli uomini religiosi?
No, son rivolte a tutti coloro che appartengono al periodo storico che ora sta
tramontando; anche ai così detti uomini di mondo.
Anche per costoro ai giorni di lavoro seguono le feste; pur essi
in mezzo all'agitazione mondana si cullano nel sogno d'un mondo migliore, di una
felicità universale, in somma d'un ideale.
Ma agli uomini religiosi è uso per lo più contrapporre i filosofi.
Ebbene, hanno mai costoro pensato a qualche altra cosa che non fosse un ideale,
od un "io" assoluto? Dappertutto desideri e speranze, e null'altro!
Chiamate pur ciò, se vi piace, romanticismo.
Se il godimento della vita deve trionfare del
desiderio della vita, è pur necessario ch'esso ne trionfi nella
duplice forma che lo Schiller ci presenta col nome di "ideale
per la vita", che esso distrugga la miseria religiosa e sociale,
che sperda l'ideale, che annienti la causa del pane quotidiano. Chi deve
logorar la vita, per salvarsi dalla fame, non può goderla; chi va in cerca della
sua vita, non la possiede e può goderla ancor meno. L'uno e l'altro sono
poveri, ma di essi è il regno dei cieli.
Se a coloro che sperano in una vita futura, e considerano la
presente come una preparazione a quella, riesce accettabile la schiavitù della
loro esistenza terrena che dedicano interamente al servizio della sperata vita
celeste, non è men vero che anche le persone più colte posseggono ugual virtù
di sacrificio. Nella "vera vita" non si trova forse un significato
molto più esteso di quello che nella "vita celeste"? Può forse alcuno
vivere per la sola virtù del suo istinto secondo un tal principio, o non basta
invece a ogni uomo cotesto indicibile sforzo? La possiede egli già questa sua
ideal vita, o non deve invece conquistarla appunto come una vita futura, di cui
sarà meritevole solo allorquando si sarà deterso da ogni macchia di egoismo?
Sotto questo aspetto non si vive che per acquistare la vera vita. Per ciò
appunto si ha paura di godere la vita, dacché essa non deve servire che a un
altro uso — più remoto.
All'esistenza in somma è prefissa una missione, un compito cui la
vita è mezzo e strumento.
V'è a tutti i modi un Dio, che esige una vittima vivente.
Il rozzo costume dei sacrifizi umani non ha che mutato la sua forma, nella
sostanza è rimasto; e ad ogni ora i colpevoli cadono vittime della giustizia, e
noi "poveri peccatori" immoliamo noi stessi all' "essenza
umana", all' "idea dell'umanità", all' "umanesimo" ed
agli altri idoli, comunque ci si chiamino. E poiché noi dobbiamo la nostra vita
ad un ideale, noi non abbiamo — ecco ciò che ne consegue immediatamente — il
diritto di ucciderci.
La tendenza conservatrice del Cristianesimo non consente che si
pensi alla morte altrimenti che a un passaggio ad un'altra vita eternamente
duratura. Il cristiano sopporta ogni più trista cosa e si rassegna a ogni
offesa e ad ogni male purché — da vero ebreo — gli si conceda di entrare; anche
di contrabbando, nel paradiso. Uccidersi non gli è permesso, egli non può che
conservar sé medesimo per attendere a prepararsi la futura dimora. Il
conservarsi gli sta a cuore, "L'ultimo nemico che sarà tolto è la
morte" (1 Cor. 15, 26.). Cristo ha strappato alla morte ogni potere ed ha
creato la vita e l'essenza imperitura mediante il vangelo (2
Tim. 1, 10.).
L'uomo morale vuole il bene, il giusto; e se egli usa i mezzi che
conducono a quel suo fine, riconosce però che questi mezzi non sono propri a sé, ma al bene,
al giusto, ecc. Da ciò la massima che il fine santifica i mezzi. L'uomo morale agisce al servizio
d'un intento o d'una idea; egli fa di sé stesso uno strumento del
concetto del bene, allo stesso modo che l'uomo religioso fa di sé uno strumento
di Dio. Attender la morte, ecco ciò che il principio del bene ci impone; darsela
volontariamente è dunque cosa immorale e malvagia. Il suicidio non
può quindi esser giustificato in alcun modo dinanzi al tribunale della
moralità. Se la religione lo vieta perchè Dio t'ha data la vita e Dio solo può
togliertela (come se, anche accettando questo modo di vedere, Dio non me la
togliesse col risvegliare in me l' idea del suicidio, allo stesso modo che mi
fa trovare la morte per una tegola che mi cade addosso o per una palla nemica
che m'uccide); la moralità lo proibisce perchè "io sono in debito della
mia vita alla patria, ecc.", "perché io non so se vivendo non potrei
fare ancora del bene" e cosi, a tutti i modi, perchè colla mia morte il
bene perde un suo strumento, come lo perde Dio. Se io sono immorale devo
serbarmi in vita per farmi migliore, se io sono "empio" devo vivere
per il ravvedimento. Dunque chi si uccide o dimentica Dio o dimentica
il dovere. Cosi si ragiona.
Fu molto discussa la questione se la morte d'Emilia Galotti possa
giustificarsi nel rispetto della morale (la si considera quale un suicidio, perchè tale è in
realtà). Che essa sia sì fattamente posseduta dall'idea della castità da
sacrificarle la vita, è certo una cosa morale, ma che essa non sappia vincersi
è per converso immorale. Di tali contraddizioni del resto si compone il
conflitto nelle tragedie morali; bisogna pensare e sentire secondo la morale
umana per trovarci un interesse qualunque.
Cose non diverse debbono dirsi per l'umanità, poiché
anche a questa — all' uomo, alla specie "uomo" — si è in debito della
propria vita. La conservazione della vita non diviene cosa mia se non quando io
più non riconosco alcun dovere verso chicchessia. "Un salto giù da questo
ponte mi rende la libertà".
Ma se noi siamo in debito della conservazione della nostra vita a
quell'essere che dobbiamo attuare in noi, non è meno dover nostro di non
condurre questa vita secondo il nostro piacere ma di informarla
invece a quell'ideale.
Or quanto diversamente tal ideale fu inteso ne' vari tempi, e come
ne muta il concetto pur in una medesima età presso popoli diversi! Quali cose
esige l'ente supremo del maomettano e quanto diverse cose quello
del cristiano! Come differente dunque deve essere la vita
dell'uomo da quella dell'altro! Soltanto nel ritenere che l'ente supremo debba
regolare la nostra vita le fedi religiose vanno d'accordo. Gli uomini religiosi
appartengono ad un periodo di civiltà già oltrepassato e debbono esser lasciati
al lor luogo. Ai nostri tempi non più essi ma i liberali prevalgono, e la
stessa religione è costretta a darsi colore di liberale. Ora i liberali non
adorano in Dio l'arbitro delle loro azioni e non regolano la vita secondo i
suoi precetti: mirano all' "uomo"; essi non intendono vivere
"secondo Dio", bensì "secondo l'uomo".
L'uomo è per i liberali l'ente supremo, l'arbitro della
vita, e l'umanità è il catechismo, al quale ciascuno deve informare le sue
azioni. Dio è spirito, ma l'uomo è lo "spirito, perfettissimo", il risultato
finale della lunga caccia data allo spirito, o delle indagini nelle
profondità del divino, cioè dello spirito.
Ciascuno dei tuoi atti dev'essere umano; tu stesso
devi informarti a questo ideale tipo d'uomo.
Tale è la tua vocazione.
Vocazione — destinazione — compito; nulla più che illusioni!
Ciascuno diventa quel che può diventare. Un poeta-nato può da
circostanze sfavorevoli esser impedito d'innalzare e di creare delle opere
d'arte perfette sebbene vi si sia preparato coi grandi studi che
sono a ciò necessari; ma egli farà delle poesie, a ogni modo, tanto se
costretto a lavorare i campi, quanto se ospitato alla corte di Weimar.
Un musicista-nato farà della musica, e se gli mancheranno strumenti,
s'accontenterà d'una canna. Chi ha da natura inclinazione alle speculazioni
filosofiche se non potrà diventare professore d'università sarà almeno un
filosofo da villaggio. Finalmente chi è nato sciocco ed è tuttavia dotato d'una
certa astuzia (ciò che accade molto spesso) resterà sempre uno sciocco anche se
a forza di spinte diventerà un capo divisione o il lustrascarpe di un capo
divisione. Sì, le teste ottuse sin dalla nascita formano indubbiamente la classe
più numerosa dell'umanità. O perchè non si dovrebbero manifestare anche
nell'uomo quelle diversità che si riscontrano in tutte le specie d'animali?
Tuttavia ben pochi sono imbecilli a segno da essere inaccessibili
a ogni idea. Per ciò è opinione comune che non v'è uomo che non sia capace di
religione e che non possa anche accogliere in maggiore o minor grado, qualche
insegnamento di scienza o d'arte: per esempio alcune nozioni di musica o un po'
di filosofia. E qui appunto incomincia la faticosa opera dei sacerdoti della
religione, della moralità, della civiltà, della scienza, e finisce alla pretesa
dei comunisti, i quali, mediante la loro "scuola popolare",
vorrebbero rendere accessibile il tutto a tutti.
Non basta l'aver avviato alla religione il popolo, si pretende ora
che esso si occupi anche di tutto ciò che e "umano". E la disciplina
si fa per tal modo sempre più generale e complessa.
Voi poveri esseri, che condurreste vita così felice se poteste
saltare a piacer vostro, siete costretti a ballare secondo il flauto dei
maestri di scuola e dei conduttori d'orsi, e a far delle capriole che nulla vi gioveranno nella vita. E non osate nemmeno
ribellarvi se vi si prende sempre per quel verso che è contro la vostra natura.
No; voi ripetete meccanicamente l'interrogazione che vi fu insegnata. A che
cosa sono io chiamato? Quale è la cosa ch'io devo fare? Così, basta che
facciate a voi stesso queste domande, ed eccovi ridotti a tollerare che vi si dica
e vi s'imponga di fare come gli altri vogliono, a
lasciarvi imporre la vostra vocazione, o a prescriverla da voi
stessi secondo i precetti dello spirito. E in quanto alla volontà, finirete col
dire: io voglio quello che devo fare.
L'uomo non è chiamato a cosa alcuna, non ha nessun
compito, nessuna destinazione, meglio che possa averli
una pianta o un animale. Il fiore non obbedisce ad una vocazione di
perfezionare la sua bellezza, ma adopera invece come meglio può le proprie
forze: per poter godere e trar dal mondo il miglior vantaggio, esso assorbe
tanti succhi dalla terra, tant'aria dall'etere, tanta luce dal sole, quanto ne
può ottenere e contenere. L'uccello non sa di vocazione, ma usa delle sue forze
nel miglior modo possibile; va in caccia d'insetti e canta finché gli piace.
Eppure le forze del fiore e dell'uccello sono ben meschine in confronto a
quelle dell'uomo, cui è prescritta — come nella vita stessa — un'operosità
perenne. Si potrebbe dunque dire all'uomo: usa delle tue forze.
Se non che da questo imperativo sarebbe pur d'uopo inferire esser
insita nell'uomo una legge cui egli deve obbedire. Ma così non é.
Ognuno adopera, sì, le proprie forze, ma senza che ciò sia per lui un compito;
in ogni momento ciascuno adopera tutta la forza di cui è capace. Si dice, è
vero, parlando di chi soccombe, che egli avrebbe dovuto usare una maggior
forza; ma si dimentica che se avesse potuto farlo, presso a soccombere, lo
avrebbe fatto. Sia durato anche solo un istante lo scoraggiamento, ciò equivale
all'impotenza d'un minuto. Le forze si possono certamente affinare e
moltiplicare particolarmente per una resistenza al nemico o per un aiuto amico;
ma quando si tralascia di adoperarle, si può esser ben certi che esse sono
venute meno. Si può sprigionare il fuoco da una pietra; ma senza un colpo,
senza un forte attrito, il fuoco non si sprigiona; non altrimenti l'uomo abbisogna
d'una scossa.
Se le forze sono sempre attive per sé stesse, il precetto di
adoperarle è superfluo e senza senso.
Adoperare le proprie forze non è la vocazione dell'
uomo, non è il suo compito, bensì è la sua azione necessaria in
ogni momento. La parola "forza" è una semplificazione per esprimere
la manifestazione della forza.
Sicché, come la rosa è sempre, fin da principio, una vera rosa e
l'usignolo è sempre un vero usignolo, così io non divento uomo solo quando
corrispondo alla mia vocazione, bensì sono sin dalla mia nascita un "vero
uomo". Il mio primo balbettare è indizio di vita d'un "vero
uomo", le mie lotte per l'esistenza sono le manifestazioni della mia
forza, il mio ultimo respiro è l'ultimo esaurirsi della forza dell'uomo.
Non nell'avvenire, oggetto eterno di desideri, sta il vero uomo
bensì nel presente e nella realtà.
Come e chiunque io sia, lieto o addolorato, bambino o vecchio,
fiducioso o dubbioso, dormente o vigilante, io sono io, io sono il vero uomo.
Ma se io sono l'uomo e ho ritrovato in me
quell'essere che l'umanità religiosa mi additò quale una mèta lontana, è forza
concludere, che, dunque, tutto ciò che è veramente umano m'appartiene.
Quella libertà dei commerci, p. es., che l'umanità anela sempre di conseguire,
e che si fa brillare dinanzi agli sguardi come un sogno incantevole sconfinante
nell'avvenire, io me l'approprio senz'altro e la esercito frattanto sotto forma
di contrabbando. Certamente saranno ben rari quei contrabbandieri che sapranno
rendersi conto dei motivi del loro agire, tuttavia l'istinto dell'egoismo
supplisce al difetto di coscienza. Della libertà di stampa ho dimostrato più
sopra la stessa cosa.
Ogni cosa m'appartiene, e per ciò io mi riprendo quello che mi si
vuol sottrarre, ma anzitutto riprendo possesso di me stesso ogni qualvolta cado
inavvertitamente nella soggezione d'altrui. E ciò non per una mia vocazione,
bensì per un mio atto naturale.
In somma v'ha immenso divario tra il considerare le cose come
punto di partenza e il considerarle come punto d'arrivo. In questo ultimo caso
io non possiedo ancora me stesso, la vera mia essenza mi è estranea e si prende
gioco di me come un fantasma dai mille aspetti. E poiché io non sono ancor io,
un altro mi si sostituisce (Dio, il vero uomo, l'uomo religioso, l'uomo ragionevole,
libero ecc.).
Lontano ancora dall'aver raggiunto me stesso, io mi divido in due
parti, delle quali l'una, quella che attende il conseguimento e l'adempimento
della promessa, è la sola vera ; l'altra la falsa, deve essere sacrificata.
Allora si dice: "Lo spirito è la vera essenza dell'uomo"; oppure: L'uomo
non esiste che spiritualmente come tale è. Ed allora noi ci affaccendiamo
disperatamente nella ricerca dello spirito, come se con esso riuscissimo ad
attuare la nostra essenza; e in quell'indagine faticosa e vana perdiamo di
vista noi stessi.
E come impetuosamente si tiene dietro all'ideale — non mai
raggiunto — di se stessi, così si trascura anche il precetto dei savi, di
prender cioè gli uomini quali sono, e li si prendono invece quali dovrebbero
essere, e si esorta ognuno a dar la caccia a sé stesso, a quell'essere
che dovrebbe essere formato "da tutti gli uomini perfettamente uguali per
diritto, moralità e ragionevolezza" [(1) Il Comunismo nella Svizzera,
p. 24.].
Certe, si dice, "se gli uomini fossero quali dovrebbero
o quali potrebbero essere; se tutti gli uomini fossero
ragionevoli, e si amassero come fratelli" [(2) Op. cit., p. 63.], questa
sarebbe una vita di paradiso.
Ebbene — rispondiamo — è così appunto: gli uomini sono quali
devono e possono essere.
Come dovrebbero essere? Non diversi certo da quello che possono
essere!
E che cosa possono essere? Non altra cosa da quella che sono: una
forza. E forze, sono realmente, poiché non possono essere altra cosa, fuor di
quella che sono.
Una persona che sia ammalata di cataratta può essa vedere? Sì,
quando si sia fatta operare con successo. Ma come cieca essa non può più
vedere, per questa semplice ragione: che non vede»
Possibilità e realtà coincidono sempre. Nulla si può che non si
faccia, e per converso nulla si fa che non si possa.
La singolarità di quest'affermazione sparisce, se si considera che
le parole "è possibile che...." non celano mai altro significato
senonché questo: "io posso pensarmi, che.....". Per esempio, l'affermazione:
è possibile che tutti gli uomini vivano secondo la ragione, vuol dire; io posso
immaginarmi che tutti gli uomini vivano ragionevolmente. Ma siccome col mio
pensiero non posso ottenere, e non ottengo di fatto, che tutti gli uomini vivano
ragionevolmente, e quindi devo lasciare ciò in facoltà degli uomini, così la
ragione universale non può esser immaginata che da me, è una realtà che,
per riguardo a quello che io non posso fare, è chiamata una
possibilità. Per ciò che dipende da te, tutti gli uomini potrebbero essere
ragionevoli, poiché tu non ci avresti nulla in contrario, anzi, per quanto tu
possa spaziare col pensiero, tu non saprai scoprire alcun ostacolo che a ciò
s'opponga, e perciò nulla si oppone a che tu possa immaginare una tal cosa: essa
è per te possibile.
Ma siccome gli uomini non sono tutti ragionevoli, bisogna credere
anche che non possano esser tali.
Se una cosa, che immaginiamo possibilissima, non è o non avviene,
si può esser sicuri, che c'è qualche impedimento di mezzo e che quella cosa è
impossibile. La nostra età ha la sua arte, la sua scienza, ecc. L'arte odierna,
ad esempio, sarà pessima, ma è per noi la sola possibile e perciò
reale.
Anche interpretando la parola "possibile" nel senso
ch'essa voglia significare qualcosa di "futuro", il possibile
mantiene nonostante tutta la piena forza del "reale". Se si dice p.
es., "è possibile che domani sorga il sole", ciò non vuol dir altro
se non che: "per l'oggi il domani è il futuro reale"; perchè è
superfluo osservare che il futuro è solo allora veramente "il futuro"
quando non s'è finora avverato.
Ma a che queste interpretazioni di singole parole? Se dietro ad
esse non si nascondesse un malinteso ormai secolare se tutta la fantasmagoria
da cui è posseduta l'umanità non s'aggirasse intorno al concetto di questa
parola "possibile", non metterebbe conto da vero che noi ce ne occupassimo.
Il pensiero, come abbiamo dimostrato, domina il mondo. Ebbene, la
possibilità non è che ciò che può capire nell'immaginazione ed a questa orribile
immaginazione furono immolate innumerevoli vittime. Era possibile
immaginare che gli uomini diventassero ragionevoli; possibile immaginare
ch'essi comprendessero il Cristo, che s'esaltassero per il bene e
per la moralità; possibile il pensare che tutti riposassero nel grembo della
Chiesa, che nessuno s'argomentasse di rovesciare lo Stato, che tutti potessero
essere dei buoni sudditi; e per la ragione che era possibile
rappresentarsi tutto ciò, la cosa — ecco la conclusione — doveva esser possibile
essa stessa; e più anche, perchè agli uomini ciò era possibile (qui sta
l'errore da che altro è che io immagini una cosa, altro che questa cosa debba
essere possibile agli uomini) essi dovevano essere
così e non altrimenti, e avere quella missione ed essere alla stregua di quella
missione giudicati.
A che cosa si arriva procedendo di questo passo? L'uomo quale
fu immaginato dai metafisici è un pensiero, un ideale,
un fantasma di fronte al quale il singolo è ciò che il punto tracciato colla creta
è di fronte al vero punto matematico, o ciò che una creatura di fronte
all'eterno creatore, o, secondo le idee più recenti, ciò che l'esemplare di
fronte alla specie. E qui trova sua espressione la glorificazione dell'
"umanità", "l'eterno immortale", in onore di cui (in
majorem humanitatis gloriam) il singolo deve sacrificar sé stesso,
considerando come suo unico vanto immortale l'operare a vantaggio
dello "spirito umano".
In tal modo coloro che pensano hanno il dominio del
mondo, finché dura la scuola dei maestri e dei preti, e quello ch'essi pensano
è possibile e quello che è possibile deve tradursi in realtà.
Essi pensano un ideale umano, che, pel momento, non
esiste se non nei loro pensieri; ma essi pensano anche alla possibilità di
attuarlo, e l'attuazione — ciò è indiscutibile — può esser realmente
immaginata: è un'idea.
Ma io e tu saremo, supponiamo, tra coloro di cui è possibile
formare, secondo i desideri di un Krummacher, dei buoni
cristiani; pure, se alcuno tentasse di catechizzarci, noi sapremo ben fargli
comprendere che il nostro Cristianesimo può esser immaginato ma
non attuato. E se costui insistesse per ridurci quale il suo pensiero o la sua
fede ci vagheggiano, egli dovrebbe pur accorgersi al fine che noi non abbiamo nessun
bisogno di diventare ciò che non vogliamo essere a nessun patto.
E così di seguito, anche lasciando da parte i religiosi. Si suol
dire; "se tutti gli uomini fossero ragionevoli, se tutti operassero
equamente, se tutti fossero guidati dall'amore del prossimo" ...
Ragione, giustizia, amor del prossimo, ecc., tutto ciò si vuol far
credere esser la missione degli uomini, l'unica mèta d'ogni loro aspirazione.
Ma che cosa significa essere ragionevoli? Intendere la propria voce interna?
No, la ragionevolezza é un libro pieno di leggi tutte rivolte contro l'egoismo.
La storia sino ai nostri giorni non rispecchia che l'uomo spirituale.
Chiuso il periodo della sensualità, s'inizia quello dello spiritualismo, del
soprannaturale, del trascendentale. L'uomo incomincia ad essere qualche
cosa ed a voler diventare qualche cosa. Ma che cosa?
Buono, giusto, vero; più oltre, morale, pio, costumato, ecc. Egli vuol fare di
se stesso un "vero uomo", qualcosa di "buono". Il tipo
astratto dell' "uomo" diventa la sua mèta, il suo dovere, la sua destinazione,
la sua missione, il suo compito — insomma, il suo ideale: per sé
stesso egli è un essere di là da venire. E che cosa lo aiuta a diventare un
"uomo" ideale? L'essere veritiero, buono, costumato, ecc. Da allora
in poi egli guarderà biecamente tutti coloro che non riconosceranno al pari di
lui quell'idea, e non andranno in cerca della lor moralità, della
lor fede. Egli li respingerà quali "settari, eretici"
ecc.
Ma né la pecora né il cane s'affaticano a diventare delle vere
pecore, dei veri cani; a nessun animale il proprio essere
appare come un compito, un concetto, ch'esso sia tenuto ad attuare.
L'animale svolge l'individualità sua vivendo, vale a dire
consumandosi, dissolvendosi. Esso non domanda di essere qualche altra cosa da
quella ch'esso è.
Credete forse ch'io voglia consigliarvi d'imitare i brutti? No,
certo — poiché anche questo sarebbe un nuovo compito, un ideale nuovo.
Del resto tanto farebbe desiderare che gli animali diventassero
uomini. La vostra natura in fin dei conti è l'umana, voi siete uomini. Ma per
ciò appunto non c'è alcun bisogno che cerchiate di diventare tali. Anche gli
animali possono essere "addomesticati" ed "ammaestrati" e
apprendere così a far molte così che sono contro la lor natura. Se non che un
cane ammaestrato non è da più d'un cane secondo natura: il vantaggio non è suo,
è nostro.
Dai tempi più remoti fu continuo lo sforzo di render morali,
ragionevoli, più umani in somma tutti gli uomini, nel che è
l'arte d'ammaestrare. Ma quella tendenza s'è sempre urtata alla indomabilità
dell'individuo, alle particolarità naturali, all'egoismo.
Coloro che si lasciano ammaestrare non ottengono mai il loro fine, e soltanto colle
labbra professano i lor sublimi principi. Di fronte a questa
professione di fede essi nella vita sono costretti a riconoscersi
sempre per peccatori incapaci di attuare la lor chimera,
"uomini vili" condannati a gemere sorto il "pondo dell'umana
debolezza".
Altro accade quando tu non insegni nessun ideale, ma
vai dissolvendo te stesso così come tutto si dissolve nel tempo. Il
dissolvimento non è la tua "destinazione" poiché esso è il presente.
La coltura religiosa ha bensì resi liberi gli
uomini, ma per darli in mano a un nuovo padrone.
Io ho appreso dalla religione a frenare le mie passioni, dalla
scienza a trionfare delle resistenze esteriori; e posso anche dire che non
servo ad alcun uomo. Ma adesso viene il bello: Tu devi obbedire prima a Dio che
agli uomini. Io sono certamente libero dalla irragionevole destinazione dei
miei istinti: se non che, ecco, sono schiavo della padrona: la ragione.
Io ho acquistato la libertà spirituale, la libertà dello
spirito. Ma con ciò son divenuto lo schiavo appunto dello spirito.
Lo spirito mi comanda, la ragione mi guida, essi sono i miei padroni e i miei
duci.
Prevalgono i "ragionevoli", i "servi dello
spirito"; ma se io non sono soltanto carne non son certamente nemmeno
spirito solo. Io sono qualche altra cosa oltre spirito e carne, poiché la libertà
dello spirito equivale a schiavitù di me stesso.
Senza dubbio la civiltà m'ha reso forte. Essa mi ha concesso
dominazione su tutti gli impulsi esteriori ed interiori. Mercé la
coltura io ho acquistato la forza di non lasciarmi più domare da nessuna delle
mie passioni, sensazioni, emozioni, ecc.: Io sono padrone di
essere. Ancora: mediante le scienze e le arti, io mi rendo padrone di
tutto ciò che mi contrasta: a me obbediscono il mare e la terra, e perfino gli
astri sono obbligati a rendermi conto della loro essenza. Lo spirito m'ha reso ragione
di tutto. — Ma sullo spirito io non ho alcun potere. La religione
(l'educazione) m'insegna, è vero, il modo di "vincere il mondo", ma
non già quello di soggiogare Dio e di rendermene padrone; poiché
" Dio è lo spirito ". Oltre a ciò, lo spirito, che io non possa padroneggiare,
può assumere le forme più diverse, può aver nome Dio o Popolo, Stato o Famiglia,
Ragione o Libertà.
Io accetto volentieri quello che secoli di coltura hanno ottenuto
per me; nulla di ciò io voglio abbandonare e a nulla rinunziare; io non
ho vissuto invano. L'esperienza che mi diede il potere sulla mia natura e mi
liberò dal servaggio delle mie passioni, non sarà perduta per me. Essa, che mi
die' modo, di soggiogare il mondo, è stata acquistata a troppo caro prezzo; non
io la vorrò dimenticare. Ma tutto questo non mi basta.
Si domanda, quale più alta mèta possa prefiggersi all'uomo, quali
beni egli possa ancora acquistare; e gli si pone dinanzi senz'altro il più
arduo compito quale una sua missione. Come se a me fosse
possibile ogni cosa !
Quando si vede che taluno è travolto da una mania o da una
passione, nasce in noi il desiderio di salvarlo da quella sua ossessione e
d'aiutarlo a vincerla, "Vogliamo fare di lui un uomo!" Tutto ciò
sarebbe una bella cosa, se al posto di quella idea fissa non se ne collocasse
immediatamente un'altra. Ma non si sa redimere chi è schiavo del denaro se non
dandolo il potere della religione, sottraendolo così ad una schiavitù per
assoggettarlo ad una schiavitù nuova.
Questa trasposizione dall'uno all'altro servaggio, via via più
astratta, è espressa così: i sensi non devono essere rivolti alle cose
periture, bensì unicamente alle eterne, non alle cose temporali, ma alle
perpetue, assolute, divine, prettamente umane, ecc. — vale a dire alle cose
dello spirito.
Si comprese molto presto che non era indifferente la cosa, cui il
cuore s'affezionava o di cui ci si occupava: si riconobbe l'importanza dell'
"oggetto". Un oggetto elevato sopra le particolarità delle
cose è l'anima delle cose; quest'anima è anzi ciò che solo può esser
immaginato, ciò che solo veramente esiste per l'uomo pesante.
Dunque ti conviene non più rivolgere i tuoi sensi alle cose,
bensì i tuoi pensieri all'essenza delle cose. "Beati son
coloro che non vedono, e pur credono". Ciò significa: beati son coloro che
pensano, poiché essi hanno a fare coll'invisibile, e ci credono. Eppure anche
tal oggetto del pensiero, che pel corso di secoli è stato un punto contrastato
e discusso, finisce in un nulla. Si è compreso ciò; nondimeno si volle aver
sempre di nuovo sott'occhi un qualche oggetto, il cui valore dovesse essere
assoluto, come se le pappatoie per i bambini e per i turchi il Corano non
fossero gli oggetti di maggior importanza. Sino a tanto che il mio io non
è per me l' unica cosa che abbia pregio, è indifferente che io metta il mondo a
rumore per un qualunque oggetto: solo un mio delitto contro
quell'oggetto potrà avere importanza. Il grado della mia devozione manifesta la
maggiore o minor servilità della mia condizione; il grado del mio peccato
contro quell'oggetto rivela la misura dalla mia originalità.
Bisogna saperci liberare da tutte queste angustie — non fosse
altro che per poter avere tranquilli i sonni: nessuna cosa può preoccuparci se
noi non ce ne occupiamo; l'ambizioso non può liberarsi dai suoi disegni ne
l'uomo religioso dal pensiero di Dio: idea fissa ed ossessione sono tutt'uno.
Attuare il proprio essere, vivere secondo il suo concetto (il che per i
credenti in Dio significa esser "pii", pei credenti nell'umanità
esser "umani"), sarà compito dell' uomo sensuale o del peccatore
ondeggiante tra l'ebbrezza dei godimenti e la tranquillità dello spirito. Lo
stesso cristiano altro non è che un sensuale che crede nell'esistenza di cose
sacre, ed ha coscienza di violarle, e perciò vede in se stesso un "povero
peccatore". La sensualità, riconosciuta come peccaminosa, è
la coscienza cristiana. E se i moderni non parlano più di "peccati",
o del "peccato", ma invece s'affaticano a combattere l'
"egoismo", l'interesse, ecc.; se il diavolo in somma s'è cangiato
nell'uomo "antiumano", "nell'egoista", forse che per ciò il
cristiano non esiste come prima? L'antico dissidio tra il bene e
il male è forse cessato? Non v'ha forse al di sopra di noi un giudice supremo:
l'uomo? La missione di diventar uomini veri non è forse rimasta?
Se essa ora si chiama "compito" o "dovere" sarà esatto il
nome, poiché l'uomo non è al pari di Dio un ente personale, che
possa destinarci una determinata impresa, ma, con mutata parola, la cosa è
rimasta quale era, Ciascuno ha con le cose i suoi propri rapporti, a cui conforma
gli atti. Prendiamo ad esempio il libro, al quale ebbero la mente milioni di
uomini pel corso di due millenni: la Bibbia. Che rappresentò esso per ciascuno
di quegli uomini? Unicamente ciò che ciascuno volle trovarvi per se!
Per chi non se ne curi affatto, la Bibbia nulla rappresenta; per chi l'adopera
come amuleto, essa ha la virtù d'un incantesimo; per chi si
trastulla con quel libro, come fanno i fanciulli, esso non è che un balocco: e
così via.
Il cristianesimo esige che per tutti la Bibbia debba
rappresentare ed essere un'unica cosa: cioè il libro sacro per
eccellenza, la "sacra scrittura". Si vuol dunque imporre a tutti una
sola fede: la cristiana — e pretendere che nessuno possa in relazione a quel
libro sacro comportarsi come gli piace. Con ciò si distrugge la libertà nella
condotta individuale, a si decreta per vero, unicamente vero un
significato, un modo di sentire. Togliendomi la libertà
di far della Bibbia quel che più mi piace, mi si toglie in generale la libertà
d'azione, e in luogo di essa, mi si impone un'opinione o un giudizio. E così
chi si permette di giudicare essere la Bibbia un millenario errore della
umanità, si rende reo d'un crimine.
Ma in verità, il bambino il quale fa il libro a brani, l'Inka
Atahualpa, che l'appressa all'orecchio e lo rigetta da sé con disprezzo
quando s'accorge ch'esso rimane muto, giudicano così giustamente della Bibbia
quanto il prete, che esalta in essa "la parola del Signore", o il
critico, che la chiama opera di menti umane. Poiché il modo di considerare le
cose appartiene al nostro arbitrio: noi ne usiamo come ci
talenta, o, per meglio dire, nel modo che possiamo usarne. Di che
cosa si lagnano con alte grida i preti, quando vedono un Hegel e
i teologi metafisici cavar fuori dalla Bibbia pensieri di filosofia?
Appunto di ciò, che coloro usano della Bibbia come loro piace:
"arbitrariamente".
Ma siccome nell'usare delle cose siamo tutti arbitrali; ne usiamo
cioè così come a noi piace (nulla è più gradito al filosofo
quanto lo scoprire in ogni cosa un'idea, nulla all'uomo pio
quanto il trovar da per tutto l'immagine di Dio); così noi non ci abbattiamo in
alcun altro campo ad una prepotenza così terribile, ad una costrizione così
stupida — come nel campo del nostro arbitrio.
Se noi procediamo arbitrariamente, col prendere nel
modo che meglio ci piace le cose sacre, con qual diritto potremmo rinfacciare
agli spiriti religiosi l'uso che essi hanno di trattarci arbitrariamente a
modo loro col ritenerci meritevoli del fuoco eterno, o di qualche altra
pena, o per lo meno della censura?
L'uomo fa delle cose ciò ch'egli è; "così come tu vedi il
mondo, il mondo vede te". Ma ecco che s'affaccia pronto il consiglio: tu devi osservare il mondo giustamente,
spregiudicatamente.
Come se il bambino non guardasse serenamente e senza preconcetto
la Bibbia, quando ne fa un trastullo! Questo saggio consiglio ci viene dal Feuerbach.
Ma le cose non si osservano spregiudicatamente, se non quando si fa di esse
quel conto che si vuole (col nome di cose, noi intendiamo tutti
gli oggetti materiali e ideali, come Dio, il nostro prossimo, la donna amata,
un libro, un animale, ecc.). Per ciò quel che più importa non è già l'oggetto o
il modo d'osservarlo; bensì l'io, la mia volontà.
Si vuol ricavare dalle cose l'idea, si vuole scoprire
una ragione nel mondo: ecco perchè vi si trova quello che si cerca.
"Cercate e troverete". Che cosa io debba cercare io
solo ho diritto di decidere. Per esempio io voglio cercar edificazione nella
Bibbia, e io ve la troverò. Io voglio leggere ed esaminare la Bibbia a fondo, e
ne ritrarrò un profondo ammaestramento e argomenti sottili di critica — a
seconda delle mie forze. Io scelgo quello che più è conforme ai miei desideri,
e, così scegliendo, mi rivelo arbitrario.
Aggiungete che ogni mio giudizio sul conto d'un oggetto, è una creazione
della mia volontà.
Da ciò nasce la convinzione che io non debba perdermi dietro la creazione,
ma considerare me stesso quale l'unico che giudica e suscita
sempre nuove forme e nuove cose. Tutti i predicati delle cose sono mie
osservazioni, sono miei giudizi, sono mie creazioni. Se esse vogliono staccarsi
da me e diventare entità per sé stesse, o, peggio ancora, imporsi a me, io le
ricaccerò nel loro nulla, facendole rientrare in me, che le ho create. Dio,
Cristo, la trinità, la moralità, il bene,
ecc., sono tali creazioni, di lui io ho ben diritto dì giudicar che son vere
come di affermare che son false. Allo stesso modo che io ho voluto e decretato
che siano, così io devo poter volere e decretare che più non siano, non devo
permettere ch'esse mi sopraffacciano, non devo esser debole tanto da consentire
che esse si eternino e si sottraggano al mio potere. — Se così adoperassi io
cadrei sotto la signoria di quel principio della stabilità che è
il vero concetto vitale della religione, a cui troppo preme di creare delle
"santità intangibili", delle "verità eterne", di porre in
somma sopra di te qualche cosa sacra, per sottrarti a quello che ti è proprio.
L'oggetto fatto entità ci rende ossessi, quale che
sia la forma — sensibile o soprasensibile, sacra o profana — in cui si
presenta. Sete dell'oro desiderio di una eterna felicità in cielo si equivalgono
— per questo rispetto — interamente.
Quando i progressisti vollero convertire il mondo alla religione
dei sensi, Lavater predicò la brama dell'invisibile.
Ciascuno si fa dell'oggetto un'idea sua propria: e Dio, Cristo, il
mondo, ecc., furono e sono concepiti nei modi più vari. Ciascuno in ciò pensa
diversamente dagli altri. Terribili lotte furono necessarie per ottenere che
opinioni diverse intorno a uno stesso oggetto non dovessero essere condannate
quali eresie meritevoli di morte. Certo i liberali hanno imparato la reciproca tolleranza.
Ma perchè il mio diritto dovrà esser questo soltanto di poter pensare ciò che voglio
intorno a una cosa? Perchè, traendo dal principio le conseguenze estreme, non
potrò io, se mi talenta, non fare più alcun conto di quella cosa, non pensarci
più affatto, ridurla nel nulla? Perché mai devo io dire: Dio non è Allah non
è Brama, non è Geova, bensì Dio? Perchè non devo
poter dire: Dio è null'altro che una finzione? Perchè mi si macchia d'infamia
se io nego l'esistenza di Dio? Perchè si tiene in maggior conto la cosa
creata di quello che si tenga il creatore? ( " Essi servono e
adorano la creatura più del creatore ") [(1) ROMANI. 1. 25.] e si
ha bisogno d' un oggetto dominante, per far col soggetto un servo
devoto? Perchè devo io inchinarmi all'assoluto.
Col "regno dei pensieri" il Cristianesimo ha raggiunto
la perfezione estrema. Nel pensiero si spegne ogni luce del mondo, ogni
esistenza s'annienta. L'uomo interno (il cuore, la testa) diventa il tutto nel
tutto. Questo regno dei pensieri attende il suo redentore, aspetta — novella Sfinge
— un Edipo che sciolga l'enigma per poter morire. Ebbene
il distruttore della sua esistenza sono io.
Nel regno del creatore esso non forma più un mondo a sé, uno Stato
nello Stato, bensì è una creatura della créatrice fantasia. Soltanto così il
Cristianesimo e la religione possono tramontare.
Solo quando mancano i pensieri cessano di esistere anche i
credenti. Al pensatore le meditazioni appaiono quale un "lavoro sublime,
un'attività sacra", che regna su una "fede"
inconcussa; quelle della verità. E un'attività sacra appunto è da prima la
preghiera: poi il "pensare" ragionevole e filosofico, il quale però
ha sempre il suo fondamento nella "santa verità" e non è che una macchina
meravigliosa che lo spirito della verità apparecchia perchè gli possa servire.
Il libero pensiero e la libera scienza occupano me — (poiché non
io sono libero, non io occupo me stesso, bensì il pensare è
libero ed occupa me) — col cielo e con le cose celesti o "divine",
col mondo e con le cose che gli appartengono. Tutto ciò è un pervertimento, una
follia. Quegli che pensa è cieco alle cose che lo circondano ed incapace di
rendersene padrone ; egli non mangia, non beve, non gode, poiché quegli che
mangia e beve non pensa, e quegli che vive di pensiero dimentica di mangiare e
di bere: ogni cosa dimentica, al pari di colui che è assorto nella preghiera.
Perciò agli occhi del forte figlio della natura egli appare come
un maniaco, un pazzo, benché lo consideri un santo,
come usano gli antichi. Il libero pensare è follia poiché è moto esclusivo dell'intimo,
è l'opera dell'uomo interno, che guida e dà legge all'uomo reale.
Lo sciamano e il filosofo speculativo significano
l'ultimo ed il primo gradino della scala dell'uomo interiore: del
mongolo. Sciamani e filosofi combattono coi
fantasmi, coi demoni, con gli spiriti, con gli dei.
Assai diverso da questo libero pensare è il mio proprio
pensare: un pensare che non mi guida, bensì è da me guidato,
continuato, interrotto, allo stesso modo di un desiderio che io possa soddisfare
a mio talento e non invece come una brama violenta a cui m'è forza soggiacere.
Feuerbach, nei suoi "principi della filosofia
dell'avvenire", batte e ribatte sempre sul concetto dell'esistenza.
E con ciò gli resta, per quanto avverso all'Hegel ed alla
filosofia assoluta, impigliato nell'astrazione, poiché l' "essere" è
astrazione, come l'Io. Con questa sola differenza che l'io non
è soltanto astrazione, ma anche il tutto nel tutto, e per
conseguenza astrazione è tutto, è tutto, e tutto è nulla. L'io non è un'idea
soltanto, bensì un mondo di idee. Hegel condanna ciò che è
proprio — il mio. Il pensare "assoluto" rinnega il mio
pensare e dimentica che il pensiero non esiste che in grazia mia. Ma
poiché io posso prendere nuovamente ciò ch'è mio, così io solo sono il padrone
del mio pensiero, della mia idea, e posso cangiarli a
tutti i momenti, distruggerli, dissolverli a mio talento. Feuerbach vorrebbe
combattere il pensare assoluto dell'Hegel col mezzo dell'invincibile
essere. Ma l'essere è da me superato come il pensiero.
L'essere è il mio essere, allo stesso modo che il
pensare é il mio pensare.
Con ciò Feuerbach, come è ben naturale, non fa
nessun passo avanti e giunge soltanto a dimostrare queste verità assai volgari
che io adopero i miei sensi in tutte le cose, e che non posso far
di meno dei miei organi. Certo io non posso pensare se non esisto. Ma tanto per
pensare quanto per sentire, dunque sì per le cose sensuali come per le
astratte, io ho bisogno anzitutto di me stesso, e precisamente
del mio io, di quest' io determinato, unico. Se,
per esempio, io non fossi Hegel, io avrei un altro concetto del
mondo; io non saprei trovarci quel sistema filosofico, che, essendo Hegel ho
saputo rinvenirvi. Io possederei i miei sensi al pari d'ogni altro uomo, ma non
ne farei l'uso che ne faccio.
Così il Feuerbach rimprovera all'Hegel di
abusare del linguaggio, con dare alle parole un significato diverso da quello
loro assegnato della coscienza naturale. Ma egli pure incorre nello stesso
errore, quando al "sensuale" attribuisce un significato così largo
quale non gli fu mai dato.
Così per esempio, a pag. 69, dove afferma non doversi confondere
il sensuale col profano vuoto di idee, alla portata di tutti, da tutti
comprensibile. Ma allora se ciò ch'egli vuol esprimere è il sacro — quello che
è traboccante di idee, che giace nascosto, ch'è comprensibile soltanto mercè l'interpretazione
— ebbene, in tale caso, non è più questo che si chiama col nome di sensuale.
Sensuale è unicamente quello che esiste per i sensi: ciò di cui
possono godere coloro che oltrepassano la concezione del sensibile non potrà
più chiamarsi sensuale. La sensualità, quale che essa sia, cessa
di essere sensualità quando diviene concetto, sebbene essa possa produrre effetti
sui sensi, eccitando ad esempio le funzioni e facendo pulsare più rapido il
sangue.
Che Feuerbach rimetta in onore la sensualità, è
bene: ma pur troppo ei non sa rivestire il materialismo della sua filosofia
nuova con le spoglie dell'idealismo. Sarà difficile persuadere la gente che si
possa vivere soltanto di "spiritualità", senza aver bisogno di pane.
Anche sarà difficile farle credere che l'uomo, creatura sensuale, possa essere
a un tempo tutto spirituale, ricco d'idee, ecc.
Col solo fatto dell'esistere nulla si giustifica.
Ciò ch'è pensato esiste allo stesso modo di ciò che non è pensato: il sasso
della via esiste come il concetto che di esso io mi faccio, con
questa sola differenza che l'uno si trova in un luogo differente dall'altro; il
sasso nella strada, il mio concetto nella mia testa, in me —
poiché io rappresento uno spazio al pari della strada.
I privilegiati non tollerano alcuna libertà di pensiero vale a
dire nessun pensiero che non provenga dal "dispensatore d'ogni cosa",
si chiami esso Dio, il papa la Chiesa o comunque si voglia.
Che se taluno concepisca di tali pensieri illeciti, sarà bene che
ei si confessi in un orecchio al suo confessore e si faccia infliggere
mortificazioni e penitenze finché non l'abbia prostrato come si prostrano con
la frusta gli schiavi ribelli. Ma un altro mezzo ha lo spirito di corpo per
impedire addirittura che sorgano i liberi pensieri: la savia educazione. Chi
vuole inculcare gli elementi della morale, non può liberarsi dalle idee morali,
e il furto, lo spergiuro, il profitto disonesto, ecc., saranno sempre per lui
delle idee fisse, contro le quali non lo proteggerà alcuna libertà di pensiero.
Egli ha avuto le sue idee dall' "alto" e resta ad esse attaccato.
In altro modo procedono i concessionali o patentati.
Ognuno deve aver dell'idee e deve potersene formare a suo agio. Quando uno ha
la patente o la concessione d'un'attitudine a pensare egli non ha bisogno d'un privilegio
speciale. Ma poiché "tutti gli uomini sono ragionevoli", dev'esser
libero ad ognuno di cacciarsi in capo quei pensieri che meglio gli piacciono di
avere, a seconda della patente della sua disposizione naturale, una copia
maggiore o minore di tali idee. E quindi si raccomanda di "rispettare
tutte le opinioni e tutte le convinzioni" — poiché "ogni convinzione
è legittima", e bisogna "esser tolleranti verso le opinioni altrui".
Max Stirner
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