L'unico e la sua proprietà
L'UOMO
Capitolo 3
IL LIBERALISMO UMANO
Noi diamo nome di "umano" o di "umanitario" al
liberalismo critico nel quale il principio attinge il più alto
grado di sua perfezione e tocca l'espressione definitiva. In esso il soggetto stesso
diviene materia d'esame, pur restando il critico un liberale e non trascendendo
l'uomo.
Il lavoratore è tenuto in conto del più grossolano e del più
egoista fra gli uomini, perchè egli nulla fa per l'umanità, ma
tutto per sé medesimo e per il proprio vantaggio.
La borghesia non facendo libero l'uomo che per
diritto di nascita fu costretta ad abbandonarlo per tutto il resto alla mercé
dell'egoista. Perciò all'egoismo, sotto la dominazione del liberalismo politico,
è aperto al più vasto campo che possa immaginarsi. Come il borghese sfrutta lo
Stato, cosi il lavoratore sfrutterà la società per i suoi intenti
egoistici. Tu non hai che un solo fine, l'utile tuo! dice l'umanitario
al socialista. Occupati d'interessi puramente umani, ed
io ti sarò compagno. Ma per ottener ciò, è necessario una coscienza più
robusta, più ampia che non sia quella dell'operaio. Costui non
crea nulla e per ciò non ha nulla: ma se nulla egli crea, questo avviene perchè
l'opera sua resta sempre un lavoro circoscritto e limitato dalle più
imprescindibili necessità dell'esistenza [(1) BRUNO BAUER, Lit. Zig., V,
18]..
Al che si potrebbe opporre forse che, per un esempio, il lavoro di
Gutenberg non restò isolato, bensì si perpetuò nel tempo e vive ancor oggi, come quello che,
essendo rivolto a soddisfare un bisogno dell'uomo, era, per conseguenza,
eterno, imperituro.
La coscienza umanista disprezza la coscienza borghese così come
quella operaia: poiché il borghese ha in fastidio il vagabondo (nome cotesto,
ch'egli usa a designare tutti coloro che non hanno una "occupazione
stabile").
Per contro l'operaio ha in odio "gli scioperati" e le
loro "massime" immorali, sfruttatrici ed antisociali.
L'umanista invece ribatte al borghese: l'instabilità di domicilio
alla quale molti sono costretti è opera tua.
E il proletario oppone: Che tu esiga che tutti debbano lavorare
come bestie da soma e che ognuno sia condannato a questa sorte deplorabile, la è cosa che
solo la tua crassa ignoranza e l'abito, in te ormai fatto natura, di vivere
come una bestia da soma può spiegare. Tu con ciò vorresti che tutti dovessero
lavorare come bestie, perchè poi ciascuno potesse godere della stessa somma d'ozio.
Ma che ne farete poi delle ore d'ozio? In qual modo la società
intende a procurare che le ore d'ozio e di ricreazione vengano spese umanamente?
Essa è costretta a permettere che ciascuno ne usi secondo il comodo o il
capriccio suo; ed il profitto che la tua società intende
favorire, va a cadere in grembo all'egoista allo stesso modo che
il profitto della borghesia, cioè la indipendenza dell'uomo,
per mancargli un contenuto umano, dovette essere abbandonato in balia dei
singoli.
Certamente è necessario che l'uomo sia senza padroni; ma non
perciò all'egoista dev'essere permesso di rendersi egli padrone dell'uomo;
l'uomo invece deve tener in freno l'egoista.
Certamente l'uomo ha diritto ad una certa quantità d'ozio, al
riposo, alla ricreazione: ma se il solo egoista ne approfitta, quell'ozio, quel
riposo sono perduti per l'uomo.
Sicché voi dovreste dare all'ozio una significazione umana. Ma
anche il lavoro voi l'intraprenderete, operai, perchè spinti dall'egoismo
perchè vi bisogna pur mangiare, bere, vivere; come dunque pretendereste poi
d'esser meno egoisti nelle ore d'ozio? Voi lavorate unicamente perchè dopo il
lavoro è gradito il riposo, il dolce far nulla; quello che voi compirete nelle
ore d'ozio sarà opera del caso.
Ma se si vuol chiudere ogni porta all'egoismo, bisogna intendere
ad un lavoro puramente disinteressato, al puro disinteresse.
Questo solo è degno dell'uomo: il disinteresse è umano perchè
è proprio soltanto dell' uomo.
Ebbene, ammettiamo un istante il principio del disinteresse; noi
domanderemo; non vuoi tu interessarti a cosa alcuna, non lasciarti vincere all'entusiasmo
per cosa alcuna, ne per libertà, né per l' umanità, ecc.? Oh, si — ci verrà
risposto — ma codesto non è un interesse egoistico, bensì un interesse umano,
cioè teoretico, o in altri termini un interesse non già per un singolo
o per i singoli (che sarebbero "tutti"), bensì per l'idea, per l' uomo.
E non t'accorgi che tu stesso non sei infiammato che per la tua
idea, per la tua idea di libertà?
E di più non t'accorgi che il tuo disinteresse, al pari del
religioso, è ancor esso un disinteresse celeste?
L'utile che ne può ritrarre il singolo ti lascia indifferente, e
tu saresti capace d'esclamare astrattamente: "fiat libertas pereat
mundus". Tu non ti prendi cura nemmeno della dimane, anzi, in
genere, non ti prendi alcun serio pensiero dei bisogni del singolo né per il
tuo bene, né per quello degli altri: nulla a te importa di ciò, poiché tu sei
un entusiasta, un sognatore.
L'umanitario sarà liberale a segno da considerare come "umano"
tutto ciò che può esser proprio dell'uomo? Al contrario: se, per esempio,
riguardo alla prostituta egli non accoglierà in astratto i pregiudizi morali
del borghesuccio, gli parrà però cosa indegna di un essere umano che ella
avvilisca il proprio corpo a tale da renderlo una macchina per spillar quattrini?
Egli penserà: la meretrice non è un essere umano nell'atto in cui
si prostituisce; essa è antiumana, disumana. Ancora: il giudeo il cristiano, il
teologo, ecc., in quanto tali, non sono uomini; quanto più tu sarai giudeo, ecc., tanto maggiormente
cesserai d'esser uomo. Ed ecco di nuovo il postulato imperativo: getta lontano
da te tutto ciò che non è inerente a te, allontanalo con la tua critica! Non vi
è né giudeo, né cristiano, vi ha l'Uomo soltanto. Fa valere il
tuo umanesimo contro le limitazioni d'ogni sorta, diventa uomo
mercè quello e renditi libero da tutte le pastoie; diventa un "uomo
libero", cioè riconosci nel tuo umanesimo l'unica ragione determinatrice
dei tuoi atti.
E io rispondo: Tu sei, sì, qualcosa più che un giudeo, che un cristiano,
ma sei anche più che uomo. Tutte quelle sono idee, ma tu sei cosa corporale.
Pensi tu forse di poter giammai diventare "uomo come tale"? Credi tu
forse che i nostri posteri non si troveranno innanzi altri ostacoli, altri pregiudizi,
che noi non fummo capaci di abbattere?
O credi tu forse, che col tuo quarantesimo o cinquantesimo anno
d'età sarai giunto al tanto, che i giorni che susseguiranno più nulla ti
potranno togliere e che sarai finalmente "uomo"? Gli uomini che
verranno dopo di noi dovranno conquistare molte libertà, delle quali noi non sentiamo
nemmeno il bisogno. Che t'importa di quella futura libertà? Se tu fossi
veramente deliberato a non tener in alcun conto te stesso prima d'esser
diventato uomo, tu avresti da attendere sino al giorno del giudizio universale,
sino al giorno in cui l'uomo e l'umanità avranno raggiunto il più alto grado
della perfezione. Ma poi che tu morrai probabilmente prima d'allora, quale sarà
il premio della tua vittoria?
Dunque inverti piuttosto il ragionamento e di' a te stesso: "Io
sono uomo "! Io non ho bisogno di formare in me l'uomo, poiché
esso mi appartiene di già, con tutte le mie qualità.
Ma come si può, domanda il critico, esser in pari tempo giudeo e
uomo? In primo luogo — io gli
risponderò — non si può essere assolutamente ed esclusivamente né giudeo né
uomo. Per quanto Samuele abbia sentimento e religione d'israelita, tale in modo
esclusivo egli non è già — non fosse altro per ciò che egli è quanto meno quel
determinato ebreo, non mai dunque l'ebreo in astratto.
In secondo luogo si può essere certamente giudeo senz'esser uomo,
se esser uomo significa esser una cosa non individuale. In terzo luogo poi — e
di ciò si tratta — io quale giudeo posso essere tutto ciò che è in mia facoltà
di divenire. Considerate Samuele e Mosé; essi non furono ancora uomini nel
senso che voi attribuite a questa parola; pur v'è impossibile di pensare
ch'egli si sarebbero potuti elevare al di sopra del giudaismo. Essi furono
quello che potevano essere. Forse gli ebrei odierni sono diversi? Perchè voi
avete scoperto l'idea dell'umanesimo, voi pretenderete inferirne che ogni
giudeo debba convertirsi a tale idea? Se egli può far ciò lo farà; se non lo fa
è da concluderne che non può farlo. Che cosa gl'importa della vostra pretesa?
Che cosa della vocazione che gli volete imporre ?
Nella società umana, divinata dall'umanitario, nulla deve esser
riconosciuto di ciò che l'uno e l'altro ha in sé di particolare, "nulla di
ciò che porta il contrassegno del privato" deve aver pregio.
In questo modo s'allarga la cerchia del liberalismo, il quale vede
nell'uomo e nella libertà dell'uomo il principio del bene, nell'egoismo e in
tutto ciò che è particolare il principio del male; in quello Dio, in questo il
demonio. E come nello "stato" il privato ha perduto i
propri privilegi e nella società degli operai o degli straccioni è abolita la
proprietà personale, così nella "società umanistica" tutto ciò che è
particolare non verrà tenuto in alcun conto. Solo allorquando la pura critica
avrà compiuto il suo faticoso lavoro, noi potremo sapere quali cose debbano
essere considerate come "private" e quali, nella coscienza della sua
nullità, l'uomo dovrà lasciar esistere tuttavia.!
Al liberalismo umanistico non bastano lo Stato e la società; egli
li nega dunque entrambe in astratto, se bene in realtà pur li conservi. A dire
il vero la "società umana" si compone dello Stato più universale e
della più universale società. Soltanto contro lo Stato ristretto si obbietta
ch'esso concede soverchia importanza agli interessi privati spirituali (p. e.
alla pietà del volgo) e contro la società, ch'essa tiene troppo conto degli
interessi materiali. L'uno e l'altra devono abbandonare ai privati tutti gli
interessi particolari, per non curarsi che degli interessi esclusivamente
umani.
Quando i politici pensarono di abolire la volontà personale,
il capriccio e l'arbitrio, essi non s'accorsero che, mercé il possesso,
il capriccio arbitrario s'era creato un sicuro rifugio per l'avvenire.
I socialisti, col toglier di mezzo anche la proprietà, non
s'avvedono che questa s'assicura un'esistenza futura mediante la
"individualità". Perché proprietà non è soltanto il denaro o i beni di
fortuna: non è oggetto di proprietà anche il pensiero e il giudizio?
È necessario dunque abolire anche ogni opinione singolare,
o per lo meno renderla impersonale. La singola persona non deve avere opinioni,
bensì allo stesso modo che l'arbitrio fu attribuito allo Stato, il possesso
alla società, così l'opinione dev'essere riferita ancor essa a qualche cosa di
"universale", all'umanità, e con ciò diventare l'opinione
universalmente accettata.
Se all'opinione personale si permette di esistere, io avrò il mio
dio (poi che dio non è altro insomma che il mio dio, la mia
opinione, la mia fede) adunque la mia fede,
la mia religione, i miei pensieri, i miei ideali;
perciò è d'uopo che sorga una fede umana universale, "il fanatismo della
libertà". Questa sarebbe cioè una fede in astratto corrispondente appunto
alla "essenza dell'uomo", e siccome soltanto "l'uomo",
in genere è ragionevole (io e tu possiamo essere irragionevolissimi), questa
soltanto si avrebbe a chiamare una fede ragionevole.
Come il capriccio e il possesso furono resi impotenti,
così anche ciò che di proprio possiede l'uomo, ovvero l'egoismo, deve diventar
tale.
In questo ultimo svolgimento del concetto dell' "uomo
libero" si combatte per principio l'egoismo, la singolarità dell'uomo; e i
fini di tanto inferiori dell' "utile" sociale vagheggiato dai socialisti
dileguano dinanzi alla sublime "idea dell'umanesimo". Tutto ciò che
non è "universalmente umano" è alcunché d'anormale che
soddisfa soltanto i singoli o un singolo, o pur appagando tutti, li soddisfa
quali singoli individui non già quali uomini, e perciò si chiama "egoismo".
Pei socialisti l'utile comune, come pei liberali la concorrenza,
rappresenta ancora il fine supremo; l'utile sociale non impedisce a ciascuno di
procurarsi ciò che gli bisogna, allo stesso modo che nel sistema della
concorrenza non è imposta la scelta dei mezzi.
Se non che per partecipare alla concorrenza è sufficiente che
siate cittadini, per prender parte al benessere è sufficiente che
siate operai. Ma ciò non corrisponde ancora alla qualità di uomo.
L'uomo proverà la "felicità vera" quando sarà
"spiritualmente libero"; dopotutto l'uomo è spirito, e perciò tutte
le potenze che sono estranee a lui, allo spirito, tutte le forze sovrumane,
celesti, devono essere precipitate nel nulla e il nome "uomo"
"deve essere innalzato al disopra di tutti i nomi."
E così in questa fine dei tempi moderni ritorna ciò che nei loro
principi era stata la cosa essenziale: "la libertà dello spirito".
Al comunista in specie il liberale dice: Se la società ti
prescrive il genere d'attività, ciò è di fatto indipendente dall'azione dei
singoli, cioè degli egoisti ma con questo non consegue ancora che quella
attività debba essere "cosa puramente umana" e che tu sia un organo
perfetto dell'umanità. Il genere d'attività che la società esigerà da te,
dipende unicamente dal caso; essa potrebbe occuparti nella
fabbrica d'un tempio, ecc., e astraendo da ciò, tu potresti, per tua propria volontà,
adoperarti in cose basse, vale a dire indegne di uomo; più ancora potrebbe
accadere che tu lavorassi unicamente per aver di che vivere, per amore della
vita dunque e non per la maggior gloria dell'umanità. Perciò la libera attività
sarà raggiunta solo quando tu ti sarai liberato da tutte le follie, da tutto
ciò che è disumano, cioè egoistico, e avrai ripudiato tutti i pensieri che
oscurano l'idea dell'uomo e dell'umanità, in breve quando non solo tu non sarai
impedito nella manifestazione della tua attività, ma quando il contenuto di
questa attività sarà divenuto puramente umano, e tu non vivrai che per
l'umanità. Ma questo non può avvenire sino a tanto che il fine di ogni tua
aspirazione è il vantaggio tuo proprio oppure quello di tutti;
ciò che tu fai per la "società degli straccioni" non è ancora operato
per l'umanità.
Il solo lavoro non fa di te un uomo, giacché esso è qualche cosa
di formale e il suo oggetto è accidentale; ciò che importa sapere è chi sei tu
che lavori. Tu puoi lavorare anche per impulso materiale, egoistico; ora è
necessario invece che il lavoro sia anche tale da giovare alla società, che sia
diretto ad accrescerne la felicità, a favorirne lo svolgimento storico; in
breve, che sia un lavoro "umanitario". E per ciò due cose si
ricercano: in primo luogo ch'esso torni di vantaggio all'umanità, in secondo
luogo ch'esso sia fatto da un "uomo".
La prima condizione può verificarsi in qualunque lavoro, poiché
anche dalla rondella natura, per esempio degli animali, l'uomo trae vantaggio
per il progresso delle scienze; la seconda richiede che il lavoratore conosca
lo scopo del suo lavoro, e siccome a tale coscienza ei non può giungere che quando
si sente d'esser uomo, così la condizione determinante è la coscienza
di se stesso.
Certamente si sarà ottenuto molto quando tu cesserai di esser un
operaio mercenario; ma con ciò tu non riuscirai che a farti tutt'al più un'idea
generale nel "tuo lavoro", ad acquistarne una coscienza che è ancora
assai lontana dall'esser la coscienza di te stesso, la coscienza del tuo vero "essere",
dell'essere dell'uomo. L'operaio prova ancora la sete d'una "coscienza
superiore", e non potendola saziare nelle ore del lavoro, cerca di
soddisfarla in quelle d'ozio. Onde vicino al lavoro egli vede l'ozio, ed egli
si vede costretto a consentire nello stesso tempo esser l'uno e l'altro umani;
e di più ancora gli bisogna riconoscere l'elevatezza dell'ozioso, di colui cioè
che fa festa.
Egli non lavora che per rendersi libero dal lavoro; egli vuole
render libero il lavoro per liberarsene.
In breve, il suo lavoro non ha un contenuto che lo possa
soddisfare, poi che gli è imposto dalla società, è un tema, un compito, una
professione; e d'altro canto la sua "società" non lo appaga perchè
non ad altro l'indice che a lavorare.
Il lavoro dovrebbe appagarlo quale uomo, invece esso soddisfa
solamente la società: la società dovrebbe trattarlo da uomo e invece lo ha in
conto di cencioso operaio o di straccione che lavora.
Il lavoro e la società non gli sono di vantaggio che in quanto
egli ne ha bisogno: non dunque quale uomo egli li appoggia, bensì quale egoista.
Questa la critica contro l'essenza del lavoro. Essa accenna allo
"spirito" "dirige la lotta dello spirito contro la
moltitudine", e proclama essere il lavoro comunista un lavoro privo dello
spirito.
Nemica del lavoro come è la folla, essa ama rendersi la fatica più
leggera che sia possibile. Nella letteratura, che oggidì si produce in copia,
quella ripugnanza contro il lavoro genera la ben nota superficialità, la quale
non ama sottoporsi alle "fatiche delle indagini".
Ma tu replicherai, che tu riveli un uomo ben diverso, più degno,
più elevato, più grande; un uomo che è più uomo di quegli altri. E io voglio ammettere che tu
sappia recare in atto tutto ciò che è possibile all'uomo, che tu sappia anzi
far ciò di cui nessun altro è capace. In che cosa consiste la tua grandezza?
Appunto in ciò, che tu sei superiore agli altri uomini, alla moltitudine.
Dunque la tua grandezza consiste nella tua superiorità sugli altri
uomini. Dagli altri uomini tu non ti distingui per ciò che sei
"uomo", bensì perchè sei un uomo "unico". Tu dimostri bene
ciò che un uomo può fare, ma se tu lo puoi, gli altri, benché uomini, nol
possono: tu l'hai compiuto quale uomo "unico", ed in ciò tu non hai
pari. Non già l'uomo crea la tua grandezza, bensì tu stesso la crei, perchè tu
sei più potente degli altri uomini.
Si crede che non si possa essere più che uomini. E vero piuttosto
che non si può esser da meno di uomini.
Si crede ancora che qualunque acquisto umano torni a profitto
degli uomini. Ma se io sono un uomo, son tale come Schiller era
svevo, Kant prussiano, e Gustavo Adolfo miope: i
miei meriti e i loro fanno di noi un uomo, un prussiano, un miope, uno svevo. E
allora tutti questi qualificativi valgono come la gruccia di Federigo il
Grande, che è divenuta celebre perchè apparteneva a lui.
All'antico "sia reso onore a Dio" corrisponde il moderno
"sia reso onore all'uomo". Ma io penso che l'onore debba esser reso a
me.
La critica, coll'esigere dall'uomo che sia "uomo",
esprime la condizione indispensabile della socialità; poiché solo in quanto si
è uomo tra uomini si è un essere sociale. Con ciò essa manifesta
il suo scopo sociale, la "fondazione della società umana".
Delle teorie sociali la critica è, senza contrasti, la più
perfetta poiché essa allontana e spoglia del suo valore ogni cosa che separa
l'uomo dall'uomo: tutti i privilegi, ad eccezione di quello della fede. In essa
il principio d'amore del Cristianesimo, il vero principio sociale, giunge alla
più alta e compiuta sua espressione; essa fa l'ultima sua prova per togliere
all'uomo la esclusività e l'antagonismo che gli appartengono da natura: è una
lotta contro l'egoismo nella sua forma più semplice e perciò più rigida, l'individualità
o la esclusività.
"Come potete voi far veramente vita sociale sino a tanto che
tra di voi esiste ancora esclusivismo"?
Così chiede la critica; e io domando all'opposto: "Come
potete voi esser veramente unici, sino a tanto che esiste una relazione
qualsiasi tra di voi? Se voi siete uniti l'uno all'altro, voi non potete
separarvi; se un patto vi lega, solo nell' unione voi
rappresentate qualche cosa, e dodici di voi formano una dozzina, mille un
popolo, milioni l'umanità".
"Soltanto se siete umani — osserva ancora la critica — voi
potete comunicare con gli uomini, allo stesso modo che solo essendo patrioti
voi siete in condizione di comprendervi tra cittadini".
E a mia volta io ribatto: Solo in quanto sei unico,
tu puoi aver commercio con gli altri in tuo nome ed esser per gli
altri ciò che veramente sei. Il critico più acuto è quegli che si vedrà colpito
più gravemente dalla maledizione del suo principio. Quando fa getto d'ogni
esclusività — clericalismo, patriottismo, ecc. — egli non fa che sciogliere un
legame dopo l'altro e separarsi dal clericale, dal patriottico, ecc. sino a
tanto che dopo aver infranto tutti i vincoli, si trova solo. Qui appunto deve
ripudiare tutti coloro che hanno in sé qualcosa d'esclusivo e di particolare:
ora che v'é egli di più esclusivo e di più particolare della persona stessa?
O crede egli forse che sarebbe meglio che tutti divenissero
"uomini" rinunziando ad ogni esclusivismo? Ma appunto per ciò che la
parola "tutti" non altro significa se non il complesso dei singoli,
risorge più evidente il contrasto, giacché "singolo" importa
l'esclusività stessa. Se l'umanità non permette al singolo nulla di particolare
o d'esclusivo, nessun pensiero proprio, nessuna follia speciale, se colla sua
critica lo spoglia d'ogni carattere personale e se contro ogni cosa privata è
intollerante perchè "antiumana", essa non potrà
tuttavia distruggere con la sua critica la stessa persona, e dovrà quindi
accontentarsi a proclamare che il singolo è una persona privata e lasciare ad
essa tutto ciò che è particolare.
Che cosa farà una società che non si curerà più di cose che siano
private? Riuscirà a distruggere il privato? No, bensì lo renderà soggetto all'
"interesse sociale" lasciando poi libera la volontà privata di
prendersi quanti giorni di congedo le paiano necessari per non aver a contrastare
con gli interessi comuni [(1) BRUNO BAUER, La questione degli ebrei, pag.
66.]. Tutto ciò ch'é privato viene abbandonato a sé stesso perchè esso non
rappresenta per la società cosa che l'interessi. " Armandosi contro la
scienza, la Chiesa e la religione dimostrarono di esser ciò che furono sempre,
quantunque abbiano cercato di presentarsi sotto un altro aspetto quando vollero
farsi credere il necessario fondamento dello Stato: si rivelarono cioè per
istituzioni affatto private. Già allora, quando esse erano unite allo Stato e
lo fecero ligio al Cristianesimo, esse servirono a provare che lo Stato non
aveva finora svolta l'idea politica universale e non ammetteva che diritti
privati. Esse erano la più alta espressione del concetto che voleva far dello Stato
una cosa privata la quale non dovesse curarsi che di questioni particolari.
Quando lo Stato avrà finalmente il coraggio e la forza di compiere la sua
vocazione universale, e quando sarà perciò anche in condizione d'assegnare il
vero posto agli interessi particolari ed ai negozi privati, allora Chiesa e
religione saranno libere quali mai furono sino ad ora. Considerate sotto l'aspetto
d'una questione puramente privata, d'una soddisfazione o d'un bisogno puramente
personali, esse potranno liberamente disporre da sé stesse, ed ogni singolo,
ogni Comune, ogni congregazione religiosa, potranno provvedere alla salute
dell'anima nel modo che crederanno migliore. Alla salute dell'anima penserà e
si adoprerà ciascuno in quanto ne sentirà personalmente il bisogno, ed affiderà
la cura dell'anima a quella persona che darà maggiore affidamento di fargli
ottenere l'intento. E la scienza sarà lasciata "tutto fuori di
questione" [(1) ID., La buona causa della libertà, pagg. 62-63.].
Ma che cosa succederà? La vita sociale deve essa prima distruggere
ogni rapporto sociale — la fratellanza — ciò che fu creato dal principio
dell'amore e dell'associazione? Ma non potrà già fare che chi ha bisogno
d'altrui non gli si rivolga o non gli si sottometta. E la sola differenza è questa
che, dopo, il singolo si collegherà realmente col singolo, mentre prima era
soltanto a lui vincolato. Così padre e figlio, prima che
quest'ultimo abbia raggiunto la maggior età, sono vincolati da un legame; dopo,
essi possono aver tra di loro rapporti indipendenti: il padre resterà padre, e
figlio il figlio; ma non più la dipendenza del figlio dal padre, bensì la
libera volontà d'entrambi li terrà finiti.
L'ultimo privilegio è, per vero, l' "uomo" perchè di
questo privilegio tutti son dotati.
Dopotutto, come dice Bruno Bauer: "il
privilegio resta, se anche a tutto si estende" [(2) La questione degli ebrei, pag. 60].
Di modo che le evoluzioni del liberalismo sono le seguenti:
" Primo: Il singolo non è l'uomo; per ciò la
sua personalità non è tenuta in alcun conto: non volontà personale, non arbitrio, non comando.
" Secondo: Il singolo non ha nulla di ciò che è
comune: perciò, non esiste né il mio né il tuo, non dunque la proprietà.
" Terzo: Siccome il singolo non è uomo, né alcunché possiede
d'umano, egli non deve nemmeno esistere, e deve esser distrutto dalla critica
con tutto il suo egoismo, per far luogo all' "uomo", all'uomo ora per
la prima volta trovato ".
Quantunque però il singolo non sia l' "uomo", l'uomo
nonostante sussiste nel singolo ed ha per sé stesso, come ogni spirito ed ogni
fantasma, una propria esistenza.
Perciò il liberalismo politico assegna al singolo tutto ciò che
gli spetta "in quanto è nato uomo", cioè libertà di coscienza,
possedimento, ecc., in breve tutti quelli che si chiamano i diritti dell'uomo;
e a sua volta il socialismo concede al singolo ciò che gli spetta quale uomo
attivo, quale uomo che "lavora"; finalmente il liberalismo umanitario
dà al singolo ciò ch'egli possiede quale "uomo"; vale a dire tutto
ciò che è di pertinenza dell'umanità. Conseguenza: il singolo non ha nulla,
l'umanità ha tutto: donde la necessità di proclamare il rinascimento predicato
dal Cristianesimo: divieni una nuova creatura, divieni "uomo".
Tutto ciò non fa forse pensare al pater noster?
All'Uomo appartiene la dominazione (la
forza o la "dinamica"): quindi nessun singolo dev'esser padrone,
bensì l'Uomo è il padrone dei singoli — "; dell'Uomo è il regno,
cioè il mondo; dunque non il singolo deve possedere, bensì l'uomo
("tutti" hanno il possesso del mondo) —, all'Uomo spetta
la gloria di tutto, la glorificazione, dopotutto l'Uomo,
l'umanità sono il fine del singolo, per i quali esso lavora, pensa, vive, e per
la cui glorificazione egli deve diventar uomo.
Gli uomini hanno sempre aspirato finora a render possibile una
comunanza, nella quale tutte le "loro inevitabili ineguaglianze"
potessero essere considerate come non essenziali; essi aspirarono alla
"eguaglianza"; ciò che null'altro significa, se non che cercavano un
padrone, un vincolo, una sede ("noi crediamo tutti in un solo Dio").
Cosa più comune o più uguale non può darsi per l'uomo dell'uomo stesso, ed in
questa comunanza l'istinto d'amore ha trovato il suo appagamento; esso non ebbe
riposo prima d'aver ottenuta questa compensazione e tolta ogni disuguaglianza e
fatto si che l'uomo stringesse l'uomo al suo seno. Ma
precisamente tale comunanza affrettata produce la decadenza e lo sfasciamento.
In una comunanza limitata il francese stava ancora contro il tedesco, il
cristiano contro il maomettano, ecc. Ora, invece, l'uomo sta
contro gli uomini, o se meglio vi piace, poi che gli uomini non sono l'uomo,
l'uomo sta contro il non-uomo.
Alla tesi "Dio s'è fatto uomo" è seguita l'altra:
"l'uomo s'è fatto"l'Io". Questo è l' "io" umano.
Ma noi invertiamo la tesi e diciamo: io non ho potuto trovare me
stesso sino a tanto che ho cercato in me l'Uomo. Ma, ora che l'uomo aspira a
diventar 1' "io" e ad acquistar corpo in "me"; io comprendo
bene che tutto dipende dalla individualità mia, e che senza di essa l'uomo è perduto.
Ma io non sento alcun desiderio di diventar lo scrigno di questo
"sacrosanto io", e per ciò quind'innanzi non domanderò se nella
estrinsecazione della mia attività io sarò uomo o non uomo : "sia lontano
da me codesto spettro" !
Il liberalismo umano procede senza riguardi: Se tu in un solo
punto vuoi essere od avere qualche cosa di particolare, se vuoi difendere una
tua prerogativa contro altri, o semplicemente far uso d'un diritto che non sia
un diritto universale degli uomini, egli ti dichiara un egoista.
Sta bene: Io non voglio ne avere ne essere qualche cosa di
particolare rispetto agli altri, io non pretenderò nessuna prerogativa, ma io
non mi misuro alla stregua degli altri, e di diritti astratti non so che fare.
Io voglio essere ed avere tutto ciò "che posso essere ed avere". Se
altri fanno la stessa cosa che me n'importa? Essi la stessa cosa non potranno
già né essere né avere.Io non arreco loro alcun danno, allo stesso modo che io
non arreco danno alla roccia per ciò ch' io posso muovermi ed essa nol può. Se
essa lo potesse, lo farebbe.
Di qui procede la dottrina: recar discapito o pregiudizio
agli altri uomini, Non già che nessuno debba godere d'un privilegio,
che sia obbligò il rinunciare ad aver dei " vantaggi " sugli altri,
cioè che si ammetta la più stretta teoria della abnegazione.
"Non bisogna tener sé stessi in conto d'alcunché di particolare, perchè si
è, p. es., cristiani o ebrei." Sta bene, ma io non mi tengo in conto di
"qualcosa di particolare", bensì in conto di unico. Io
ho, è vero, alcuni caratteri comuni con gli altri, ma tutto ciò non è che
relativo; nel fatto io sono incomparabile, sono unico. La mia carne non è la
carne loro, il mio spirito non e il loro spirito. Liberi di classificarvi sotto
le dominazioni generali di "carne" o di "spirito"; ma voi
dovete pur riconoscere che queste non sono che idee, le quali
nulla hanno a che fare con la mia carne, col mio spirito,
e meno d'ogni altra cosa siete autorizzati ad impormi una vocazione.
Io non voglio riconoscere o rispettare in te cosa alcuna, non il
possidente né il cencioso, e nemmeno l'uomo, bensì voglio sfruttarti per
i miei bisogni. Io trovo che il sale dà sapore ai miei cibi, e perciò io lo
disciolgo. Io conosco che il pesce è atto ad alimentarmi, e perciò lo mangio.
Io scorgo in te il dono di allietarmi la vita, e perciò ti prescelgo a mio
compagno. Ai miei occhi tu non sei che ciò che rappresenti per me, vale a dire
un oggetto mio, e, perché mio, diventi anche mia proprietà.
Nel liberalismo umanitario la pitoccheria giunge all'estremo.
È necessario che noi discendiamo all'ultimo grado di cenciosità e
di miseria, se vogliamo giungere al concetto del nostro valore astratto,
poiché siamo tenuti a spogliarci di tutto ciò ch'è nostro acquisto. Ma che v'é
di più miserevole dell'uomo nudo? Ma altro succede se io getto lontano da me
anche l'uomo perchè sento che pur esso mi è estraneo e che io posso far poco conto
di lui. Codesta non è più canaglieria: il cencioso si è spogliato anche dei
suoi cenci e con ciò ha cessato d'essere un cencioso.
Io non sono più un pezzente: lo fui.
Sino ad ora non era possibile intenderci dopo di ché la lotta tra
i liberali vecchi e nuovi era insomma contrasto fra coloro che accettavano la
"libertà a piccole dosi" e quelli che domandavano libertà "nella
più alta misura", dunque tra i moderati e i partigiani della
libertà illimitata. Tutto si riduceva alla questione: "Quanto
libero dev'esser l'uomo".
Che l'uomo debba esser libero lo ammettono gli uni e gli altri, e
per questo entrambi i partiti sono liberali. Ma il selvaggio che
si cela in ogni uomo, in qual modo si potrà frenarlo? Come far sì che rendendo
libero l'uomo, non si scateni in pari tempo anche la belva?
Ogni liberalismo ha un nemico mortale, un avversario insuperabile,
come Dio ha il demonio; a lato dell'uomo sta sempre il barbaro, il singolo,
l'egoista. Stato, società, umanità sono incapaci a soggiogarlo.
Il liberalismo umanista s'è prefisso il compito di dimostrare ai
liberali puri che essi vogliono tutt'altro che la libertà.
Gli altri liberali non avevano dinanzi agli occhi che alcuni casi
d'egoismo, ciechi per la maggior parte dei rimanenti; il liberalismo radicale
ha invece contro di sé l'egoismo "in genere" al quale egli fa
appartenere tutti coloro che non intendono la libertà a suo modo, sicché ora l'uomo
e il barbaro sono strettamente separati l'un dall'altro e si stanno di fronte
quali nemici; da un lato la moltitudine, dall'altro la critica, e più
precisamente quella cui si dà nome di libera critica umana (Questione
giudaica, p. 114) per distinguerla dalla critica primitiva o religiosa.
La critica confida di poter riportar vittoria su tutta la
"massa" e di poterle dare un "attestato di generale
povertà" Essa pretende dunque d'avere l'ultima parola e di provare che la
lotta dei "timidi" e degli scoraggiati si risolve in un ergotismo
egoistico, in una piccineria, in una meschinità. Ogni rancore scema d'importanza
ed i piccoli dissidi si bandiscono, poiché colla critica scende in campo un
nemico comune. "Voi siete egoisti, tutti quanti siete, e nessuno di voi
vale meglio dell'altro. Ed ora gli egoisti si schierano compatti contro la
critica."
Ma che siano proprio egoisti? No essi combattono la critica, per
ciò che questa li taccia d'egoisti; essi non vogliono confessare d'esser tali,
sicché la critica e la "moltitudine" son ferme sulla stessa base;
entrambe lottano contro l'egoismo, entrambe lo rinnegano e cercano di staccarsene
reciprocamente.
Critica e moltitudine seguono la stessa mèta, l'emancipazione
dall'egoismo, e non questionano tra di loro che per sapere chi più è vicino
alla mèta o anche chi l'ha raggiunta.
Gli ebrei, i cristiani, gli assolutisti, gli uomini
"oscuri", gli amanti della luce, i politici, i comunisti, insomma
tutti, respingono da sé l'epiteto infamante d'egoisti, e siccome la critica li
ha in conto di tali, senza reticenze nel significato più ampio, tutti intendono
giustificarsi contro il rimprovero d'egoista e combattono
l'egoismo, cioè lo stesso nemico, contro il quale è scesa in arme la critica.
Sono nemici degli egoisti l'una e l'altra, la critica e la massa,
e sì l'una sì l'altra cercano di emanciparsi dall'egoismo tanto col cercar di
scagionarsene quanto coll'accusarne l'avversario.
Il critico è il vero oratore della "folla"; ed egli le
manifesta il "semplice concetto ed il modo d'esprimersi" dell'egoismo
Egli è principe e duce nella guerra di liberazione contro l'egoismo. Ma in pari
tempo egli è pure l'avversario della moltitudine, non perché la combatte, ma
perchè la incita e la sprona, e fa schioccare la frusta dietro i pusillanimi,
per incoraggiarli.
Con ciò il contrasto tra la critica e la folla si riduce a questo
dibattito: "Voi siete egoisti! —
No, noi non siamo tali! — Io ve lo dimostrerò. — E tu vedrai come sapremo
giustificarci!"
Prendiamoli pure l'una e l'altra per quel che pretendono di
essere, cioè per antiegoisti, o per quello in cui l'una tiene l'altra, vale a dire
per egoisti.
La critica dice veramente; tu devi liberare per tal modo il tuo io
da ogni cosa che lo limiti da farlo diventare un "io" umano. Ed io
osservo: liberatene per quanto puoi ed avrai fatto il tuo dovere; poiché non a
tutti e concesso d'abbattere tutti gli ostacoli, o, per meglio dire, non tutti scorgono
una barriera in ciò che agli altri sembra tale. Per conseguenza non curarti
degli ostacoli che non danno impaccio a te. Ti basti l'abbattere questi. A chi
mai fu dato di abbattere un ostacolo in pro di tutti gli uomini?
Non sono forse senza numero coloro che corrono oggidì, come sempre, pel mondo
pur trascinando tutte le pastoie dell'umanità? Chi ha abbattuto
una delle sue barriere, può con ciò additare agli altri la via ed
i mezzi; l'abbattere gli ostacoli che gli si attraversano è compito di ognuno
per se stesso. Di fatto nessuno opera diversamente.
Pretendere che tutti diventino perfettamente "uomini"
equivale a domandare loro di abbattere tutte le barriere. E ciò è impossibile,
poiché l'uomo per sé stesso non ha barriere. Io ne ho ancora, ma
son sempre le mie, e queste soltanto possono essere da me
superate.
Un "io umano", non potrò diventarlo
giammai, perchè io sono "io" e non solamente uomo.
Vediamo un po' tuttavia se la critica ci ha insegnato alcunché di
utile. Libero io non lo sono se non sono senza interessi, uomo nemmeno se non
sono disinteressato. Sia pure, ma che m'importa d'esser libero o d'esser uomo?
io non lascierò perciò solo trascorrere alcuna occasione di farmi valere. La
critica mi porge quest'occasione, coll'insegnarmi che allorquando qualcosa mi
si insinua nell'animo e vi permane indissolubilmente, io ne divento il
prigioniero e lo schiavo, cioè un ossesso. Un interesse qualunque fa di me, se
non so liberarmene, la sua preda, e non più esso appartiene a me, bensì io
appartengo a lui. Accettiamo dunque il monito della critica: non consentiremo
ad alcuna proprietà di diventare stabile, e faremo in modo da non trovarci a
nostro agio fuorché nella distruzione.
Se dunque la critica dice: Tu non sei uomo che quando critichi e
dissolvi senza posa; noi diciamo: Tale io sono già anche senza di ciò e quindi
io non voglio prendermi altra cura che d'assicurarmi la mia proprietà, e, per
meglio assicurarla, la chiudo in me stesso, la faccio mia schiava, e ne uso
prima ch'essa possa diventare un'idea fissa o una mania.
Ma io non faccio questo già per un dovere che mi sia imposto,
bensì per libera volontà mia. Io non meno vanto di abbattere tutto ciò che
all'uomo è dato di poter distruggere; finché, ad esempio, non avrò ancora dieci
anni, io non pretenderò di criticare i controsensi del decalogo; sarò per
questo meno un uomo? Anzi sarò tale perciò a punto. In breve, io non ho alcuna vocazione
e non ne seguo nessuna nemmeno quella d'esser uomo. Ripudio forse con ciò
quello che il liberalismo ha conquistato con le sue fatiche? Sono ben lontano
dal desiderare che vada perduto ciò che fu conquistato; solamente ora che,
mercé il liberalismo, l'uomo è divenuto libero, io guardo a me
stesso e dico francamente a me stesso: quello che in apparenza ha conquistato l'uomo
l'ho conquistato io solo.
L'uomo, dice il liberalismo, è libero solo quando della sua
esistenza egli ha fatto l'ente supremo. Dunque per il
perfezionamento del liberalismo è necessario che ogni altro essere supremo sia
distrutto, che la teologia sia abbattuta e sostituita dall'antropologia, e che
Dio e la sua provvidenza sian condannati al dileggio, si che l'ateismo divenga
universale.
L'egoismo della proprietà fa l'ultima perdita, il giorno che il
"mio Dio" diviene parola senza significato; poiché Dio non esiste se
non in quanto egli ha cura della salute del singolo il quale a sua volta in Lui
abbia fede.
Il liberalismo politico ha abolito l'ineguaglianza dei servi e dei
padroni: egli ci rese senza padroni — anarchici. Il padrone fu
separato dal singolo, dall' egoista, per divenire uno spettro; la
legge e lo Stato. Il liberalismo sociale abolì l'ineguaglianza della proprietà,
dei poveri e dei ricchi, e rese tutti senza proprietà, poiché
questa, nel suo concetto, vien confidata a un fantasma — la società.I1
liberalismo umano a sua volta ci toglie Dio, ci rende atei. Per
ciò il Dio del singolo, il "mio Dio" deve essere abolito. Ora è certo
che la mancanza di padroni trae seco l'abolizione di ogni servaggio, la
mancanza di possesso ha per conseguenza la liberazione dai bisogni, e l'ateismo
significa assenza di pregiudizi, giacche col padrone cade il servo, col
possesso la causa di conservarlo, col dio tutti i pregiudizi! Ma siccome il padrone
risorge nello Stato, il servo riappare quale suddito, la proprietà fa
nuovamente capolino nel possesso esclusivo della società, e il pregiudizio di
Dio si riaffaccia sotto la forma dell'Uomo, cosi sorge una nuova
credenza, quella nell'umanità e nella libertà. Al posto del "Dio" del
singolo è ora innalzato il Dio di tutti, l'Uomo: "la cosa
suprema alla quale tendiamo, è d'esser uomini". Ma siccome nessuno può perfettamente
tradurre in atto ciò che l'idea "uomo" vuol esprimere, così l'uomo
resta pel singolo un "al di là", sublime, un ente supremo non ancora
raggiunto, un Dio. Di più, esso è il vero Dio perchè è perfettamente adeguato
alla nostra natura e rappresenta ed è il nostro vero "essere ": perché
raffigura insomma noi stessi, ma come astratti dalla realtà ed elevati a un
ideale superiore.
____________________
Le osservazioni che precedono sulla "libera critica
umana" furono scritte, al pari di tutto il resto che si riferisce ad opere
che hanno attinenza a questo soggetto, saltuariamente subito dopo la
pubblicazione dei libri che ne trattavano, ed io non feci altro poi che
raccogliere ed ordinare i frammenti. Ma la critica prosegue d'ora innanzi senza
tregua per la sua strada e rende necessario che io, avendo terminato la prima
parte, aggiunga questa nota a mò di conclusione.
Io ho dinanzi a me l'ottava puntata della Gazzetta
universale di letteratura di Bruno Bauer.
Fin da principio essa ci parla un'altra volta degli interessi
generali della società. Ma la critica ha riflettuto bene ed ha a questa
società attribuito una destinazione, mercè la quale essa ora si distingue da
un'altra forma, con cui prima soleva essere scambiata; "lo Stato",
poco innanzi esaltato ancora quale "libero Stato" fu del tutto
abbandonato, poiché fu chiaro che in nessun modo esso saprebbe conseguire il
fine della "società umana". La critica che nel 1842 si era "veduta
costretta a identificare per un momento l'essenza umana colla politica ",
ora s'è invece accorta che lo Stato, sia pure il "libero Stato", non
è la società umana, o, come potrebbe dirsi in altri termini, che il popolo non
è "l' uomo".
Noi abbiamo veduto come essa si sia disfatta della teologia
dimostrando chiaramente come dinanzi all'uomo Dio dilegui; ora la vediamo
liberarsi allo stesso modo dalla politica e dimostrare che dinanzi all'uomo
cessano popoli e nazionalità; noi vediamo adunque che essa si emancipa
a un tempo dalla Chiesa e dallo Stato dichiarando antiumani l'una e l'altro, e
noi vedremo — poiché già ci è facile divinarlo — che essa saprà, anche
dimostrare come dinanzi all' "uomo" la stessa "umanità"
proclamata da essa ente spirituale "si chiarirà senza valore.E come mai saprebbero
in altro modo i piccoli "enti spirituali" sostenersi di fronte allo
spirito supremo?
L'uomo abbatte tutti i falsi idoli.
Quello adunque che il critico pensa di fare per ora, si è di
considerare la collettività secondo il suo astratto concetto dell'
"uomo" per combatterla. Quale è ora l'oggetto della critica? "La
collettività, un ente spirituale!" Il critico imparerà pure a conoscerla e
s'accorgerà che sta in contraddizione coll'uomo e dimostrerà ch'essa è
antiumana; e questa prova gli riuscirà altrettanto felicemente quanto la prima,
che cioè la divinità e la nazionalità, vale a dire la religione e lo Stato,
sono antiumani.
Il popolo è definito il più importante prodotto della rivoluzione,
— la moltitudine ingannata che le illusioni del progresso politico, anzi in
generale del progresso di tutto il secolo decimottavo, diedero in preda allo
sconforto.
La rivoluzione per i suoi risultati soddisfò gli uni e lasciò
insoddisfatti gli altri; la parte soddisfatta è la borghesia, l'insoddisfatta
il popolo. Per questo rispetto il critico stesso non appartiene forse esso pure al popolo?
Ma i malcontenti procedono ancora a tastoni e il loro disagio
morale s'esprime in un'ira immoderata. Questa si propone di vincere il critico,
ch'è malcontento del pari: egli non può volere né raggiungere altro fine se non
quello di liberar la moltitudine dall'angustia che l'affigge e "sollevare
il morale" (come usano dire) dei malcontenti, assegnando il posto che per
i risultati della rivoluzione loro spetta. Per ciò, egli vuol riempire il
"profondo abisso che lo separa dalla massa".
Da coloro che vogliono innalzare le "classi popolari
inferiori" egli si distingue per ciò, che non soltanto quelle, ma anche sé
stesso intende liberare "dalla tristezza che l'affligge".
D'altro canto l'istinto non la tradisce quando lo avverte che la
folla è un "nemico naturale della teoria" che quanto più "quella
teoria andrà sviluppandosi, tanto maggior compattezza acquisterà la
moltitudine". Poiché il critico, con la sua teorica dell'uomo, non è in
condizione né di ammaestrare né di soddisfare la moltitudine. Se già di fronte
alla borghesia questa non rappresenta che la classe "inferiore del
popolo", una massa senza importanza politica, con maggior
ragione di fronte all'uomo essa non altro rimase che una massa
senza importanza per l'umanità, anzi barbara al tutto.
Il critico perviene così per dispetto a distruggere tutto ciò che
è umano: infatti, movendo dalla premessa, che ciò ch'é umano è anche il vero,
egli si dà la scure sui piedi, poiché viene a negar il carattere umano a tutto
ciò cui finora era stato attribuito. Egli dimostra soltanto, che l'umano non si
trova che nella sua testa, mentre l'antiumano si trova da per tutto.
L'antiumano è il vero, il reale, ciò che trovasi in ogni luogo, ed il critico
col dimostrarlo "non umano" non fa che esprimere chiaramente con una
tautologia la verità della mia affermazione.
Ma che accadrebbe se l'antiumano voltandogli coraggiosamente il
dorso mostrasse le spalle anche al critico che lo inquieta, e lo lasciasse
stare, senza curarsi della sua obbiezione ?
Tu mi chiami antiumano, potrebbe dirgli, ed io sono tale
effettivamente, per te: ma son tale per questa sola ragione: che tu mi contrapponi all'umano ed io non
potevo disprezzare me stesso che sino a tanto che io mi ritenni vincolato a
quel contrapposto. Io era spregevole, perchè cercavo fuori di me "la
miglior parte di me stesso": io rappresentava l'antiumanesimo, perchè
sognavo l'umanesimo: ero simile ai religiosi che hanno sete del loro vero
"io" e restano tutta la vita dei "miseri peccatori"; io non
mi concepivo che in rapporto ad un altro; in breve io non era il tutto nel
tutto, non era l'unico. Ma ora ho cessato di apparire a me stesso
antiumano, ho cessato di misurarmi e di lasciarmi misurare in relazione agli
altri uomini, ho cessato di riconoscere qualche cosa al disopra di me stesso; e
con ciò, ti saluto, mio bel critico umano!
Io fui l'antiumano, ma non lo sono più ora; ora io sono l'unico,
anzi, ciò che più ti farà ribrezzo, sono l'egoista, non già l'egoista in
rapporto coll'umanismo o col disinteresse, bensì l'egoista in sé.
Dobbiamo far rilevare anche un altro passo del fascicolo sovra
accennato. "La critica non impone dogmi e non domanda che di conoscere le cose".
Il critico teme d'essere "dogmatico" o di imporre dei
dogmi. Ed è naturale: poiché ciò essendo e facendo egli diventerebbe il
contrario del critico: di buono, quale è presentemente, si farebbe cattivo, di
disinteressato egoista, e cosi via. "Bando ai dogmi", ecco il vero
dogma, poiché critico e dogmatico stanno sullo stesso terreno: quello del pensiero.
Entrambi procedono dal pensiero, ma il critico si distingue dall'altro per ciò
che egli non cessa di assoggettare il suo pensiero a un sistema che lo
costringe continuamente a mutare. Egli fa valere il raziocinio contro
la credulità del pensiero, il progresso del pensare contro l'immobilità del
pensiero. Nessun pensiero è sicuro di andar immune dalla critica, poiché questa
rappresenta il pensare, ovvero lo spirito pensante per eccellenza.
Da questo nasce — è bene ripeterlo — il mondo religioso — e tale è
appunto il mondo dei pensieri che nella critica raggiunge la sua perfezione poiché
l'operazione del pensare soverchia ogni pensiero singolo e gli impedisce
d'immobilizzarsi "egoisticamente". Che ne sarebbe della "purezza
della critica", della purezza del pensare, sé un solo pensiero potesse
sfuggire all'operazione del raziocinio? Con ciò si spiega che critico di quando
in quando arrivi persino a farsi gioco del pensiero dell'uomo, dell'umanità e
dell' umanesimo, perché egli sente che qui c'è un pensiero che accenna ad
avvicinarsi all'immobilizzazione dogmatica. Ma egli non può distruggere questo
pensiero se prima non né abbia trovato uno d'ordine più elevato,
nel quale quello possa risolversi; poiché egli non procede che per via di
pensieri. Questo pensiero più elevato potrebbe esser chiamato il pensiero — per
antonomasia — del "raziocinio" stesso, vale a dire il pensièro del
pensare o della critica.
Con ciò la libertà del pensiero ha raggiunta la sua perfezione e
la libertà dello spirito festeggia il suo trionfo : poiché i pensieri singoli egoistici,
hanno perduta la lor forza, dogmatica. Null'altro è rimasto fuorché il dogma
del libero pensiero o della libera critica.
Contro tutto ciò che appartiene al mondo dei pensieri, la critica
ha dalla sua il diritto, cioè la forza: essa è vittoriosa. La critica, è la
sola critica, è all' "altezza dei tempi". Nel rispetto del pensiero
non v'é forza che la possa superare, ed è bello il vedere quanto facilmente, e
quasi scherzando, questo mostro ingoi e divori tutto il brulicame degli altri
pensieri, vermi che esso schiaccia nonostante le lor contorsioni e i loro
avvolgimenti.
Io non sono un avversario della critica, o — per dir più proprio —
io non sono un dogmatico, e non mi sento morso dal dènte col quale il critico
azzanna il dogmatico. Se io fossi un dogmatico, io porrei un dogma, vale a dire
un pensiero, un'idea, un principio in capo a tutto, e recherei ogni cosa a
perfezione creando un sistema, componendo cioè un'architettura di concetti.
Se per contro io fossi un critico, io propugnerei la libertà del
pensiero nuovo contro il pensiero che invecchia, difenderei il pensiero
presente contro l'antico. Ma io non sono né il campione d'un pensiero, né
quello del pensare, poiché io muovo dal concetto dell' "io" che non è
né il pensiero singolo né l'atto del pensare. Contro l' "io" —
l'innominabile, — s'infrangono e il regno dei pensieri, e quello del pensare e
dello spirito.
La critica è la lotta degli ossessi contro l'ossessione : essa
sorge dal convincimento che in ogni cosa esista l'ossessione, o, come dice il
critico, esistono rapporti religiosi e teologici.
Egli sa che non pur verso Dio ci si comporta religiosamente — cioè
guidati da una fede, da una credenza, — ma anche verso altre idee quali il diritto, lo
Stato, la legge: e da ciò inferisce che l'ossessione è in ogni cosa. E così
alla ragione ci si richiama contro i pensieri. Ma io dico invece che soltanto
la mancanza di pensieri mi salva effettivamente dai pensieri. Non il pensare bensì
là mia "assenza di pensieri", ovvero l' "io" —
l'incomprensibile — mi salva dall'ossessione.
Una scrollata di spalle vale bene talora una meditazione; uno
stirar delle membra mi può liberare da pensieri penosi; balzando in piedi io
getto da me lontano l'incubo del mondo religioso; un grido di tripudio
allontana da me un peso sopportato lunghi anni. Ma la significazione
preziosissima d' un tripudio spensierato e liberatore non poté esser
riconosciuta nella lunga notte del pensiero e della fede.
"Quale sciocchezza e quale frivolezza sono nel voler
risolvere i più ardui problemi, i compiti più complessi mediante una interruzione
improvvisa".
Ma hai tu dei doveri che tu stesso non ti sia imposto ? Sino a
tanto che ti assegnerai tali compiti, è ben naturale che non ti daranno pace,
ed è ben naturale ch'essi ti offrano materia a pensieri e che pensando tu crei
a te stesso mille cure. Ma tu, che ti sei imposto un compito, non dovresti
avere il potere d'annullarlo? Sei tu costretto ad esser vincolato a quel
compito, e deve esso diventare assoluto?
Per accennare a una sola cosa fra tante, si è cercato di accusare
l'autorità del governo, perché contro le idee esso adopera mezzi violenti e
procede contro la stampa coll'arbitrio poliziesco della censura e muta una
lotta letteraria in una personale. Così se si trattasse soltanto d'idee e come
se verso le idee noi dovessimo comportarci con disinteresse e con virtù di
sacrificio! Ma quelle idee non sono forse dirette contro gli stessi governanti,
e non provocano esse forse in tal modo l'egoismo?
E i propagatori di quelle idee non mettono innanzi forse la
pretesa religiosa del rispetto alla forza del pensiero, delle
idee? Essi dovrebbero soccombere volontariamente e disinteressatamente, perchè
la divina possanza del pensiero, Minerva, combatte al fianco dei loro nemici.
Ma questo sarebbe un atto suggerito dall'ossessione, sarebbe un sacrifizio
religioso.
Certamente anche i governi subiscono il fascino religioso e
seguono la potenza direttiva d'un'idea o d'una credenza: ma in pari tempo sono
degli egoisti, senza confessarlo (precisamente nella lotta contro i nemici
erompe l'egoismo latente) sono ossessi quanto alla loro fede, ma si ritrovano
ad essere egoisti di fronte alla fede degli avversari. Se si vuole far loro un
rimprovero, conviene imputar loro d'esser ossessi, come gli altri, dalle
proprie idee. Ai pensieri non dovrebbe opporsi alcuna potenza egoistica,
nessuna violenza poliziesca ecc. Cosi credono quelli che hanno fede nella
ragione, ma l'attitudine del pensare e i concetti per me non sono cose sacre ed
io difendo la mia pelle anche contro di loro: Ciò sarà irragionevole ma se io
sono vincolato alla ragione, io dovrò, secondo Abramo sacrificarle
ciò che ho di più caro.
Nel regno del pensiero (il quale, al pari di quello della fede, è
il regno dei cieli), ha certamente torto colui che adopera la violenza cieca,
come ha torto ognuno che voglia procedere senza amore per il regno dell'amore —
o che cristiano si comporti anticristianamente; ciascun di costoro si rivela un
egoista, perchè vuole appartenere a uno di questi regni e sottrarsi tuttavia
alle lor leggi. Ma s'egli vorrà sottrarsi non più alla legge soltanto ma alla
stessa costituzione di questo regno e pretendere di non esservi più soggetto,
egli apparirà allora addirittura un delinquente.
Il pensatore è nel suo diritto allorché lotta contro le idee del
governo (il governo resta di solito muto e nel rispetto della letteratura nulla
sa obiettare); è per contro nel torto, cioè impotente, quando null'altro che
pensieri sa metter in campo contra un potere personale (il potere egoistico chiude
la bocca al pensatore). La lotta teoretica non può condurre alla vittoria
finale e la santa potenza del pensiero soccombe alla prepotenza dell'egoismo,
dacché soltanto la lotta egoistica, la lotta di egoisti d'ambo le parti, può
venir a capo d'ogni cosa.
Ma questo è fare del raziocinio un oggetto del capriccio del
singolo — è ridurlo a un dilettantismo e toglierli ogni importanza;
quest'umiliazione e profanazione del pensare, questo pareggiar l'io che pensa
all' io che non pensa, questa rozza, ma purtroppo reale,
"uguaglianza", la critica non può formularla, poiché essa stessa non
è che la sacerdotessa della ragione, e di là dal pensiero non scorge altro che
l'universale ruina.
La critica sostiene bensì che essa, qual libera critica, può
trionfare dello Stato, ma si schernisce, in pari tempo dal rimprovero che le
vien mosso dal governo dello Stato, ch'essa "sia arbitrio e
impudenza"; essa ritiene che non all'arbitrio ed alla impudenza, ma alla
virtù sua debba attribuirsi la vittoria. Invece l'opposto è giusto: lo Stato
non può essere vinto che dallo arbitrio impudente.
Si potrà concludere da questo, per finire, che il critico nella
sua nuova evoluzione non si è già trasformato, ma solo ha "chiarito una
data questione"; se non che egli procede troppo oltre quando afferma che
la "critica critica sé stessa"; essa, o piuttosto egli, non ha fatto
che criticare un errore commesso e purificarsi delle sue "assurdità".
Se il critico presumesse di criticare la critica, dovrebbe anzitutto accertarsi
se nella ipotesi onde questa procede c'è qualche cosa che valga.
Dal mio canto io muovo dalla ipotesi dell' "io": della
mia premessa io non mi valgo che per mio vantaggio. Io mi nutro precisamente
della mia premessa e non esisto se non perchè mi nutro di essa, ma appunto
perciò questa è in fine più e meglio che una ipotesi, poi che siccome io sono l'unico,
cosi io ignoro l'esistenza d'un dualismo in me stesso, del dualismo d'un io che
premette e d'uno ch'è premesso (d'un io imperfetto e d'uno perfetto, che
sarebbe l'uomo): per me il fatto che "io mi assorbo"
significa che io sono. Io non premetto che io sia, perchè in ogni momento io mi
ammetto e creo, e sono " io " non per ciò che io sia premesso, ma per
ciò che io sono ammesso da me medesimo vale a dire per ciò che io
sono in pari tempo il mio creatore e la mia creatura.
Se le ipotesi fatte sinora devono dissolversi del tutto, esse non
devono assorbirsi in un'altra ipotesi più elevata cioè nel pensiero o nel
pensare, nella critica Quel dissolvimento deve operarsi in mio vantaggio
altrimenti esso rientrerebbe nella categoria innumerevole di quelli che a pro d'altri,
per esempio dell'uomo, di Dio, dello Stato, della morale pura
ecc., proclamarono menzogna le antiche verità, ed abolirono ipotesi da gran
tempo ammesse per vere.
Max Stirner
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