PARTE SECONDA --- IO
LA MIA POTENZA
Il diritto è lo spirito della società.
Se la società possiede una volontà, essa è per l'appunto il diritto.
Ma poi che la società non esiste che in virtù del dominio che
essa esercita sui singoli, cosi il diritto non altro è che la sua volontà
dominatrice. Aristotele definisce la giustizia "il
profitto della società". Ogni diritto esistente è un diritto
che mi si "concede", di cui, cioè, mi si permette di godere. Ma sono
io nel diritto per ciò solo che questo mi è riconosciuto da tutti? E che altro
è il diritto che io ottengo nello Stato, nella società, se non un diritto di straniero?
Se un imbecille riconosce il mio diritto, io ne diffiderò per ciò solo. Ma se
anche me lo riconoscesse una persona assennata per questo soltanto io non
potrei ancor dire di possederlo. Che io sia o non sia nel mio diritto, ciò non
dipende dall'apprezzamento dello stolto o del saggio.
Ciononostante sinora noi abbiamo sempre mirato a questo. Noi
cerchiamo giustizia e a tale fine ci rivolgiamo ai tribunali. A quale? A un
tribunale regio, papale, popolare ecc. Ma può un tribunale istituto dal sultano
giudicare diversamente che con le norme di giustizia imposte dal sultano? Può
esso dar ragione a me contraddicendo alle leggi del sultano ? Può esso
riconoscermi quale un diritto l' "alto tradimento", se il sultano non
l'ha per tale? Può la censura riconoscermi il diritto d'esprimere liberalmente
la mia opinione, se il sultano non ne vuol sapere? E che cosa vado a cercare
allora presso quel tribunale? Io vado in cerca della giustizia del sultano, non
del mio diritto; vado quindi in cerca d'un diritto straniero. Io
non troverò giustizia se non quando tale diritto s'accorderà col mio.
Lo Stato non permette che tra uomini si venga a vie di fatto; egli
si oppone al duello. Egli punisce ogni rissa, per ciò che nessuno
dei contendenti invoca l'intervento della polizia, ma lascia impunito un capo
famiglia il quale picchi di santa ragione un bambino. La famiglia
è autorizzata a far ciò, e per suo mandato il padre; io quale singolo
non lo sono.
La "Gazzetta di Voss" ci presenta "lo
stato secondo il diritto". Qui ogni cosa dev'essere definita dal giudice e
da una magistratura. Il tribunale superiore di censura costituisce agli occhi della
"Gazzetta" la magistratura che giudica secondo il diritto. Ma secondo
quale diritto? Il diritto della censura. Per menar buone le sentenze di quel
giudizio, bisogna riconoscere un diritto alla censura. Ma prescindendo da ciò,
si ritiene generalmente che un tale giudizio offra una protezione. Certo,
protezione contro gli errori d' un singolo censore. Esso non fa che assicurare
il legislatore dalla falsa interpretazione della sua volontà, ma rende con ciò
tanto più dura la sua legge contro coloro che scrivono.
Io solo posso giudicare se ho ragione o torto. Gli altri al più
possono dire se ammettono o negano il mio diritto, o se ciò che è diritto per me è tale anche
per loro.
Ma consideriamo per un istante la cosa anche sotto un altro
aspetto. Io sono obbligato a venerare la legge del sultano nei domini di
costui, la legge popolare nelle repubbliche, il diritto canonico nelle comunità
cattoliche e così via.
Io devo sottomettermi a quelle leggi, ritenerle sacre. Il
"senso del diritto" è cosi radicato nel popolo, che i più fervidi rivoluzionari dei nostri giorni vogliono
assoggettarci ad un nuovo "sacro diritto", al "diritto della
società", al "diritto dell' umanità", al "diritto di
tutti", ecc. Il "diritto di tutti" — per essi — deve precedere
al mio. Certo che, essendo diritto di tutti, dovrebbe essere anche il mio,
poiché dei tutti faccio parte ancor io; ma perchè quella appunto è un diritto di
altri, io non mi sento di doverlo sostenere. Io non difenderò il diritto di
tutti, bensì il diritto mio: ciascuno pensi poi a difendere il diritto proprio
da sé. Il vero diritto di tutti (p. e. quello di mangiare) è quello che è
diritto d'ogni singolo. Se ciascuno saprà difendere il proprio diritto, ne conseguirà
che anche l'universale lo difenderà e saprà conservarselo; ma non è punto
necessario che ciascuno pensi per tutti, e che si adoperi a difender il diritto
proprio quale diritto di tutti.
Ma i riformatori socialisti predicano il "diritto
sociale", in virtù del quale il singolo diventa lo schiavo della società,
e non possiede altri diritti all'infuori di quelli che la società gli conferisce,
a patto, beninteso, che egli viva a seconda delle leggi della
società, cioè da cittadino o da compagno ben pensante. Ma che io
sia "ben pensante" in uno Stato retto a dispotismo o in una "società"
socialista o comunista, ciò non toglie che la
illegalità permanga, poiché in entrambi i casi io non godo di diritti miei
propri ma di diritti che mi sono concessi.
Nelle questioni di diritto ci si domanda sempre : "Che o chi
ci dà il diritto di fare la tal cosa?"
E si risponde : "Dio, l'amore, la ragione, la natura,
l'umanità, ecc.". Si dovrebbe rispondere invece: la tua propria
volontà, la tua propria forza.
Il comunismo, il quale ammette che gli uomini "per natura
hanno uguali diritti", contraddice la propria tesi col negare poi
qualsiasi diritto naturale agli uomini. Esso non vuole, per un esempio, riconoscere
che i genitori "per natura" possiedano dei diritti rispetto ai figli,
o questi di fronte ai genitori; e cosi abolisce la famiglia. La natura non
conferisce ai genitori e ai fratelli diritto alcuno. Del resto questa tesi
rivoluzionaria, chiamata il principio di Babeuf, si fonda su d'un
concetto religioso, dunque falso. Chi mai, se non si trova sotto l'influsso del
pensiero religioso, parlerà di diritto? Non è forse il
"diritto" un concetto religioso, cioè qualcosa di sacro? "La
parità di diritti" proclamata dalla rivoluzione, non è che un'altra forma
della " eguaglianza cristiana -, della "eguaglianza dei fratelli, o
dei figli di Dio", ecc., in breve è la "fraternité".
Tutte le questioni riferentesi al diritto meritano d'esser giudicate con le
parole dello Schiller: "Da lungo tempo per odorare mi servo
del naso: poss'io "provare d'aver un diritto su di esso?"
Quando la rivoluzione fece dell'eguaglianza un diritto, essa
penetrò nel terreno sacro. Da ciò ebbe inizio la lotta per i "sacri,
inalienabili diritti umani". Contro gli eterni diritti dell'uomo si fa valere
con non minore fondamento "il diritto acquisito" alle "cose
esistenti"; si ha cosi un diritto contro un altro diritto; e naturalmente
il diritto dell'uno è un torto agli occhi del partito contrario.
E questa la lotta per il diritto che dura dalla rivoluzione.
Voi volete esser riconosciuti nel vostro "diritto" pur
essendo contro gli altri. Ciò non è possibile, poiché per gli altri sarete
sempre dalla parte del torto. Se ciò non fosse, gli altri non sarebbero
vostri avversari. Essi vi daranno costantemente torto. Ma il vostro diritto è
forse di fronte a quello degli altri un diritto più alto, più grande, più potente?
Niente affatto! Il vostro diritto non è più potente, perchè voi non siete più
forti. Hanno i sudditi cinesi un diritto alla libertà? Donatela
loro e v'accorgerete d'aver commesso un error grossolano: essi non sapranno approfittarne,
e perciò non vi hanno diritto. I fanciulli non hanno nessun diritto alla
maggior età, perchè non sono maggiorenni, cioè perchè sono fanciulli. I popoli
che si lasciano trattare da minorenni non hanno alcun diritto alla maggior età:
quando cesseranno d'esser minorenni, essi s'acquisteranno tale diritto. Ciò
significa semplicemente: Tu hai diritto di essere ciò che puoi essere.
Io derivo ogni diritto, ogni facoltà da me stesso; io sono
autorizzato a fare tutto ciò che posso fare. Io sono autorizzato ad abbattere Giove,
Jehova, Dio, se sono in potere di
farlo; se non posso, quegli dei avranno sempre potere e vantaggio contro di me,
ed io dinanzi alla loro forza e alla loro legge mi curverò tremante d'impotente
"timor di Dio", osserverò i loro comandamenti, e crederò d'aver
diritto di fare solo tutto ciò che potrò secondo la loro legge.
Non altrimenti i doganieri russi ritengon d'esser nel loro
diritto allorquando tirano contro coloro che tentano di varcare i confini: essi
uccidono in forza d'una "autorità superiore", in forza della "legge".
Ma io sono licenziato da me stesso a uccidere, se io stesso non me lo
proibisco, se io stesso non indietreggio dinanzi all'idea dell'assassinio come
dinanzi a un "torto". Questo pensiero è illustrato dalla poesia del
"Chamisso". "La valle degli assassini", nella
quale il canuto assassino indiano sa strappare un senso di venerazione al
bianco, di cui egli ha trucidato i compagni.
Quello soltanto io non ho diritto di fare che non faccio per
libera determinazione della mia volontà.
A me spetta stabilire se con me è il diritto: fuor di me esso non
esiste. Giusta è ogni cosa che tale a me sembra. Gli altri penseranno
diversamente: ma questo è affar loro, non mio, si difendano come sanno. E se
una qualunque cosa non sembrasse giusta all'universale, ma tale sembrasse a me,
io mi riderei dall'universale. Cosi adopera ciascuno secondo che sa apprezzare se
stesso: ciascuno secondo il grado del suo egoismo, poiché la forza
vince la ragione, ed è bene che così sia.
Essendo io "per natura uomo", io ho un uguale diritto al
godimento di tutti i beni — dice Babeuf. Non dovrebbe egli dir
anche press'a poco cosi: essendo io "per natura" un principe primogenito,
io ho diritto ad un trono? I diritti umani ed i diritti acquisiti s'incontrano
nello stesso punto, cioè nella "natura" che mi conferisce un
diritto: quello alla nascita, quello all'eredità, ecc.
La frase: Io son nato uomo, non ha diverso significato da
quest'altra: Io son nato principe reale.
L'uomo della natura possiede solamente un diritto naturale. Ma la natura
non può darmi un diritto, non può farmi atto a cangiar ciò cui il mio
potere non giunge. Se il principe di sangue reale si colloca al disopra degli
altri suoi coetanei, si ha in questo già un fatto che gli assicura un privilegio:
se poi gli altri approvano e riconoscono tale privilegio, si ha allora un altro
fatto che li rende meritevoli di esser sudditi.
E sempre a me estraneo il diritto che mi conferisce Dio o il
popolo dacché non son io che me l'attribuisco.
I comunisti dicono: un lavoro uguale dà diritto agli uomini ad
un'uguale somma di godimenti.
Prima s'era agitata la questione se il "virtuoso" non
dovesse essere "felice" sulla terra" E gli ebrei accettarono
questa massima: "sii virtuoso — dissero — affinché tu goda il bene sulla
terra". No, l'uguale lavoro non ti da alcun diritto; sola l'attitudine a
godere ti autorizza al godimento. Se tu godi, tu sei autorizzato a godere. Ma
se hai lavorato e ti lasci mancare il godimento, tua colpa e tuo danno.
Se voi sapete procacciarvi un godimento, esso diviene un vostro
diritto, se lo desiderate solamente, senza osare di prendervelo, esso resterà
sempre uno dei diritti acquisiti di coloro che sono privilegiati a fruirne.
Esso è il loro diritto, come diventerebbe il vostro, se sapeste acquistarlo.
Viva è la lotta pel "diritto della proprietà". I
comunisti affermano: "la terra appartiene per diritto a coloro che la
coltivano, i frutti a coloro che li producono". Io credo invece ch'essa appartenga
a chi sa pigliarsela, o a chi, possedendola, non se ne lascia spogliare. Chi si
appropria la terra ha diritto di possederla. E questo il "diritto
egoistico"; "piace così a me, dunque la ragione è dalla mia
parte".
Inteso altrimenti il diritto ha, come si dice, "un naso di
cera". La tigre che m'assalisce ha diritto di farlo, come io di ucciderla.
Io non difendo il mio diritto contro la tigre, difendo me stesso.
Il diritto umano si riduce dunque sempre a quella facoltà che gli
uomini si concedono reciprocamente. Se si concede ai neonati il diritto
dell'esistenza, essi l'acquistano; se non viene loro concesso, come presso gli Spartani
e gli antichi Romani, essi non l'avranno. Poiché conferire
o concedere può soltanto la società, essi non possono da sé prenderlo o
rinunziarvi. Mi si obbietterà che il diritto all'esistenza era pei neonati un
diritto naturale: ebbene, gli Spartani si rifiutavano di riconoscerlo.
E così quel diritto rimaneva disconosciuto, del pari che disconosciuto era il
diritto di pretendere che le fiere cui venivano dati in pasto avessero a rispettare
la loro vita.
Si parla tanto del diritto innato! Or bene, quale è
il diritto nato con me?
Il diritto di diventar padrone d'un maggiorasco, d'ereditare un
trono, di godere d'una educazione principesca, oppure — se io sono il nato di
povera gente — d'usufruire della scuola libera, d'esser vestito a spese dei
ricchi, e finalmente di guadagnarmi un tozzo di pane nelle miniere carbonifere
o negli opifici? Non sono questi altrettanti diritti innati, trasmessimi dai genitori
colla nascita? Voi siete d'avviso opposto; voi credete che essi usurpino il
nome di "innati", e appunto a favore dei veri diritti innati li volete
abolire. Per provare il vostro asserto, voi risalire alle cose più semplici e
sostenete che tutti per nascita sono uguali cioè uomini. Io concedo
volentieri che tutti nascono uomini, e che in ciò i neonati sono uguali tra
loro. Ma perchè sono tali? Unicamente perchè non sanno in altro modo manifestar
la loro attività se non per dimostrare che sono figli dell' uomo; piccoli
uomini nudi e crudi. Ma con ciò differiscono appunto da coloro che han saputo
già far qualche cosa, e che non sono più "i figli degli uomini" bensì
— i figli della propria creazione..
Questi ultimi posseggono assai più che i diritti innati: essi
hanno i diritti acquisiti. Quale contrasto, quale campo aperto
alla lotta. La lotta dei diritti innati e dei diritti acquisiti.
Richiamatevi pure, se vi talenta, ai vostri diritti innati: noi
non mancheremo di opporvi i nostri, che ci siamo acquistati. Cosi voi come noi
stiamo sul terreno del diritto; ciascuno dei due partiti difende un
"diritto" contro l'altro; l'uno il diritto naturale, l'altro il
diritto ch'egli seppe procacciarsi.
Ma restando tuttavia sul terreno del diritto, voi pretendete anche
d'aver ragione.
Il vostro avversario non può darvi il vostro diritto, egli non ha
potere di rendervi giustizia.
Chi ha la forza — ha il diritto: se non avete quella, non avrete
né pur quésto. E tanto difficile a procurarsi questa sapienza? Guardate i
potenti; considerate il loro modo di condursi?
Naturalmente noi non intendiamo parlare che della Cina e
del Giappone. Provatevi un po' voi, Cinesi e Giapponesi,
a dar torto a chi è potente, e vedrete se non vi s'aprirà il carcere. Se volete
aver ragione del potente, non avete che un mezzo: la violenza. Se a questo
mezzo non vi appigliate, null'altro potrete che stringer in silenzio le pugna,
o cader vittima della vostra loquacità imprudente.
In breve, se voi non interrogaste i Cinesi e Giapponesi
sulla questione del diritto, e principalmente del diritto
"innato", voi non avreste bisogno di interrogarli a proposito dei
diritti acquisiti.
Voi v'arretrate dinanzi agli altri, quasi scorgeste accanto ad
essi il fantasma del diritto, combattente al loro fianco, come al
fianco degli eroi le divinità d'Omero. E che fate voi? Gettate forse
l'asta? No, voi vi prosternate al fantasma per cercar di trarlo dalla vostra
parte, affinché combatta con voi: voi tentate di propiziarvelo.
Altri direbbe semplicemente: Voglio io ciò che vuole il mio
avversario? "No". Ebbene, allora militino in suo favore mille diavoli
o mille dei, non io mi rimarrò per questo dal dargli battaglia!
Lo stato del diritto vagheggiato dalla Gazzetta di Voss vuole
che gli impiegati non possano venire rimossi dall'amministrazione ma
solo dal giudice. Vana illusione! Se una legge stabilisce che un impiegato,
colto in stato d'ubriachezza, dovesse perdere il suo impiego il giudice dovrebbe
condannarlo sulla base di testimonianze, ecc. In breve il legislatore dovrebbe specificare
ad una ad una tutte le ragioni le quali traggono seco la perdita dell'officio
(p. es.: chi ride in faccia a un suo superiore, chi non va tutte le domeniche
in chiesa, chi non si presenta una volta al mese al sacramento dell'eucaristia,
chi ha contratto dei debiti, chi frequenta cattive compagnie, chi non dimostra
risolutezza in certi incontri, ecc., deve essere rimosso dall'officio suo). Il
legislatore potrebbe anzi lasciare che un giurì d'onore stabilisce queste cose:
il giudice non avrebbe che ad accertare se l'impiegato si sia "reso
colpevole" di quelle "contravvenzioni" ed a prova raggiunta
decretare la sua rimozione di "diritto".
Il giudice è perduto se si scosta dalla lettera della legge.
Perchè in tal caso egli non ha più che un'opinione, come ogni altro e se egli
non si attiene che a questa, la sua cessa dall'esser una attribuzione
ufficiale; come giudice egli è obbligato a giudicare secondo la legge.
In tal caso preferisco gli antichi Parlamenti di Francia, i quali volevano
esaminare di volta in volta le questioni di diritto e ne facevano registrare le
decisioni. Essi almeno giudicavano secondo i propri concetti del diritto e non
s'abbassavano ad essere semplici macchine del legislatore; sebbene quali
giudici dovessero essere macchine in ogni modo — macchine di sé stessi.
Si dice che la punizione sia il diritto del delinquente. Ma anche
l'impunità è il suo diritto. Se la sua impresa gli riesce, è giusto ch'egli ne tragga vantaggio,
come e giusto che ne abbia pena se essa fallisce.
Avrai sonni più o meno tranquilli, secondo che più o meno morbido
è il letto che ti sei preparato. Se taluno si getta temerariamente in mezzo ai
pericoli, e vi perisce, noi diremo: bene gli sta, egli l'ha voluto. Ma s'egli
poté superare i pericoli, se cioè la sua forza l'ha fatto
vincere, egli avrà ragione, ai nostri occhi. Se un bambino si
trastulla con un coltello e si ferisce, bene gli sta; ma se non si ferisce, ha
ragione.
È giusto che il delinquente soffra, perchè ha arrischiato
qualcosa, perchè ha corso il pericolo, conoscendone le conseguenze! Ma la pena
che noi gli minacciamo è il nostro diritto, non il suo. Il nostro
diritto reagisce contro il suo; ed egli ha torto quando noi siamo più forti di
lui.
"Ma ciò che costituisce il diritto" — ci si oppone —
"trova la sua espressione nella legge".
Qualunque sia la legge, aggiungono, essa dev'essere rispettata dai
buoni cittadini. Cosi si esalta il sentimento della legalità della vecchia Inghilterra.
A ciò ben s'addice la parola d'Euripide: "Noi serviamo agli
Dei, quali che essi si siano". La legge sopra ogni cosa. Iddio sopra
ogni cosa, ecco il principio cui oggi siamo giunti.
Noi ci diamo faccenda per distinguere la legge dall'arbitrio,
dal comando, dal decreto, con l'affermare che la legge procede da una autorità riconosciuta.
Tuttavia una legge che regola le azioni umane (la legge etica, la legge dello
Stato, ecc.) è sempre la manifestazione d'una volontà, dunque un
comando.
Se io stesso mi imponessi una legge, essa sarebbe un mio comando,
al quale, a un dato momento, potrei ricusare obbedienza. Taluno può dichiarare,
è vero, ciò che è disposto a tollerare, costituendo in tal modo una legge che
vieta tutto il rimanente sotto pena di considerare come suoi nemici i
trasgressori di quel divieto. Ma alle mie azioni nessuno deve
comandare, a nessuno deve esser lecito di prescrivermi il modo d'agire e
d'impormi così le sue leggi. Io devo consentire bensì ch'egli mi riguardi per
suo nemico, non però che mi tratti secondo il piacer suo come se
io fossi sua creatura e come se la sua ragione o il suo capriccio
anche irragionevole fossero una norma per me.
Gli Stati non durano che sino a tanto che son retti da una volontà
dominante la quale è confusa con la lor propria. La legge presuppone
l'obbedienza. A che ti giovano le tue leggi, se nessuno le osserva; a che i
tuoi comandi, se nessuno li eseguisce? Lo Stato non può rinunziare alla sua
pretesa di determinare le volontà dei singoli, di contare e speculare su di
esse. Per lo Stato è al tutto necessario che nessuno abbia una volontà propria;
se taluno l'avesse, lo Stato dovrebbe cacciarlo. Se tutti avessero una volontà
propria, lo Stato cesserebbe d'esistere. Lo Stato non si può in fatti
immaginare senza il dominio e senza la schiavitù poiché esso deve voler essere il
padrone di tutti i cittadini e questa sua volontà si chiama la volontà di
stato.
Chi per resistere deve far assegnamento sulla mancanza di volontà
da parte degli altri, diventa una macchina: allo stesso modo il padrone è un
meccanismo creato dallo schiavo. Col cessare della soggezione cesserebbe anche
il dominio.
La volontà mia propria è la rovina dello Stato; per
ciò da questo vien chiamata volontà arbitraria. La volontà
individuale e lo Stato sono potenze mortalmente nemiche l' una all'altra, e tra
di esse non è possibile una "pace perpetua". Sino a tanto che lo
Stato esisterà, esso dovrà rappresentarsi la volontà del singolo, cioè del suo
eterno avversario, come alcunché d'irragionevole, e di malvagio; e sino a tanto
che il singolo accetterà per buono questo concetto tal giudizio sarà giusto, indiscutibile.
Ogni Stato significa dispotismo, sia poi il despota
uno solo o siano molti, o anche tutti, come c'immaginiamo che accada in una
repubblica. Allora avverrà che la legge decretata di volta in volta, per la
manifesta volontà dell'universale, divenga legge per il singolo,
alla quale egli sarà tenuto a prestar obbedienza. Anche se
immaginiamo il caso che ogni singolo abbia espressa un'uguale volontà, sì che
si abbia una manifestazione perfetta della volontà complessiva,
la cosa, per questo solo, non cangerà d'aspetto. Non resterei io forse legalo
anche per l'avvenire alla volontà espressa ieri? La mia volontà dunque s'irrigidirebbe,
acquisterebbe una stabilità fastidiosa! La mia creatura, cioè,
diventerebbe la mia signora. Ma io, il creatore, sarei impedito di oltre
svolgere la volontà mia. Perchè ieri fui un pazzo, dovrei continuare ad esser
tale per sempre.
Di modo che nello Stato, nella miglior ipotesi — si potrebbe anche
dire nella peggiore — io sarei lo schiavo di me stesso. Perchè ieri ho voluto,
sarei oggi un essere privo di volontà; ieri libero, oggi costretto.
Come impedir ciò? Unicamente col non riconoscere alcun dovere,
col non legarsi o col non lasciarsi legare. Se io non ho alcun
dovere, non devo conoscere alcuna legge.
"Ma mi si legherà con la forza ". La mia volontà nessuno
può legarla, e io avrò diritto sempre di respingere ciò che non mi conviene.
Ma sarebbe una universale rovina il concedere a ciascuno di far
ciò che meglio gli aggrada!"
Ma chi vi dice che ciascuno possa far tutto ? Non sei tu al mondo,
e non puoi tu impedire che ti sia fatto ciò che non t'aggrada? sappi
difenderti, e nessuno ti farà del male. Chi vuole sprezzare la tua volontà sarà
tuo nemico. Comportati contro di lui da nemico. Se dietro a te
sta in tua difesa qualche milione d'individui, voi rappresenterete una forza
immensa e otterrete facilmente vittoria. Ma pur imponendovi al vostro
avversario per la vostra forza, nondimeno voi non sarete per lui un'autorità
sacrosanta, salvo ch'egli sia un brigante o un ladrone. Egli non vi
deve né rispetto né considerazione, benché sia costretto a difender sé stesso
contro il prevalere delle vostre forze.
Noi siamo soliti a classificare gli Stati secondo il vario modo
con cui è ordinata la "suprema potestà".
Se essa è di spettanza d'un solo avremo la monarchia, se di tutti,
la democrazia, ecc. Dunque la suprema potestà! Ma potestà contro chi? contro il
singolo e la sua volontà. Lo Stato stesso esercita una potestà,
il singolo non può né deve esercitarla. Questo contegno dello Stato è violenza,
e la sua potestà esso la chiama diritto, quella degli altri a crimine ".
Crimine è dunque il potere del singolo: e soltanto per mezzo di crimini il
singolo spezza la potestà dello Stato ove egli ritenga che lo Stato non é
superiore a lui, bensì egli allo Stato.
Ora io potrei (voi forse ne ridereste), consigliarvi paternamente
di non pronunciar leggi atte ad intralciare lo sviluppo, l'attività, l'opera
creativa di me stesso. Io non vi darò questo consiglio, poiché già voi non lo
sapreste seguire e io perderei tutto l'utile che mi riprometto dalla cosa. A voi
nulla io chiedo e quand'anco di alcunché vi ricercassi, voi continuereste ad
essere dei legislatori implacabili; chiedervi di non esser tali, sarebbe come
volere che il corvo canti o che il ladrone si rimanga dallo spogliare i
viandanti. Piuttosto domando a coloro che vogliono essere egoisti che cosa
sembra loro più conforme ai lor fini: l'accettare leggi da voi e rispettarle, o
il dimostrarsi ribelli e negar l'obbedienza.
La gente timorata ama darsi a credere che le leggi non dovrebbero
prescrivere se non ciò che nei sentimento dei popolo è considerato come giusto
ed equo. Ma che cosa importa a me di ciò che ha valore pel popolo e tra il
popolo? Il popolo sarà forse avverso a coloro che bestemmiano Dio; ed ecco che
si farà una legge contro la bestemmia. Ma per questo forse io non dovrei bestemmiare?
Questa legge potrà essere ai miei occhi qualche cosa di più che un ordine?
Sarei curioso di saperlo!
Unicamente dall'assioma che ogni diritto ed ogni potere spetta al
popolo, sono sorte tutte le forme di governo. Poiché tutti si richiamano al
popolo: tanto il despota, quanto il presidente d'una repubblica agiscono e
imperano in "nome dello Stato". Essi sono in possesso della
"potestà dello Stato": nulla importa poi che il popolo (il quale
rappresenta il complesso di tutti i singoli, oppure alcuni suoi
rappresentanti o pochi soltanto (come nei governi aristocratici), o infine uno solo
(come nelle monarchie), eserciti la "potestà di Stato". Sempre
l'universale soverchia il singolo, e possiede una potestà "legittima"
alla quale si dà nome di diritto.
Dinanzi alla santità dello Stato, il singolo non è altro che un
vaso vile, nel quale appariranno mescolate insieme la "tracotanza, la
malvagità, il vezzo di schernire e di calunniare, la frivolità, ecc.," non
appena egli protesterà di non dover riconoscere la santità dello Stato."
L'alterigia religiosa dei servi dello Stato ha in
serbo delle pene graziose per "insolenza" irreligiosa.
Se il governo mostra di voler punire ogni atto dello spirito
indipendente contro lo Stato, ecco che si fanno innanzi i
liberali e dicono: lo scherzo, la satira, le arguzie, l'umorismo, ecc., dovrebbero
poter manifestarsi liberamente: il genio dev'essere libero.
Dunque non ogni singolo individuo, ma il genio soltanto deve
essere libero. In tal caso con pieno diritto lo Stato, o in nome suo il
governo, oppone: Chi non è con me, è contro di me. Gli scherzi, le arguzie,
ecc., furono sempre la causa della rovina dello Stato. Quelle manifestazioni
non sono innocue. E poi dove finisce lo scherzo innocuo e dove comincia lo
scherzo pericoloso?
I moderati dinanzi a tale domanda si mostrano assai impacciati e
si riducono ad esprimere il voto che lo Stato (il governo) si mostri meno sensibile,
meno suscettibile, e a supplicarlo di non vedere negli scherzi
"innocui" un'intenzione malvagia, e di essere un po' più tollerante.
Una suscettibilità esagerata è certamente indizio di debolezza, e
l'evitarla potrà essere una virtù lodevolissima; ma in tempi di guerra non si
deve risparmiare nessuno, e ciò che in condizioni normali può esser tollerato,
deve esser proibito quando invece si sia proclamato lo stato d'assedio.
Siccome i liberali ben pensanti sanno ciò, essi si affrettano a
dichiarare che "il popolo essendo devoto" é assurdo temer pericoli.
Ma il governo sarà più prudente e non si accontenterà a questo.
Esso conosce troppo bene l'arte di adescare gli uomini con belle
parole e non presterà fede a quelle affermazioni.
Ma bisogna pure avere un posto dove trastullarci: si è bambini; la
gioventù non conosce troppi ritegni.
Ed ecco che tutta la questione viene a ridursi a questo campo di
trastullo, e si domanda qualche ora di libera ricreazione. Si domanda soltanto
che lo Stato sia un padre non troppo indulgente, dia al popolo qualche
processione di asini, qualche festa carnevalesca, come quella che nel Medio Evo
la stessa Chiesa permetteva. Ma i tempi in cui ciò poteva avvenire senza pericoli
sono passati. Oggi i fanciulli che si trovano per qualche ora all'aperto, lontani
dalla verga, non vogliono più saperne di rientrare nel loro chiuso.
Ormai l'aria aperta non è più il complemento della clausura, non è
più una ricreazione, un'antitesi, un aut-aut.
In breve lo Stato non può più tollerar nulla o è costretto a tollerar tutto; egli
dev'essere o sensibile oltre misura o insensibile come un cadavere.
E finita con la tolleranza. Se lo stato offre il dito, gli si
prenderà la mano. Non è più possibile scherzare: ogni scherzo può diventare
terribilmente serio.
Le proteste dei "liberali" che chiedono la libertà di
stampa, son dirette contro il loro principio, contro la loro vera volontà.
Essi vogliono quello che non vogliono: essi si riducono a
desiderare e a far voti. Per ciò cangiano d'avviso con tanta rapidità che
allorquando si accorda loro la cosiddetta libertà di stampa essi si fanno
"desiderare la censura."
Ciò é ben naturale. Lo Stato è sacro anche per loro, e così la
morale, ecc. Essi si comportano verso di lui quali ragazzi male avvezzi, quali
fanciulli astuti, che sanno volgere in loro vantaggio le debolezze dei
genitori. Il papa Stato deve permetter loro di dire molte dure cose senz'altro diritto
che di censurarli con un'occhiata severa. Poiché riconoscono in lui il loro
padre, essi sono costretti a subirne la censura, come appunto i ragazzi.
Se tu consenti che un altro ti dia ragione tu devi anche tollerare
che egli ti dia torto: se da lui viene a te la giustificazione e la
rimunerazione, devi essere pronto ad attender da lui anche l'accusa e la
punizione. Accanto al diritto procede il torto, accanto alla legalità il crimine.
Che cosa sei tu? — Tu sei un delinquente.
"Il delinquente è il crimine dello Stato!", dice Bettina.
Si possono accettare queste parole, benché la stessa Bettina non le prenda
proprio in questo senso. Nello Stato, cioè, l'Io senza freni, l'Io appartenente
a me stesso, non trova modo di raggiungere il suo compimento.
Ogni io è sin dalla nascita un delinquente contro il
popolo contro lo Stato. Per ciò questo vigila sopra ogni singolo, vede in ogni
uomo un egoista, e degli egoisti ha paura. Egli presuppone in tutti i più
tristi propositi, e sta attento, poliziescamente, per non averne a risentir
danno, ne quid respublica detrimenti capiat. L'Io senza, freno —
quale ognuno di noi è in origine e resta nell'intimo essere — è per lo Stato il
delinquente incorreggibile. L'uomo ch'è diretto dal suo ardimento, dalla sua
volontà, dalla mancanza di ogni scrupolo, e dall'impavidità, viene dallo Stato
e dal popolo circondato di spie.
E dico dal popolo! Il popolo (o voi gente ingenua, pensate ora un
po' che cosa sia codesto popolo) il popolo è intimamente materiato di principi
polizieschi. Soltanto chi rinnega il proprio essere, chi "ripudia sé
stesso" è ben accetto al popolo.
Bettina è, nel suo libro, tanto ingenua da ritenere
che lo Stato sia solamente ammalato e da sperare nella sua guarigione — una
guarigione che dovrebbe essere, operata dai demagoghi. Ma esso non è ammalato,
è nella pienezza delle sue forze quando respinge da sé lontano i demagoghi che
vogliono ottenere qualche cosa per i singoli, cioè per tutti.
Coloro che in lui hanno fede sono — per esso — i migliori
capipopolo e i migliori demagoghi i soli ch'egli ammetta. Secondo Bettina
lo Stato "dovrebbe sviluppare il germe della libertà innato nell'uomo,
se non vuol essere un padre snaturato. Esso non può agire diversamente: appunto
perchè si prende cura dell'umanità (il che dovrebbe fare anche lo Stato umano e
"libero") deve avere il singolo in conto di un uccello introdottosi
in un nido non suo." Quanto giustamente osserva invece il borgomastro [(1)
BETTINA, Questo libro appartiene al re, p. 381]: " Come? lo Stato non
dovrebbe aver altri obblighi se non quello di curare gli infermi che non hanno
speranza di guarigione? Ciò non è giusto. Da quando gli Stati esistono, essi si
sono argomentati sempre di liberarsi dalle materie impure, non mai di
lasciarsene impregnare. Esso non ha bisogno di applicare tanta economia ai suoi
succhi. Taglia senza esitazione i rami che intristiscono, affinché gli altri
possono essere fiorenti. La durezza dello Stato non deve muoverci a meraviglia:
la sua morale la sua politica, la sua religione lo costringono ad essere
implacabile; non lo si accusi d'insensibilità: il suo sentimento può bensì
ripugnare, ma la sua esperienza gli impone di cercar la salvezza nel rigore! Vi
sono delle malattie, in cui soltanto i rimedi drastici hanno
forza. Il medico, che conoscendo il male esita e ricorre ai palliativi, non
vincerà giammai la malattia, ma farà soccombere prima o poi l'ammalato!"
L'obbiezione della moglie del consigliere: "Come ottenere una
guarigione, se vi servite della morte quale rimedio eroico?" non regge. Lo
Stato non applica già la pena di morte contro sé stesso bensì contro qualche
membro che gli dà noia.
"Per uno Stato infermo l'unica via di salvezza è permettere
che l'uomo possa svilupparsi e prosperare" (pag. 385). Se al pari di Bettina,
per uomo si intende il concetto astratto di "uomo " essa ha ragione:
lo Stato infermo guarirà pel prosperare "dell'uomo", poiché quanto
più i singoli sono teneri del concetto l' "uomo ", tanto maggior
tornaconto ne avrà lo Stato. Ma se per uomo s'intende il singolo (a cui pare
alluda anche l'autrice del libro citato, la quale ivi parla molto oscuramente
dell' "uomo"), tanto farebbe il dire: "Per una banda di briganti
ammalati, l'unica via di salvezza è il permettere che in essa prosperino gli
onesti cittadini!" Se ciò si avverasse, la banda di ladroni perirebbe come
tale. E poiché essa prevede ciò, preferisce uccidere chiunque accenna a voler
diventare un galantuomo.
Bettina in questo libro è una patriota, o per lo meno una
lodatrice degli uomini. Essa è malcontenta dell'ordine di cose esistente, al
pari di tutti coloro che vorrebbero ricondurre nel mondo la buona fede antica.
Soltanto, essa pensa che i politicanti, gli ufficiali dello Stato e i diplomatici
spingono lo Stato verso la rovina, mentre quegli altri ne danno ogni colpa ai
malvagi, ai "seduttori del popolo".
Che altro è il delinquente comune, se non uno che ha commesso la
fatale imprudenza di attentare a ciò che appartiene al popolo, anziché
ricercare quello che appartiene a sé?
Egli è andato in cerca dello spregevole "possesso
altrui", ha fatto ciò che fanno i credenti, che aspirano alle cose
appartenenti a Dio. Che cosa fa il prete quando rimprovera il delinquente? Ei gli
mette dinanzi agli occhi il torto gravissimo d'aver profanato con i suoi atti
la proprietà dello Stato che questo ha proclamata santa (e di tale proprietà
fanno parte anche le vite dei cittadini, dei singoli, onde lo Stato si
compone). Invece egli assai meglio adoprerebbe rinfacciandogli d'aver macchiato
se stesso per avere, non disprezzato, ma ritenuto oggetto d'appropriazione ciò che
gli era estraneo. Ma egli non può far ciò perchè è prete. Parlate al cosiddetto
delinquente nella sua qualità d'egoista e costui si vergognerà, non già d'aver
contravvenuto alle vostre leggi ed attentato ai vostri beni, bensì d'aver
ritenute le vostre leggi meritevoli d'infrazioni, i vostri beni meritevoli
d'esser desiderati. Egli si vergognerà di non avere disprezzato voi — con tutto
quello che vi appartiene: d'essere stato cioè troppo poco egoista. Ma voi non
sapete parlare a lui da egoisti, perchè voi siete inferiori al delinquente. Voi
non commettete alcuna contravvenzione alla legge! Voi non sapete che un io
cosciente di sé stesso non può non essere un delinquente e che di violazioni
del diritto si compone la sua vita. Eppure dovreste saperlo, poiché credete che
"noi tutti siamo peccatori". Ma voi avete l'intenzione di sottrarvi
al peccato con l'astuzia e con l'inganno; voi non comprendete — poiché siete
pieni di timor del demonio — che la colpa costituisce il volere d'un uomo. Oh
se foste colpevoli! Ma voi siete dei giusti! Ebbene, fate in modo che al vostro
signore appariscano giuste tutte le opere vostre.
Quando la coscienza cristiana, o l'uomo cristiano, compone un
Codice criminale, in che altro modo può concepire il delitto se non come un
segno di mancanza di cuore? Ogni offesa d'un legame del
cuore, ogni atto contro un essere sacro, è delitto. Quanto più
dev'essere cordiale il rapporto, tanto più colpevole è il volgerlo in gioco e
tanto più meritevole di punizione è il delitto.
Ogni suddito è obbligato ad amare il suo signore: rinnegare
codesto amore è un alto tradimento meritevole di morte. L'adulterio è una
mancanza di cuore meritevole di condanna [(1) Questo poi no . (Nota del
correttore).], perchè chi lo compie dimostra di non aver rispetto per la
santità del matrimonio. Sino a tanto che il cuore detta le leggi, soltanto
l'uomo di cuore godrà della protezione della legge. Ora l'uomo di cuore è
l'uomo morale; e infatti egli condanna ciò che è contrario al
sentimento morale; l'infedeltà, la ribellione, lo spergiuro, tutto ciò insomma
che significa infrazione di un vincolo morale. Ogni infrazione di vincoli
venerabili per la loro durata, non dovrebbe apparir dissennata e delittuosa ai
suoi occhi?
Chi disconosce tali diritti del sentimento si rende nemici tutti
gli uomini morali. Soltanto i Krummacher e consorti sono persone
per bene, atte a comporre logicamente un Codice penale del cuore : come un
certo progetto di legge, che noi conosciamo, dimostra a tutta evidenza.
La legislazione dello Stato cristiano deve essere affidata in
tutto alle mani dei preti, e non sarà mai rigorosamente logica sino a tanto che
sarà elaborata da servi di prete che non siano preti interamente.
Quando ogni "assenza di sentimento, di cuore" sarà riprovata come un
delitto imperdonabile, e ogni eccitazione del sentimento individuale ritenuta
condannabile, e ogni protesta della critica e del dubbio biasimata come
meritevole d'anatema; allora soltanto l'egoista dinanzi alla coscienza
cristiana sarà senz'altro un delinquente convinto.
Gli uomini della rivoluzione parlavano spesso della giusta
vendetta del "popolo", come d'un "diritto". Vendetta e
diritto, son due cose che in questo caso si corrispondono.
E’ questa la condotta che deve tenere un io verso un
altro io? Il popolo grida che il partito avversario ha commesso
dei "delitti " contro di lui. Posso io ammettere che alcuno commetta
un delitto contro di me, senza affermare in pari tempo che egli deve agire
secondo la volontà mia?
Se egli agisce così, io dirò ch'egli opera rettamente; se
altrimenti, dirò che commette un delitto.
Anch'io premetto che gli altri debbono proseguire la stessa mèta
che io mi sono prefisso, e cioè li considero non già come singoli individui,
ognuno dei quali porti nel suo interno la propria legge e vi conformi gli atti,
bensì quali esseri che sono costretti ad obbedire ad una particolar legge "ragionevole".
Io stabilisco che cosa debba intendersi per uomo e che cosa
voglia dire operar umanamente, e pretendo poi da ognuno che il
mio decreto gli sia e legge e norma e ideale, altrimenti egli mi si chiarirà
per un "peccatore" e per un "delinquente". Ma il
"colpevole" incorrerà nelle pene della legge.
Si vede, anche qui, che il concetto "dell'uomo"
rende possibile quello del delitto, del peccato, e conseguentemente del
diritto. Colui nel quale io non riconosco "l'uomo", è un
"peccatore", un "colpevole".
Il concetto del delinquente presuppone quello di alcunché di sacro
cui egli attenti; tu di fronte a me, quale singolo individuo, non sarai mai un
delinquente ma semplicemente un avversario, un nemico. Ma non odiare colui che
offende una cosa sacra, è già per sé un delitto. Cosi il St.-Just grida
a Danton: "Non sei tu un delinquente? non sei tu
responsabile di non aver odiato i nemici della patria?"
E poi che la rivoluzione nel concetto "uomo" comprende
il "buon cittadino", cosi da codesto concetto derivano i
"peccati e i delitti politici".
In tutto ciò l'uomo singolo si suole considerare come un rifiuto
della società, mentre si onora l'uomo in astratto: "l'uomo". E
comunque si chiami tale fantasma, o giudeo, o cristiano, o buon cittadino, o
suddito leale, o liberale, o patriota, dinanzi a questo concetto vittorioso
"dell'uomo" s'inginocchiano tutti, per quanto diversa sia in ciascuno
l'idea dell'uomo.
E con quanta convinzione si punisce e si uccide col nome della
legge, del popolo sovrano, di Dio!
Ora, se i perseguitati sono tanto astuti da nascondersi e da
sfuggire ai lor giudici inesorabili, essi acquistano nome di ipocriti; tali
chiamò il St.-Just coloro che egli accusa nella sua orazione contro
Danton [(1) V. Orazioni politiche, I, p. 153.]. Bisogna
essere pazzi e darsi in mano al loro Moloch.
Dalle idee fisse sorgono i delitti. La santità del
matrimonio è un'idea fissa. Da questa santità consegue che l'infedeltà
matrimoniale è un delitto che la legge matrimoniale colpisce di pene
più o meno gravi. Ma queste pene da coloro che proclamano
"santa" la libertà devono esser riguardate quale un delitto contro la
libertà; e di fatto in questo senso appunto la pubblica opinione ha
riprovato ormai le leggi matrimoniali.
La società vuole, si, che ognuno abbia il suo
diritto, ma a patto che un tale diritto sia quello riconosciuto dalla società,
sia un diritto sociale, e non già un diritto dell'individuo. Ma
io non concedo un diritto o me ne privo a mio piacere, e di contro ad ogni
prepotenza voglio essere un peccatore; un "malfattore" impenitente.
Proprietario e creatore del mio diritto — io non gli riconosco altra fonte
all'infuori di me stesso; né Dio, né lo Stato, né la natura, né l' uomo: non dunque
diritti umani né divini.
Ah dunque voi volete il diritto per sé stesso senza relazione al
mio essere! il diritto assoluto, dunque, indipendente da me! Una cosa che
esiste di per sé stessa! L'assoluto! Un diritto eterno, allo stesso modo che
abbiamo una verità eterna!
Secondo il principio dei liberali, il diritto dovrebbe esser
obbligatorio anche per me, perchè è istituto dalla ragione umana di
fronte alla quale la mia ragione non è che capriccio. Prima si gridava in nome
della ragione divina contro la debole ragione umana, ora in nome della
gagliarda ragione umana universale contro la ragione egoistica, che si chiama
dissennata. Eppure non esiste altra ragione all'infuori di questa che a voi
piace chiamare dissennata; non la ragione divina, né la umana, ma la tua sola
ragione, quale si manifesta di volta in volta; — unica, vera, certa come l'esistenza
nostra. L'idea del diritto è in origine il mio pensiero; ha la sua fonte in me;
è sorta da me. Ma poi che il mio pensiero si è manifestato nella
"parola", esso divenne "carne", idea fissa.
Io non posso più ormai liberarmi dal pensiero; per quanto io
faccia, esso mi sta sempre dinanzi. Così gli uomini non seppero rendersi
padroni del pensiero "diritto" che essi stessi crearono; la creatura
è sfuggita al loro potere. Tale è il diritto assoluto, staccatosi da chi lo
creò — come un frutto dall'albero. Noi non possiamo riprenderlo dacché
l'adoriamo come cosa assoluta; esso ci priva della forza créatrice; più potente
del creatore, la creatura ha acquistata un'esistenza indipendente.
Se tu non permetterai più al diritto di errare vanamente senza
padrone, se lo ricondurrai alle sue origini, esso ridiverrà il tuo diritto;
e il diritto sarà ciò che, per te, tu consideri come tale.
Il diritto dovette sostenere un assalto sul proprio terreno quando
il liberalismo ruppe la guerra contro il privilegio.
"Privilegi" ed "eguaglianza di diritti" — tali
i due concetti a torno a cui ferve la lotta.
Esclusione o ammissione di diritti, in lingua povera. Ma si può
ammettere che un potere esista (sia esso Dio o la legge, od un essere reale,
quale io, o tu) — dinanzi al quale tutti non godono dell'eguaglianza di
diritti? A Dio ognuno è egualmente caro, purché lo adori; del pari alla legge, purché
la rispetti; che l'uomo sia storpio o gobbo, ricco o povero, non importa né a
Dio né alla legge; cosi a un depresso quando sei sul punto di annegarti, poco
t'importa che chi ti salva sia un negro o un bianco della più pura razza caucasica
— purché ti salvi. Anzi un cane, in un simile momento, ti sarà accetto
non meno di un uomo. Ma per contro, chi distingue tra i suoi simili i privilegiati
e i negletti? Dio punisce i malvagi con la sua collera; la legge punisce chi
non la osserva; tu stesso ti presteresti a parlare con uno, mentre cacceresti
lungi da te un altro non appena ti capitasse tra i piedi.
L' "uguaglianza del diritto" è appunto un fantasma,
poiché il diritto in sostanza non è né più né meno che una autorizzazione, una
licenza, cioè in fine una grazia, che si può acquistare anche coi
propri meriti. Poiché meriti e grazie non si escludono, tanto più che anche la
grazia vuol essere "meritata", e il nostro sorriso clemente non
fiorisce che per chi se ne dimostra degno.
E cosi si va sognando che tutti i cittadini d'uno Stato debbano
essere uguali. Come cittadini, per lo Stato, essi sono certamente tutti uguali:
se bene già per i suoi fini speciali lo Stato sarà costretto a dividerli in
classi, di cui taluna preferita; e più anche ei li dovrà poi distinguere in cittadini
buoni e cattivi.
Bruno Bauer cerca risolvere la questione
giudaica col principio che il "privilegio" non abbia ragion
d'esistere. L'ebreo è per alcuni rispetti superiori al cristiano, per altri gli
cede: le differenze, che a ciascuno di essi danno argomento a sostenere la
superiorità sull'altro, si compensano all'esame del critico e si dissolvono nel
nulla. E biasimato è pure lo Stato perchè dà forma di diritto alle differenze
individuali, mutandole in privilegi e venendo meno in tal modo al compito, che
è di diventare uno "Stato libero".
Ma in qualche cosa ciascun uomo è superiore agli altri; cioè in
quello che il suo essere ha di particolare o di unico, poiché in ciò ognuno
resta originale.
E ciascuno poi fa valere di fronte agli altri, per quanto gli è
possibile, le sue attitudini particolari; e si prova, se ciò gli torna a bene,
di renderle attraenti.
Nulla dunque dovrebbe importare il particolar carattere che
distingue un uomo dall'altro? Si domanda questo allo Stato libero o all'
Umanità. In tal caso essi dovrebbero essere privi d'ogni attitudine ad
interessarsi a una cosa qualsisia. Indifferente a tal segno non fu mai
immaginato né Dio, che discerne i buoni dai malvagi, né la società, che separa
gli onesti dai cattivi cittadini.
Ma si cerca per l'appunto questo Ente che non conferirà più
"alcun privilegio"; e gli si dà nome di Stato libero di umanità, ecc.
Bruno Bauer abbassa il cristiano e l'ebreo
perchè l'uno e l'altro pretendono "privilegi"; entrambi dovrebbero
dunque, con qualche sacrificio del loro amor proprio, liberarsi dal preconcetto
in cui si compiacciono ingiustamente. Se essi si spogliassero del loro
"egoismo", il torto reciproco cesserebbe e, con esso, la religione
cristiana e la giudaica. Basterebbe a ciò che ciascuno di loro non pretendesse
d'avere qualche cosa di particolare per sé. Ma se pur essi rinunziassero a
questo, il terreno su cui combatterono le loro lotte non resterebbe per ciò
solo sgombro. Essi potrebbero trovare un modo di accomodamento, una
"religione universale", una "religione d'umanità" ecc., un
accordo insomma non migliore di quello che s'otterrebbe se tutti gli ebrei si
facessero cristiani rinunciando cosi al privilegio ch'essi ritengono d'avere di
fronte a quelli. Con ciò sarebbe tolto il contrasto, ma non in questo
consisteva l'essenza delle due credenze, bensì nella loro affinità. Essendo
distinti l'uno dall'altro, una certa opposizione doveva esser necessariamente
tra loro: e l'ineguaglianza resterà sempre. Non può essere certamente né un difetto
né un errore per te, che tu dimostri qualche ripugnanza a mio riguardo e cerchi
d'affermare le qualità che ti son proprie; ciò rivela soltanto che tu non vuoi
cedere né rinunziare a te stesso.
Si dà al contrasto un significato troppo formale e
superficiale, se si crede di ricomporlo ricorrendo a qualche altra cosa atta a
conciliare gli elementi discordanti. Il contrasto ci bisogna invece inasprirlo.
Tra ebrei e cristiani l'opposizione è troppo meschina, poiché si riduce a questioni
religiose, a cose da nulla. Avversari in religione, nel rimanente voi
siete buoni amici: e, per esempio, quali uomini voi vi considerate uguali.
Eppure anche il rimanente è diverso in ciascuno di voi, e, per quanto vi
argomentiate di nasconderlo, voi finirete col riconoscere il contrasto, quando
ciascuno di voi affermerà francamente il carattere proprio. Certamente l'antica
opposizione con ciò si risolverà, ma solo perchè un'altra opposizione più forte
prenderà il suo posto.
La nostra debolezza non consiste già nel trovarci in inimicizia
con gli altri, bensì nel non trovarci in un contrasto assoluto, cioè nel non
essere distinti al tutto gli uni dagli altri, ovvero nell'avere o
nel ricercare una "comunanza", un "legame comune", e
nell'esserci formato di questa comunanza un ideale. Una fede, un Dio, un'idea,
un cappello per tutti! Se un solo cappello ci coprisse tutti certamente si
avrebbe il vantaggio di non doverlo levar dinanzi agli altri. Il contrasto
ultimo e più significativo, quello tra il singolo e il singolo, ha superato in
fondo quello volgare. Tu, quale singolo, non hai più nulla di comune con gli
altri, e per la stessa ragione nulla hai che dagli altri ti divida o ti renda a
loro nemico. Tu contro il singolo non invocherai la giustizia d'un terzo,
e con lui non avrai rapporti di "diritto", o altri rapporti derivanti
da un concetto comune. Il contrasto sparisce nella perfetta separazione.
Questa potrebbe, bensì esser riguardata come una novella comunanza, o una nuova
uguaglianza, ma in tal caso l'uguaglianza consisterebbe nella disuguaglianza:
una disuguaglianza di ciascuno verso tutti, avvertita soltanto da coloro che
farebbero dei "raffronti".
La lotta contro il privilegio è un carattere del liberalismo che
ama richiamarsi al "diritto". Ma altro che strillare non può: poiché i privilegi non cadranno prima
che cada lo stesso diritto, del quale essi sono semplici derivazioni. Ma il
diritto, si dissolve nel nulla quando è schiacciato dalla forza, cioè quando se
ne avverte il vero significato: la forza prevale al diritto. Allora ogni
diritto diventa privilegio, e il privilegio stesso divien potenza, prepotenza.
Ma la lotta immane contro la prepotenza non deve essa forse aver
un altro aspetto che non quello meschino di opposizione al privilegio, di cui
sia arbitro un primo giudice — il "diritto" — il quale ne decida
secondo i propri intendimenti?
Da ultimo io dovrò cancellare dal mio vocabolario questa parola
"diritto", e le espressioni che vi si riferiscono, dalle quali non
volli far uso se non costretto, perchè nello studio intimo della cosa m'era pur
forza accettarne provvisoriamente il nome. Ora, distrutto il concetto, anche la
parola perde il suo significato. Ciò che prima io chiamavo il
"diritto", ora mi si chiarisce altra cosa, poiché il diritto non può
esser conferito che da uno spirito, o della natura, o della specie, o dell'umanità,
o di Dio, e così via. Ma quel che io posseggo senza l'autorizzazione di uno
spirito, io lo posseggo senza diritto, unicamente ed esclusivamente per il mio
potere.
Io non ricerco riconoscimento da alcuno, dunque non sono obbligato
ad accettarne da alcuno.
Ciò che io posso ottenere colla forza l'ottengo, e su ciò ch'io
non posso ottenere non ho ragioni da far valere, né mai i diritti imprescrittibili
mi saranno argomento di consolazione o di orgoglio.
Col diritto assoluto cessa d'esistere ogni concetto del diritto, e
ogni impero di un tale concetto.
Poiché non bisogna dimenticare, che sin da tempo immemorabile noi
fummo sempre dominati da concetti, da idee e da principî, e che tra questi
dominatori il concetto del diritto, ovvero quello della giustizia,
rappresentava la parte principale.
Ch' io abbia o non abbia diritto ad una cosa poco mi cale, purché
io sia forte; il diritto l'otterrò da me, senza uopo di autorizzazioni
d'altrui.
Il diritto è un'idea fissa, un fantasma: io sono la forza. Il
diritto è cosa estranea che appartiene ad un essere superiore e che ne è dato
in grazia: la forza è cosa mia, poiché il forte sono io.
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