'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''
PARTE SECONDA --- IO
I MIEI RAPPORTI [ terzo frammento ]
Gli uomini hanno tutti alcunché di proprio; questo
solo è sacro. Questa proprietà di ciascun uomo può consistere in beni esterni
ed in beni interni. — Quelli sono rappresentati da cose, questi
da idealità, pensieri, convinzioni, sentimenti nobili, ecc. Ma io sono tenuto
soltanto a rispettare la proprietà di diritto dell'uomo non
quella che è contro il diritto e non umana. Bene interno di tal specie è, ad
esempio, la religione; e siccome la religione è libera — dunque
di spettanza dell'uomo — io non devo toccarla. La stessa cosa è
dell'onore. Religione ed onore sono "proprietà
spirituali". Nel novero delle cose sta sovra tutta la persona: la persona
è la mia prima proprietà, la proprietà per eccellenza. Dunque libertà della
persona; ma soltanto la persona secondo il diritto. La tua vita è
tua proprietà: ma essa è sacra agli uomini solo sino a tanto che non è una vita
inumana.
Quei beni corporali sui quali l'uomo come tale non
può accampare un diritto, ci è lecito di rapirglieli: in ciò sta il significato
della concorrenza nella libertà industriale. E del pari, quei beni spirituali
che l'uomo non sa rivendicar come propri possono divenire nostra preda: in ciò
consiste la libertà della critica, della discussione, della scienza.
Ma sono intangibili — si afferma — i beni che furono proclamati sacri.
Consacrati, da chi? In primo luogo dallo Stato (dalla società) poi dall'uomo, o
— a meglio dire — dall'idea, poiché il concetto dei beni sacri importa che essi
siano veramente umani che l'uomo li possegga nella sua qualità d'uomo,
come tale.
Beni spirituali sono pure la fede dell'uomo, il suo onore, il suo
senso morale, il senso della decenza, del pudore, ecc. Gli atti che offendono
l'onore (con discorsi e con scritti) sono punibili; punibili gli assalti contro
i principi d'ogni religione, contro la fede politica, in breve contro tutto ciò
che un uomo possiede a "buon diritto".
Sull'estensione che debba darsi al concetto della santità di quei
beni il liberalismo critico non si è finora dichiarato; fors'anche crede
falsamente d'esser contrario a tale santità. Ma siccome esso combatte
l'egoismo, così è costretto a moltiplicare gli ostacoli, e non può tollerare
che ciò che è anti-umano prevalga a ciò che è umano. Al suo disprezzo teoretico
della "massa" dovrebbe corrispondere, quando fosse giunto a
conquistare la forza, una pratica sanzione Sulla estensione che debba
assegnarsi al concetto "uomo" — si da determinare con certezza che
cosa sia di spettanza dell'uomo e che dunque sia veramente l'uomo
o l'umano — non v'è accordo tra le varie scuole de' liberali: l'uomo politico,
il sociale, l'umano vanno acquistando sempre più cose, uno a danno dell'altro,
e tutto in favore d'un'astrazione. Chi ha compreso meglio quel concetto, sa
anche meglio che cosa spetti "all'uomo". Lo stato lo intende ancora
sotto il solo aspetto politico, la società sotto quello sociale, l'umanità (per
quel che si afferma) lo comprende invece interamente. Ma, trovato che sia con
esattezza l' "uomo", noi sapremo in che consista ciò gli è proprio,
quali cose gli appartengano, e che sia in somma l'umano.
Ma accampi pure l'uomo quanti diritti egli voglia: che importa a me
delle sue pretese? Se il suo diritto procede dagli uomini soltanto, ma non da me,
esso non ha per me alcun valore. La sua vita, per esempio, non ha
valore ai miei occhi che quel tanto che vale per me. Io non
riconosco né il suo cosiddetto diritto di proprietà, né il suo diritto su cose
determinate, e neppure quello ch'ei crede d'avere sul suo santuario interiore,
né la pretesa che i suoi beni spirituali, le sue divinità, debbano esser
rispettate dagli altri. I suoi beni materiali o spirituali appartengono a me,
ed io ne uso secondo il mio vantaggio e per quanto il mio potere me lo
consente.
La questione della proprietà racchiude in sé un
significato più largo di quanto a primo tratto non appaia. Se la si riferisce
unicamente a ciò che si chiama il nostro possesso, non è possibile risolverla
con esattezza; deciderla non può che colui dal quale noi deriva tutto ripetere:
il proprietario.
La rivoluzione ruppe la guerra contro tutto ciò che derivava dalla
"grazia celeste", e al luogo della legge divina pose la umana. A ciò
che viene "conferito da Dio" venne cosi contrapposto ciò che deriva a
dall'essenza dell' uomo ".
E a quel modo che i rapporti tra gli uomini dovettero (per
contrasto al dogma religioso : "amatevi l'un l'altro per amor di
Dio") ricevere una sanzione umana dalla massima: "amatevi per amore
dell'uomo", cosi la dottrina rivoluzionaria non seppe e non poté far
altro, in quanto riguarda i rapporti degli uomini con le cose, se non stabilire
che il mondo, sino allora retto da ordinamenti divini, dovesse appartenere
quind'innanzi all'uomo.
Il mondo appartiene all'uomo, ed io devo rispettarlo
quale sua proprietà.
Ma che è la proprietà, se non quello che ciascuno ha per se?
La proprietà, secondo il significato borghese, importa una cosa sacra
che ciascuno deve rispettare in ciascuno, "Rispetto
alla proprietà"! Ben per questo i politici vedrebbero volentieri che
ognuno avesse la sua piccola particella di proprietà, e in omaggio a questa
tendenza son pervenuti a sminuzzare ogni cosa. Ciascuno deve avere il suo osso
da rosicchiare.
Ma le cose stanno ben altrimenti secondo il senso egoistico.
Dinanzi alla tua ed alla vostra proprietà io non m'arretro tremante; sono
pronto anzi a farla mia, s'io posso. Fate voi altrettanto riguardo alla
proprietà mia.
In quest'ordine d'idee ci sarà più facile l'intenderci.
I liberali politici si danno faccenda per abolire tutte le
servitù, affinché ogni uomo sia libero padrone sul suo terreno, quand'anche
questo terreno fosse tanto ristretto quanto bastano gli escrementi d'un singolo
ad alimentare. (È nota la storia di quel contadino che in tarda età si rammogliò
per profittare delle feci della moglie a vantaggio del proprio terreno). Sia
pur piccola quanto si voglia, purché sia proprietà di chi lo coltiva, e vale
dire una proprietà rispettata, sacra!
E più crescerà il numero di tali piccoli proprietari, più grande
diverrà quello da "gente libera dei buoni patrioti" su cui può contare lo Stato.
Il liberalismo politico, come tutto ciò che è religioso, fa
assegnamènto sul rispetto, sulla umanità, sulla carità. Per
questo esso è malinconico in eterno. Poiché nella pratica la gente non rispetta
cosa alcuna, e non v'ha giorno che i piccoli possessi non vengano ingoiati dai
grandi proprietari, sicché gli uomini liberi si trasformano in altrettanti
operai asserviti.
Se invece i "piccoli" proprietari avessero
considerato che anche la grande proprietà appartiene a loro, essi non ne
avrebbero esclusi se stessi, e non ne sarebbero rimasti esclusi.
La proprietà com'è intesa dai liberali borghesi merita gli
attacchi dei comunisti e di Proudhon, è insostenibile, poiché in
fondo il proprietario borghese non è altro che un "senza possesso" un
escluso da ogni cosa. Invece di avere il mondo in
sua proprietà ei non possiede nemmeno il piccolo tratto di terreno sul quale
passeggia.
Proudhon non vuole il "propriétaire" bensì
il "possesseur" ovvero "usufruitier" (Que cest que la
propriété? p. 83). Che cosa significa ciò? Egli vuole che nessuno possa
appropriarsi il suolo, né altro averne che l' uso; ma per quanto piccola sia la
parte dei frutti ch'ei concede a ciascuno, costui non ne sarà per ciò meno il
proprietario. Chi non fruisce che del reddito d'un terreno, non è certo il proprietario
del suolo; meno o lo sarà ancora chi, come esige Proudhon, dovrà
cedere agli altri quella parte di utile che sorpassa i suoi bisogni; ciò
nondimeno egli sarà però sempre il proprietario della parte di frutti che gli
rimane, Sicché Proudhon nega tale e tale altra proprietà, ma non
già la proprietà. Se noi vogliamo togliere al proprietario il suo podere, noi
ci uniremo a questo scopo, formeremo una associazione, una "société"
che se ne renderà proprietaria; se il colpo ci riesce, il nostro intento sarà
ottenuto. E come cacciamo dal lor terreno i proprietari, così noi possiamo
cacciarli da molte altre proprietà e ridurre queste in proprietà nostra,
proprietà dei conquistatori. I conquistatori formano una società
che si può immaginare tanto vasta da abbracciare l'umanità tutta intera; ma
anche la cosiddetta umanità, come tale, non è che un'idea, un fantasma. La
realtà è nei singoli di cui quella si compone. E questi singoli riuniti non si comporteranno
meno arbitrariamente nella questione del terreno di quel che si comporta
ciascuno separatamente. Anche così dunque continua a sussistere la proprietà,
né cessa di essere esclusiva poiché l'umanità esclude
il singolo dalla sua proprietà (limitandosi tutt'al più ad
affittargliene una parte, a dargliela in feudo), così come ne esclude tutto ciò
che non sia umanità, p. es. non permettendo che il mondo degli animali possegga
alcunché di proprio. E così sarà sempre. Quella cosa a cui tutti vorranno
partecipare sarà sottratta a chi vorrebbe averla per lui solo,
diverrà proprietà comune.
Alla proprietà comune ha diritto ciascuno per una parte
e questa parte costituisce la sua proprietà. Così anche nelle nostre
presenti condizioni una casa che appartiene a cinque eredi, è loro proprietà
comune; ma la quinta parte del reddito è proprietà d'ogni singolo erede. Proudhon
poteva risparmiarci la sua retorica quando disse: Vi sono alcune cose
che appartengono solamente a pochi ed alle quali non vogliamo dare la caccia.
Prendiamocele, poiché col prendere si acquista proprietà, e quella che ora ci è
negata gli attuali proprietari se la sono presa un tempo da loro stessi.
Potremo meglio sfruttarla quando sarà in nostre mani, nelle mani di noi
tutti che noi allora quando pochi soltanto avevano facoltà di disporne.
Associamoci pertanto allo scopo di questo furto (vol). — Ma per
giunta egli ci vuole far credere, che la società sia stata la proprietaria in
origine e la sola legittima, e che verso di lei il proprietario si sia reso
colpevole di furto (la propriété c'est le vol.); sicché sia
lecito concludere che se essa toglie al proprietario dell'oggi ciò ch'egli
possiede non lo deruba, poiché fa soltanto valere i suoi diritti
imprescrittibili.
A tanto si viene in virtù del fantasma d'una società, considerata
come persona morale. Ma è vero invece l'opposto: all'uomo
appartiene tutto ciò di cui egli sa insignorirsi: a me appartiene
il mondo. Enunciate voi forse altra cosa coll'assioma contrario: "il mondo
appartiene a tutti"? I tutti si compongono di tanti
"io"; ma voi create con la parola "tutti" un fantasma che
proclamate sacro, di modo che il "tutti" di viene un tiranno più
terribile del singolo. Ed ecco che gli si colloca tosto a lato l'altro fantasma
del "diritto".
Proudhon al pari di tutti i comunisti combatte
l'egoismo. Perciò le sue teoriche sono conseguenze e continuazione del
principio cristiano, del principio dell'amore, del sacrificio, della rinunzia
in pro-dell'universalità. Esse svolgono dal concetto di proprietà ciò che da
gran tempo già vi è compreso, vale a dire l'espropriazione del singolo. Se
nella legge sta scritto: Ad reges potestas omnium pertinet, ad singulos
proprietas; omnia rex imperio possident, singuli dominio, ciò
significa: Il re è il proprietario poiché egli soltanto può disporre a suo
talento di ogni cosa, egli ha la potestas e l'imperium su
ogni cosa. I comunisti resero più chiaro questo assioma col conferire tale
imperium alla "società di tutti". Dunque, poiché si proclamano nemici
dell'egoismo, essi sono "cristiani", o, per parlare in tesi più
generale, sono uomini religiosi, superstiziosi, che credono ai fantasmi,
dipendenti e servi d'una qualche astrazione (d'una divinità, della società,
ecc. E il Proudhon conviene coi cristiani anche in ciò egli
attribuisce a Dio quello che nega spettare agli uomini. Egli lo chiama p. es.
(pag. 90) il propriétaire della terra, col che ben dimostra che
egli non può passarsi del proprietario come tale. Per tal modo
con le sue teoriche il Proudhon finisce ad ammettere un
proprietario: se non che lo relega in un di là.
La verità è invece questa : che proprietari non sono né Dio, né
l'uomo (cioè la "società umana"), ma è il singolo soltanto.
Proudhon (come Weitling) crede di
lanciar l'anatèma contro la proprietà, proclamandola un furto (vol).
Lasciamo la questione difficile delle obiezioni che si possono sollevare contro
il furto, e domandiamoci: E’ mai possibile il concetto del "furto"se
non si lascia sussistere quello della a proprietà"? Ciò che non appartiene
a nessuno non può esser rubato; l'acqua che caviamo dal mare non
è rubata. Per conseguenza, la proprietà non è furto: bensì è essa
che rende possibile il furto. Anche Weitling è costretto a
giungere a questa conclusione, da che egli considera il tutto quale proprietà
di tutti: se tutto appartiene a tutti certamente il singolo, per
appropriarsi una qualche cosa, deve rubare.
La proprietà privata vive per la grazia del diritto.
Nel diritto soltanto essa ha le sue guarentigie. — Il possesso non rappresenta
finora la proprietà, ma diviene tale, diviene mia proprietà pel
consenso del diritto; — esso non è un fatto, un fait come
asserisce Proudhon, bensì una finzione, un'idea. La proprietà di
diritto, la proprietà legale; ecco la proprietà vera. Non per virtù mia essa
m'appartiene, bensì in grazia del diritto.
Nondimeno la parola proprietà serve ad esprimere il dominio
assoluto su qualche cosa (animali, uomini, oggetti) della quale io
possa disporre a "mio talento". Secondo il diritto romano significa
certamente l' " ius utenti et abutendi re sua, quatenus juris ratio
patitur ", un diritto esclusivo ed illimitato.
Ma la proprietà è condizionata dalla forza. Ciò che io posseggo con la forza, è
mio. Sino a tanto che io so far valere la mia forza, io sono il proprietario
d'una cosa; se questa mi viene tolta per qualsiasi potere — fosse perchè anche
io riconosco i diritti d'un altro su quella cosa — la proprietà cessa. In tal
modo proprietà e possesso finiscono a diventare la stessa cosa. Non già un
diritto che sta all'infuori di me mi dà ragione, bensì unicamente la mia forza;
se io non la posseggo, è per me perduta la cosa che vorrei possedere.
Allorquando i Romani si trovarono impotenti contro i Germani, appartenne a
questi ultimi l'impero romano e sarebbe ridicolo il voler sostenere che
nonostante i veri proprietari sian rimasti i Romani. Chi sa conquistare e
conservare una cosa ne diventa proprietario sino a che non gli viene ritolta:
allo stesso modo la libertà è di chi sa conquistarsela e
conservarla.
Della proprietà la sola forza decide, e siccome lo Stato — sia uno
Stato di cittadini o di pitocchi — o di uomini senz'altro — è il solo potente,
così esso è anche il solo proprietario. Io — l'unico — non ho nulla di mia
proprietà, sono soltanto investito d'un possesso, e divento con ciò un
vassallo, un servo. Sotto la dominazione dello Stato, per me non
esiste la proprietà.
Io voglio rialzare il mio valore, il valore dell'individualità; e
dovrei tener a vile la proprietà?
No; come io finora non fui tenuto mai in conto alcuno, perchè
sopra di me furono esaltati il popolo, l'umanità e mille altre astrazioni, così sino ai nostri
giorni la proprietà non è stata apprezzata secondo il suo vero valore. Anche la
proprietà non fu sin qui che la proprietà d'un fantasma, p. es. del popolo; la
mia stessa esistenza "apparteneva alla patria". Io apparteneva alla patria,
al popolo, allo Stato, e con me anche tutto quello ch'era mio. Si
esige dagli Stati ch'essi ci liberino dal pauperismo. A me sembra che tanto
valga pretendere che lo Stato debba tagliarmi con proprie mani il capo e porselo
ai piedi; poiché sino a tanto che lo Stato è tutto, l'io sarà sempre
disconosciuto. Lo Stato ha interesse ad esser ricco esso solo; se Pietro o
Paolo sono poveri che gliene importa? E così se Pietro fosse ricco e Paolo
povero. Esso assiste impassibile all'impoverimento dell'uno, all'arricchimento
dell'altro. Quali singoli, al suo cospetto tutti sono perfettamente
uguali l'uno all'altro: in ciò consiste la sua giustizia: al suo cospetto
ciascun cittadino è un valore, allo stesso modo che una volta al "cospetto
di Dio eravamo tutti peccatori".
Per contro allo Stato preme che quelli i quali in lui vedono il
proprio io, partecipano alle sue ricchezze; e per
ciò li considera quali partecipanti alla sua proprietà. Col
possesso con cui li rimunera, egli li attrae a sé; ma la proprietà resta sempre
sua, e ciascuno può goderne sino a tanto che l' io dello
Stato sopprime l'io individuale, vale a dire sino a tanto che
l'individuo è un "membro leale della società". Nel caso contrario la
proprietà viene confiscata o distrutta col mezzo dei processi penali. La
proprietà è perciò proprietà dello Stato, non già del singolo
"io".
Se lo Stato non toglie arbitrariamente al singolo ciò ch'egli
mercé sua, possiede, ciò avviene solo perchè lo Stato non deruba se stesso.
Colui che, quale io dello Stato, sarà un buon cittadino, un suddito
fedele, potrà godere indisturbato del possesso di cui fu investito. In tal caso
il Codice s'esprime così: proprietà è ciò che io posseggo in virtù "di Dio
e del diritto". Ma per virtù di Dio e del diritto una cosa è mia solo sino
a tanto che lo Stato non vi si oppone, e non oltre.
Nelle espropriazioni, nella consegna delle armi, ecc. (come
nell'impossessamento delle eredità che il fisco compie a suo vantaggio se gli
eredi non s'annunziano in tempo utile) il principio, dissimulato fin ch'è
possibile, che il popolo, lo Stato sia il solo proprietario —
mentre il singolo non è che un vassallo investito di certi possessi —, salta
chiaramente agli occhi. KKK
Lo Stato, ecco ciò che volevo dire, lo Stato non può desiderare
che taluno sia ricco per sé stesso; a me come individuo esso
nulla può riconoscere, nulla concedere. Lo Stato non può mettere una fine al
pauperismo poi che questo riguarda non il popolo in astratto ma i cittadini come
persone. Chi nulla conta se non per ciò che l'hanno reso il caso o lo Stato,
costui a buon diritto nulla possiede se non ciò che un altro gli dà. E
quest'altro non gli darà se non quanto ci si merita in compenso dei suoi
servizi. Non egli si fa valere per se; è lo Stato solo che gli attribuisce o
gli nega il valore.
L'economia nazionale s'occupa assai di questo argomento. Ma esso
varca di molto i confini del "campo nazionale" e oltrepassa i
concetti e l'orizzonte dello Stato, il quale non riconosce altra proprietà
fuorché la sua a non può distribuire che questa. Per ciò esso vincola il
possesso della proprietà a certe condizioni, allo stesso modo che a certe condizioni
subordina ogni cosa, p. es. il matrimonio, non riconoscendo per valide
che le nozze le quali ottengono la sua sanzione e sottraendo cosi questa
istituzione al potere del singolo. Ma una cosa non è mia se non
quando io ne sono signore incondizionatamente; quando cioè io amo
la donna che più mi piace ed esercito il commercio che meglio m'aggrada.
Lo Stato non si cura di me e di ciò ch'è mio, bensì di sé stesso e
di ciò ch'è suo: io conto per lui tutto al più quale un suo figlio, non quale
individuo. Ciò che succede a me, quale singolo per lo Stato non ha importanza.
Ma se io insieme con tutto ciò che costituisce la mia proprietà non ho per lo
Stato alcun pregio, ciò avviene perchè egli non è in condizioni di comprendermi;
il suo intelletto è troppo ottuso.
Per questo soltanto egli nulla può fare per me.
Il pauperismo è un corollario del deprezzamento dell'io,
che diventa un non-valore. Perciò pauperismo e Stato sono inseparabili. Lo
Stato non mi permette di farmi valere per quello che sono, anzi fa di tutto per
impedire che io quale singolo, mi affermi. Egli è sempre intento a sfruttarmi
quanto più gli è possibile a depredarmi, a spogliarmi, e quando altro
non può mi costringe a provvedere ad una proles (il
proletariato); egli vuole insomma che in tutto io sia una sua creatura.
Ora il pauperismo non si potrà togliere se non quando il singolo
stabilirà egli il valore di sé e degli altri e di tutte le cose. Io devo
ribellarmi per potermi innalzare.
Ciò che io produco, farina, tela, ferro o carbone, ciò che io
strappo penosamente alla terra, ecc., tutto ciò è mio lavoro, che io intendo far
valere per me.
Il lamentarmi non mi gioverebbe ; il mio lavoro non sarebbe per
questo pagato secondo il suo valore. Il compratore non mi ascolterà e lo Stato
si serberà indifferente esso pure, sino a tanto che non crederà giunto il
momento di "acquetarmi" per timore che io alla fine mi ribelli con
suo danno. Ma con l'acquetarmi esso avrà fatto tutto ciò che può e sa fare, e
se io mi ostinerò a domandare qualche altra cosa, lo Stato mi si rivolgerà
contro con tutta la forza delle sue unghie di leone e dei suoi artigli d'aquila
poiché esso è il re degli animali: è aquila e leone. Se io non voglio
accontentarmi del prezzo ch'egli assegna al mio prodotto ed al mio lavoro, e
tento di stabilirlo io stesso cioè di "pagarmi a mio modo", io mi
porrò in lotta anzitutto coi compratori del mio prodotto. Or se tale conflitto
potrà esser composto da un reciproco accordo, lo Stato non solleverà obiezioni,
poiché poco gli importa il modo con cui i singoli si mettano d'accordo tra di loro,
purché non gli attraversino il cammino. Il suo danno, il suo pericolo,
incominciano solo quando i singoli non riescono più a mettersi d'accordo, e
vengono alle prese tra loro. Lo Stato non può tollerare che l'uomo abbia un
qualunque rapporto diretto coi suoi simili; vuol cacciarsi di mezzo, quale mediatore,
vuol intervenire. Esso è divenuto con ora ciò che è stato un
tempo Cristo, ciò che furono i santi, ciò che fu la Chiesa:
"mediatore". Egli strappa l'uomo dall'uomo, per porsi in mezzo a loro
quale "spirito". Gli operai che domandano un aumento di mercede sono trattati
quali malfattori, non appena accennino a voler conseguire con la forza il
loro intento. Che devono fare? Senza la forza nulla essi possono ottenere, ma
nell' uso della forza lo Stato scorge un aiuto procuratosi coi mezzi che
dovrebbero appartenere a lui solo, uno sfruttamento reale, libero delle
proprietà dell' io, e ciò egli non può tollerare. Che devono
dunque fare i lavoratori?
Sperar nelle proprie forze e non curarsi più che tanto dello
Stato. E quello che avviene del mio lavoro materiale, succede anche di quello
spirituale. Lo Stato mi permette di trar partito da tutte le mie idee (io le
sfrutto già coll'acquistarmi onore presso coloro ai quali le espongo, ecc.), ma
il suo permesso mi è dato a patto che le mie idee siano le sue.
Se io nutro dei sentimenti e posseggo dei pensieri che lo Stato non può
approvare, egli non mi dà facoltà in nessun modo di scambiarli di
metterli in commercio. I miei pensieri
sono liberi sino a tanto che lo Stato mi fa la grazia di approvarli,
vale a dire sino a tanto che le mie idee convengono con le sue.
Così ei mi concede facoltà di filosofare sino a tanto ch'io mi
dimostro "filosofo di Stato" e cerco di aiutarlo nei suoi intenti:
non oltre. Allo stesso modo, dunque, che io posso considerarmi un
"io" per grazia dello Stato, provvisto di carte di legittimazione e
del passaporto di polizia, cosi da ciò ch'è mio non possa trar
profitto salvo che il mio sia anche qualcosa di suo, di cui egli mi abbia
investito. Il mio cammino deve essere il suo; se no, egli me l'attraversa: le
mie idee devono essere le sue; se no, egli mi tura la bocca.
Nulla è per lo Stato più "temibile del mio valore".
Ogni occasione che mi dia modo di farmi valere da me stesso mi è da lui impedita a tutti i
modi. Io sono il nemico mortale dello Stato.
Costretto a termini in ogni momento, esso mira con ogni rigore a
togliermi ciò ch'è mio sì ch'io non possa riuscire nel mio
intento. Nello Stato non esiste proprietà individuale, bensì unicamente la
proprietà dello Stato. Soltanto in grazia dello Stato io ho quello che ho, allo
stesso modo che mercè sua soltanto io sono quello che sono. La mia proprietà
privata non è che quel tanto che lo Stato mi concede il godimento sulla sua
proprietà privandone con ciò gli altri cittadini: è
dunque proprietà dello Stato.
Ma per contro, io sento sempre più chiaramente che un gran potere
ancor mi rimane, il potere su me stesso, cioè su tutto ciò che mi è proprio, e
che è proprio a me solo.
Che cosa dovrò fare quando le mie vie divergeranno da quelle dello
Stato, quando le mie idee non saranno più le sue? Procederò da me, senza
preoccuparmi di lui in alcun modo. Nelle mie idee, che io non
permetto a nessuno di determinare, di concedere o di giudicare, sta la mia vera
proprietà: una proprietà, di cui posso liberamente disporre. Poiché essendo mie
posso bene se così mi piace, cambiarle con altre idee —
privarmene, acquistandone altre che diventano mia nuova e legittima proprietà.
Che cosa è dunque la mia proprietà? Quello soltanto
che sta in mio potere! Quale proprietà io sono licenziato a
possedere? Ogni proprietà al cui possesso io licenzio me stesso. Il diritto io
me lo conferisco da me, col prendermi la mia proprietà, e col dichiararmi per
tal modo, e senz'uopo d'altri, proprietario.
Tutto ciò che al mio potere non può esser strappato, è mio; la
forza decide della proprietà ed io aspetterò dalla mia forza ogni cosa! La
forza estranea, quella che io concedo ad un altro, mi rende schiavo; dunque la mia
forza mi rende libero dei miei destini. Io riprendo il potere, che inconscio
della mia forza ho ceduto ad altri ! Io devo dire a me stesso che
la mia proprietà si estende sin là dove arriva il mio potere e che io riguardo
come mia proprietà tutto ciò che mi sento abbastanza forte da conseguire ed
estendo la mia reale proprietà su tutto ciò che io autorizzo me stesso a
conquistarmi.
Qui devono prevalere l'egoismo e l'interesse, non già i principi o
i motivi dell'amore: la misericordia, la carità, la bontà,
l'equità, la giustizia (poiché justitia è ancor essa un prodotto dell'amore)!
L'amore non conosce e non richiede che sacrifici.
L'egoismo non pensa a rinunziare ad alcuna cosa né a privarsene;
esso dichiara semplicemente: ciò mi è necessario dunque, io devo averlo e
voglio procurarmelo.
Tutti i tentativi di dar leggi ragionevoli intorno alla proprietà
sono usciti dal seno dell'amore per gettarci in un mare
burrascoso di prescrizioni d'ogni specie. Anche il socialismo ed il comunismo
non possono andarne esenti. Ognuno dovrebbe essere provveduto di mezzi sufficienti,
e, dato il fine, poco importa se quei mezzi debbano — come sostengono i
socialisti — ricercarsi nella proprietà personale, oppure — come vogliono i
comunisti — nella comunione dei beni. Il significato resta il medesimo: quello
di dipendenza. L'autorità che distribuisce secondo l'equità mi concederà ciò
che dal sentimento dell'equità — la sua cura amorevole di tutto — le sarà
suggerito. Io, il singolo, non vedo nella proprietà comune un
ostacolo minore che nella proprietà dei singoli; né l'una né l'altra mi
appartiene. Siano i beni proprii della comunità che me ne concede in parte il
godimento, o siano invece di singoli proprietari, la costrizione è per me sempre
eguale, poiché io non posso disporre né in un caso ne nell'altro. Anzi; il
comunismo mi fa anche più schiavo, poiché coll'abolire ogni proprietà personale
mi rende dipendente dall'università e dalla comunità e, per quanto fieramente
esso attacchi lo Stato, ciò che egli vuole insomma è pur sempre
uno stato, uno "status" che limiti e impedisca la libertà dei miei movimenti,
che eserciti cioè una supremazia su di me. Contro l'oppressione alla quale sono
soggetto per opera dei singoli proprietari il comunismo si ribella con ogni
diritto; ma più terribile è ancora il potere di cui esso vuole investire la
comunità, l'universalità, a mio danno.
L'egoismo prende un'altra via per toglier di mezzo la plebe;
nullatenente. Esso non dice: Attendi ciò che l'autorità ti vorrà concedere in
nome dell' università) poiché cotali donazioni furon fatte sempre anche negli Stati "secondo i meriti" vale
a dire in quella misura in cui ciascuno la sapeva ottenere in
compenso dei propri servizi), bensì: stendi la mano e prenditi ciò che ti è
necessario! Con ciò è dichiarata la guerra di tutti contro tutti. Io solo devo
decidere di ciò che voglio avere.
"Ma questa verità non è nuova, poiché gli egoisti di tutti i
tempi han sempre predicato la stessa cosa!". Ciò che importa non è che
essa sia nuova, ma che ci sia la coscienza che una tale verità
esiste. E questa coscienza non può vantarsi di contare molti anni, salvo che
s'intenda tener conto delle leggi egiziache e spartane. E al
postutto che poco sia diffusa lo prova lo stesso disprezzo in cui voi tenete
gli egoisti. E necessario che si sappia che l'atto dello stender le mani per
prendere non è spregevole, bensì è la vera manifestazione dell'egoista coerente
a sé stesso.
Io non mi potrò districare dalla rete dell'amore se non quando io
non attenderò né dai singoli né dalla comunità nulla di ciò che posso
procurarmi da me stesso. Allora soltanto la plebe cesserà d'esser plebe.
Ciò che crea la plebe è l'idea che l'appropriarsi d'una cosa sia peccato
e delitto. E se essa rimane tale, in parte e per sua colpa poiché non
dovrebbe ammettere per valida una simile legge, in parte è per colpa di coloro
che pretendono "egoisticamente" (tanto per ricambiar loro la parola tanto
vilipesa) che quella legge sia rispettata. In breve, l'antica coscienza del
peccato: ecco la ragione vera di questo stato di cose.
Il giorno in cui gli uomini riusciranno a perdere il rispetto della
proprietà, ciascuno avrà qualcosa di suo, avrà una proprietà sua: non
altrimenti gli schiavi diventano uomini liberi, quando hanno disappreso a
rispettare il padrone. Le associazioni moltiplicheranno anche allora i mezzi
dei singoli e assicureranno a ciascuno la sua proprietà.
Secondo l'avviso dei comunisti, proprietaria dovrebbe esser la
comunità. Tutt'altro anzi: il proprietario sono io; io solo tratto a mio
piacere con gli altri sul conto della mia proprietà. Se i procedimenti della
comunità non mi garbano, io mi saprò ben ribellare e difendere contro tutto ciò
ch'è mio.
Io son proprietario; tuttavia la proprietà non è sacra. Sarò
dunque soltanto un possessore? No, sinora non eranvi che possessori, assicurati
nel possesso d'una particella, per ciò solo che si garantiva anche ad altri il
possesso d'una eguale particella; ora invece tutto m'appartiene, io sono proprietario
di ogni cosa che m'abbisogni e che io sappia conquistarmi. Se il
vangelo socialista predica: la società mi darà quello che mi è necessario;
l'egoista dirà: io prenderò da me stesso quello che m'abbisogna. Se i comunisti
si conducano da straccioni, l'egoista si contiene da proprietario.
Tutti i tentativi di render felice la plebe tutte le associazioni
informate al sentimentalismo e derivate dall'amore, sono costrette a far
naufragio. Dall'egoismo soltanto la plebe può attender salute, e questa salute
dev'esser, e sarà opera sua. Quando non si lascierà più persuadere ad aver paura,
essa sarà una potenza, "La gente perderebbe ogni rispetto se non la si
costringesse alla paura.....".
Sicché la proprietà non dove ne può venir soppressa bensì ha da
essere strappata a mani fantastiche per diventare cosa mia; così soltanto vanirà l'erronea
credenza che io non possa autorizzare me stesso ad avere quel tanto di cui ho
bisogno. — "Ma di quante cose non può aver bisogno l'uomo!". Ebbene,
chi abbisogna di molte cose e sa prendersele, se le prese in ogni tempo: Napoleone
non s'è forse conquistato il Continente e i Francesi non
si son presi l'Algeria?
Ciò che preme è che la plebe impari finalmente a prendersi quello
che le abbisogna. Se essa stende troppo la mano, ebbene, ricacciatela indietro.
Chi imparerà a conoscere sé stesso, si toglierà alla plebe e saprà far di meno
della vostra elemosina. Ne per questo voi lo potete chiamare delinquente e
peccatore. Difendete la vostra proprietà, e voi sarete forti; se invece volete
serbare a voi stessi la facoltà di donare, e più ancora, se vorrete avere dei
diritti politici in misura di quanto potete donare ai poveri (imposta sulla
povertà) la cosa non potrà durare se non sino a tanto che i beneficati lo
consentiranno [(1) In una legge per l'Irlanda il Governo fece la proposta d'accordare
il voto elettorale soltanto a coloro che pagherebbero cinque lire sterline d'imposta
sulla povertà.].
In somma la questione della proprietà non può esser risolta così
facilmente come sognano i socialisti e i comunisti, solo la guerra di tutti
contro tutti la può decidere definitivamente. I poveri saranno liberi e
proprietari solo quando si ribelleranno, si solleveranno, si innalzeranno.
Regalate loro quello che volete, essi chiederanno sempre di più; poiché a
null'altro mirano che all'abolizione dei doni.
Si domanderà: Ma che avverrà quando i poveri avranno coscienza di
sé stessi? Come si giungerà ad un'equa ripartizione dei beni? Allo stesso modo
mi si potrebbe chiedere di predire l'ora in cui un bambino verrà al mondo. Ciò
che potrà fare uno schiavo che ha infranto i suoi ceppi, lo vedremo.
Kaiser nel suo opuscolo privo d'ogni valore di forma
e di contenuto, ("La personalità della proprietà in rapporto al socialismo
ed al comunismo") spera che lo Stato renderà possibile una giusta
ripartizione dei beni. E sempre lo Stato! Il signor papa! Si volle vedere nella
Chiesa la "madre" di tutti i credenti, ed ora si aspetta ogni salute
dal "papa" Stato. Intimamente connessa col principio della borghesia
si dimostra la concorrenza. E’ d’essa altra cosa che l'uguaglianza
(égalité)? E non è forse l'égalité un
prodotto di quella rivoluzione, che fu effettuata dalla borghesia, cioè dalle
classi medie? Non essendo impedito ad alcuno (eccetto che al principe che per
sé stesso rappresenta lo Stato) di gareggiare entro lo Stato, d'innalzarsi al
grado d'ogni altro, di abbattere qualunque altro, di sfruttarlo, di sorpassarlo
anche con uno sforzo maggiore delle proprie facoltà, di spogliarlo di ciò che
possiede, dobbiamo concludere che dinanzi al tribunale dello Stato ciascuno non
ha che il valore d'un semplice "individuo" e non può attendersi privilegio
alcuno a svantaggio degli altri.
Fate ressa, e schiacciatevi, pur di giunger primi, come volete e
come potete, ciò è una cosa che non riguarda me, lo Stato. Tra di voi siete
liberi di concorrere, a vostro piacere; questa è la vostra condizione sociale.
Ma al cospetto di me, Stato, voi null'altro siete fuorché semplici
individui [(1) Di quest'espressione si valse il ministro Stein a
proposito del conte di Reìsach, allorquando lo diede in balìa del Governo
bavarese senza provarne alcun rimorso.].
Ciò che in forma teoretica ed assiomatica fu proclamato già per
l'uguaglianza di tutti ha ormai trovato nella concorrenza la sua esplicazione
pratica; poiché l'égalité è la libera concorrenza.
Tutti sono dinanzi allo Stato non più che persona, ma nella
società e nei rapporti tra loro sono concorrenti.
Mi basta esser cittadino per poter concorrere con tutti — tranne
che col principe e con la sua famiglia —; libertà questa che prima m'era
impedito dacché soltanto entro la propria corporazione ed entro i limiti di esso
m'era concesso di gareggiare con gli altri.
Nelle corporazioni e nella feudalità lo Stato si dimostrava
intollerante con accordare privilegi alla concorrenza e al
liberalismo: esso s'è fatto ora tollerare e lascia fare, e concede autorizzazioni
e diplomi (vale a dire assicura per iscritto all'aspirante la libertà
d'esercitare una professione o un'industria.) E poiché in tal modo ha messo
ogni forza in mano degli aspiranti ne segue che la concorrenza
diviene necessaria; ciascuno in fatti è autorizzato ad aspirare ad ogni cosa.
La libera concorrenza è essa veramente "libera"? meglio
anzi è essa una vera "concorrenza" di persone, come si
vuol far credere, poiché su quel titolo si pone il fondamento di ogni diritto?
È libera una concorrenza, che lo Stato, questo
despota di principi borghesi, inceppa con mille ostacoli?
Ecco un ricco industriale che fa splendidi affari. Io vorrei
fargli concorrenza. "Sia pure, dice lo Stato, io non ho nulla da obiettare
contro la tua persona quale concorrente", "bene, dico
io, ma per poter far ciò ho bisogno d'un'area per costruirvi degli edifici, ho
bisogno di denaro!" "Peggio per te, mi risponde, senza denaro tuo
proprio tu non puoi concorrere, ne ti è lecito prenderlo, poiché io tutelo e
garantisco la proprietà". La concorrenza non è libera, perchè mi manca l'essenziale
per poter concorrere. Contro la mia persona non si muovono eccezioni; ma
siccome io non posseggo la cosa, così anche la mia persona è costretta a
starsene indietro. E chi possiede la cosa di cui ho bisogno? Forse questo
industriale? In tal caso potrei togliergliela? No, perchè lo Stato l'ha
riconosciuta quale sua proprietà: ed essa è per il singolo che l'ha alle mani
un feudo tutelato, un possesso.
Da quando non posso concorrere con l'industriale, mi ci proverò
con quel professore di diritto; egli è uno allocco, ed io che ne so cento volte
più di lui, gli spopolerò la classe. "Hai tu frequentato le scuole
pubbliche?" — mi chiede lo Stato — "sei stato promosso, amico
mio?"
"No, ma che importa? Io so quello che occorre e conosco bene
la mia materia". "Mi dispiace, ma in questo caso la concorrenza non è
libera: contro la tua persona nulla si può obiettare, se non che ti manca la
cosa: la laurea di dottore. E questa laurea, questo diploma io, lo Stato, lo
pretendo.
Domandala con bei modi; vedrò ciò che si può fare".
Questa è adunque a libertà della concorrenza. Lo Stato, il mio padrone,
deve darmi anzitutto la facoltà di concorrere.
Ma concorrono poi veramente le persone? No, le cose soltanto
concorrono! E in primo luogo i denari.
Nella gara ci sarà sempre uno che resterà indietro (p. es. un
poetastro in gara con un vero poeta). Ma che i mezzi di cui difetta lo
sgraziato concorrente siano personali o dipendano dalle cose, non è tutt'uno,
né è tutt'uno che le cose possano essere acquistate per la forza
personale o per grazia, quale un dono; p. es. che il più
povero debba lasciare, vale a dire donare, al ricco le sue ricchezze. Se io
devo attendere l'approvazione dello Stato per potermi procacciare
i mezzi (p. es. mediante la promozione), io devo dire che ho acquistato quei
mezzi non per mia virtù ma per la grazia dello Stato.
La "libera concorrenza" non può dunque avere che questo
significato lo Stato considera tutti egualmente quali suoi figli, e dà a
ciascuno facoltà di correre e concorrere per meritarsi le grazie ed
i beni che egli dispensa. Per ciò tutti danno la
caccia agli averi, al possesso sia di danaro, sia di impieghi, sia di titoli,
ecc.: insomma alla cosa.
Secondo il senso della borghesia ciascuno è possessore o
"proprietario". Donde viene dunque che la maggior parte degli uomini
nulla possiede? Da ciò che i più godono d'esser possessori, fosse pure soltanto
di due stracci, allo stesso modo che i fanciulli gioiscono del possesso dei primi
calzoncini o di un paio di centesimi. Ma per esser più chiari, le cose stanno
in questo modo. Il liberalismo si presentò senz'altro con la dichiarazione che
l'essenziale per l'uomo era il possedere, non l'essere posseduto. Ma poiché nel
concetto dei liberali si trattava dell'uomo in astratto e non già
del singolo, dell'individuo, cosi la determinazione di ciò che al singolo abbisognava
restò in facoltà del singolo. Perciò l'egoismo del singolo poté spaziare in un
campo sconfinato, e sbizzarrirsi in un'instancabile concorrenza.
Ma con ciò l'egoismo dei fortunati doveva diventare una spina
nell'occhio per quello degli infelici, e quest'ultimo — basato, ancor sempre,
sul principio dell'umanesimo — pose la questione del quanto e
proclamò che l'uomo doveva avere quel tanto a punto che gli abbisognava.
Ma il mio egoismo s'accontenterà forse di ciò? Quel che abbisogna all'uomo
in astratto non può servire di misura pei bisogni del singolo in
concreto; poiché io posso aver bisogno di più o di meno. Io devo avere dunque
tutto quello che le mie forze mi possono procurare.
La concorrenza è difettosa in sé, poiché i mezzi per
concorrere non sono a disposizione di tutti e non derivano dalla virtù di
nessuno, ma dal caso. La maggior parte degli individui non possiede quei mezzi,
ed è perciò senza beni di fortuna.
Ecco perchè i socialisti chiedono così i mezzi per
tutti, e tendono a formare una società che li possa a tutti fornire. Il denaro
che tu possiedi, dicono essi, noi non vogliamo più riconoscerlo per tuo. Tu
devi cercarti un'alta facoltà: la tua forza di lavoro.
Tu non puoi possedere le cose eternamente; le avrai solo fino a
che tu non ne sarai spossessato.
Siccome la tua mercé è possesso tuo sino a tanto che sei in
condizione d'averla in tua mano, vale a dire sino a tanto che noi non abbiamo
nessuna ragione su di essa, così noi t'invitiamo ora a cercarti un altro
possesso, poiché la nostra forza vale più del tuo preteso possesso.
Pareva che molto si fosse ottenuto col proclamare il principio del
possesso. La schiavitù era stata con ciò abolita e tutti coloro che prima
d'allora avevano servito il padrone in qualità di schiavi, ed erano stati più o
meno proprietà di lui, erano diventati "signori". Ma d'ora innanzi il
tuo avere e la tua facoltà non bastano più, e non sono più riconosciuti; per
contro aumenta il valore del tuo lavoro è del prodotto del tuo lavoro. Noi
rispettiamo ora la forza che tu hai di soggiogare le cose, allo
stesso modo che prima rispettavamo il tuo possesso. Il tuo lavoro rappresenta
la tua facoltà; tu sei ora possessore e proprietario di ciò che hai acquistato
non più, come dianzi, coll'eredità, ma col tuo lavoro.
E siccome generalmente la fonte della ricchezza è l'eredità ed ogni lira che tu
possiedi porta l'impronta di essa, non quella del lavoro, così necessario che
tutto venga restituito perchè tutto fu mal tolto.
Così ragionano i socialisti. Ma è poi vero che il mio lavoro
rappresenta la mia sola facoltà, o non consiste questa invece in tutto ciò di
cui io sono capace? E non è forse la stessa società dei lavoratori costretta a
riconoscere questo col sostentare gli infermi, i fanciulli, i vecchi, in breve tutti
coloro che non possono lavorare? Questi possono far molte cose: p. es., serbar
la vita, anziché togliersela. Se essi giungono ad ottenere da voi che li manteniate
in vita, essi hanno un predominio su di voi. A colui che non avesse alcun
potere su di voi, voi nulla concedereste: lo lascereste morire.
Dunque ciò che tu sei capace di fare, forma la tua facoltà!
Se tu sai procurar un godimento a migliaia d'uomini, costoro te ne
rimunereranno, poiché sarebbe anche in tua facoltà di non farlo ; e per ciò
essi sono costretti a pagarti la tua opera. Se non sai guadagnarti la simpatia
di alcuno, tu morrai di fame.
E non dovrei forse io, che posso molte cose, esser preferito a
coloro che possono meno di me?
Noi siamo tutti ben provveduti d'ogni cosa; ed io dovrei rimanermi dallo
stender la mano per prendere, aspettando che mi si dia la parte concessami
dagli altri ?
Max Stirner
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