martedì 6 agosto 2013

GLI ANTICHI

L'unico e la sua proprietà  
Parte prima: L'UOMO  
Capitolo 1



1.  GLI ANTICHI.
Poiché la consuetudine ha voluto imporre ai nostri antenati che vissero avanti Cristo il nome di "antichi", noi non vogliamo osservare che a giusto diritto essi di fronte alla nostra esperienza dovrebbero chiamarsi i "bambini" e vogliamo continuare ad onorarli quali nostri buoni vecchi.
Ma in qual modo essi si ridussero a invecchiar in tal guisa e chi poté sopraffargli con la sua pretesa modernità?
Noi lo conosciamo l'innovatore rivoluzionario, lo conosciamo molto bene l'irriverente erede
che profanò persino il sabato dei padri per solennizzare la sua domenica, ed interruppe il corso del tempo per incominciare con sé stesso un'êra nuova. Noi lo conosciamo e sappiamo che fu il Cristo. Ma resterà egli eternamente giovane, è egli ancora moderno o è invecchiato ancor lui al par degli antichi?
Bisogna pur ammettere che dagli antichi sia stato generato il moderno che a loro si sovrappone. Esaminiamo un po' codesto atto generativo.
"Per gli antichi il mondo era verità" dice Feuerbach, ma egli dimentica quest'aggiunta importante: "una verità della quale cercavano di comprendere la falsità"; e vi riuscirono. Che importino quelle parole del Feuerbach si riconoscerà di leggeri, confrontandole coll'assioma cristiano della "vanità e caducità delle cose mondane". Nello stesso modo che il cristianesimo non è mai in condizione di persuadere sé stesso della vanità della parola divina ma crede invece all'eterna ed incrollabile verità di essa, tanto più trionfante quanto con più profonda meditazione ricercata, così gli antichi per parte loro vivevano nella credenza che il mondo e i rapporti umani (per es. i vincoli naturali del sangue) rappresentassero la verità, dinanzi alla quale il loro io impotente si dovesse piegare. Ciò appunto cui gli antichi attribuivano maggior valore è dai cristiani respinto come cosa priva di pregio; ciò che quelli riconoscevano per vero questi vituperano col marchio della menzogna. Svanito l'alto concetto della patria, il cristiano è costretto a riguardare se stesso come uno "straniero sulla terra" [(1) Ebrei, 11, 13.]; così, il santo dovere di dar sepoltura ai morti, che inspirò un capolavoro quale l'Antigone di Sofocle, si riduce nella nuova dottrina a miserabile cosa ("lasciate che i morti seppelliscano i propri morti") e la indissolubilità de' vincoli familiari vien tacciata come una falsità, dalla quale mai abbastanza presto ci vien fatto di liberarci [(2) MARC, 10, 29.] , e così via.
Ora, quando abbiamo compreso che ciascuna delle due parti ha in conto di verità ciò che per l'altra è menzogna: l'una, cioè, la natura e i rapporti terreni, l'altra lo spirito e la comunione con gli esseri soprannaturali (la patria celeste, la celeste Gerusalemme): ci rimane ancora da ricercare come dal mondo antico sia sorto il moderno e come si sia potuta operare quella evidente inversione di criteri.
Gli antichi hanno contribuito essi stessi a trasformare la loro verità in una menzogna.
Entriamo senz'altro nel periodo più splendido dell'antichità, in quella che ha nome da Pericle.
A quel tempo i sofisti erano in fiore e la Grecia si faceva beffe di tutto ciò che sino a poco innanzi aveva tenuto in pregio.
Troppo a lungo i padri erano stati costretti sotto il ferreo dominio dello Stato, al quale nessuno poteva attentare, perchè i posteri per le proprie amare esperienze non avessero dovuto apprendere a sentir se stessi. Per cui con coraggioso ardimento i sofisti lanciarono l'ammonimento: "Non lasciarti sgomentare!"; e diffusero la dottrina educatrice : "Adopera a proposito d'ogni cosa il tuo intelletto, la tua malizia, il tuo spirito; un intelletto sano e scaltrito ti porge l'unico mezzo per trarti d'impaccio e prepararti la più felice delle sorti, la miglior vita". Essi riconobbero dunque nello spirito la miglior arma dell'uomo contro il mondo.
Ecco perchè i sofisti tengono in così alto pregio l'abilità dialettica, la prontezza della parola, l'arte del disputare, ecc. Essi annunziano che lo spirito può esser adoperato in ogni occasione; ma sono ancora ben lontani dalla santità dello spirito, poiché questo non è per essi che un mezzo, un'arma, come l'astuzia e la caparbietà pei ragazzi. Il loro spirito è l'intelletto infallibile.
Ai giorni nostri questa sarebbe giudicata una educazione intellettuale incompiuta, e a guisa di ammonimento si aggiungerebbe: non educate soltanto il vostro intelletto, ma pure il cuore. Ed è ciò che fece Socrate.
Se il cuore non riusciva a liberarsi dei suoi impulsi naturali, ma restava invece tutto implicato nel contenuto più accidentale, e interamente in balia delle cose e alla mercè dei desideri non frenati dalla ragione (null'altro infine che un vaso accogliente gli appetiti più vari), il libero intelletto avrebbe dovuto esser servo del "cattivo cuore", pronto a giustificare tutto tutto ciò che il "cattivo cuore" desiderasse.
Perciò Socrate dice che non basta giovarci in tutte le cose del nostro intelletto, ma che soprattutto importa sapere a quale intènto ce ne vogliamo servire. Oggi noi diremmo "che si deve servire alla buona causa". Però servire alla buona causa, significa — esser morali. Ecco perché Socrate è il fondatore dell'etica.
Il principio della sofistica doveva, del resto, condurre a ritenere che il più servile e cieco schiavo dei suoi desideri potesse essere un eccellente sofista, coll'interpretare e predisporre ogni cosa in favore del suo rozzo cuore. Non si trova forse cercando bene una buona ragione per ogni cosa e per ogni causa?
Perciò disse Socrate: "voi dovete essere a puri di cuore" se volete che la vostra saggezza sia degna di stima. A questo punto incomincia il secondo periodo della liberazione dello spirito ellenico, il periodo della purezza del cuore. Giacché il primo ebbe la sua conclusione coi sofisti, i quali proclamarono l'onnipotenza dell'intelletto. Ma il cuore rimase mondano, cioè schiavo del mondo, sempre agitato da desideri di beni materiali. E questo cuore rozzo doveva venir educato: sopraggiungeva l'età dell'educazione del cuore. Ma in qual modo dev'esser educato il cuore?
L'intelligenza è pervenuta a giocar liberamente col contenuto dello spirito; un'eguale sorte attende il cuore; e di fronte a questo deve perire tutto ciò che è mondano, sicché si finirà col rinunziare alla famiglia, alla comunità della patria, ecc., per amore del cuore, vale a dire della felicità, della beatitudine del cuore.
L'esperienza d'ogni giorno conferma che l'intelletto può aver da lungo tempo rinunziato a qualche cosa per la quale il cuore palpita ancora lungamente.
E così l'intelletto sofistico si era reso talmente padrone delle antiche forze signoreggianti, che per toglier loro ogni potere sull'uomo non altro ormai occorreva se non snidarle dal cuore ove ancora regnavano incontrastate.
Una tale guerra fu iniziata da Socrate e la pace non fu conchiusa che il giorno in cui perì il mondo antico.
Da Socrate ha principio lo studio del cuore e la critica di ciò che esso contiene.
Nei loro ultimi e disperati sforzi gli antichi gettarono dal loro cuore tutto ciò che vi si accoglieva, sicché esso non seppe più battere per cosa alcuna: questa fu l'opera degli scettici.
Così fu ottenuta nell'età degli scettici la purezza del cuore, come nell'età dei sofisti s'era conseguita la liberazione dell'intelletto.
L'educazione sofistica ebbe per conseguenza che l'intelletto non s'arrestò dinanzi a cosa alcuna; la scettica che il cuore non si commosse più per alcuna cosa.
Sino a tanto che l'uomo è nei suoi rapporti impacciato dalle cose mondane e ne dipende e ne rimane schiavo — (e tale egli resta sino alla fine dell'antichità dacché ancor sempre il suo cuore deve lottare per rendersi indipendente) — egli non è uno spirito; giacché lo spirito è incorporeo e non conosce rapporti col mondo e col corpo; per esso il mondo non esiste, come non esistono legami naturali, ma soltanto ciò che è spirituale, i legami dello spirito. Perciò l'uomo doveva, prima di riuscire a sentirsi puro spirito, perdere ogni riguardo, divenire, quale ce lo ritrae l'educazione scettica, incurante d'ogni cosa, libero da tutti i suoi rapporti, indifferente a tutto il mondo, si da vederlo crollare senza commuoversi. E il risultato dell'opera gigantesca degli antichi è questo: di far sì che l'uomo diventi un essere senza mondo e senza rapporti, vale a dire uno spirito puro.
Allora soltanto, libero da ogni cura terrena, egli è a sé stesso il tutto nel tutto, esiste per sé solo, è lo spirito per lo spirito, o, per meglio dire, non si cura che delle cose spirituali.
Nell'astuzia viperea e nell'innocenza di tortura del cristianesimo i due termini dell'antica liberazione dello spirito, l'intelletto ed il cuore, sono condotti a tal perfezione da apparire ringiovaniti e moderni, e né l'uno né l'altro si lasciano sgomentare da ciò che è mondano e naturale.
Allo spirito adunque s'innalzarono gli antichi ed aspirarono a diventar spirituali. Ma l'uomo, che intende svolgere la sua operosità quale spirito, si vede attratto verso compiti ben diversi da quelli che prima poteva prefiggersi, verso compiti che veramente occupano lo spirito, e non soltanto il senso o la penetrazione, facoltà codeste che solo ci aiutano a renderci padroni delle cose. Solo di cose spirituali si occupa lo spirito ed in tutto egli va rintracciando le sue vestigia: per lo spirito credente "ogni cosa viene da Dio" e non l'interessa se non in quanto serve a rivelargli una divina origine; per lo spirito filosofico tutto si presenta con l'impronta della ragione e l'interessa solo in quanto gli sia dato di trovarsi un contenuto intellettuale.
Gli antichi non esercitavano dunque lo spirito poiché ancora non lo possedevano (non esistendo esso nelle cose, con le quali nulla ha di comune, ma nel pensiero che è dietro e sopra ciascuna cosa); soltanto lo ricercavano, lo invocavano, e lo acuivano per lanciarlo contro il loro nemico ultrapossente, il mondo dei sensi. Tutto infatti era per essi oggetto dei sensi, dacché lo stesso Jehova e i numi pagani ancor ripugnavano al concetto "Dio e spirito" e alla patria terrena non era ancora sottentrata la celeste. Ancor oggi gli ebrei, codesti figli precocemente savi dell'antichità, non sono giunti, pur con tutta la loro sottigliezza e la forza della lor perspicacia e la versatilità del loro pregevolissimo intelletto, a trovare lo spirito, che ha in non cale ogni cosa.
Il cristiano ha interessi spirituali, perchè egli ardisce di essere un uomo spirituale; l'ebreo non sa comprendere nemmeno tali interessi in tutta la loro purezza, perchè egli non permette a sé stesso di non attribuire alcun valore alle cose. Egli non sa elevarsi alla pura spiritualità, ad una spiritualità com'è espressa, a mo' d'esempio religiosamente nella fede cristiana che ci rende beati, anche senza le opere. La loro mancanza di spiritualità allontana per sempre gli ebrei dai cristiani, giacche a chi non è spirituale tutto ciò che tiene dello spirito riesce inconcepibile, nello stesso modo che l'uomo spirituale disprezza chi tale non è.
Gli ebrei non possiedono che lo "spirito di questo mondo".
La penetrazione e la profondità dello spirito antico sono tanto lontane dallo spirito e dallo spiritualismo del mondo cristiano quanto il cielo dalla terra.
Chi si sente un libero spirito, non è oppresso né angustiato dalle cose di questo mondo, perché egli non ne tiene conto; solo chi è tanto sciocco da attribuire loro un peso può sentirne la gravezza, e in questo caso egli dimostra di tenersi ancora stretto alla "cara vita". Colui, che sopra ogni altra cosa è vago di sentirsi e di comportarsi quale un libero spirito, poco si curerà che le cose gli volgano propizie od avverse e non penserà come debba governarsi per viver di una vita libera e lieta.
Egli non s'affligge per gli inconvenienti che derivano da una vita soggetta alle cose, dacché quella ch'egli conduce è vita spirituale; e infatti mangia ed ingoia quasi sempre senza esserne consapevole, e se gli fa difetto l'alimento, muore col corpo, ma sapendosi immortale quale spirito, e chiude gli occhi con una preghiera e con un pensiero. La sua vita consiste nell'occuparsi di cose spirituali — tutto ciò che non è pensiero non lo tange; quale che sia l'oggetto della sua occupazione spirituale — preghiera, contemplazione, o speculazione filosofica — l'azione sua è il pensiero. Ecco perchè il Descartes quando alfine si fu di ciò convinto poté proclamare l'assioma: "Io penso, dunque io sono". Questo significa: "Il mio pensiero è il mio essere e la mia vita ; soltanto se vivo spiritualmente, io vivo; soltanto quale spirito sono realmente io; oppure: Io sono interamente spirito e null'altro che spirito". Lo sventurato Pietro Schlemihl che aveva perduto la propria ombra è il ritratto dell'uomo diventato spirito; poiché il corpo dello spirito non proietta ombra alcuna.
Come diversi gli antichi! Per quanto ci si dimostrassero gagliardi e virili, di fronte alla forza delle cose dovevano pur riconoscerla, né ad altro seppero riuscire che a difender contro essa come meglio poterono, la loro vita. Solo tardi riconobbero che la "vera vita" non era quella della lotta contro le cose, bensì la vita spirituale quella che rifuggiva dalle cose, e quando di ciò si accorsero divennero cristiani, vale a dire moderni e novatori contro gli antichi.
La vita rifuggente dalle cose, la vita spirituale, non ritrae perciò più alcun alimento dalla natura, bensì si pasce di soli pensieri "perciò non è più vita" ma pensiero.
Tuttavia non è da credere che gli antichi non conoscessero il pensiero; ciò sarebbe altrettanto falso quanto l'immaginare che l'uomo spirituale non partecipi alla vita materiale. Bensì essi avevano le proprie idee su ogni cosa, sul mondo, sugli uomini, sugli dei, ecc. e si argomentavano in ogni guisa a rendersene coscienti. Però non conoscevano il Pensiero, quantunque pensassero a molte cose e si travagliassero coi loro pensieri. Si confronti in proposito degli antichi il verso cristiano: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e di quanto il cielo è più alto della terra d'altrettanto i miei pensieri sono più alti dei vostri" e si rammenti quanto ho detto più sopra a proposito dei nostri pensieri infantili.
Che cosa cerca adunque l'antichità? Il vero godimento della vita! E si finirà per arrivare alla "vera vita".
Canta il greco poeta Simonide: "La salute è il più prezioso bene dell'uomo mortale, poi viene
la bellezza, poi la ricchezza conquistata senza frodi, infine il godimento che si prova nella conversazione di giovani amici". Tutti questi sono beni della vita o godimenti della vita. Quale altra cosa cercava mai Diogene di Sinope se non il vero piacere, ch'egli ritrovò nel minimo grado dei bisogni? Che cosa Aristippo, che lo ritrovò nel saper serbare tranquillo l'animo nella buona e nella avversa fortuna? Essi tutti cercavano la gioia d'una vita inalterabilmente serena la giocondità, la letizia.
Gli stoici vogliono attuare il tipo dell'uomo saggio, di colui — cioè — che sa vivere una vita conforme ai dettami della saggezza; essi pongono il loro ideale nel disprezzo del mondo, in una vita immobile e imperturbata, senza rapporti amichevoli col mondo, isolata e appartata; lo stoico solo vive, tutto il resto è morto per lui. All'incontro gli Epicurei domandavano una vita tutta movimento.
Gli antichi ambivano, quando volessero vivere allegramente, una vita agiata (precipuamente gli Ebrei, che si augurano vita lunga, benedetta di figli e di doni di fortuna), l'eudaimonia, il benessere nelle sue forme più varie. Democrito esalta, p. es., come tale la "tranquillità dell'animo" la quale permette di "viver dolcemente senza timore e senza agitazioni".
L'antico è d'avviso che la tranquillità dell'animo sia la migliore compagna della vita, quella che procura la più lieta delle sorti e porge il miglior mezzo per campare. Ma siccome egli non può staccarsi dalla vita, principalmente per la ragione che ogni sua attività s'esaurisce nello sforzo che fa per staccarsene, cioè per respingerla (per far la qual cosa è necessaria l'esistenza di una vita che possa esser respinta, che diversamente nulla più rimarrebbe da respingere), così egli non può altro raggiungere se non al più un altissimo grado di liberazione, e per il grado soltanto si distingue dagli altri meno fortunati negli sforzi fatti per esser liberi. Se pure ottenesse l'assoluto annientamento dei sensi terrestri, quel grado d'annientamento che sol permette ancora di sussurrare la parola "Brahma", egli non si distinguerebbe per ciò essenzialmente dall'uomo sensuale.
Lo stesso stoicismo e la stessa virtù virile in fin dei conti vengono alla conclusione della necessità di sostenersi e di affermarsi contro il mondo, e l'etica degli stoici (unica loro scienza poiché dallo spirito null'altro seppero insegnare se non il modo con cui esso dovesse comportarsi di fronte al mondo ed alla natura [: fisica :] e lottare contro essa) non è una dottrina dello spirito, bensì una dottrina del disprezzo del mondo e dell'affermazione del proprio io, cioè di quella «"imperturbabilità e indifferenza della vita ", che fu la virtù più caratteristica dei Romani
Più lontano di questa filosofia della vita non andarono nemmeno i Romani (Orazio, Cicerone, ecc.).
Quella dal benessere (edoné) degli epicurei è una filosofia simile a quella degli stoici, ma più raffinata, più ingannatrice. Essa null'altro insegna fuor che una diversa attitudine verso il mondo, un contegno più prudente; il mondo dev'essere ingannato, imperocché esso è il nemico.
Ma gli scettici soltanto ripudiano il mondo interamente. Tutti i rapporti col mondo sono per essi "senza valore e senza verità." Timone dice: " I sentimenti ed i pensieri, che noi attingiamo dal mondo, non contengono nulla di vero". — "Che cosa è verità?" esclama Pilato. Il mondo, secondo la dottrina di Pirrone, non è né buono né cattivo, né bello né brutto, e così via; tutti questi sono predicati, che io gli attribuisco. Timone dice: "Per sé stessa nessuna cosa è buona o cattiva, bensì l'uomo s'immagina che sia tale o tale"; di fronte al mondo non rimane che l'atarassia (l'apatia) e l'afasia (l'ammutolimento o, con altre parole, l'isolamento ulteriore). Nel mondo non esiste più alcuna verità da conoscere, le cose si contraddicono, le idee delle cose sono incapaci di distinzione (bene e male sono la stessa cosa, di modo che quello che per taluno è buono, per tal altro è cattivo). E con ciò cessa la ricerca del vero; e non rimane che l'uomo privo di conoscenza, l'uomo che nulla trova da conoscere nella vita, e lascia sussistere così com'è il mondo vuoto di verità, e non se ne cura.
In cotal modo l'antichità si sbriga del mondo delle cose, dell'ordine universale, dell'universo stesso. Ma all'ordine universale ed alle cose di questo mondo non appartiene già soltanto la natura, bensì ne fan parte tutti i rapporti nei quali l'uomo si vede posto dalla natura, p. es., la famiglia, la comunità, in una parola tutti i cosiddetti "legami naturali". Col mondo dello spirito principia allora il cristianesimo.
L'uomo che si trova ancora vigile in armi contro il mondo è l'antico, il pagano (ed a questa categoria appartiene anche l'ebreo, per non essere cristiano); l'uomo che solo è guidato dalla gioia del cuore della sua compassione dalla sua simpatia dal suo spirito è il moderno, il cristiano. Gli antichi col porre ogni loro sforzo nel superare il mondo e redimere l'uomo dalle pesanti catene che lo avvincevano, pervennero alla dissoluzione dello stato ed alla esaltazione dell'individuo.

Comunità, famiglia, ecc. quali rapporti naturali, non sono forse ostacoli importuni, che diminuiscono la mia libertà spirituale?

Max Stirner

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