'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''
PARTE SECONDA --- IO
I MIEI RAPPORTI [ quarto frammento ]
Contro la concorrenza si solleva il principio della società degli
straccioni: la divisione.
Ma il singolo non vuole esser considerato una semplice parte
della società, perchè sa d'esser di più. La sua
individualità si oppone a questo concetto limitato.
Per ciò egli non attende la sua sorte da una divisione fatta da
altri; e già in fatti nella società dei lavoratori nasce il dubbio, se in una
uguale divisione il debole possa avvantaggiarsi a spese del forte. Ma il
singolo attende la sua sorte da sé stesso e si dice: ciò che io sono capace di procurarmi,
è mio. Quale fortuna non possiede il bambino sin dalla sua nascita nel suo
sorriso, nei suoi giuochi, nel suo strillare, in breve nel solo fatto
d'esistere? Sei tu capace di resistere ai suoi desideri? non gli porgi il seno,
se madre; se padre, non gli sacrifichi una parte dei tuoi averi?
Egli vi costringe a farlo, perciò egli possiede quello che voi
chiamate proprietà vostra.
Se a me sta a cuore la tua persona io sarò compensato col solo
fatto della tua esistenza; se mi cale di alcune tue qualità,esse avranno per me
un valore (valor di danaro) e io le acquisto.
Se tu non sei capace d'assegnare a te stesso un prezzo più alto
d'un semplice valor numerario, si ripeterà per te il caso dei fanciulli
tedeschi venduti in America. Essi, che si lasciarono vendere, non
dovettero avere un valor maggiore del denaro agli occhi del venditore.
Anzi, egli preferiva il denaro sonante alla merce vivente, perchè
questa non s'era dimostrata preziosa per lui. Come ne avrebbe potuto dimostrare
stima se era incapace di sentirla?
Voi agite da egoisti solo quando non vi rispettate tra di voi — né
come individui, ne come straccioni, né come operai, ma vi considerate
unicamente l'un l'altro come soggetti "utilizzabili".
Così facendo, voi non darete nulla ne a colui che possiede, né al
lavoratore, bensì pagherete un prezzo unicamente a colui del quale avrete bisogno.
Abbiamo noi bisogno d'un re? si domandano gli Americani del Nord,
e rispondano: per noi egli e il suo lavoro non valgono un centesimo.
Il dire che la concorrenza è aperta a tutti non è esatto; meglio è
esprimersi cosi: la concorrenza rende venale ogni cosa. Col mettere ogni cosa
alla portata di tutti la concorrenza lascia in balìa di ciascuno
l'assegnarne il prezzo.
Ma spesso a chi ha necessità o desiderio di comperare una cosa
difetta il denaro. Dove prenderlo?
Come acquistare quella proprietà maneggevole e corrente? Ebbene
sappi che tu possiedi altrettanto danaro quanta è la forza di cui disponi;
poiché tu vali quel tanto che sai farti valere.
Non si paga già col denaro, che può mancare, sì invece con ciò di
cui si è capaci; perchè noi siamo proprietari soltanto sin là dove giunge la
forza del nostro braccio.
Weitling ha escogitato un nuovo modo di pagare il
lavoro. Ma il vero mezzo per pagare resta, come sempre, la facoltà.
Con ciò che forma la tua facoltà tu paghi. Attendi dunque ad accrescerla
con ogni tua cura.
Ed ecco la divisa: "A ciascuno e secondo le sue
attitudini!" Ma chi dovrebbe dare a me a seconda de' miei
meriti? La società? In tal caso dovrei acconsentire a lasciarmi apprezzare e giudicare
da lei. Ma io preferirò, anziché ricevere, prendere a seconda
delle attitudini mie.
"Il tutto appartiene a tutti!" Questo assioma è prodotto
di teorica vuota. A ciascuno appartiene soltanto quello di cui è capace. Se io dico:
a me appartiene il mondo, questa è in fondo una frase che non ha senso, se non
in quanto significa che io non rispetto la proprietà degli altri. A me non appartiene
che quel tanto che io possiedo o che riuscirò a possedere.
Noi non siamo degni di possedere ciò che per debolezza ci lasciamo
ritogliere; non ne siamo degni, perchè non ne siamo capaci.
Si suol fare gran caso dei "torti millennarî" di cui si
resero colpevoli i ricchi verso i poveri.
Come se i ricchi fossero stati la causa del pauperismo, e come se
invece i poveri non fossero stati essi la cagione della ricchezza degli altri!
C'è tra i ricchi e i poveri altra differenza all'infuori di quella della
potenza e dell' impotenza, della capacità e della inettitudine? In che cosa
consiste il delitto dei ricchi? "Nella durezza del loro cuore". Ma
chi dunque se non il ricco ha sostentato i poveri, chi ha pensato ad
alimentarli, quando non erano più in condizione di lavorare, chi ha lor prodigato
le elemosine, quelle elemosine che prendono persino il nome della dea pietà?
I ricchi non furono essi forse in tutti i tempi pietosi, non sono
forse ancor oggi "caritatevoli", come dimostrano le molte tasse in pro della povertà, gli spedali,
le fondazioni d'ogni specie?
Ma tutto ciò non vi basta? Vorreste dunque che i ricchi
dividessero il proprio coi poveri? Già, voi domandate che si sopprima il
pauperismo. Ma, anche a non voler osservare che nessuno di voi l'oserebbe se
non fosse un pazzo, domandate un po' a voi stessi: perchè mai i ricchi dovrebbero
rinunziare a se stessi, cioè ad esser ricchi? Non a voi poveri
forse riuscirebbe più utile il sopprimer voi stessi, cioè la povertà? Tu, per
esempio, tu puoi disporre d'una moneta da cinque franchi tutti i giorni, e sei
così molto più ricco di mille altri che vivono di quattro soldi; ora dimmi ci
ai tu un interesse a dividere con costoro, o non l'han piuttosto
essi a diveder con te?
Il concetto della concorrenza importa non tanto il far bene una
cosa, quanto il farla in modo che possa dare il maggior
frutto. Perciò si frequentano le scuole con la speranza d'un impiego rimunerativo,
s'impara a far complimenti ed inchini, ad adulare, ad acquistar la pratica
degli affari, si lavora per le "apparenze". Sicché mentre si mostra
di voler fare un'opera buona e forte, in realtà non si mira che al lucro. Si
protesta di fare una cosa per sé stessa, ma invece la si fa pel profitto
ch'essa ci arreca. Si diventerebbe volentieri censori, ma si esige un
avanzamento; si vorrebbe giudicare, amministrare secondo le proprie
convinzioni, ma si teme il trasloco e il licenziamento: anzitutto bisogna pur
"vivere".
E cosi tutto si risolve in una lotta per la esistenza accompagnata
da un grado maggiore o minore di agiatezza.
E con tutto ciò dal nostro affannarci, dal nostro lottare non
sappiamo trarre che la "misera vita" e l'amara "povertà". Quest'è la verità
triste!
La gara assidua, senza tregua, non ci permette di pigliar fiato,
di gioire sinceramente. Ci è tolto di poter godere di quello che possediamo.
L'ordinamento del lavoro riguarda però soltanto le opere che gli
altri fanno per noi esempio, la macellazione, il lavoro dei campi, ecc. Gli
altri lavori sono lasciati all'arbitrio del singolo, perchè, ad esempio,
nessuno saprebbe comporre la musica che tu scrivi, eseguire i dipinti da te
ideati, e cosi via. La concezione d'un Raffaello non potrebbe
essere attuata da nessun altro.
Ora siccome la società non può prender in considerazione che i
lavori d'utile generale, i lavori "umani", ne consegue che chi fa
opera individuale resta privo delle sue cure, se pur non trovi impedita
la propria opera dall'intervento inopportuno della società.
L'Unico potrà coi propri sforzi trovarsi fuori della
società, ma questa non potrà mai produrre l'Unico.
Perciò è sempre utile all'interesse comune l'intendersi sul conto
dei lavori "umani" affinché questi sotto forma di concorrenza non ci facciano perdere tutto il
nostro tempo e le nostre fatiche.
Sino a questo punto il comunismo porta dei frutti. Poiché anche
ciò di cui sono o possono esser capaci tutti gli uomini fu dalla dominazione
borghese riservato a pochi e sottratto agli altri facendone un privilegio. Alla
borghesia parve giustizia il concedere ad ognuno ciò che sembrava esistere per
ognuno. Tuttavia quel che essa in apparenza pareva concedere non lo donava
in realtà, bensì lasciava che a ciascuno fosse possibile l'ottenerlo
colle proprie forze "umane". Con ciò i sensi furono diretti
all'acquisto dell' "umano" e ne venne l'indirizzo che da molti si
sente deplorare col nome di "materialismo".
A questo indirizzo cerca d'opporsi il comunista col diffondere la
credenza che l'umano non merita tanta pena e che è possibile raggiungerlo mercé istituzioni
ragionevoli senza il presente immane dispendio di tempo e di forza.
Ma per chi e a che dobbiamo cercare di risparmiar tempo? V'è forse
cosa in cui l'uomo adoperi più tempo, che nel ristorare le proprie forze?
E di ciò il comunismo tace.
A che? Per godere di sé stesso quale Unico, dopo aver fatto il
proprio lavoro quale uomo.
Nella prima gioia improvvisa datagli dalla coscienza di poter
stendere la mano su ogni cosa, l'uomo dimenticò di voler ancora qualche altra
cosa, ed entrò a cuor leggero nella gara, quasi che il possesso delle cose
" umane " fosse la mèta di tutti i suoi desideri.
Tanto si corse che ora siamo affranti e incominciamo a comprendere
che "il possesso non rende felici". Perciò studiamo d'ottenere per
vie più facili di ciò di cui abbiamo bisogno, e di non spendere che quella
fatica e quel tempo che sono necessari per ottenerlo.
La ricchezza perde di pregio, e la povertà fa pago lo straccione
spensierato e si muta in un ideale seducente.
Le attività umane delle quali ciascuno si sente capace dovrebbero
ottener meglio compensato il lor lavoro? Già, nelle frasi che tanta gente ha su
la bocca: "se io fossi ministro, o meglio ancora, se fossi re le cose
andrebbero ben diversamente", è chiara l'opinione, che ciascuno ha, di esser
capace di rappresentare questo o quell'altro dignitario. Si comprende che per
questo non è necessario alcuna attitudine speciale, ma è sufficiente, una
cultura che, se non da tutti, da molti può esser conseguita; che per essere a
quel posto insomma non occorre essere un uomo straordinario.
Supponiamo che, come l'ordine cosi la subordinazione
sia fondata nella natura dello Stato, e allora ci accorgeremo che dai
privilegiati vengono sfruttati senza misura gli altri. Ma questi ultimi si
fanno coraggio, e partendo, prima, dal concetto socialista, poi guidati dalla
coscienza egoistica, domandano: Da che cosa è garantita la nostra proprietà o privilegiati?
— E rispondono:
Dalla nostra paura e dal nostro rispetto. E che cosa ci date voi
in cambio? Calci e parole di scherno, ecco ciò che date alla "canaglia"; la vigilanza
della polizia ed un catechismo che si compendia nel precetto: Rispetta ciò che
non t'appartiene, ciò ch'è degli altri! Ma noi rispondiamo: Se
volete il nostro rispetto comperatela al prezzo a cui noi lo
porremo. Noi vogliamo permettervi di godere della vostra proprietà, perché voi
rimuneriate sufficientemente il nostro permesso. Che cosa da a noi in tempi di
pace il generale in cambio del largo stipendio di cui egli gode? Con che cosa
ci pagate, perché noi, che dobbiamo accontentarci a mangiare delle patate,
assistiamo indifferenti alla vostra cena mentre voi gustate delle ostriche?
Comperate da noi le ostriche allo stesso prezzo che noi paghiamo per procurarci
da voi le patate, e voi potrete continuare a mangiarle in pace. O credereste
forse che le ostriche non debbano spettare anche a noi come a voi? Voi
griderete alla sopraffazione, alla violenza, se noi ci siederemo al desco vostro;
ed avrete ragione. Ma la violenza è necessaria; né per altro che per averla
usata un tempo voi siete oggi i privilegiati.
Ma tenetevi pure le ostriche e permettete che consideriamo la
nostra proprietà più speciale (poiché quell'altra non è che possesso), cioè il
lavoro. Noi ci affatichiamo per dodici ore e voi ci ricambiate con pochi soldi.
In tal caso prendete anche voi altrettanto per il vostro lavoro. Non ne volete
sapere? Voi pensate che il vostro lavoro sia pagato abbastanza con quella
mercede, ma che il vostro sia meritevole di molte migliaia di lire? Ma se non
credeste così elevato il prezzo del vostro lavoro, e ci permetteste
d'approfittare più largamente del nostro, noi, quando se la occasione si
offrisse, saremmo capaci di produrre cose ben più importanti di quelle che
producete voi per le migliaia di scudi con cui siete pagati, e voi non avreste
in tal caso una retribuzione maggiore della nostra. Voi diverreste in breve più
assidui al lavoro per guadagnar di più. Ma se voi siete in condizione di
produrre qualche cosa che vi sembra avere un prezzo dieci, cento volte maggiore
del nostro, voi ne sarete retribuiti cento volte di più; dal canto nostro noi
pensiamo di produr delle cose che voi dovrete pagare a più caro prezzo che non
sia quello della nostra mercede ordinaria. Noi troveremo bene il modo d'andar
d'accordo perchè siamo d'accordo in ciò, che nessuno sia tenuto a regolare
checchessia all'altro.
E così arriveremo a tanto da pagare un prezzo adeguato anche agli
infermi, agli ammalati ed ai vecchi, affinché non si dipartano da noi uccisi
dalla fame e dalla miseria; poiché se noi vogliamo ch'essi vivano, è ben giusto
che noi ci acquistiamo il diritto di soddisfare tale nostro desiderio. Io dico
" acquistare ", non parlo dunque d'una miserabile
"elemosina". La propria vita è proprietà anche di coloro che non
possono lavorare; se noi vogliamo che essi (per un motivo che è inutile indagare)
ci siano serbati, noi non possiamo ottenerlo altrimenti che con un riscatto.
Fors'anco poiché ci piace esser circondati da facce allegre, noi vogliamo
ch'essi godano d'una certa agiatezza. In somma, noi non vogliamo ricevere in
dono da voi alcuna cosa, ma nello stesso tempo non intendiamo regalar nulla a
voi. Pel corso di molti secoli noi vi abbiamo porto l'elemosina, per
imbecillità abbiamo speso i nostri risparmi di poverelli per dare a voi signori
ciò che non vi apparteneva; ora aprite voi le vostre borse poiché la nostra
merce incomincia a salire assai rapidamente di prezzo. Noi non vogliamo
togliervi nulla, proprio nulla; solo voi dovete pagar meglio quello che volete
avere da noi. Tu possiedi un bene di "mille jugeri". Ed io sono il tuo
famiglio e quind'innanzi non lavorerò il tuo campo che al prezzo di cinque lire
al giorno. "In tal caso ne prenderò un altro". Tu non ne troverai
poiché tutti noi servi ci siamo accordati a non lavorare per una mercede
minore, e se alcuno dimenticasse gli accordi, sapremmo punirlo ben noi. Ecco la
serva di casa: ti chiede questa mercede; se non l'accetti, non ne troverai
altre, "Eh, ma voi mi forzate a morire". Non tanta fretta! Le tue
rendite saranno per lo meno uguali alle nostre, e, quando ciò non fosse, noi
cederemo quel tanto sul nostro salario, che ti darà modo di vivere al pari di
noi. "Ma io sono abituato a viver meglio". Noi nulla possiamo
obiettare a ciò, ma è affar tuo; se tu sei in condizione di risparmiare più di
noi, tanto meglio. Dovremmo noi forse darti il nostro lavoro ad un prezzo più
basso per ciò solo che tu possa vivere meglio di noi? Il ricco si sbarazza
sempre dei poveri con le parole : "E che importa a me della tua miseria?
Cerca di campare meglio che puoi, quest'è affar tuo, non
mio". Ebbene, poiché è affar nostro, noi non permetteremo ai ricchi che ci
privino oltre dei mezzi che noi abbiamo per farci valere. "Ma voi, gente
ignorante non abbisognate di tante cose." Ebbene, ci prenderemo qualche
cosa di più per procurarci quell'istruzione che ci manca. "Ma se voi
ridurrete a mal partito i ricchi, chi s'interesserà più delle arti e delle
scienze?". Eh, la gran massa dovrà concorrervi; ciascuno vi contribuirà
in qualche modo e ne ritrarremo una bella somma, tanto più che voi ricchi non
siete avvezzi a comperare che i libri più insulsi e le madonne più noiose, se
non preferite le agili gambe di qualche ballerina. "Oh, la disgraziata
uguaglianza!". No, mio buon signore, qui non si tratta di eguaglianza.
Noi non vogliamo valere che secondo il nostro merito, e se voi ne
avete più di noi, sarete anche più apprezzanti.
Noi non domandiamo che un prezzo onesto, conforme al
merito e intendiamo dimostrarci meritevoli del prezzo che ci pagherete.
Lo Stato può esso infondere nel servo un coraggio cosi sicuro di
sé stesso, un amore proprio cosi vigoroso? Può esso fare che l'uomo abbia
coscienza di se medesimo? Può esso volere che il singolo riconosca il proprio
valore? Teniamo distinta questa doppia questione e vediamo anzitutto se lo
Stato e in condizione di mandar ad effetto alcunché di simile. Occorre, per attuarlo,
come vedemmo, che tutti i lavoratori dei campi si mettan d'accordo; ora una
legge dello Stato sarebbe mille volte delusa, particolarmente dalla concorrenza
e in segreto. E poi, potrebbe lo Stato soffrir una tal cosa? E impossibile
ch'esso possa tollerare che la gente subisca altra legge che la sua; non c'è
dunque da sperare che possa ammettere un accordo generale dei lavoratori dei campi
contro quelli che accettano di lavorare per un salario inferiore a quello che
fu concordato tra loro. Ma supponiamo che lo Stato abbia fatta la legge e che
tutti i lavoratori l'abbiano accettata, potrebbe esso assicurarne
l'adempimento.
In questo caso singolo, si; ma il caso singolo, per ciò appunto
che è singolo, è qualche cosa di più, diventa una questione di principio.
Qui si tratta del concetto della liberazione del proprio io da tutto ciò che
tende a limitarlo e quindi anche dalla costrizione dello Stato. A tale
conclusione giunge anche il comunismo: ma la conquista della piena indipendenza
individuale è diretta non solo contro lo Stato, bensì anche contro la società,
e perciò trabocca oltre i confini della dottrina collettivista.
Il comunismo fa dell'assioma borghese "ciascuno è un
possessore (proprietario)" una verità indiscutibile, una realtà, ponendo
fine alla preoccupazione dell'acquistare, poiché ciascuno si trova
ad avere in casa ciò di cui abbisogna. Nella sua forza di lavorare egli
possiede la sua ricchezza e se egli non la mette a frutto, peggio
per lui. Le corse — le cacce — sono finite e nessuna concorrenza rimane, poiché
con ogni atto che si traduce in lavoro entra in casa il necessario. Allora si è
veramente proprietari, perchè chi ha forza di lavorare non può
perdere il frutto del suo lavoro come in vece accadeva facilmente sotto il
regime della concorrenza.
Si è proprietari spensierati e sicuri. E si è tali
appunto per ciò che noi non ricerchiamo più la ricchezza in una merce, bensì
nel nostro proprio lavoro, nella facoltà di lavorare: perchè in somma col
divenir tutti straccioni ci siam ridotti a non posseder più che
ricchezze ideali.
Ma a me non può bastare quel poco che posso ritrarre
dalle mie fatiche, da che la mia ricchezza non consiste solamente nel lavoro.
Col lavoro io posso adempiere l'ufficio d'un ministro, d'un
presidente, ecc.; tali impieghi non ricercano che una cultura generale vale a
dire una cultura che può essere acquistata da tutti (poiché cultura generale è
quella appunto che ognuno può conseguire), o per lo meno un'abilità che
ciascuno può raggiungere con l'esercizio.
E tuttavia questi uffici, se pur sono aperti a chicchessia, non
traggono che dalle forze del singolo il lor vero valore. Se taluno attende al
suo compito, non già come un "uomo comune", ma in modo da spiegarvi
tutte le virtù della individualità sua, egli ha diritto a ben più che non al semplice
stipendio che spetta all'impiegato e al ministro. Se egli s'è adoperato con
vostra soddisfazione e se vi preme conservarvi questa sua forza ammirabile, voi
non potrete pagarlo come si paga un uomo comune che ha prodotto delle cose
comuni, bensì come uno che produce alcunché di unico. Fate un po' anche voi, se
potete, la stessa cosa col vostro lavoro!
La mia individualità non può essere apprezzata con un criterio
comune come la mia astratta qualità d' uomo.
Dunque accogliete pure un generale criterio di mercede per i
lavori puramente umani, ma non privare l'individualità del giusto
guadagno che essa si merita.
I bisogni umani, generali, possono essere
soddisfatti dalla società; per i bisogni singoli, ti bisogna un
attitudine speciale. Un amico, e un servizio d'amico, persino un servizio d'una
persona estranea, la società non e in grado di procurarteli. Eppure tu avrai
bisogno a ogni tratto di fatti servizi, e nelle circostanze più comuni ti sarà
necessario l'aiuto di qualcuno. Dunque non attender ogni cosa dalla società, ma
bada invece a procurarti ciò che è necessario per il soddisfacimento dei tuoi
desideri.
Sarà conservato il denaro in una società d'egoisti? — Il denaro
d'antico conio porta l'impronta dell'eredità. Se voi non volete più esser
pagati con quel denaro esso perderà il suo valore; e se voi non vi curate
d'assegnarli un valore, esso perderà ogni potere. Cancellate l'eredità e
con ciò avrete infranto il suggella dell'esecutore giudiziario.
Oggi tutto è eredità, passata o futura. Se l'eredità è vostra,
perchè permettete che le si imprima il suggello officiale e la rispettate?
Ma perché non dovreste voi creare un nuovo anello nella catena?
Distruggete voi forse la mercanzia con l'abbattere l'eredità? No, il denaro è
ancor esso una merce, e precisamente una ricchezza. Esso salva la ricchezza
dalla ruggine, la tiene in corso e ne rende possibile lo scambio.
Se conoscete a ciò un mezzo migliore di questo, tanto meglio; ma
anche il nuovo mezzo sarà pur sempre moneta. Non già il denaro vi
arreca danno, bensì il non potervene insignorire. Fate valere le vostre
attitudini, e di danaro — del denaro vostro, di vostro conio — non avrete
difetto. Ma esercitare le attitudini che ciascuno ha proprie è altro dal
"lavorare" nel senso che oggi si dà a questa parola.
Coloro che si accontentano a cercar lavoro e non si propongono
altro che di "lavorar bene" preparano a se stessi l'inevitabile: la mancanza di lavoro.
Dal denaro dipende la fortuna. Nel periodo borghese esso è una
potenza perciò che tutti gli corron dietro; come a una ragazza, cui tutti fanno
la corte, e che nessuno può sposare. Tutto il romanticismo e tutta la
cavalleria dell'aspirare ad un oggetto prezioso rivivono nella concorrenza,
il danaro oggetto di tutte le brame, viene rapito dagli audaci "cavalieri
d'industria".
Chi ha fortuna conquista la sposa. Lo straccione ha fortuna; egli
conduce la sposa tra le pareti domestiche della "società" dove ella
perde la verginità e con essa anche il nome della propria famiglia. Se chiamavasi
Denaro, ora si chiama Lavoro, poiché lavoro è il nome dell'uomo. Essa è un
possesso dell'uomo. Per continuare l'immagine, la figlia del lavoro e del
denaro è di nuovo una ragazza non maritata, dunque di nuovo denaro, soltanto
con certi contrassegni dell'origine paterna: il lavoro. I lineamenti del volto
presentano un'impronta diversa.
Ma ritornando alla concorrenza, essa esiste appunto per ciò che
non tutti s'interessano alla sua causa né si preoccupano di
intendersi fra di loro a suo riguardo. Il pane p. es. è necessario a tutti gli
abitanti d'una città; per ciò sarebbe facile che essi si mettessero d'accordo
per esigere dei forni pubblici. Invece se ne rimettono ai panettieri che si
fanno concorrenza. La stessa cosa vale per la carne per il vino, ecc.
Abolire la concorrenza equivale a favorire le corporazioni. La
differenza è questa: Nella corporazione l'arte di cuocere il pane
è riservata ad alcune persone determinate; nella concorrenza appartiene
a chiunque prenda parte alla gara; nell'associazione l'interesse
è di tutti coloro che hanno bisogno del pane, dunque di tutti gli associati.
Se io non mi prendo cura dei miei interessi dovrò accontentarmi
di ciò che agli altri parrà opportuno concedermi. L'aver del pane è un
bisogno mio, eppure per averlo io me ne rimetto ai fornai, sperando tutto al
più di godere di qualche vantaggio in virtù della concorrenza — vantaggio che
dai fornai appartenenti ad una corporazione, arbitra dei prezzi e delle
condizioni, non avrei potuto attendermi. Alla produzione di ciò che ad ognuno
abbisogna dovrebbero contribuire tutti; poiché essa riguarda gli interessi di
tutti, e non già quello particolare dei mastri fornai iscritti alla
corporazione o autorizzati a tale mestiere.
Guardiamo indietro un'altra volta. A figli degli uomini appartiene
il mondo; esso non è più il mondo; di Dio, bensì il mondo degli uomini. Quel tanto che ogni
uomo può conquistarsi nel mondo diventa sua proprietà; lo Stato, la società umana o
l'umanità non debbono d'altro aver cura, se non di questo: che nessuno
s'appropri di cosa alcuna in modo contrario alle leggi umane.
Una approvazione contraria a questa legge dev'esser vietata
all'uomo, perchè delittuosa; mentre è "legale, legittima", quella
acquistata in forza del "diritto".
Cosi si dice dalla rivoluzione in poi. Ma la proprietà non è già
una cosa, poiché la cosa tua ha un'esistenza indipendente dalla
mia: la proprietà vera è la volontà. Non già quell'albero, bensì la mia forza
di disporre d'esso come mi pare e piace, costituisce la mia proprietà.
Come s'esprime ora questa forza? Dicendo: io ho diritto a
quest'albero, oppure, esso è mia proprietà legittima. Acquistato in
ogni modo io l'ho con la forza. Si dimentica che la forza deve persistere in
me, per poter sostenere il "diritto", o, per meglio dire,
che la forza non è cosa esistente da se, bensì insita nel mio potere. La forza
al pari di tante altre mie qualità, p. es., l'umanità, la maestà,
ecc., è considerata come avente una propria esistenza, di modo che essa continua
a sussistere, anche quando ha cessato d'essere la mia forza.
Trasformata così in fantasma, la forza diventa diritto. Questa forza
esternata non s'estingue nemmeno con la mia morte, tant'è che la si
trasmette in eredità.
Per tal modo le cose in realtà non appartengono più a me, bensì al
diritto.
Ora tutto ciò non è altro che un errore. La potenza del singolo
non diviene duratura, non si fa cioè diritto, se non in forza della protezione
che la collettività le concede.
Ma perchè non potremo riprendere la protezione che abbiamo concessa?
Si ripete l'illusione che fa della forza una cosa assoluta. Ho
dato "pieni poteri" ad un altro; dunque mi son privato della mia
propria forza e con ciò della possibilità di metterla a miglior profitto.
Il proprietario può rinunziare al diritto che ha su una data cosa,
col donarla o gettarla via. E noi non potremo?
Il giusto non desidera il possesso di cosa alcuna
ch'egli non abbia diritto di possedere, dunque non vuol sentir parlare che di proprietà
legittima. Ma chi ha da conferirgli quel "diritto"?
L'uomo. Bene; egli può dunque esclamare con Terenzio,
ma in un senso molto più ampio:
humani nihil a me alienum putò; vale a
dire; tutto ciò ch'è umano é mia proprietà. Egli
può far quello che vuole, ma gli è necessario un giudice; ora ai nostri tempi
le varie specie di giudici che l'umanità s'era foggiate hanno finito a
impersonarsi in due forme mortalmente nemiche: Dio e l'uomo. Gli uni si
richiamano al diritto divino, gli altri all'umano, cioè ai diritti dell'uomo; nell'uno
e nell'altro caso non è mai il singolo, che conferisce il diritto a sé stesso.
Citatemi oggi un atto qualsiasi, che non rappresenti una
violazione del diritto! Da un lato a ogni momento sono calpestati i diritti
umani, mentre dall'altro gli avversari non sanno aprir bocca, senza bestemmiare
il diritto divino. Se fate l'elemosina voi dileggiate un diritto umano, perchè
il rapporto tra il mendicante e il benefattore è antiumano; se la negate voi
peccate contro il diritto divino. Se vi mangiate in pace un tozzo di pane
asciutto, voi offendete con la vostra indifferenza un diritto umano; se lo
mangiate mormorando e imprecando, con la vostra insofferenza oltraggiate la
legge divina. Non v'ha uno solo tra voi che non commetta ad ogni momento
qualche delitto; i vostri discorsi sono delittuosi, ma ogni freno imposto alla
libertà di parola e anche un reato. Voi siete tutti delinquenti. Ma siete tali
perchè tutti state saldi sul terreno del diritto, senza pur
sapere e senza poter conoscere che siete tutti delinquenti.
La pianta della proprietà inviolabile e sacrosanta è
cresciuta su quel terreno; è un concetto di diritto.
Un cane che vede un altro cane addentare un osso lo lascia fare
perchè si sente più debole.
L'uomo invece vuol rispettare il diritto che un
altro uomo ha su quell' osso. Così operando si conduce umanamente:
se facesse altrimenti, il suo agire si chiamerebbe brutale od egoista.
E così in tutti i casi. Sempre una azione si dice umana quando
vi si intravede alcunché di spirituale (che nel caso succitato
sarebbe il diritto), quando d'ogni cosa si fa un fantasma, e si
ha rapporto non già con la cosa, bensì col fantasma che si crede essa
rappresenti, con un fantasma che nulla vale a distruggere. E si suole chiamare
umano il considerar ciò che è singolo non come singolo ma come alcunché di generale
e di astratto.
Io non debbo alla natura, come tale, alcun rispetto: verso di lei
mi si concede ogni diritto.
Invece nell'albero di quel giardino mi si impone di rispettare
l'oggetto altrui, la "proprietà": e io non posso toccarlo. Questo
stato di cose cesserà solo quando io potrò nell'atto del cedere quell'albero ad
un'altra persona vedere un fatto non diverso da quello del cedere ad altri il
mio bastone, quando cioè io avrò cessato di concedermi quell'albero come una
cosa estranea e perciò sacra, quando in somma io non imputerò a
delitto né l'appropriarmelo né il toglierlo, e l'avrò per mio se pur l'abbia
ceduto. Nella ricchezza del banchiere v'è così poco di estraneo a me, quanto ve
n'era a Napoleone nelle province dei re. Noi non dobbiamo temere di
conquistar quella ricchezza, anzi dobbiamo cercare intorno a noi i mezzi che ci
abbisognano a far ciò. Spogliamo dunque quella facoltà del velo
dell'estraneità che c'induceva a un pauroso rispetto.
Perciò è necessario che alla cosa io non ricorra più quale
uomo, bensì unicamente quale io, e che non riguardi più
alcuna cosa, come umana, bensì come mia perché io la voglio.
Proprietà legittima d'un altro non sarà che quella che a te piacerà
che sia sua.
Se ciò non ti piacerà più, essa perderà la legittimità, e tu
riderai del diritto assoluto che quell'altro protestava di vantare su quella
cosa.
Oltre la proprietà in senso limitato, della quale sin qui ci siamo
intrattenuti, ve n'ha un'altra che vien messa continuamente sotto gli occhi
dell'uomo, sotto il rispetto del sentimento religioso.
Contro quest'altra "proprietà" ci è ancor meno successo
di "peccare". Consiste, essa, nei beni spirituali, nel
santuario intimo dell' uomo. Ciò che un uomo considera come sacro non
dev'essere schernito da alcun altro uomo, poiché, per quanto quella cosa
ritenuta sacra possa essere falsa e sia permesso di tentar con modi dolci e
amorevoli di far comprendere a colui quale sia la vera santità,
nonostante bisogna rispettare come sacra anche la sua falsa
credenza. Poiché, se anche falsamente quell' uomo crede in alcunché di sacro
questa sua credenza nella santità d'una cosa dev'essere
rispettata.
In tempi più rozzi dei nostri solevasi pretendere una credenza
determinata, una fede in qualche cosa di particolarmente sacro, e non si avevano
riguardi per coloro che la pensavano diversamente. Ma poiché la libertà
religiosa fu estesa sempre più, l'antico "Dio unico e solo" si mutò a
grado a grado in un essere supremo anzi nebuloso che no, e bastò alla
tolleranza umana che ogni uomo venerasse qualche cosa di "sacro".
Talvolta nella sua forma più umana, questa cosa sacra è "l'uomo
stesso" l'umano. Perchè è illusione il credere che
l'umano appartenga interamente a noi, spogliato d'ogni idea del di là, di lui è
rivestito Dio, e che l'uomo sia tutt'uno col mio e il tuo io.
Tale errore fu causa della orgogliosa credenza che il "sacro" sia
stato superato e che noi non siamo più costretti a lottare col "sacro"
penetrati da un religioso terrore. La gioia di aver finalmente "ritrovato
l'uomo" ci impedì di sentire il grido di dolore dell'egoista; e il nuovo
fantasma divenutoci famigliare venne considerato come il nostro proprio io.
Ma "humanus" si chiama il Santo (Goethe)
e l'umano non è che la cosa santa per eccellenza.
L'egoista s'esprime nel modo opposto. Appunto perchè tu ritieni
per sacra una cosa, io ti dileggio, e pur rispettando le altre
cose che ti son proprie, non rispetto precisamente ciò che ti è sacro.
Da queste opinioni opposte procede un contrasto nella condotta
rispetto ai beni spirituali: l'egoista li insulta, l'uomo religioso deve invece
difenderli. Però il sapere quali beni spirituali debbano esser difesi e
protetti e quali no, dipende dal concetto che l'uomo si fa dell' "ente supremo",
sicché il credente in Dio ha, per esempio, più cose da difendere che il non
credente nell'uomo (il liberale).
Nei nostri beni spirituali, a differenza che nei materiali, noi
veniamo offesi moralmente, e il peccato contro di essi consiste in una profanazione diretta,
mentre il nostro peccato contro i beni dei sensi si manifesta nella forma di
una sottrazione od alienazione.
I beni spirituali non vengono soltanto sottratti, bensì conculcati
e profanati e lo stesso concetto della "santità" corre pericolo. Con
le parole "irriverenza" e "profanazione" è uso designare
ogni atto che venga perpetrato a danno dei nostri beni
spirituali, di ciò insomma che a noi è sacro; lo scherno, la contumelia, il
disprezzo, il dubbio ecc., non sono che gradazioni dell'insolenza delittuosa.
Che la profanazione possa avverarsi in più modi è cosa nota; però
noi vogliamo accennare solamente a quella cui è esposto il "sacro"
per l'illimitata libertà di stampa.
Sino a che si sente rispetto per un ente spirituale qualsiasi, la
parola e la stampa devono essere imbavagliate in nome di quell'ente poiché
l'egoista con le sue espressioni potrebbe peccare contro
di esso, il che gli deve essere impedito con la minaccia d'una
"punizione", se non si preferiscano i mezzi preventivi, polizieschi —
come la censura.
Quanto si sospira per la libertà di stampa! Ma da che cosa vorreste
liberare la stampa? Dalla sua dipendenza, dal suo servaggio: non è vero? Ma
liberare se stesso da qualche cosa è faccenda di ciascun singolo, e si può
ammettere con certezza che se tu ti sarai sottratto ad un servaggio anche
quello che tu parli o scrivi sarà proprietà tua, invece di esser
cosa al servizio d'altri. Se io non posso ne devo scrivere
qualche cosa, la colpa è fuor di dubbio principalmente di me stesso.
Quantunque ciò a prima vista non sembri proprio giusto, è facile
tuttavia trovarne esempi moltissimi. In virtù d'una legge sulla stampa io
impongo o lascio imporre a me stesso un confine a ciò che vado pubblicando, un
limite, oltrepassato il quale io incespico nel peccato e incorro nella punizione.
Io stesso assegno un limite a me stesso.
Per rendere veramente libera la stampa, bisognerebbe svincolarla
da ogni costrizione che potesse esserle fatta in nome d'una legge. E per
ottener ciò dovrei anzitutto aver liberato me stesso da ogni vincolo
d'obbedienza verso la legge.
Certamente, la libertà assoluta della stampa, al pari d'ogni altra
libertà assoluta, è un'utopia.
Essa potrà esser libera da molte cose ma sempre da quelle cose
solamente delle quali il singolo si sarà liberato. Se ci sbarazziamo di ciò che
è ritenuto per "sacro", noi diverremo senza religione e
senza legge, e tali saranno anche le manifestazioni della nostra
parola.
Allo stesso modo che noi nel mondo non possiamo
liberarci da ogni forma di costrizione, così anche le nostre parole ed i nostri
scritti non vi si possono sottrarre. Ma quel grado di libertà di cui noi
godiamo, possiamo concederlo anche ai nostri scritti.
La libertà deve dunque diventare una nostra proprietà,
anzi che servire ad un fantasma come sin qui è avvenuto.
Non si comprende chiaramente ciò che vogliano coloro che chiedono
la libertà di stampa.
Quel che apparentemente si ricerca è che lo Stato accordi libertà
alla stampa; ma ciò che in fondo si vuole, senza saperlo, si è che la stampa
sia libera dallo Stato e che faccia di meno dello Stato.
Nella forma, adunque, una petizione diretta allo
Stato; nella sostanza una sollevazione contro lo Stato. La forma,
che è l'istanza per ottenere un diritto, riconosce lo Stato quale
elargitore, né in altro lascia sperare che in un dono concesso
con maggiore o minor buona grazia. Può darsi che uno Stato sia tanto sciocco da
concedere il regalo che gli si domanda; però c'è da scommettere cento contro
uno che i beneficati non sapranno far uso conveniente di quel dono, sino a
tanto che considereranno lo Stato come una verità. Essi non insorgeranno di
certo contro ciò che rende "sacro" lo Stato; anzi invocheranno,
contro ognuno che tentasse dì far ciò, una nuova legge di stampa che lo
punisca.
In una parola, la stampa non può essere libera da quelle cose
dalle quali il singolo non si è liberato.
Mi dimostro io forse con ciò avversario della libertà di stampa?
Tutt'altro; solo io sostengo che non la si otterrà giammai, se non si mira che
a quella libertà soltanto, cioè, se non si tende che ad ottenere una
autorizzazione illimitata. Mendicate pure codesta autorizzazione: voi potete attendere
eternamente, poiché non troverete al mondo alcuno che possa concedervela: Sino
a tanto che volete esser "autorizzati", e far uso della stampa mediante
una concessione, voi sperate e vi travagliate invano.
"Sciocchezze! Tu, che pensi in quel modo che vai esponendo
nel tuo libro, non sai render pubblici i tuoi pensieri se non in virtù di
qualche caso fortunato e per vie recondite. E con tutto ciò ti affanni a
dimostrare che non bisogna insistere e far forza allo Stato perchè ci conceda
la libertà di stampa che esso ci ricusa".
Ma uno scrittore assalito così a bruciapelo risponderebbe forse —
poiché l'insolenza di questa gente non ha limiti — presso a poco così:
"Pensate bene a ciò che dite! Che cosa faccio io per ottenere libertà di
stampa pel mio libro? Domando io forse una licenza o non cerco invece un'occasione
favorevole senza curarmi della questione del diritto, non l'afferro forse quest'occasione
senza alcun riguardo per lo Stato ed i suoi desideri! Tò — bisogna pur dirla la
parola nefanda — io inganno lo Stato. E voi inconsciamente fate la stessa cosa.
Dalle vostre tribune voi vi argomentate di persuaderlo a rinunziare alla
propria santità ed inviolabilità, a dar sé stesso in balia di coloro che
scrivono, assicurandolo che ciò facendo non incorrerà in alcun pericolo. Ma voi
lo ingannate. Perchè voi sapete che ci va della sua esistenza se lo spogliate
della sua inaccessibilità. A voi esso potrebbe certa mente
concedere la libertà dello scrivere, come ha fatto l'Inghilterra. Poiché voi
siete credenti nello Stato ed incapaci di scrivere alcunché
contro lo Stato per quanto abbiate sempre qualche cosa da riformare, qualche magagna
da curare. Ma che diresti se gli avversari dello Stato usassero della
libera parola per muover una guerra risoluta e implacabile alla Chiesa, allo
Stato stesso, alla morale, a tutto ciò che è "sacrosanto"? Allora voi
per primi presi da paura, richiamereste in vita le leggi di settembre.
Troppo tardi vi pentirete della sciocchezza commessa col prestarvi ad illudere
lo Stato od il Governo con di belle parole.
— Ma io con la mia azione non dimostro che due sole cose. La
prima, che la libertà di stampa va sempre congiunta alle "occasioni
favorevoli", sicché non potrà esser mai una libertà assoluta; la seconda
volta, che chi vuole approfittarne deve ricercare l'occasione favorevole, o
piuttosto, se gli sia possibile, crearla, col far valere contro lo Stato il proprio
vantaggio, e col ritenere superiore se stesso allo Stato e ad ogni
altro potere. Non già nello Stato, ma contro di lui, può esser ottenuta la
libertà di stampa: essa è e sarà conseguibile non già sotto forma di preghiera,
ma quale opera di un'insurrezione. Ogni preghiera, ogni proposta
che tenda al conseguimento della libertà di stampa è già una ribellione conscia
o inconscia; il che soltanto l'ipocrita mediocrità non vuole e non può
confessare a sé stessa, sino a tanto che non è costretta a riconoscerlo negli
effetti. Poiché la libertà di stampa, così com'è richiesta, ha per certo in
sulle prime un aspetto innocuo, ed attraente, non pensando alcuno che essa
debba mutarsi in licenza.
Ma un po’ alla volta il cuore dell'uomo s'indurisce, ed ei si
lascia vincere alla considerazione che una libertà non è tale finché si trova
al servizio dello Stato, della morale o della legge. E una liberazione
dalla costrizione della censura, ma non già da quella della legge. La stampa,
poiché l'ardente desiderio della libertà l'assale, vuol diventare sempre più
libera. Chi scrive, dovrà dire a sé stesso. Io non sarò compiutamente libero
che allorquando non avrò più riguardi per cosa alcuna. Ma lo scrivere non è
libero che in quanto è una mia proprietà che non può essermi tolta da nessuna
potenza, da nessuna autorità, da nessuna credenza, da nessun timore; non basta dunque
che la stampa sia libera — sarebbe troppo poco — bisogna che essa sia mia:
— la proprietà della stampa, ecco ciò che io voglio ottenere per
me.
La libertà di stampa è in fondo la concessione di poter stampare,
né mai lo Stato mi potrà permettere che con essa io miri a distruggerlo.
Ricapitoliamo ora, per correggere l'idea ancora incerta della
parola "libertà di stampa", in questo modo: La libertà di
stampa com'è voluta dai liberali, è certamente possibile in uno Stato, anzi
non è possibile che nello Stato, poiché essa non è che una concessione per
la quale non può mancare il concedente, ch'è lo Stato. Questa concessione è
circoscritta però precisamente ai limiti di questo Stato, che naturalmente non
vorrà e non potrà permettere più di quanto si concilia col suo benessere e con
la sua esistenza. Egli le prescrive quel limite quale una legge,
dalla cui osservanza dipende l'esistenza e l'estensione della concessa libertà.
Se uno Stato è più tollerante d'un altro, la differenza non sarà che
quantitativa; o ciò è appunto quello che sta a cuore ai liberali. Essi non
domandano, p. es., in Germania, che una "licenza più estesa,
più ampia alla libera parola". La libertà che si domanda è
una causa del popolo, e prima che il popolo (lo Stato) non la
possegga io non devo farne alcun uso. Nel rispetto della proprietà della
stampa le cose procedono certo diversamente. Se al mio popolo non è concessa la
libertà di stampa, io con la forza e con l'astuzia farò stampare quello che
voglio la licenza non la domanderò che a me stesso ed alla mia
forza.
Se la stampa è una mia proprietà, io abbisogno, per
usarne, tanto poco della licenza dello Stato, quanto ne abbisogno per pulirmi il naso. La stampa diverrà proprietà
mia, solo il giorno in cui riterrò che nessuna cosa sia superiore a me.
"Poiché da questo momento soltanto cesseranno di esistere Stato, Chiesa,
popolo, società, ecc la cui esistenza dipende unicamente dal poco conto in cui
tengo io me stesso, sicché col dileguare di questo concetto essi svaniscono e
si dissolvono.
Queste entità non sussistono che in quanto mi sono superiori:
quali potenze. Potreste infatti immaginarvi uno Stato, che non
fosse tenuto in alcun conto dai cittadini? Una cosa simile sarebbe un sogno,
un'esistenza apparente, al par di quella della "Germania una".
E con tutto ciò la mia stampa potrebbe essere ancora per gran tempo serva,
vale a dire non libera, come, per esempio, in questo momento. Ma il mondo è
grande, e ognuno cerca d'aiutarsi come può. Se io volessi rinunziare alla mia
proprietà della stampa, io potrei ottenere in breve di vedere stampato
tutto ciò che le mie dita fossero capaci di scrivere. Ma siccome io voglio sostenere
e difendere la mia proprietà, io devo di necessità assalire i miei nemici,
"Non accetteresti tu il loro permesso, se te lo dessero? Certamente, e con
piacere; poiché ciò proverebbe che io li ho sedotti e che li ho scôrti
sull'orlo del precipizio. Poiché a me non importa già della loro concessione:
ciò che mi preme è che perdano la testa e che periscano. Io non aspiro ad
ottenere il loro permesso — poiché non so illudermi (come fanno i nostri
liberali politici) che sia possibile vivere in pace agitandosi l'uno accanto
all'altro — ma a valermene per distruggere coloro che me l'han dato. Io agisco
da nemico che sa quello che si fa, col sopraffarli approfittando della
loro leggerezza.
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