di
Han Ryner
Ho adottato la forma delle
domande e delle risposte molto comoda per un’esposizione rapida. Essa non
esprime nessuna esigenza dogmatica. Non c’è qui un maestro che interroga ed un
discepolo che risponde. C’è un individualista che si interroga. Ho voluto indicare
sin dalla prima riga che si tratta di un dialogo interiore. Mentre il
catechismo chiede «Siete cristiano?», io dico: «Sono un individualista?».
Ma, se esteso, il
procedimento andrebbe incontro ad inconvenienti e, una volta evidenziata la mia
intenzione, mi sono ricordato che il soliloquio impiega frequentemente la
seconda persona.
Si
troveranno alla rinfusa in questo opuscolo delle verità certe- ma la cui
certezza non si può scoprire che dentro se stessi. - e delle opinioni
probabili. Vi sono problemi che ammettono diverse risposte. Altri - eccetto la
soluzione eroica, che si può consigliare soltanto quando tutto il resto è
crimine - non hanno soluzione soddisfacenti e le quasi risposte che propongo
non sono superiori alle altre. Il lettore che non sapesse iniziare e,
approvando le verità, trovare delle probabilità analoghe alle mie probabilità e
spesso più armoniose a se stesso, sarebbe indegno, del nome di individualista.
In
mancanza di sviluppo o per altri motivi, lascerò spesso insoddisfatto lo spirito
anche il più fraterno. Non posso raccomandare agli uomini di buona volontà che
la lettura assidua del manuale di Epitteto. Là, meglio che altrove, si trova la
risposta alle nostre inquietudini e ai nostri dubbi. Là, più che altrove, colui
che è capace del vero coraggio, attingerà il coraggio.
Ad
Epitteto, ed anche ad altri, ho preso in prestito delle formule, senza credere
sempre necessario indicare i miei debiti. In un lavoro del genere qui
presentato, le cose importano, non la loro origine e si mangia più di un frutto
senza chiedere al giardiniere il nome del fiume o del ruscello che feconda il
suo giardino.
1. Dell’individualismo
e di alcuni individualisti
Intendo con individualismo
la dottrina morale che, non appoggiandosi su nessun dogma nessuna tradizione
nessuna volontà esterna, fa appello unicamente alla coscienza individuale. Si è
spesso dato il nome di individualismo a forme di dottrine destinate a coprire
con una maschera filosofica l’egoismo lassista o l’egoismo dominatore ed
aggressivo. Un esempio di individualismo lassista può essere offerto dalla
figura di Montaigne. Mentre tutti coloro che estendono alle relazioni tra gli
uomini la legge brutale della lotta per la sopravvivenza possono essere fatti
rientrare nel novero dell’individualismo dominatore ed aggressivo, come ad
esempio Stendhal e Nietzsche. Possiamo considerare esempi di veri
individualisti personaggi come Socrate, Epicuro, Gesù, Epitteto. Socrate non
insegnava una verità esterna a coloro che lo ascoltavano, ma insegnava loro a
trovare la verità in se stessi. Morì condannato dalle leggi e dai giudici,
assassinato dallo Stato, martire dell’individualismo. Lo si accusava di non
onorare gli dei che lo Stato onorava e di corrompere la gioventù, cioè di
professare opinioni sgradite al potere. Epicuro, sotto la sua elegante apatia,
fu un eroe. Seneca chiamava Epicuro “un eroe travestito da donna”. Egli di
positivo liberò i suoi discepoli dal timore degli dei o di Dio che è l’inizio
della pazzia. Sua grande virtù fu la temperanza. Egli distingueva tra i bisogni
naturali ed i bisogni immaginari. Mostrò che servivano ben poche cose per
soddisfare la fame e la sete, per difendersi dal caldo e dal freddo e si liberò
da tutti gli altri bisogni, cioè da quasi tutti i desideri e da quasi tutti i
timori che schiavizzano gli uomini. Morì a seguito di una lunga e dolorosa
malattia proclamando di essere perfettamente felice. Non conosciamo il vero
Epicuro in quanto dei discepoli infedeli hanno coperto con i loro vizi la sua
dottrina, così come si nasconde un’ulcera sotto un mantello rubato. Epicuro non
è colpevole di quel che gli hanno fatto dire falsi discepoli, non si è mai
colpevoli della stupidità o perfidia altrui. Ogni parola di verità, se è
ascoltata da molti uomini, è trasformata in menzogna dai superficiali, dagli
astuti e dai ciarlatani.
Gesù
visse libero ed errante, estraneo ad ogni legame sociale. Fu nemico dei
sacerdoti, dei culti esteriori e, in generale, di tutte le organizzazioni. Morì
perseguitato dai sacerdoti, abbandonato dall’autorità giudiziaria, inchiodato
sulla croce dai soldati. E, con Socrate, la più celebre vittima della
Religione, il più illustre martire dell’individualismo. Non conosciamo il vero
Gesù, in quanto i sacerdoti hanno crocefisso la sua dottrina come il suo corpo.
Hanno trasformato in veleno la bevanda vivificante. Sulle parole falsificate
del nemico delle organizzazioni e dei culti esteriori, hanno fondato la più
organizzata e la più pomposamente vuota delle religioni.
Gesù
non è colpevole di ciò che i discepoli ed i sacerdoti hanno fatto della sua
dottrina. Non si è mai responsabili della stupidità o perfidie altrui.
Epitteto,
lo stoico, sopportò coraggiosamente la povertà e la schiavitù. Fu perfettamente
felice nelle situazioni più penose per gli uomini ordinari. Il suo discepolo
Arriano ha raccolto alcune delle sue parole in un libretto intitolato Manuale
di Epitteto, la cui nobiltà precisa e senza cedimenti, la sua semplicità priva
di ciarlataneria me lo rendono molto più prezioso dei Vangeli. Il Manuale di
Epitteto è il più bello e liberatore di tutti i libri.
Nella
storia sono esistiti anche altri individualisti ma quelli che ho citato sono i
più puri ed i più facili da capire e se non cito i cinici come Antistene e
Diogene è perché la dottrina cinica non è che l’embrione di quella stoica. In
quanto a Zenone di Cizio, il fondatore dello stoicismo e che non ho nemmeno
nominato, la sua vita fu ammirevole e, secondo le testimonianze antiche non
smise mai di somigliare alla sua filosofia. Ma oggi è meno noto di coloro che
ho citato. Non nomino lo stoico Marco Aurelio perché fu imperatore.
Descartes
fu un individualista intellettuale. Non fu abbastanza nettamente un individualista
morale. La sua vera morale sembra sia stata stoica. Ma non osò renderla
pubblica. Fece conoscere soltanto una “morale provvisoria” in cui si raccomanda
di obbedire alle leggi e costumi del suo paese, il che è contrario
all’individualismo. Sembra d’altronde aver mancato di coraggio filosofico in
altre circostanze. La vita di Spinoza fu ammirevole. Egli viveva sobriamente,
di un po’ di grano di avena o di un po’ di zuppa al latte. Rifiutando la carne
che gli si offriva, guadagnò sempre il cibo con un lavoro manuale. La sua
dottrina morale è un misticismo stoico. Ma, troppo esclusivamente
intellettuale, egli professa una strana politica assolutista e non riserva
contro il potere che la libertà di pensare. Il suo nome fa d’altronde pensare
ad una grande potenza metafisica più ancora che ad una grande bellezza morale.
2. Preparazione
all’individualismo pratico.
Non è sufficiente
proclamarsi individualista. Una religione può accontentarsi dell’adesione
verbale e di alcuni gesti di adorazione. Una filosofia pratica che non sia
affatto praticata non è nulla. Le religioni possono mostrare più indulgenza
delle dottrine morali perché le divinità delle religioni sono dei monarchi
potenti. Salvano i fedeli attraverso grazie e miracoli. Accordano la salvezza
in cambio della legge, di certe parole rituali e di certi gesti convenuti.
Possono anche tenermi in conto gesti che non ho fatto fare e di parole che non
ho fatto pronunciare che da mercenari.
Per meritare realmente il
nome di individualista devo porre tutti i miei atti in accordo con il mio
pensiero, accordo meno arduo di quanto non sembri perché l’individualista che comincia
è trattenuto dai falsi beni e le cattive abitudini. Non si libera senza qualche
lacerazione. Ma il disaccordo tra i suoi atti ed il suo pensiero gli è più
arduo di tutte le sue rinunce. Ne soffre come il musicista soffre per una
mancanza di armonia. Il musicista non vorrebbe, per nessuna cosa al mondo,
trascorrere al propria vita in mezzo a suoni sgradevoli. Allo stesso modo la
mancanza di armonia è per me la peggiore di tutte le sofferenze.
Lo
sforzo per porre la propria vita in accordo con il proprio pensiero si chiama
virtù, essa non necessità di alcuna ricompensa in quanto la virtù è premio a se
stessa. Ciò significa che se penso ad una ricompensa, non sono virtuoso. La
virtù ha come prima particolarità il disinteresse e la virtù disinteressata
crea la felicità. La felicità è lo stato d’animo che si sente perfettamente
libero da ogni servitù estranea ed in perfetto accordo con se stessa. Il saggio
ha sempre bisogno di sforzi e di virtù. E sempre attaccato dall’esterno. Ma la
felicità non esiste, in effetti, che nell’anima in cui non vi sia più lotta
interiore.
Nella
ricerca della saggezza non si è infelici. Ogni vittoria, in attesa della
felicità, produce la gioia. Volendo distinguere tra gioia e felicità a titolo
di esempio si potrebbe sostenere che la gioia è la consapevolezza che si sta
procedendo verso la felicità. Un essere pacifico, costretto a lottare, riporta
una vittoria che lo avvicina alla pace: prova gioia. Giunge infine ad una pace
che nulla può turbare: è felice.
E
raro che si possa tentare senza imprudenza la perfezione immediata. Gli
impazienti corrono il rischio di regredire e scoraggiarsi. Per prepararsi alla
perfezione conviene andare da Epitteto passando per Epicuro. Bisogna
innanzitutto porsi dal punto di vista di Epicuro e distinguere i bisogni
naturali dai bisogni immaginari. Quando saremo capaci di respingere
praticamente tutto ciò che non è necessario alla vita; quando disprezzeremo il
lusso e le mollezze, quando assaporeremo la voluttà fisica che scaturisce dai
nutrimenti e dalle bevande semplici; quando il nostro corpo conoscerà tanto
bene quanto la nostra anima la bontà del pane e dell’acqua: potremo allora
progredire ulteriormente.
Non
resterebbe da capire che, anche privati di pane ed acqua, saremmo felici; che,
nella malattia più dolorosa e più priva di soccorsi, saremmo felici; che, anche
morendo nei supplizi ed in mezzo alle ingiurie di tutti, saremmo felici. Questo
vertice di saggezza è accessibile a tutti gli uomini di buona volontà che
provano un’attrazione naturale verso l’individualismo. Il cammino intellettuale
che porta a questo vertice è la dottrina stoica dei veri beni e dei veri mali.
La si chiama anche la dottrina delle cose che dipendono da noi e delle cose che
da noi non dipendono. Le nostre opinioni, i nostri desideri, le nostre
inclinazioni, le nostre avversioni, in una parola tutte le nostre azioni
interiori appartengono alle cose che dipendono da noi. Le cose che non
dipendono da noi riguardano ad esempio il corpo, le ricchezze, la reputazione,
le distinzioni, cioè tutte le cose che non appartengono al numero delle nostre
azioni interne.
Le
caratteristiche delle cose che dipendono da noi sono libere per natura, nulla
può fermarle o fungere per loro da ostacolo. Le caratteristiche delle cose che
non dipendono sono di essere deboli, schiavistiche, soggette a molti ostacoli
ed inconvenienti ed totalmente estranee all’uomo. L’altro nome delle cose che
non dipendono da noi è detto anche delle cose indifferenti perché nessuna di
esse è un vero bene o un vero male. Colui che scambia le cose indifferenti per
dei beni o per dei mali trova ovunque degli ostacoli, è afflitto, turbato, si
lamenta delle cose e degli uomini. Prova anzi un più grande male ancora: è
schiavo dei desideri e del timore.
Chi
sa praticamente che le cose che non dipendono da noi sono indifferenti, è
invece libero. Nessuno può forzarlo a fare quel che non vuole fare o impedirlo
di fare ciò che vuole. Non ha da lamentarsi di nulla e di nessuno. Le cose
esterne, come la malattia, la prigione, la povertà possono diminuire la libertà
del mio corpo e dei miei movimenti. Non sono degli impedimenti per la mia
volontà, se non ho la follia di voler ciò che non dipende da me.
La
dottrina di Epicuro è sufficiente per tutto il corso della vita se posseggo le
cose necessarie alla vita stessa e se mi comporto bene. Mi restituisce la gioia
degli animali che non si creano delle preoccupazioni e dei mali immaginari. Ma,
nella malattia o nella fame, non bastano più.
La
dottrina di Epicuro può essere sufficiente per le relazioni sociali correnti.
Mi libera da ogni tiranno che non hanno potere che sul mio superfluo. Non è più
sufficiente se il tiranno può privarmi del pane; se può mettermi a morte o
ferire il mio corpo. Chiamo tiranno chiunque, agendo sulle cose indifferenti,
come le mie ricchezze o il mio corpo, pretende di agire sulla mia volontà.
Chiamo tiranno chiunque cerca di modificare il mio stato d’animo con mezzi
diversi alla persuasione ragionevole.
Qualunque
sia il mio presente, ignoro l’avvenire. Ignoro se la grande aggressione in cui
l’epicureismo non basta più non mi costringa a qualche deviazione nella mia
vita. Devo dunque, sin da quando ho raggiunto la saggezza epicurea, lavorare a
fortificarmi ulteriormente, sino all’invulnerabilità stoica. Nella
tranquillità, potrei vivere serenamente e sobriamente come Epicuro, ma con lo
spirito di Epitteto. Proporsi un modello come Socrate, Gesù o Epitteto non è
utile alla perfezione perché devo realizzare la mia armonia, non quella di un
altro.
Vi
sono due specie di doveri: i doveri universali ed i doveri personali. I primi
sono quelli che si impongono ad ogni uomo saggio mentre i doveri personali
quelli che si impongono particolarmente a me. Sono un essere particolare che si
trova in situazioni particolari. Ho un certo grado di forza fisica, di forza
intellettuale e posseggo un certo grado di ricchezze. Ho un passato da
continuare. Devo lottare contro un destino ostile o collaborare con un destino
favorevole. Tranne alcune eccezioni, i doveri universali sono dei doveri
d’astensione. Quasi tutti i doveri d’azione sono dei doveri personali. Anche in
circostanze rare in cui l’azione si impone a tutti, il dettaglio dell’azione
porterà il segno dell’agente, sarà come la firma dell’artista morale. Il dovere
personale non può contraddire il dovere universale. È come il fiore che non può
crescere se non sulla pianta.
I
miei doveri personali non sono quelli di Socrate, Gesù o Epitteto, non somiglia
loro affatto se non conduco una vita apostolica.. I miei doveri personali e
quelli universali mi sono insegnati dalla mia coscienza, è essa che mi dice ciò
che mi aspetterei da ogni uomo saggio, dicendomi ciò che devo esigere da me.
Non vi sono doveri difficili per il saggio. Prima che io abbia raggiunto la
saggezza, il pensiero di Socrate, di Gesù, di Epitteto, mi sarà forse utile nei
momenti di difficoltà. Ma non mi rappresenterò mai questi grandi individualisti
come dei modelli. Me li raffigurerò come dei testimoni. E desidererei che essi
non biasimino la mia condotta.
Ogni
colpa riconosciuta come tale prima di essere commessa che la si consideri
leggera o grave è grave. Teoricamente, per giudicare la mia situazione o quella
d’altri nella via della saggezza, posso distinguere tra colpe gravi e colpe
leggere. Chiamerò colpa leggera quella che Epitteto biasimerebbe e che Epicuro
non biasimerebbe affatto e chiamerei colpa grave quella che biasimerebbe anche
l’indulgenza di Epicuro.
3. Delle relazioni
degli individui tra loro.
La formula dei doveri verso
gli altri è: “Amerai il tuo prossimo come te stesso e amerai il tuo Dio sopra
ogni cosa”. Il prossimo sono gli altri uomini, dotati di ragione e di volontà,
sono più vicini a me stesso degli animali i quali ultimi hanno in comune con me
la vita, la sensibilità, l’intelligenza. Questi caratteri comuni mi creano dei
doveri verso gli animali: di non farli soffrire, di evitare loro sofferenze
inutili e di non ucciderli senza necessità. L’assenza di ragione e di volontà
presso gli animali, che non fa di loro delle persone, mi dà il diritto di
servirmi di loro nella misura delle loro forze e di trasformarli in strumenti.
Non
ho il diritto di considerare una persona come un mezzo. Ogni persona è uno
scopo, un fine. Non posso che chiedere alle persone che dei servizi che esse mi
accordano liberamente, per benevolenza o in cambio di altri servizi. Non vi
sono razze inferiori. L’individuo nobile può fiorire in tutte le razze. Eccetto
il pazzo, ogni uomo è capace di ragione e di volontà. Però molti non ascoltano
che le loro passioni e non hanno che capricci. È tra di essi che si incontrano
coloro che hanno la pretesa di comandare. Con questi individui incompleti non
posso farmi degli strumenti. Li devo considerare come dei bambini bloccati nel
loro sviluppo, ma in cui l’uomo forse domani si sveglierà. Gli ordini di coloro
che hanno la pretesa di comandare non possono essere che capricci di bambini o
fantasie di pazzi.
Devo
amare il prossimo come me stesso. Queste parole significano allo stesso modo in
cui io mi devo amare. E io mi devo amare così come insegna la seconda parte
della formula che recita: “Amerai il tuo Dio sopra ogni cosa”. Dio ha molti
sensi: ha un senso differente in ogni religione o metafisica e ha un senso
morale. Dio è il nome della perfezione morale e nella formula d’amore, il
possessivo TUO: “Tu amerai il TUO Dio”, il mio Dio, è la mia perfezione morale.
Al
di sopra di ogni cosa devo amare la mia ragione, la mia libertà, la mia armonia
interiore, la mia felicità, perché sono questi gli altri nomi di Dio. Il mio
Dio esige che gli sacrifichi i miei desideri ed i miei timori esige che io
disprezzi i falsi beni e che io sia “povero di spirito”. Esige anche che io sia
pronto a sacrificargli la mia sensibilità e, se necessario, la mia vita. Nel
mio prossimo amerò dunque il suo Dio, cioè la sua ragione, la sua armonia
interiore, la sua felicità. Verso la sensibilità del mio prossimo ho gli stessi
doveri che verso la sensibilità degli animali o verso la mia: non creerò né
negli altri né a me inutili sofferenze.
Non
posso creare attivamente della sofferenza utile. Ma alcune astensioni
necessarie avranno come conseguenza della sofferenza negli altri o in me. Non
devo sacrificare di più il mio Dio alla sensibilità altrui che alla mia
sensibilità. I miei doveri verso la vita altrui consistono nel non dover ne
uccidere ne ferire il mio prossimo. Si ha diritto di uccidere nel caso della
legittima difesa, sembra che la necessità crei il diritto di uccidere. Ma,
quasi sempre, se sono abbastanza bravo, conserverò il sangue freddo che
permette di salvarsi senza uccidere. L’astenersi dalla difendersi durante un
attacco, è, in effetti, in questo caso, il segno di una virtù superiore, la
vera soluzione eroica. Di fronte alla sofferenza altrui vi sono delle
astensioni ingiustificate equivalenti a cattive azioni. Se lascio morire chi
posso salvare senza commettere un crimine, sono un vero assassino. Una
citazione di Bossuet può illustrare ciò: "questo ricco inumano ha
spogliato il povero perché non l’ha rivestito, lo ha sgozzato crudelmente
perché non l’ha nutrito".
La
sincerità è il mio primo dovere verso gli altri e verso me stesso, la
testimonianza che il mio Dio esige come un sacrificio continuo, come una fiamma
che non devo mai lasciare spegnere. La più sincerità più necessaria è la
proclamazione delle mie certezze morali. Al secondo posto la sincerità
nell’espressione delle mie opinioni. L’esattezza nell’esposizione dei fatti è
meno importante delle due grandi sincerità filosofica e delle opinioni. Il
saggio ciò malgrado l’osserva.
Vi
sono tre tipi di menzogne. La prima è la menzogna maliziosa, che ha come scopo
il nuocere ad altri e che è un crimine ed una vigliaccheria. La menzogna
ufficiosa, è la seconda, è quella che ha per scopo la mia utilità o quella
d’altri. Quando la menzogna ufficiosa non contiene nessun elemento nocivo, il
saggio non la biasima negli altri ma la evita per sé. Vi sono dei casi in cui
la menzogna ufficiosa potrebbe imporsi se potesse salvare la vita a qualcuno.
In questo caso, il saggio potrebbe proferire una menzogna non concernente che i
fatti. Ma quasi sempre, invece di mentire, rifiuterà di rispondere.
Il
terzo tipo di menzogna è la menzogna scherzosa che il saggio si proibisce
perché essa sacrifica ad un gioco l’autorità della parola che, conservata, può
qualche volta essere utile ad altri.
Il
saggio non si proibisce nessuna narrazione ammessa e gli può accadere di
raccontare delle parabole, delle fiabe, dei simboli o dei miti.
Le
relazioni tra l'uomo e la donna devono essere, come tutte le relazioni tra
persone, assolutamente libere da entrambe le parti. Esse devono esprimere una
reciproca sincerità.
Il
reciproco amore è la più bella cosa tra quelle indifferenti, la più vicina
all'essere una virtù. Fa la nobiltà del baciare. Se il bacio senza amore è
l'incontro di due desideri e di due piaceri, non costituisce una colpa.
4. Della Società
Ho delle relazioni non
soltanto con degli individui isolati, ma anche con diversi gruppi sociali e, in
modo generale, con la società.
La
società è la riunione degli individui per un'opera comune che può essere buona
a certe condizioni. Essa lo sarà se, per reciproco amore o per amore
dell'opera, gli operai agiscono del tutto liberamente, e se i loro sforzi si
raggruppano e si sostengono in una coordinazione armoniosa. Di fatto, l'opera
sociale non ha alcun carattere di libertà. Gli operai vi sono subordinati gli
uni agli altri. I loro sforzi non sono i gesti spontanei ed armoniosi
dell'amore, ma i gesti disarmonici della costrizione. Da questo carattere
dell'ordine sociale concludo che l'opera sociale è cattiva.
Il
saggio considera la società come un limite. Si sente sociale così come si sente
mortale. Considera i limiti come delle necessità materiali e li subisce
fisicamente con indifferenza. Per colui che è in cammino verso la saggezza, i
limiti costituiscono dei pericoli perché chi non distingue ancora praticamente,
con una sicurezza incrollabile, le cose che dipendono da lui e le cose
indifferenti, rischia di tradurre le costrizioni materiali in costrizioni
morali.
L'individualista
imperfetto di fronte alla costrizione sociale deve difendere contro di essa la
sua ragione e la sua volontà. Respingerà i pregiudizi che essa impone agli
altri uomini, si proibirà di amarlo o di odiarlo; si libererà progressivamente
di ogni timore e di ogni desiderio nei suoi confronti; si volgerà verso la
perfetta indifferenza, che è la saggezza di fronte alle cose che non dipendono
da lui.
Il
saggio si proibisce ogni speranza, anche di una società migliore, pone in
evidenza che i saggi sono rari in ogni epoca e che non c'è progresso morale. Il
saggio fa notare che i progressi materiali hanno per oggetto di accrescere i
bisogni artificiali degli uni ed il lavoro degli altri. Il progresso materiale
gli appare come un peso crescente che affonda sempre più l'umanità nel fango e
nell'afflizione.
L'invenzione
di macchine perfezionate ha sempre aggravato il lavoro. Lo ha reso più penoso e
meno armonioso. Ha sostituito l'iniziativa libera ed intelligente con una precisione
servile e temibile. Ha fatto dell'operaio, un tempo padrone sorridente degli
utensili, lo schiavo tremante della macchina. La macchina che moltiplica i
prodotti non diminuirà la quantità di lavoro da effettuare da parte dell'uomo
perché l'uomo è avido e la follia dei bisogni immaginari cresce a misura che la
si soddisfa. Più lo stolto ha delle cose superflue e più vuole averne.
Il
saggio non esercita un'azione sociale. Il saggio pone in evidenza che, per
esercitare un'azione sociale, bisogna agire sulle masse e che non si agisce
affatto sulle masse attraverso la ragione, ma con le passioni. Non si crede in
diritto di sollevare le passioni degli uomini. L'azione sociale gli appare come
una tirannia e si astiene dal prendervi parte. Il saggio sa che queste parole:
"la felicità del popolo" non hanno alcun senso. La felicità è
interiore ed individuale; non si può produrla che in se stessi. Il saggio sa
che l'oppresso che si lamenta aspira a diventare oppressore. Lo soccorre nei
limiti dei suoi mezzi ma non crede alla salvezza attraverso l'azione comune. Il
saggio evidenzia che le riforme cambiano i nomi delle cose, non le cose stesse.
Lo schiavo è diventato il servo, poi il salariato. Non si è riformato che il
linguaggio. Il saggio resta indifferente a queste questioni di filologia.
L'esperienza
prova al saggio che le rivoluzioni non hanno mai risultati durevoli. La ragione
gli dice che la menzogna non si confuta con la menzogna e che la violenza non
si distrugge con la violenza. Il saggio considera l'anarchia come un'ingenuità.
L'anarchico crede che il governo è il limite della libertà.
Spera,
distruggendo il governo, di elargire la libertà. Il vero limite non è il
governo ma la società. Il governo è un prodotto sociale come un altro. Non si
distrugge un albero tagliando uno dei suoi rami.
La
società è inevitabile come la morte. Sul piano materiale, la nostra potenza è
debole contro tali limiti. Ma il saggio distrugge in sé il rispetto ed il
timore della società così come distrugge in sé il timore della morte. È
indifferente alla forma politica e sociale dell'ambiente in cui vive così come
è indifferente al genere di morte che lo aspetta. Il saggio sa che non si
distrugge né l'ingiustizia sociale né l'acqua del mare. Ma si sforza di salvare
un oppresso da una giustizia particolare, così come si getta in acqua per
salvare un annegato.
5. Delle relazioni sociali
Il lavoro è una legge
naturale aggravata dalla società in tre modi:
1° Essa dispensa
arbitrariamente un certo numero di uomini da ogni lavoro e getta la loro parte
del fardello sugli altri uomini;
2° Essa impiega molti uomini
in lavori inutili, a delle funzioni sociali;
3° Essa moltiplica presso
tutti e soprattutto presso i ricchi i bisogni immaginari ed impone al povero
l'odioso lavoro necessario alla soddisfazione di questi bisogni.
La legge del lavoro è
naturale perché il mio corpo ha dei bisogni naturali che soltanto i prodotti
del lavoro soddisferanno. Il solo lavoro che si possa considerare tale è il
lavoro manuale. Il solo bisogno naturale delle nostre facoltà intellettuali, è
l'esercizio. Lo spirito resta sempre un bambino felice che ha bisogno di
movimento e di gioco. Lo spettacolo della natura, l'osservazione delle passioni
umane ed il piacere delle conversazioni basterebbero ai bisogni naturali dello
spirito.
Non
condanno l'arte, la scienza e la filosofia. Simili all'amore, essi sono nobili
finché restano disinteressati. Nell'arte, nella scienza, nella filosofia,
nell'amore, la voluttà che provo nel dedicarmici non deve essere pagata da
colui che gusta la voluttà di ricevere. Se vi sono degli artisti che creano con
difficoltà e degli scienziati che ricercano con fatica, non vedo perché queste
povere persone non vi si astengono.
Dallo
scienziato e dall'artista, così come dall'innamorato o dall'innamorata, la
natura esige un lavoro manuale poiché essa impone loro, così come agli altri
uomini, dei bisogni materiali. L'infermo ha anch'egli dei bisogni materiali ma
non si può avere nei suoi confronti la crudeltà di imporgli una cosa di cui
egli è incapace, ma non considero come infermità la bellezza del corpo o la
potenza del pensiero.
L'individualista
lavorerà dunque con le sue mani per quanto gli è possibile, perché la società
ha reso difficile l'obbedienza alla legge naturale. Non c'è lavoro manuale
remunerativo per tutti. Di solito, ci si sveglia all'individualismo troppo
tardi per fare l'apprendistato di un mestiere naturale. La società ha rubato a
tutti, per consegnarlo a qualcuno, il grande strumento del lavoro naturale, la
terra.
L'individualista
può dunque, nello stato attuale delle cose, vivere di un bisogno che egli non
considera come un vero lavoro. Può anche essere un funzionario, ma non può
acconsentire ad ogni genere di funzioni. Egli si asterrà da ogni funzione
dell'ordine amministrativo, dell'ordine giudiziario o dell'ordine militare. Non
sarà prefetto o poliziotto, ufficiale, giudice o carnefice, perché
l'individualista non può essere del numero dei tiranni sociali. Egli potrà
accettare le funzioni che non nuocciono agli altri. Al di fuori delle funzioni
retribuite dal governo, vi sono delle carriere nocive da cui l'individualista
si asterrà, come dal furto, la banca, lo sfruttamento delle donne, lo sfruttamento
dell'operaio.
Nelle
sue relazioni con i suoi inferiori sociali, l'individualista rispetterà le loro
personalità e la loro libertà. Non dimenticherà mai che il dovere professionale
è una finzione, ed il dovere umano la sola realtà morale. Non dimenticherà mai
che le gerarchie sono delle follie e agirà naturalmente, non socialmente, con
degli uomini che la menzogna sociale afferma essere suoi inferiori, ma di cui
la natura ha fatto i suoi eguali.
L'individualista
eviterà dall'astenersi dalle relazioni esteriori con i suoi inferiori sociali
che potrebbero offenderli. Ma li vedrà poco, per timore di trovarli socievoli e
non naturali; e cioè per timore di trovarli servili, infastiditi o ostili. Con
i suoi colleghi o i suoi confratelli, l'individualista sarà cortese e
servizievole. Ma, per quanto sarà in suo potere farlo senza ferirli, eviterà la
loro conversazione per difendersi contro due veleni sottili: lo spirito di
corpo e l'abbrutimento professionale.
Con
i suoi superiori sociali l'individualista non dimenticherà che le loro parole
trattano quasi sempre di cose indifferenti. Ascolterà con indifferenza e
risponderà il meno possibile. Non farà obiezioni. Non indicherà dei metodi che
gli sembreranno migliori. Eviterà ogni discussione inutile, perché di solito il
superiore sociale è un bambino vanitoso ed irritabile.
Se
il superiore ordina non più una cosa indifferente, ma un'ingiustizia o una
crudeltà, l'individualista si rifiuterà di obbedire. La disobbedienza non gli
farà correre dei pericoli perché diventare lo strumento dell'ingiustizia e del
male, è la morte della ragione e della libertà. Ma la disobbedienza all'ordine
ingiusto non mette in pericolo che il corpo e le risorse materiali, che sono
nel numero delle cose indifferenti. Davanti all'ordine l'individualista dirà
mentalmente al capo ingiusto: Sei l'incarnazione moderna del tiranno. Ma il
tiranno non può nulla contro il saggio.
L'individualista
spiegherà il suo rifiuto di obbedire se crede che il capo sociale sia capace di
capire e tornare sul proprio errore, cosa di cui che quasi sempre, il capo
sociale è incapace.
Davanti
ad un ordine ingiusto, il rifiuto di obbedire è il solo dovere universale. La
forma del rifiuto dipende dalla mia personalità.
L'individualista
considera la massa come una delle più brutali tra le forze naturali. In una
massa che non sta compiendo del male si sforza di non sentirsi in conformità
con essa e di non lasciarsi annegare, nemmeno per un momento, la sua
personalità per rimanere un uomo libero. Perché in qualunque istante, un
imprevisto può far scattare la crudeltà della massa, e colui che avrà
cominciato a sentire come essa, colui che farà veramente parte della massa
faticherà molto nel doversi sganciare nel momento dello slancio morale.
L'individualista
che si trova tra la massa che cerca di compiere un'ingiustizia o una crudeltà,
si opporrà con tutti i mezzi nobili o indifferenti all'ingiustizia o alla
crudeltà. In queste circostanze il saggio non ricorrerà alla menzogna, alla
preghiera o alla adulazione. Il saggio potrà rivolgere alla massa, come ad un
bambino quegli elogi che sono l'involucro ironicamente amabile dei consigli. Ma
saprà che il limite è incerto e l'impresa pericolosa. Vi si azzarderà solo se è
molto sicuro non soltanto della fermezza della sua anima, ma anche della
sottigliezza della sua parola.
Il
saggio non si appellerà mai nei tribunali perché ciò si fa per interessi
materiali ed indifferenti, ciò significa sacrificare all'idolo sociale e
riconoscere la tirannia. Vi è inoltre viltà nel chiamare al proprio soccorso la
potenza di tutti.
Il
saggio se è accusato, potrà, secondo il proprio carattere, dire la verità
oppure opporre alla tirannia sociale lo sdegno ed il silenzio.
Se
l'individualista si riconosce colpevole confesserà la propria colpa reale e
naturale, la distinguerà nettamente dalla colpa evidente e sociale per il quale
lo si perseguita. Aggiungerà che la sua coscienza gli infligge per la sua vera
colpa il vero castigo. Ma la società, che non agisce che sulle cose
indifferenti, gli infliggerà, per la sua colpa evidente, una punizione
evidente. Se il saggio accusato è innocente davanti alla propria coscienza e
colpevole davanti alle leggi, spiegherà come il suo crimine legale è
un'innocenza naturale. Confesserà il suo disprezzo per la legge,
quest'ingiustizia organizzata e questa impotenza che non può nulla su si noi,
ma soltanto sul nostro corpo e le nostre ricchezze, cose indifferenti.
Se
il saggio accusato è innocente davanti alla propria coscienza e colpevole
davanti alla legge, potrà soltanto proclamare la sua innocenza reale. Se si
degna di spiegare le sue due innocenze, dichiarerà che soltanto la prima gli
importa.
Il
saggio non rifiuterà mai la sua testimonianza davanti ai tribunali civili nei
confronti del debole oppresso. Il saggio testimonierà [en correctionnelle] e
davanti alle assise, se conosce una verità utile all'accusato Se il saggio
conosce una verità nociva all'accusato tacerà, perché una condanna è sempre
un'ingiustizia ed il saggio non si rende complice di un'ingiustizia. Una
condanna è sempre un'ingiustizia perché nessun uomo ha il diritto di infliggere
la morte ad un altro uomo o di farlo rinchiudere in prigione.
La
società, unione di individui, non può avere un diritto che non si trovi in
nessun individuo. Degli zero addizionati, per quanto numerosi essi siano, danno
sempre zero come totale.
Il
diritto di legittima difesa non dura più a lungo dell'attacco stesso. Il
saggio, chiamato a far parte di una giuria, potrà rifiutarsi di farvi parte
oppure vi acconsentirà. In quest'ultimo caso risponderà sempre NO alla prima
domanda: L'accusato è colpevole? Questa risposta non sarà mai una menzogna
perché la domanda del presidente deve essere così tradotta: Volete voi che
infliggiamo una pena all'accusato? Sono obbligato a rispondere NO, perché non
ho il diritto di infliggere condanne a nessuno.
Ogni
appello alla violenza è un male. Ma il duello è un male minore dell'appello in
giustizia perché non è una viltà, non grida al soccorso e non impiega contro
uno la forza di tutti.
6. Dei sacrifici agli
idoli
Posso lasciare con
indifferenza gli idoli del mio tempo e del mio paese e prendere le cose
indifferenti. Il mio Dio è proclamato dalla mia coscienza non appena essa è la
mia voce e non più un eco. Ma gli idoli sono opera della società. Il mio Dio
non desidera che il sacrificio delle cose indifferenti. Gli idoli esigono il
sacrificio di me stesso.
Gli
idoli proclamano come virtù le bassezze più servili, disciplina ed obbedienza
passiva. Esse esigono il sacrificio della mia ragione e della mia volontà. Non
contenti di voler distruggere ciò che è loro superiore e che non ho mai il
diritto di abbandonare, gli idoli vogliono che io sacrifichi ciò che non mi
appartiene in alcun modo, la vita del mio prossimo.
Il
vero Dio è eterno ed immenso. È sempre e ovunque che devo obbedire alla mia
ragione. Ma gli idoli variano con il tempo ed i paesi. Un tempo, mi si chiedeva
di sopprimere la mia ragione e di uccidere il mio prossimo per la gloria di non
so quale Dio estraneo ed esteriore a me o per la gloria del Re. Oggi, mi si
chiedono gli stessi sacrifici abominevoli per l'onore della Patria. Domani, li
si esigerà forse per l'onore della Razza, del Colore o della Parte del Mondo.
L'idolo
evita per quanto possibile di cambiare nome. Ma cambia spesso. In un paese
vicino, l'idolo Patria era la Prussia; oggi sotto lo stesso nome, l'idolo è la
Germania. Chiedeva al Prussiano di uccidere il Bavarese. Più tardi, chiederà al
Prussiano ed al Bavarese di uccidere il Francese. Il Savoiardo ed il Nizzano
rischiavano nel 1859 di inchinarsi davanti ad una patria a forma di stivale; i
casi della diplomazia fanno loro adorare una patria esagonale. Il Polacco esita
tra un idolo morto ed un idolo vivo; l'Alsaziano tra due idoli viventi, che
pretendono allo stesso nome di Patria.
I
principali idoli attuali in alcuni paesi sono il Re o l'Imperatore; in altri,
una cosa fraudolenta chiamata Volontà del Popolo. Dappertutto l'Ordine, il
Partito politico, la Religione, la Patria, la Razza, il Colore della pelle. Non
bisogna dimenticare l'opinione pubblica con i suoi mille nomi, dal più
enfatico, l'Onore, sino al più trivialmente basso, il Cosa diranno gli altri.
Il
colore della pelle è un idolo pericoloso, soprattutto quello bianco. Gli
succede di unire in uno stesso culto Francesi, Tedeschi, Russi ed Italiani e di
ottenere da tutti quei nobili sacerdoti il sacrificio sanguinario di un gran
numero di Cinesi. Il razzismo bianco è esso a fare dell'intera Africa un
inferno. È esso che ha distrutto gli Indiani d'America e che fa linciare i
neri. Gli adoratori del Colore bianco della pelle offrono oltre a del sangue al
loro idolo anche molte lodi. Ma quando esige un crimine, la liturgia chiama
questo crimine una necessità della Civiltà e del Progresso. Soprattutto quando
si allea alla Religione. A questi Alleati si devono le guerre mediche, le
conquiste dei Saraceni, le Crociate, il massacro degli Armeni, l'antisemitismo.
Oggi
l'idolo più esigente e più universalmente rispettato è la Patria, le cui
esigenze più particolari sono il servizio militare e la guerra.
L'individualista può essere un soldato in tempo di pace, finché non gli si
ordina nessun crimine. Il saggio in tempo di guerra non dimentica mai l'ordine
del vero Dio, della Ragione: Non ucciderai. E preferisce obbedire a Dio che
agli uomini.
La
coscienza universale ordina raramente degli atti determinati. Comporta quasi
sempre delle difese. Proibisce di uccidere o di ferire il suo prossimo e su
questo punto, non dice nulla di più. I metodi sono indifferenti o costituiscono
i doveri personali. Il saggio può rimanere in tempo di guerra un soldato, se è
ben sicuro di non lasciarsi trascinare ad uccidere o a ferire. Il rifiuto
formale e manifesto ad obbedire a degli ordini sanguinari può diventare un
dovere severo, se il saggio, se per il suo passato, o per altre ragioni, si
trova in una di quelle situazioni che attirano l'attenzione. Se il suo
atteggiamento rischia di scandalizzare o di edificare, può trascinare altri
uomini verso il bene o verso il male.
Il
saggio non spara sull'ufficiale che dà un ordine sanguinario, egli non uccide
nessuno. Sa che il tirannicidio è un crimine così come ogni omicidio
volontario.
7. Dei rapporti della morale e della
metafisica.
I rapporti della morale e
della metafisica sono concepiti in tre modi: 1° La morale è una conseguenza
della metafisica, una metafisica in atto; 2° La metafisica è una necessità ed
un postulato della morale; 3 la morale e la metafisica sono indipendenti l'una
dall'altra.
La
dottrina che fa dipendere la morale dalla metafisica è pericolosa. Essa
appoggia il necessario sul superfluo, il certo sull'incerto, la pratica sul
sogno. Trasforma la vita morale in un sonnambulismo tremante di timori e
speranze. La dottrina che fonda la metafisica sulla verità morale, sembra
innanzitutto dare tutto alla morale. In realtà, se si presenta come altra cosa
che un metodo di fantasia, se ha la pretesa di condurre alla certezza, essa è
menzogna ed immoralità intellettuale, poiché afferma come realtà ciò che non
possono essere che desideri e speranze.
La
concezione che rende la morale e la metafisica indipendenti l'una dall'altra è
la sola sostenibile dal punto di vista morale. È ad essa che bisogna attenersi
nella pratica. Teoricamente, le due prime concezioni non racchiudono nessuna
parte di verità. False moralmente, esse esprimono un'opinione metafisica
probabile. Esse significano che tutte le realtà si reggono e che vi sono tra
l'uomo e l'universo degli stretti rapporti. L'individualismo sembra poter
coesistere con le metafisiche più diverse. Sembra che Socrate ed i Cinici
abbiano avuto qualche del disprezzo per la metafisica. Gli Epicurei sono
materialisti. Gli Stoici sono panteisti.
Considero
le dottrine metafisiche in generale come dei bei poemi e mi piacciono per la
loro bellezza. La bellezza dei poemi metafisici risiede in due condizioni: 1°
deve essere considerata come una spiegazione possibile ed ipotetica, non come
un sistema di certezze e non deve negare i poemi vicini; 2° deve spiegare ogni
cosa con un armoniosa riduzione all'unità.
Nei
confronti delle metafisiche affermative, dobbiamo generosamente spogliarle
delle bruttezze e del sudiciume dell'affermazione, per considerarle come dei
poemi e dei sistemi da sogno. Le metafisiche dualiste sono delle spiegazioni
provvisorie, delle semi-metafisiche. Non vi sono delle metafisiche vere; ma le
sole vere metafisiche sono quelle che approdano ad un monismo. L'individualismo
non è la morale assoluta. È soltanto il più forte metodo morale che conosciamo,
la più imprendibile cittadella della virtù e della felicità. L'individualismo
non è adatto a tutti gli uomini, ve ne sono a cui l'asprezza ripugna
invincibilmente. Costoro devono scegliere un altro metodo morale.
Posso
sapere se l'individualismo è adatto alla mia natura dopo un tentativo leale, se
mi sento infelice; se non sento di essere nel vero rifugio; se sono turbato
dalla pietà per me stesso e per gli altri, devo rifuggire dall'individualismo,
perché questo metodo, troppo forte per la mia debolezza, mi condurrebbe
all'egoismo o allo scoraggiamento.
Se
sono troppo debole per il metodo individualista, mi creerò una vita morale
attraverso un altro metodo, con l'altruismo, l'amore, la pietà. Questo metodo
morale non mi condurrà a delle azioni diverse dalle azioni dell'individualista.
Gli esseri veramente morali compiono tutti le stesse azioni e soprattutto si
astengono tutti dalle stesse azioni. Ogni essere morale rispetta la vita degli
altri uomini; nessun essere morale si preoccupa di guadagnare delle ricchezze
inutili, ecc. L'altruista che tentò inutilmente con il metodo individualista si
dirà: devo compiere lo stesso cammino. Ho abbandonato soltanto l'armatura
troppo pesante per me e che mi attirava dalla sorte e dagli uomini dei colpi
troppo violenti. Ed ho preso il bastone del pellegrino. Ma mi ricorderò sempre
che posseggo questo bastone per sostenermi, non per colpire altri.
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