lunedì 26 novembre 2012

Piccolo manuale dell'individualista



di
Han Ryner

Ho adottato la forma delle domande e delle risposte molto comoda per un’esposizione rapida. Essa non esprime nessuna esigenza dogmatica. Non c’è qui un maestro che interroga ed un discepolo che risponde. C’è un individualista che si interroga. Ho voluto indicare sin dalla prima riga che si tratta di un dialogo interiore. Mentre il catechismo chiede «Siete cristiano?», io dico: «Sono un individualista?».
Ma, se esteso, il procedimento andrebbe incontro ad inconvenienti e, una volta evidenziata la mia intenzione, mi sono ricordato che il soliloquio impiega frequentemente la seconda persona.
Si troveranno alla rinfusa in questo opuscolo delle verità certe- ma la cui certezza non si può scoprire che dentro se stessi. - e delle opinioni probabili. Vi sono problemi che ammettono diverse risposte. Altri - eccetto la soluzione eroica, che si può consigliare soltanto quando tutto il resto è crimine - non hanno soluzione soddisfacenti e le quasi risposte che propongo non sono superiori alle altre. Il lettore che non sapesse iniziare e, approvando le verità, trovare delle probabilità analoghe alle mie probabilità e spesso più armoniose a se stesso, sarebbe indegno, del nome di individualista.
In mancanza di sviluppo o per altri motivi, lascerò spesso insoddisfatto lo spirito anche il più fraterno. Non posso raccomandare agli uomini di buona volontà che la lettura assidua del manuale di Epitteto. Là, meglio che altrove, si trova la risposta alle nostre inquietudini e ai nostri dubbi. Là, più che altrove, colui che è capace del vero coraggio, attingerà il coraggio.
Ad Epitteto, ed anche ad altri, ho preso in prestito delle formule, senza credere sempre necessario indicare i miei debiti. In un lavoro del genere qui presentato, le cose importano, non la loro origine e si mangia più di un frutto senza chiedere al giardiniere il nome del fiume o del ruscello che feconda il suo giardino.


1. Dell’individualismo e di alcuni individualisti
Intendo con individualismo la dottrina morale che, non appoggiandosi su nessun dogma nessuna tradizione nessuna volontà esterna, fa appello unicamente alla coscienza individuale. Si è spesso dato il nome di individualismo a forme di dottrine destinate a coprire con una maschera filosofica l’egoismo lassista o l’egoismo dominatore ed aggressivo. Un esempio di individualismo lassista può essere offerto dalla figura di Montaigne. Mentre tutti coloro che estendono alle relazioni tra gli uomini la legge brutale della lotta per la sopravvivenza possono essere fatti rientrare nel novero dell’individualismo dominatore ed aggressivo, come ad esempio Stendhal e Nietzsche. Possiamo considerare esempi di veri individualisti personaggi come Socrate, Epicuro, Gesù, Epitteto. Socrate non insegnava una verità esterna a coloro che lo ascoltavano, ma insegnava loro a trovare la verità in se stessi. Morì condannato dalle leggi e dai giudici, assassinato dallo Stato, martire dell’individualismo. Lo si accusava di non onorare gli dei che lo Stato onorava e di corrompere la gioventù, cioè di professare opinioni sgradite al potere. Epicuro, sotto la sua elegante apatia, fu un eroe. Seneca chiamava Epicuro “un eroe travestito da donna”. Egli di positivo liberò i suoi discepoli dal timore degli dei o di Dio che è l’inizio della pazzia. Sua grande virtù fu la temperanza. Egli distingueva tra i bisogni naturali ed i bisogni immaginari. Mostrò che servivano ben poche cose per soddisfare la fame e la sete, per difendersi dal caldo e dal freddo e si liberò da tutti gli altri bisogni, cioè da quasi tutti i desideri e da quasi tutti i timori che schiavizzano gli uomini. Morì a seguito di una lunga e dolorosa malattia proclamando di essere perfettamente felice. Non conosciamo il vero Epicuro in quanto dei discepoli infedeli hanno coperto con i loro vizi la sua dottrina, così come si nasconde un’ulcera sotto un mantello rubato. Epicuro non è colpevole di quel che gli hanno fatto dire falsi discepoli, non si è mai colpevoli della stupidità o perfidia altrui. Ogni parola di verità, se è ascoltata da molti uomini, è trasformata in menzogna dai superficiali, dagli astuti e dai ciarlatani.
Gesù visse libero ed errante, estraneo ad ogni legame sociale. Fu nemico dei sacerdoti, dei culti esteriori e, in generale, di tutte le organizzazioni. Morì perseguitato dai sacerdoti, abbandonato dall’autorità giudiziaria, inchiodato sulla croce dai soldati. E, con Socrate, la più celebre vittima della Religione, il più illustre martire dell’individualismo. Non conosciamo il vero Gesù, in quanto i sacerdoti hanno crocefisso la sua dottrina come il suo corpo. Hanno trasformato in veleno la bevanda vivificante. Sulle parole falsificate del nemico delle organizzazioni e dei culti esteriori, hanno fondato la più organizzata e la più pomposamente vuota delle religioni.
Gesù non è colpevole di ciò che i discepoli ed i sacerdoti hanno fatto della sua dottrina. Non si è mai responsabili della stupidità o perfidie altrui.
Epitteto, lo stoico, sopportò coraggiosamente la povertà e la schiavitù. Fu perfettamente felice nelle situazioni più penose per gli uomini ordinari. Il suo discepolo Arriano ha raccolto alcune delle sue parole in un libretto intitolato Manuale di Epitteto, la cui nobiltà precisa e senza cedimenti, la sua semplicità priva di ciarlataneria me lo rendono molto più prezioso dei Vangeli. Il Manuale di Epitteto è il più bello e liberatore di tutti i libri.
Nella storia sono esistiti anche altri individualisti ma quelli che ho citato sono i più puri ed i più facili da capire e se non cito i cinici come Antistene e Diogene è perché la dottrina cinica non è che l’embrione di quella stoica. In quanto a Zenone di Cizio, il fondatore dello stoicismo e che non ho nemmeno nominato, la sua vita fu ammirevole e, secondo le testimonianze antiche non smise mai di somigliare alla sua filosofia. Ma oggi è meno noto di coloro che ho citato. Non nomino lo stoico Marco Aurelio perché fu imperatore.
Descartes fu un individualista intellettuale. Non fu abbastanza nettamente un individualista morale. La sua vera morale sembra sia stata stoica. Ma non osò renderla pubblica. Fece conoscere soltanto una “morale provvisoria” in cui si raccomanda di obbedire alle leggi e costumi del suo paese, il che è contrario all’individualismo. Sembra d’altronde aver mancato di coraggio filosofico in altre circostanze. La vita di Spinoza fu ammirevole. Egli viveva sobriamente, di un po’ di grano di avena o di un po’ di zuppa al latte. Rifiutando la carne che gli si offriva, guadagnò sempre il cibo con un lavoro manuale. La sua dottrina morale è un misticismo stoico. Ma, troppo esclusivamente intellettuale, egli professa una strana politica assolutista e non riserva contro il potere che la libertà di pensare. Il suo nome fa d’altronde pensare ad una grande potenza metafisica più ancora che ad una grande bellezza morale.


2. Preparazione all’individualismo pratico.
Non è sufficiente proclamarsi individualista. Una religione può accontentarsi dell’adesione verbale e di alcuni gesti di adorazione. Una filosofia pratica che non sia affatto praticata non è nulla. Le religioni possono mostrare più indulgenza delle dottrine morali perché le divinità delle religioni sono dei monarchi potenti. Salvano i fedeli attraverso grazie e miracoli. Accordano la salvezza in cambio della legge, di certe parole rituali e di certi gesti convenuti. Possono anche tenermi in conto gesti che non ho fatto fare e di parole che non ho fatto pronunciare che da mercenari.
Per meritare realmente il nome di individualista devo porre tutti i miei atti in accordo con il mio pensiero, accordo meno arduo di quanto non sembri perché l’individualista che comincia è trattenuto dai falsi beni e le cattive abitudini. Non si libera senza qualche lacerazione. Ma il disaccordo tra i suoi atti ed il suo pensiero gli è più arduo di tutte le sue rinunce. Ne soffre come il musicista soffre per una mancanza di armonia. Il musicista non vorrebbe, per nessuna cosa al mondo, trascorrere al propria vita in mezzo a suoni sgradevoli. Allo stesso modo la mancanza di armonia è per me la peggiore di tutte le sofferenze.
Lo sforzo per porre la propria vita in accordo con il proprio pensiero si chiama virtù, essa non necessità di alcuna ricompensa in quanto la virtù è premio a se stessa. Ciò significa che se penso ad una ricompensa, non sono virtuoso. La virtù ha come prima particolarità il disinteresse e la virtù disinteressata crea la felicità. La felicità è lo stato d’animo che si sente perfettamente libero da ogni servitù estranea ed in perfetto accordo con se stessa. Il saggio ha sempre bisogno di sforzi e di virtù. E sempre attaccato dall’esterno. Ma la felicità non esiste, in effetti, che nell’anima in cui non vi sia più lotta interiore.
Nella ricerca della saggezza non si è infelici. Ogni vittoria, in attesa della felicità, produce la gioia. Volendo distinguere tra gioia e felicità a titolo di esempio si potrebbe sostenere che la gioia è la consapevolezza che si sta procedendo verso la felicità. Un essere pacifico, costretto a lottare, riporta una vittoria che lo avvicina alla pace: prova gioia. Giunge infine ad una pace che nulla può turbare: è felice.
E raro che si possa tentare senza imprudenza la perfezione immediata. Gli impazienti corrono il rischio di regredire e scoraggiarsi. Per prepararsi alla perfezione conviene andare da Epitteto passando per Epicuro. Bisogna innanzitutto porsi dal punto di vista di Epicuro e distinguere i bisogni naturali dai bisogni immaginari. Quando saremo capaci di respingere praticamente tutto ciò che non è necessario alla vita; quando disprezzeremo il lusso e le mollezze, quando assaporeremo la voluttà fisica che scaturisce dai nutrimenti e dalle bevande semplici; quando il nostro corpo conoscerà tanto bene quanto la nostra anima la bontà del pane e dell’acqua: potremo allora progredire ulteriormente.
Non resterebbe da capire che, anche privati di pane ed acqua, saremmo felici; che, nella malattia più dolorosa e più priva di soccorsi, saremmo felici; che, anche morendo nei supplizi ed in mezzo alle ingiurie di tutti, saremmo felici. Questo vertice di saggezza è accessibile a tutti gli uomini di buona volontà che provano un’attrazione naturale verso l’individualismo. Il cammino intellettuale che porta a questo vertice è la dottrina stoica dei veri beni e dei veri mali. La si chiama anche la dottrina delle cose che dipendono da noi e delle cose che da noi non dipendono. Le nostre opinioni, i nostri desideri, le nostre inclinazioni, le nostre avversioni, in una parola tutte le nostre azioni interiori appartengono alle cose che dipendono da noi. Le cose che non dipendono da noi riguardano ad esempio il corpo, le ricchezze, la reputazione, le distinzioni, cioè tutte le cose che non appartengono al numero delle nostre azioni interne.
Le caratteristiche delle cose che dipendono da noi sono libere per natura, nulla può fermarle o fungere per loro da ostacolo. Le caratteristiche delle cose che non dipendono sono di essere deboli, schiavistiche, soggette a molti ostacoli ed inconvenienti ed totalmente estranee all’uomo. L’altro nome delle cose che non dipendono da noi è detto anche delle cose indifferenti perché nessuna di esse è un vero bene o un vero male. Colui che scambia le cose indifferenti per dei beni o per dei mali trova ovunque degli ostacoli, è afflitto, turbato, si lamenta delle cose e degli uomini. Prova anzi un più grande male ancora: è schiavo dei desideri e del timore.
Chi sa praticamente che le cose che non dipendono da noi sono indifferenti, è invece libero. Nessuno può forzarlo a fare quel che non vuole fare o impedirlo di fare ciò che vuole. Non ha da lamentarsi di nulla e di nessuno. Le cose esterne, come la malattia, la prigione, la povertà possono diminuire la libertà del mio corpo e dei miei movimenti. Non sono degli impedimenti per la mia volontà, se non ho la follia di voler ciò che non dipende da me.
La dottrina di Epicuro è sufficiente per tutto il corso della vita se posseggo le cose necessarie alla vita stessa e se mi comporto bene. Mi restituisce la gioia degli animali che non si creano delle preoccupazioni e dei mali immaginari. Ma, nella malattia o nella fame, non bastano più.
La dottrina di Epicuro può essere sufficiente per le relazioni sociali correnti. Mi libera da ogni tiranno che non hanno potere che sul mio superfluo. Non è più sufficiente se il tiranno può privarmi del pane; se può mettermi a morte o ferire il mio corpo. Chiamo tiranno chiunque, agendo sulle cose indifferenti, come le mie ricchezze o il mio corpo, pretende di agire sulla mia volontà. Chiamo tiranno chiunque cerca di modificare il mio stato d’animo con mezzi diversi alla persuasione ragionevole.
Qualunque sia il mio presente, ignoro l’avvenire. Ignoro se la grande aggressione in cui l’epicureismo non basta più non mi costringa a qualche deviazione nella mia vita. Devo dunque, sin da quando ho raggiunto la saggezza epicurea, lavorare a fortificarmi ulteriormente, sino all’invulnerabilità stoica. Nella tranquillità, potrei vivere serenamente e sobriamente come Epicuro, ma con lo spirito di Epitteto. Proporsi un modello come Socrate, Gesù o Epitteto non è utile alla perfezione perché devo realizzare la mia armonia, non quella di un altro.
Vi sono due specie di doveri: i doveri universali ed i doveri personali. I primi sono quelli che si impongono ad ogni uomo saggio mentre i doveri personali quelli che si impongono particolarmente a me. Sono un essere particolare che si trova in situazioni particolari. Ho un certo grado di forza fisica, di forza intellettuale e posseggo un certo grado di ricchezze. Ho un passato da continuare. Devo lottare contro un destino ostile o collaborare con un destino favorevole. Tranne alcune eccezioni, i doveri universali sono dei doveri d’astensione. Quasi tutti i doveri d’azione sono dei doveri personali. Anche in circostanze rare in cui l’azione si impone a tutti, il dettaglio dell’azione porterà il segno dell’agente, sarà come la firma dell’artista morale. Il dovere personale non può contraddire il dovere universale. È come il fiore che non può crescere se non sulla pianta.
I miei doveri personali non sono quelli di Socrate, Gesù o Epitteto, non somiglia loro affatto se non conduco una vita apostolica.. I miei doveri personali e quelli universali mi sono insegnati dalla mia coscienza, è essa che mi dice ciò che mi aspetterei da ogni uomo saggio, dicendomi ciò che devo esigere da me. Non vi sono doveri difficili per il saggio. Prima che io abbia raggiunto la saggezza, il pensiero di Socrate, di Gesù, di Epitteto, mi sarà forse utile nei momenti di difficoltà. Ma non mi rappresenterò mai questi grandi individualisti come dei modelli. Me li raffigurerò come dei testimoni. E desidererei che essi non biasimino la mia condotta.
Ogni colpa riconosciuta come tale prima di essere commessa che la si consideri leggera o grave è grave. Teoricamente, per giudicare la mia situazione o quella d’altri nella via della saggezza, posso distinguere tra colpe gravi e colpe leggere. Chiamerò colpa leggera quella che Epitteto biasimerebbe e che Epicuro non biasimerebbe affatto e chiamerei colpa grave quella che biasimerebbe anche l’indulgenza di Epicuro.


3. Delle relazioni degli individui tra loro.
La formula dei doveri verso gli altri è: “Amerai il tuo prossimo come te stesso e amerai il tuo Dio sopra ogni cosa”. Il prossimo sono gli altri uomini, dotati di ragione e di volontà, sono più vicini a me stesso degli animali i quali ultimi hanno in comune con me la vita, la sensibilità, l’intelligenza. Questi caratteri comuni mi creano dei doveri verso gli animali: di non farli soffrire, di evitare loro sofferenze inutili e di non ucciderli senza necessità. L’assenza di ragione e di volontà presso gli animali, che non fa di loro delle persone, mi dà il diritto di servirmi di loro nella misura delle loro forze e di trasformarli in strumenti.
Non ho il diritto di considerare una persona come un mezzo. Ogni persona è uno scopo, un fine. Non posso che chiedere alle persone che dei servizi che esse mi accordano liberamente, per benevolenza o in cambio di altri servizi. Non vi sono razze inferiori. L’individuo nobile può fiorire in tutte le razze. Eccetto il pazzo, ogni uomo è capace di ragione e di volontà. Però molti non ascoltano che le loro passioni e non hanno che capricci. È tra di essi che si incontrano coloro che hanno la pretesa di comandare. Con questi individui incompleti non posso farmi degli strumenti. Li devo considerare come dei bambini bloccati nel loro sviluppo, ma in cui l’uomo forse domani si sveglierà. Gli ordini di coloro che hanno la pretesa di comandare non possono essere che capricci di bambini o fantasie di pazzi.
Devo amare il prossimo come me stesso. Queste parole significano allo stesso modo in cui io mi devo amare. E io mi devo amare così come insegna la seconda parte della formula che recita: “Amerai il tuo Dio sopra ogni cosa”. Dio ha molti sensi: ha un senso differente in ogni religione o metafisica e ha un senso morale. Dio è il nome della perfezione morale e nella formula d’amore, il possessivo TUO: “Tu amerai il TUO Dio”, il mio Dio, è la mia perfezione morale.
Al di sopra di ogni cosa devo amare la mia ragione, la mia libertà, la mia armonia interiore, la mia felicità, perché sono questi gli altri nomi di Dio. Il mio Dio esige che gli sacrifichi i miei desideri ed i miei timori esige che io disprezzi i falsi beni e che io sia “povero di spirito”. Esige anche che io sia pronto a sacrificargli la mia sensibilità e, se necessario, la mia vita. Nel mio prossimo amerò dunque il suo Dio, cioè la sua ragione, la sua armonia interiore, la sua felicità. Verso la sensibilità del mio prossimo ho gli stessi doveri che verso la sensibilità degli animali o verso la mia: non creerò né negli altri né a me inutili sofferenze.
Non posso creare attivamente della sofferenza utile. Ma alcune astensioni necessarie avranno come conseguenza della sofferenza negli altri o in me. Non devo sacrificare di più il mio Dio alla sensibilità altrui che alla mia sensibilità. I miei doveri verso la vita altrui consistono nel non dover ne uccidere ne ferire il mio prossimo. Si ha diritto di uccidere nel caso della legittima difesa, sembra che la necessità crei il diritto di uccidere. Ma, quasi sempre, se sono abbastanza bravo, conserverò il sangue freddo che permette di salvarsi senza uccidere. L’astenersi dalla difendersi durante un attacco, è, in effetti, in questo caso, il segno di una virtù superiore, la vera soluzione eroica. Di fronte alla sofferenza altrui vi sono delle astensioni ingiustificate equivalenti a cattive azioni. Se lascio morire chi posso salvare senza commettere un crimine, sono un vero assassino. Una citazione di Bossuet può illustrare ciò: "questo ricco inumano ha spogliato il povero perché non l’ha rivestito, lo ha sgozzato crudelmente perché non l’ha nutrito".
La sincerità è il mio primo dovere verso gli altri e verso me stesso, la testimonianza che il mio Dio esige come un sacrificio continuo, come una fiamma che non devo mai lasciare spegnere. La più sincerità più necessaria è la proclamazione delle mie certezze morali. Al secondo posto la sincerità nell’espressione delle mie opinioni. L’esattezza nell’esposizione dei fatti è meno importante delle due grandi sincerità filosofica e delle opinioni. Il saggio ciò malgrado l’osserva.
Vi sono tre tipi di menzogne. La prima è la menzogna maliziosa, che ha come scopo il nuocere ad altri e che è un crimine ed una vigliaccheria. La menzogna ufficiosa, è la seconda, è quella che ha per scopo la mia utilità o quella d’altri. Quando la menzogna ufficiosa non contiene nessun elemento nocivo, il saggio non la biasima negli altri ma la evita per sé. Vi sono dei casi in cui la menzogna ufficiosa potrebbe imporsi se potesse salvare la vita a qualcuno. In questo caso, il saggio potrebbe proferire una menzogna non concernente che i fatti. Ma quasi sempre, invece di mentire, rifiuterà di rispondere.
Il terzo tipo di menzogna è la menzogna scherzosa che il saggio si proibisce perché essa sacrifica ad un gioco l’autorità della parola che, conservata, può qualche volta essere utile ad altri.
Il saggio non si proibisce nessuna narrazione ammessa e gli può accadere di raccontare delle parabole, delle fiabe, dei simboli o dei miti.
Le relazioni tra l'uomo e la donna devono essere, come tutte le relazioni tra persone, assolutamente libere da entrambe le parti. Esse devono esprimere una reciproca sincerità.
Il reciproco amore è la più bella cosa tra quelle indifferenti, la più vicina all'essere una virtù. Fa la nobiltà del baciare. Se il bacio senza amore è l'incontro di due desideri e di due piaceri, non costituisce una colpa.


4. Della Società
Ho delle relazioni non soltanto con degli individui isolati, ma anche con diversi gruppi sociali e, in modo generale, con la società.
La società è la riunione degli individui per un'opera comune che può essere buona a certe condizioni. Essa lo sarà se, per reciproco amore o per amore dell'opera, gli operai agiscono del tutto liberamente, e se i loro sforzi si raggruppano e si sostengono in una coordinazione armoniosa. Di fatto, l'opera sociale non ha alcun carattere di libertà. Gli operai vi sono subordinati gli uni agli altri. I loro sforzi non sono i gesti spontanei ed armoniosi dell'amore, ma i gesti disarmonici della costrizione. Da questo carattere dell'ordine sociale concludo che l'opera sociale è cattiva.
Il saggio considera la società come un limite. Si sente sociale così come si sente mortale. Considera i limiti come delle necessità materiali e li subisce fisicamente con indifferenza. Per colui che è in cammino verso la saggezza, i limiti costituiscono dei pericoli perché chi non distingue ancora praticamente, con una sicurezza incrollabile, le cose che dipendono da lui e le cose indifferenti, rischia di tradurre le costrizioni materiali in costrizioni morali.
L'individualista imperfetto di fronte alla costrizione sociale deve difendere contro di essa la sua ragione e la sua volontà. Respingerà i pregiudizi che essa impone agli altri uomini, si proibirà di amarlo o di odiarlo; si libererà progressivamente di ogni timore e di ogni desiderio nei suoi confronti; si volgerà verso la perfetta indifferenza, che è la saggezza di fronte alle cose che non dipendono da lui.
Il saggio si proibisce ogni speranza, anche di una società migliore, pone in evidenza che i saggi sono rari in ogni epoca e che non c'è progresso morale. Il saggio fa notare che i progressi materiali hanno per oggetto di accrescere i bisogni artificiali degli uni ed il lavoro degli altri. Il progresso materiale gli appare come un peso crescente che affonda sempre più l'umanità nel fango e nell'afflizione.
L'invenzione di macchine perfezionate ha sempre aggravato il lavoro. Lo ha reso più penoso e meno armonioso. Ha sostituito l'iniziativa libera ed intelligente con una precisione servile e temibile. Ha fatto dell'operaio, un tempo padrone sorridente degli utensili, lo schiavo tremante della macchina. La macchina che moltiplica i prodotti non diminuirà la quantità di lavoro da effettuare da parte dell'uomo perché l'uomo è avido e la follia dei bisogni immaginari cresce a misura che la si soddisfa. Più lo stolto ha delle cose superflue e più vuole averne.
Il saggio non esercita un'azione sociale. Il saggio pone in evidenza che, per esercitare un'azione sociale, bisogna agire sulle masse e che non si agisce affatto sulle masse attraverso la ragione, ma con le passioni. Non si crede in diritto di sollevare le passioni degli uomini. L'azione sociale gli appare come una tirannia e si astiene dal prendervi parte. Il saggio sa che queste parole: "la felicità del popolo" non hanno alcun senso. La felicità è interiore ed individuale; non si può produrla che in se stessi. Il saggio sa che l'oppresso che si lamenta aspira a diventare oppressore. Lo soccorre nei limiti dei suoi mezzi ma non crede alla salvezza attraverso l'azione comune. Il saggio evidenzia che le riforme cambiano i nomi delle cose, non le cose stesse. Lo schiavo è diventato il servo, poi il salariato. Non si è riformato che il linguaggio. Il saggio resta indifferente a queste questioni di filologia.
L'esperienza prova al saggio che le rivoluzioni non hanno mai risultati durevoli. La ragione gli dice che la menzogna non si confuta con la menzogna e che la violenza non si distrugge con la violenza. Il saggio considera l'anarchia come un'ingenuità. L'anarchico crede che il governo è il limite della libertà.
Spera, distruggendo il governo, di elargire la libertà. Il vero limite non è il governo ma la società. Il governo è un prodotto sociale come un altro. Non si distrugge un albero tagliando uno dei suoi rami.
La società è inevitabile come la morte. Sul piano materiale, la nostra potenza è debole contro tali limiti. Ma il saggio distrugge in sé il rispetto ed il timore della società così come distrugge in sé il timore della morte. È indifferente alla forma politica e sociale dell'ambiente in cui vive così come è indifferente al genere di morte che lo aspetta. Il saggio sa che non si distrugge né l'ingiustizia sociale né l'acqua del mare. Ma si sforza di salvare un oppresso da una giustizia particolare, così come si getta in acqua per salvare un annegato.

5. Delle relazioni sociali
Il lavoro è una legge naturale aggravata dalla società in tre modi:
1° Essa dispensa arbitrariamente un certo numero di uomini da ogni lavoro e getta la loro parte del fardello sugli altri uomini;
2° Essa impiega molti uomini in lavori inutili, a delle funzioni sociali;
3° Essa moltiplica presso tutti e soprattutto presso i ricchi i bisogni immaginari ed impone al povero l'odioso lavoro necessario alla soddisfazione di questi bisogni.
La legge del lavoro è naturale perché il mio corpo ha dei bisogni naturali che soltanto i prodotti del lavoro soddisferanno. Il solo lavoro che si possa considerare tale è il lavoro manuale. Il solo bisogno naturale delle nostre facoltà intellettuali, è l'esercizio. Lo spirito resta sempre un bambino felice che ha bisogno di movimento e di gioco. Lo spettacolo della natura, l'osservazione delle passioni umane ed il piacere delle conversazioni basterebbero ai bisogni naturali dello spirito.
Non condanno l'arte, la scienza e la filosofia. Simili all'amore, essi sono nobili finché restano disinteressati. Nell'arte, nella scienza, nella filosofia, nell'amore, la voluttà che provo nel dedicarmici non deve essere pagata da colui che gusta la voluttà di ricevere. Se vi sono degli artisti che creano con difficoltà e degli scienziati che ricercano con fatica, non vedo perché queste povere persone non vi si astengono.
Dallo scienziato e dall'artista, così come dall'innamorato o dall'innamorata, la natura esige un lavoro manuale poiché essa impone loro, così come agli altri uomini, dei bisogni materiali. L'infermo ha anch'egli dei bisogni materiali ma non si può avere nei suoi confronti la crudeltà di imporgli una cosa di cui egli è incapace, ma non considero come infermità la bellezza del corpo o la potenza del pensiero.
L'individualista lavorerà dunque con le sue mani per quanto gli è possibile, perché la società ha reso difficile l'obbedienza alla legge naturale. Non c'è lavoro manuale remunerativo per tutti. Di solito, ci si sveglia all'individualismo troppo tardi per fare l'apprendistato di un mestiere naturale. La società ha rubato a tutti, per consegnarlo a qualcuno, il grande strumento del lavoro naturale, la terra.
L'individualista può dunque, nello stato attuale delle cose, vivere di un bisogno che egli non considera come un vero lavoro. Può anche essere un funzionario, ma non può acconsentire ad ogni genere di funzioni. Egli si asterrà da ogni funzione dell'ordine amministrativo, dell'ordine giudiziario o dell'ordine militare. Non sarà prefetto o poliziotto, ufficiale, giudice o carnefice, perché l'individualista non può essere del numero dei tiranni sociali. Egli potrà accettare le funzioni che non nuocciono agli altri. Al di fuori delle funzioni retribuite dal governo, vi sono delle carriere nocive da cui l'individualista si asterrà, come dal furto, la banca, lo sfruttamento delle donne, lo sfruttamento dell'operaio.
Nelle sue relazioni con i suoi inferiori sociali, l'individualista rispetterà le loro personalità e la loro libertà. Non dimenticherà mai che il dovere professionale è una finzione, ed il dovere umano la sola realtà morale. Non dimenticherà mai che le gerarchie sono delle follie e agirà naturalmente, non socialmente, con degli uomini che la menzogna sociale afferma essere suoi inferiori, ma di cui la natura ha fatto i suoi eguali.
L'individualista eviterà dall'astenersi dalle relazioni esteriori con i suoi inferiori sociali che potrebbero offenderli. Ma li vedrà poco, per timore di trovarli socievoli e non naturali; e cioè per timore di trovarli servili, infastiditi o ostili. Con i suoi colleghi o i suoi confratelli, l'individualista sarà cortese e servizievole. Ma, per quanto sarà in suo potere farlo senza ferirli, eviterà la loro conversazione per difendersi contro due veleni sottili: lo spirito di corpo e l'abbrutimento professionale.
Con i suoi superiori sociali l'individualista non dimenticherà che le loro parole trattano quasi sempre di cose indifferenti. Ascolterà con indifferenza e risponderà il meno possibile. Non farà obiezioni. Non indicherà dei metodi che gli sembreranno migliori. Eviterà ogni discussione inutile, perché di solito il superiore sociale è un bambino vanitoso ed irritabile.
Se il superiore ordina non più una cosa indifferente, ma un'ingiustizia o una crudeltà, l'individualista si rifiuterà di obbedire. La disobbedienza non gli farà correre dei pericoli perché diventare lo strumento dell'ingiustizia e del male, è la morte della ragione e della libertà. Ma la disobbedienza all'ordine ingiusto non mette in pericolo che il corpo e le risorse materiali, che sono nel numero delle cose indifferenti. Davanti all'ordine l'individualista dirà mentalmente al capo ingiusto: Sei l'incarnazione moderna del tiranno. Ma il tiranno non può nulla contro il saggio.
L'individualista spiegherà il suo rifiuto di obbedire se crede che il capo sociale sia capace di capire e tornare sul proprio errore, cosa di cui che quasi sempre, il capo sociale è incapace.
Davanti ad un ordine ingiusto, il rifiuto di obbedire è il solo dovere universale. La forma del rifiuto dipende dalla mia personalità.
L'individualista considera la massa come una delle più brutali tra le forze naturali. In una massa che non sta compiendo del male si sforza di non sentirsi in conformità con essa e di non lasciarsi annegare, nemmeno per un momento, la sua personalità per rimanere un uomo libero. Perché in qualunque istante, un imprevisto può far scattare la crudeltà della massa, e colui che avrà cominciato a sentire come essa, colui che farà veramente parte della massa faticherà molto nel doversi sganciare nel momento dello slancio morale.
L'individualista che si trova tra la massa che cerca di compiere un'ingiustizia o una crudeltà, si opporrà con tutti i mezzi nobili o indifferenti all'ingiustizia o alla crudeltà. In queste circostanze il saggio non ricorrerà alla menzogna, alla preghiera o alla adulazione. Il saggio potrà rivolgere alla massa, come ad un bambino quegli elogi che sono l'involucro ironicamente amabile dei consigli. Ma saprà che il limite è incerto e l'impresa pericolosa. Vi si azzarderà solo se è molto sicuro non soltanto della fermezza della sua anima, ma anche della sottigliezza della sua parola.
Il saggio non si appellerà mai nei tribunali perché ciò si fa per interessi materiali ed indifferenti, ciò significa sacrificare all'idolo sociale e riconoscere la tirannia. Vi è inoltre viltà nel chiamare al proprio soccorso la potenza di tutti.
Il saggio se è accusato, potrà, secondo il proprio carattere, dire la verità oppure opporre alla tirannia sociale lo sdegno ed il silenzio.
Se l'individualista si riconosce colpevole confesserà la propria colpa reale e naturale, la distinguerà nettamente dalla colpa evidente e sociale per il quale lo si perseguita. Aggiungerà che la sua coscienza gli infligge per la sua vera colpa il vero castigo. Ma la società, che non agisce che sulle cose indifferenti, gli infliggerà, per la sua colpa evidente, una punizione evidente. Se il saggio accusato è innocente davanti alla propria coscienza e colpevole davanti alle leggi, spiegherà come il suo crimine legale è un'innocenza naturale. Confesserà il suo disprezzo per la legge, quest'ingiustizia organizzata e questa impotenza che non può nulla su si noi, ma soltanto sul nostro corpo e le nostre ricchezze, cose indifferenti.
Se il saggio accusato è innocente davanti alla propria coscienza e colpevole davanti alla legge, potrà soltanto proclamare la sua innocenza reale. Se si degna di spiegare le sue due innocenze, dichiarerà che soltanto la prima gli importa.
Il saggio non rifiuterà mai la sua testimonianza davanti ai tribunali civili nei confronti del debole oppresso. Il saggio testimonierà [en correctionnelle] e davanti alle assise, se conosce una verità utile all'accusato Se il saggio conosce una verità nociva all'accusato tacerà, perché una condanna è sempre un'ingiustizia ed il saggio non si rende complice di un'ingiustizia. Una condanna è sempre un'ingiustizia perché nessun uomo ha il diritto di infliggere la morte ad un altro uomo o di farlo rinchiudere in prigione.
La società, unione di individui, non può avere un diritto che non si trovi in nessun individuo. Degli zero addizionati, per quanto numerosi essi siano, danno sempre zero come totale.
Il diritto di legittima difesa non dura più a lungo dell'attacco stesso. Il saggio, chiamato a far parte di una giuria, potrà rifiutarsi di farvi parte oppure vi acconsentirà. In quest'ultimo caso risponderà sempre NO alla prima domanda: L'accusato è colpevole? Questa risposta non sarà mai una menzogna perché la domanda del presidente deve essere così tradotta: Volete voi che infliggiamo una pena all'accusato? Sono obbligato a rispondere NO, perché non ho il diritto di infliggere condanne a nessuno.
Ogni appello alla violenza è un male. Ma il duello è un male minore dell'appello in giustizia perché non è una viltà, non grida al soccorso e non impiega contro uno la forza di tutti.


6. Dei sacrifici agli idoli
Posso lasciare con indifferenza gli idoli del mio tempo e del mio paese e prendere le cose indifferenti. Il mio Dio è proclamato dalla mia coscienza non appena essa è la mia voce e non più un eco. Ma gli idoli sono opera della società. Il mio Dio non desidera che il sacrificio delle cose indifferenti. Gli idoli esigono il sacrificio di me stesso.
Gli idoli proclamano come virtù le bassezze più servili, disciplina ed obbedienza passiva. Esse esigono il sacrificio della mia ragione e della mia volontà. Non contenti di voler distruggere ciò che è loro superiore e che non ho mai il diritto di abbandonare, gli idoli vogliono che io sacrifichi ciò che non mi appartiene in alcun modo, la vita del mio prossimo.
Il vero Dio è eterno ed immenso. È sempre e ovunque che devo obbedire alla mia ragione. Ma gli idoli variano con il tempo ed i paesi. Un tempo, mi si chiedeva di sopprimere la mia ragione e di uccidere il mio prossimo per la gloria di non so quale Dio estraneo ed esteriore a me o per la gloria del Re. Oggi, mi si chiedono gli stessi sacrifici abominevoli per l'onore della Patria. Domani, li si esigerà forse per l'onore della Razza, del Colore o della Parte del Mondo.
L'idolo evita per quanto possibile di cambiare nome. Ma cambia spesso. In un paese vicino, l'idolo Patria era la Prussia; oggi sotto lo stesso nome, l'idolo è la Germania. Chiedeva al Prussiano di uccidere il Bavarese. Più tardi, chiederà al Prussiano ed al Bavarese di uccidere il Francese. Il Savoiardo ed il Nizzano rischiavano nel 1859 di inchinarsi davanti ad una patria a forma di stivale; i casi della diplomazia fanno loro adorare una patria esagonale. Il Polacco esita tra un idolo morto ed un idolo vivo; l'Alsaziano tra due idoli viventi, che pretendono allo stesso nome di Patria.
I principali idoli attuali in alcuni paesi sono il Re o l'Imperatore; in altri, una cosa fraudolenta chiamata Volontà del Popolo. Dappertutto l'Ordine, il Partito politico, la Religione, la Patria, la Razza, il Colore della pelle. Non bisogna dimenticare l'opinione pubblica con i suoi mille nomi, dal più enfatico, l'Onore, sino al più trivialmente basso, il Cosa diranno gli altri.
Il colore della pelle è un idolo pericoloso, soprattutto quello bianco. Gli succede di unire in uno stesso culto Francesi, Tedeschi, Russi ed Italiani e di ottenere da tutti quei nobili sacerdoti il sacrificio sanguinario di un gran numero di Cinesi. Il razzismo bianco è esso a fare dell'intera Africa un inferno. È esso che ha distrutto gli Indiani d'America e che fa linciare i neri. Gli adoratori del Colore bianco della pelle offrono oltre a del sangue al loro idolo anche molte lodi. Ma quando esige un crimine, la liturgia chiama questo crimine una necessità della Civiltà e del Progresso. Soprattutto quando si allea alla Religione. A questi Alleati si devono le guerre mediche, le conquiste dei Saraceni, le Crociate, il massacro degli Armeni, l'antisemitismo.
Oggi l'idolo più esigente e più universalmente rispettato è la Patria, le cui esigenze più particolari sono il servizio militare e la guerra. L'individualista può essere un soldato in tempo di pace, finché non gli si ordina nessun crimine. Il saggio in tempo di guerra non dimentica mai l'ordine del vero Dio, della Ragione: Non ucciderai. E preferisce obbedire a Dio che agli uomini.
La coscienza universale ordina raramente degli atti determinati. Comporta quasi sempre delle difese. Proibisce di uccidere o di ferire il suo prossimo e su questo punto, non dice nulla di più. I metodi sono indifferenti o costituiscono i doveri personali. Il saggio può rimanere in tempo di guerra un soldato, se è ben sicuro di non lasciarsi trascinare ad uccidere o a ferire. Il rifiuto formale e manifesto ad obbedire a degli ordini sanguinari può diventare un dovere severo, se il saggio, se per il suo passato, o per altre ragioni, si trova in una di quelle situazioni che attirano l'attenzione. Se il suo atteggiamento rischia di scandalizzare o di edificare, può trascinare altri uomini verso il bene o verso il male.
Il saggio non spara sull'ufficiale che dà un ordine sanguinario, egli non uccide nessuno. Sa che il tirannicidio è un crimine così come ogni omicidio volontario.


7. Dei rapporti della morale e della metafisica.
I rapporti della morale e della metafisica sono concepiti in tre modi: 1° La morale è una conseguenza della metafisica, una metafisica in atto; 2° La metafisica è una necessità ed un postulato della morale; 3 la morale e la metafisica sono indipendenti l'una dall'altra.
La dottrina che fa dipendere la morale dalla metafisica è pericolosa. Essa appoggia il necessario sul superfluo, il certo sull'incerto, la pratica sul sogno. Trasforma la vita morale in un sonnambulismo tremante di timori e speranze. La dottrina che fonda la metafisica sulla verità morale, sembra innanzitutto dare tutto alla morale. In realtà, se si presenta come altra cosa che un metodo di fantasia, se ha la pretesa di condurre alla certezza, essa è menzogna ed immoralità intellettuale, poiché afferma come realtà ciò che non possono essere che desideri e speranze.
La concezione che rende la morale e la metafisica indipendenti l'una dall'altra è la sola sostenibile dal punto di vista morale. È ad essa che bisogna attenersi nella pratica. Teoricamente, le due prime concezioni non racchiudono nessuna parte di verità. False moralmente, esse esprimono un'opinione metafisica probabile. Esse significano che tutte le realtà si reggono e che vi sono tra l'uomo e l'universo degli stretti rapporti. L'individualismo sembra poter coesistere con le metafisiche più diverse. Sembra che Socrate ed i Cinici abbiano avuto qualche del disprezzo per la metafisica. Gli Epicurei sono materialisti. Gli Stoici sono panteisti.
Considero le dottrine metafisiche in generale come dei bei poemi e mi piacciono per la loro bellezza. La bellezza dei poemi metafisici risiede in due condizioni: 1° deve essere considerata come una spiegazione possibile ed ipotetica, non come un sistema di certezze e non deve negare i poemi vicini; 2° deve spiegare ogni cosa con un armoniosa riduzione all'unità.
Nei confronti delle metafisiche affermative, dobbiamo generosamente spogliarle delle bruttezze e del sudiciume dell'affermazione, per considerarle come dei poemi e dei sistemi da sogno. Le metafisiche dualiste sono delle spiegazioni provvisorie, delle semi-metafisiche. Non vi sono delle metafisiche vere; ma le sole vere metafisiche sono quelle che approdano ad un monismo. L'individualismo non è la morale assoluta. È soltanto il più forte metodo morale che conosciamo, la più imprendibile cittadella della virtù e della felicità. L'individualismo non è adatto a tutti gli uomini, ve ne sono a cui l'asprezza ripugna invincibilmente. Costoro devono scegliere un altro metodo morale.
Posso sapere se l'individualismo è adatto alla mia natura dopo un tentativo leale, se mi sento infelice; se non sento di essere nel vero rifugio; se sono turbato dalla pietà per me stesso e per gli altri, devo rifuggire dall'individualismo, perché questo metodo, troppo forte per la mia debolezza, mi condurrebbe all'egoismo o allo scoraggiamento.
Se sono troppo debole per il metodo individualista, mi creerò una vita morale attraverso un altro metodo, con l'altruismo, l'amore, la pietà. Questo metodo morale non mi condurrà a delle azioni diverse dalle azioni dell'individualista. Gli esseri veramente morali compiono tutti le stesse azioni e soprattutto si astengono tutti dalle stesse azioni. Ogni essere morale rispetta la vita degli altri uomini; nessun essere morale si preoccupa di guadagnare delle ricchezze inutili, ecc. L'altruista che tentò inutilmente con il metodo individualista si dirà: devo compiere lo stesso cammino. Ho abbandonato soltanto l'armatura troppo pesante per me e che mi attirava dalla sorte e dagli uomini dei colpi troppo violenti. Ed ho preso il bastone del pellegrino. Ma mi ricorderò sempre che posseggo questo bastone per sostenermi, non per colpire altri.

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