Vi sono sempre più indesiderabili al mondo. Degli uomini e delle donne per i quali questa società non ha previsto che un ruolo, quello di crepare. La società non ci desidera che così: morti per il mondo o per noi stessi.
Perché lo sfruttamento, la prigionia, il controllo, l’isolamento e la dominazione non sono solo delle parole. Possiamo spaccarci la schiena curvi su una macchina da cucire come dietro una catena di montaggio; possiamo girare in tondo dentro una gabbia aspettando di essere espulsi sul prossimo charter, come contare i giorni che ci separano dal prossimo colloquio dietro un vetro; possiamo andare a prendere i figli con l’angoscia di essere arrestati all’uscita della scuola oppure abbandonarli, per rimanere tranquillamente a guardare la televisione; possiamo ammassarci in dieci in una cantina oppure crederci fortunati dentro una capponaia; possiamo scampare ad una retata della polizia per ricadere “nelle maglie” delle cosiddetta comunità; si può schivare il controllo degli sbirri per sottomettersi al giogo di un qualunque “grand frère” o “capobanda”; ancora, si può perseguitare qualche ladruncolo facendo la guardia privata oppure denunciare da dietro una finestra chi incendia l’immondizia.
In questa guerra sociale senza tregua, non è la nostra miseria in comune che ci permetterà di abbattere questo sistema ma, piuttosto, il vigore con il quale la combattiamo. Se ci possiamo sentire talvolta solidali con i “clandestini” che si rivoltano non è certo per costituire (e sostituire) un racket politico a loro protezione e difesa, tanto meno ci interessa inventarci un ennesimo “soggetto politico” da presentare come virtuoso giusto per la sua condizione. In ultimo, non vogliamo assistere nessuna “vittima in pericolo”: lasciamo questo compito agli sciacalli delle associazioni umanitarie.
Noi non siamo a fianco degli indesiderabili: noi siamo indesiderabili. Il mutuo appoggio e la lotta non si possono costruire che a partire dall’offensiva e dalla reciprocità.
Quando ci vendono l’immagine della madre di famiglia che alleva i suoi sei figli da sola, quella dell’onesto operaio che lavora - non dimeno - per la buona salute dell’economia nazionale, quella del bambino separato dai suoi cari ma circondato dai suoi compagni di classe che lo adorano, persino quella dell’universitario arrivato “dal paese” e divenuto qualcuno, tutto ciò, non è che una tattica mediatica dietro cui si nasconde la faccia sporca di una suora caritatevole.
Indignarsi, con grande sforzo d’affetto, a sostegno dei bravi immigrati senza documenti ingiustamente repressi, equivale a fare come se l’occupazione poliziesca, le retate, i campi, le espulsioni, così come i mercanti di sogni e di sudore fossero delle “ derive” da rettificare. Equivale a scordare che tutto ciò è una conseguenza “molto democratica” di un mondo che trasforma tutto e tutti in merce.
L’obbiettivo dello Stato non è la deportazione di tutti i clandestini. Di fatto, sfruttarli in massa permette di abbassare il costo della manodopera (nella ristorazione, nell’edilizia, nella manifattura, nei lavori stagionali) imponendo condizioni di lavoro che si credevano accantonate. La reclusione e l’espulsione di una parte della forza lavoro immigrata non è che uno dei mezzi per instillare la paura e la rassegnazione in tutti.
Di questo terrore legale, la sinistra come la destra condividono le responsabilità in una degna continuità nell’abiezione. E’ quindi impossibile, persino inconsciamente, sostenere l’idea di una “sinistra utile”. In definitiva non si tratta di rivendicare una migliore integrazione (sia che questa passi attraverso i documenti, il lavoro o una dimora ) ma piuttosto di sviluppare dei legami basati sulla libertà e sulla reciprocità in una lotta senza mediazioni, riuscire a strappare dei mezzi per riprendere in mano la propria vita. Nessuna politica si potrà mai sostituire ad un cambiamento reale dei rapporti.
Pertanto, questo sistema non è un’enorme macchina astratta che ci lascia unicamente la possibilità di esserne schiacciati o partecipi. Questo sistema è composto da meccanismi che si incarnano in uomini e in strutture: i gestori della dominazione quotidiana, sia legali (banche, amministrazioni, padroni) che illegali (mafiosi o trafficanti), insomma quelli che la fanno da sfruttatori e/o da delatori, si incontrano ad ogni angolo di strada.
Le prigioni sono costruite da imprese ( Bouygues,Eiffage…) che hanno dei cantieri ovunque; le espulsioni sono rese possibili grazie alla collaborazione delle compagnie aeree (Air France, Royal Air Maroc …) e delle catene (Accor…) che possiedono le varie agenzie; le retate vengono effettuate grazie alla complicità dei controllori ( RATP;SNFC…).
Tutti hanno un volto, un nome, degli indirizzi e ciascuno può a modo suo esprimere il proprio disgusto. Ben inteso, essendo la legge uno strumento a servizio del potere, non è certo definendoci contro di essa né tanto meno rispettandola che potremo pensare di avanzare: le nostre azioni e la nostra rabbia si misurano senza codice penale e portano in sé la nostra etica e le nostre prospettive.
Anche se il problema dei documenti non sarà risolto che con l’abolizione di tutte le frontiere, anche se i centri di detenzione - come tutti gli altri luoghi di reclusione (prigioni, celle dei commissariati, manicomi, scuole, galere salariate …) – non saranno eliminati che con la scomparsa dell’autorità… noi non attendiamo niente e nessuno. Sul cammino si possono incontrare anche dei complici, perché quando il potere attacca la libertà di un individuo attacca la libertà di tutti.
Per distruggere le catene della rassegnazione e della paura, poco importa l’epoca. E’ sempre l’ora. E’ più che ora…
Alcuni ammutinati della nave morta
Tradotto da un manifesto apparso sui muri di Parigi -2008-
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