Come enormi arieti, diverse razze oggi si cozzano, ognuno volendo la supremazia sulle altre. La romantica latinità e la mercantile Albione contro l’imperativa Germania; mentre a rimorchio vengono le nazioncelle balcaniche con il bagaglio pittoresco dei loro costumi orientali arretrati. E sull’orizzonte fiammeggia la Russia, che entra in una nuova fase della sua vita. Dall’oriente le civ
iltà rinnovate e ingargliardite da novelle
energie spiano a settentrione ove si sente un buon odore di cadavere; e quei piccoli figli del sole attendono di poter riversare la sovrabbondante popolazione in una rinnovata espansione di civiltà asiatica.
Eppure questo spettacolo, questo spreco folle di energie, questa lotta accanita per la vita, non mi rivela nessuno slancio di fora vera e cosciente. Io vedo solo un immenso sfasciarsi, un diroccare di castelli, un mortale spingersi di popoli, mentre la terra indifferente apre il seno per accogliere tutta quella giovane carne che la feconderà. Questo magnifico e terribile decadimento avviene al lume titanico di un incendio colossale, adeguato al ruinare di questa civiltà. Così io vedo questo immenso aggrovigliarsi di uomini, lo vedo aggredito dall’alcol, dalla tisi, dal cannone. Vedo storpi, scrofolosi, acefali, delinquenti.
Letteratura, arte, scienze; tutto subisce l’influsso di questa mostruosa discesa. Tutto il mondo è un pullulare solo di marciume che sale; sale e invade tutto e tutto inghiotte.
L’umanità si crede alta, parla di eroismi, di progressi; e non si accorge di essere ulcerata. Il baratro è lì spalancato ed essa vi cade dentro cantando, urlando, rissando, con il suo dio, la sua patria, la sua civiltà assassina, la sua generazione elegante. Tutto cade, tutto crolla. La morale muffosa, le filosofie greppajole e bugiarde, il rettoricume antiquato non salvano la situazione. Il male è avanzato e non s’impedisce più ormai. I lecchezzi che adornano il vecchio edificio sono diventati il nido dei microbi che inquinano. Ormai tutto è condannato a sparire schiacciato sotto il cumulo enorme di vecchiume. La storia chiude questa fase curiosa, che diede lo spettacolo incomprensibile di supinità nei suoi membri devoti a una ridda di vari fantasmi inesistenti, e che fece vedere il ridicolo e continuo costruire per poi distruggere, il continuo e paziente soffrire della moltitudine e il gavazzare di pochi; tutto un insieme di vigliaccheria, inversione, nefandezze che vi vogliono far passare per azioni eroiche, tutta una mentalità rinsecchita che loro dicono geniale.
Così ha fine questa età. Ben vada. Al cospetto di tante rovine, novello Nerone canto sul disastro, godo nel vederlo, poiché su queste rovine edificherò il mio edificio, la mia civiltà, il mio mondo. Perciò canto...
Io chiamo a raccolta tutti gli spasimi della terra. Chi ha un tarlo occulto che lo roda, chi porta il tutto per l’ideale, chi sghignazza sullo sfacelo dell’anima, venga. Ho bisogno che il mio dolore diventi fiumana, bufera; ho bisogno di udire l’urlo della sofferenza, il gemito della disperazione. Perché nel mondo si ride; e io non posso sentir ridere. Fratelli di catena, compagni di strazio, la battaglia è vicina. Presto, ebbri di vendetta, ci scaglieremo all’assalto. E il nemico fuggirà, perché è terribile la federazione del dolore.
Da quando nacqui porto il pesante fardello. E le spalle si sono incurvate e gli occhi infossati. Il tarlo rode, rode; mi ha già distrutto.
Basta, perdio! Sono stanco.
Getto il fardello e mi fermo, ne ho abbastanza della vita. Non ho potuto vivere, mi saprò vendicare. Creperò su qualche marciapiede, con l’ultima bestemmia sul labbro e l’ultimo guizzo di odio nell’occhio.
Come odio! L’acciottolato lurido della città mi manda tanfate di fogne. Mi ha avvelenato. Ero così forte prima! Ridevo anch’io allora... poi... devo proprio urlare quello che avvenne, devo proprio denudarmi davanti a voi? Ma imbecilli, è la solita storia! Si ama, si spera, si opera, e poi viene lo schifo, il nulla, la disperazione...
Ma perché questo? Che ho fatto io?
Vedo crescere tranquillamente le margherite, le rondini vanno e vengono per le vie del cielo. Lasciatemi in pace dunque!
Anche io sono una margherita e una rondine... piace anche a me la rugiada e l’azzurro libero. E invece... ammanettato, infangato, affamato. Senza amore, senza libertà.
E sia, piochè lo volete. In lupo mi trasformaste e lupo rimarrò.
Ma finora m’ artigliai il petto, domani voglio altro sangue.
Non domandate altra pietà poi. Nel mio cervello avete scritto: strage. E strage sia. Forse l’umanità è sporca. Ha bisogno di lavarsi, e per questo bagno ci vuole sangue. Chissà dopo il lavacro e la distruzione... chissà se faremo come le margherite e le rondini... come sarebbe bello!
Per queste anime in pena del mondo, io vi chiamo a raccolta.
Il vessillo è già al vento. È nero: lutto vuol dire. Avanti dunque, forsennati Prometei. L’urlo della vendetta è una musica dolce e cara. Oggi bisogna uccidere... domani saremo margheritine...
Bruno Filippi
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