sabato 2 novembre 2013

Sull'utilità e il danno della storia per la vita


«Del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività». Con queste parole di Goethe, come un ceterum censeo energicamente espresso, può cominciare la nostra considerazione sul valore e la mancanza di valore della storia. In essa si esporrà infatti perché un’istruzione senza vivificazione, perché un sapere in cui l’attività si infiacchisce, perché la storia in quanto preziosa superfluità di conoscenza e in quanto lusso, ci debbano essere sul serio, secondo il detto di Goethe, odiosi – per il fatto cioè che mancano ancora del più necessario, e che il superfluo è nemico del necessario. Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere, sebbene costui guardi sdegnosamente alle nostre dure e sgraziate occorrenze e necessità. Ossia ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azione, o addirittura per abbellimento della vita egoistica e dell’azione vile e cattiva. Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia: ma c’è un modo di coltivare la storia e una valutazione di essa, in cui la vita intristisce degenera. Sperimentare questo fenomeno da notevoli sintomi della nostra epoca, è oggi necessario quanto può essere doloroso.

Mi sono sforzato di descrivere un sentimento che mi ha molto spesso tormentato; me ne vendico abbandonandolo al pubblico. Forse qualcuno sarà indotto da una tale descrizione a dichiararmi che anch’egli invero conosce questo sentimento, ma che io non l’ho sentito in modo abbastanza puro ed originale, e non l’ho affatto espresso con la dovuta sicurezza e maturità d’esperienza. Così forse dirà l’uno o l’altro; ma i più mi diranno che è un sentimento completamente falso, innaturale, orribile e addirittura illecito, anzi che con esso mi sono mostrato indegno della così potente corrente storica che, com’è noto, si può osservare nelle ultime due generazioni, specialmente fra i Tedeschi. Ora del fatto che io osi venir fuori con la descrizione naturale del mio sentimento, il decoro generale viene comunque piuttosto favorito che danneggiato, in quanto offro a molti l’occasione di dire gentilezze a una corrente come quella appena menzionata. Quanto a me poi, guadagno qualcosa che ai miei occhi ha ancora più valore del decoro – di essere cioè pubblicamente istruito e illuminato sulla nostra epoca. Inattuale è inoltre questa considerazione, perché cerco di intendere qui come danno, colpa e difetto dell’epoca qualcosa di cui l’epoca va a buon diritto fiera, la sua formazione storica; perché credo addirittura che noi tutti soffriamo di una febbre storica divorante e che dovremmo almeno riconoscere che ne soffriamo. Ma se Goethe ha detto a buon diritto che con le nostre virtù noi coltiviamo nello stesso tempo anche i nostri difetti, e se, come tutti sanno, una virtù ipertrofica – come mi sembra che sia il senso storico della nostra epoca – può causare la rovina di un popolo, così come può causarla un vizio ipertrofico, allora per una volta mi si lasci dire. Inoltre a mia discolpa non dev’essere taciuto che le esperienze che suscitarono in me quei sentimenti tormentosi, io le ho attinte per lo più da me stesso e dagli altri le ho attinte solo per paragonarle, e che solo in quanto sono allievo di epoche passate, specie della greca, giungo a esperienze così inattuali su di me come figlio dell’epoca odierna. Ma questo devo potermelo concedere già per professione, come filologo classico: non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo.

F. Nietzsche

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