giovedì 29 agosto 2019

STIRNER E NIETZSCHE –SPIRITI AFFINI





Al di la del dibattito su una possibile influenza del pensiero stirneriano sulla filosofia di Nietzsche, dibattito aperto dalle affermazioni contrastanti di Elisabeth Nietzsche (nota sorella del filosofo) e Franz Overbeck (il piu prossimo tra gli amici dell’autore), in questa sezione del lavoro intendo evidenziare i vari punti di contatto che ritengo interessanti nelle rispettive posizioni dei due pensatori.
A titolo di curiosita aggiungo soltanto l’opinione espressa da Overbeck nei suoi Ricordi di Nietzsche: 
«Senza dubbio Nietzsche si è comportato in modo strano con Stirner. Ma se non ha permesso alla sua abituale eloquenza di manifestarsi in modo del tutto sfrenato su di lui, non l’ha fatto per celare una qualche influenza di Stirner (che d’altra parte, in senso stretto non esiste), ma perché voleva dominare da solo l’impressione che Stirner aveva provocato in lui».
Non intendo ad ogni modo addentrarmi piu approfonditamente nelle vicende biografiche di Nietzsche che possano chiarire tale rapporto in quanto, tali vicende, oltre che di scarsa entita, sono gia state ampiamente trattate da vari studi sull’argomento.
Iniziamo pertanto la nostra analisi da un interessante accostamento tra le varie fasi stirneriane della crescita dell’uomo – gia trattate nella precedente sezione di questo lavoro – e un magistrale capitolo dello Zarathustra nietzschiano, ovvero il capitolo Delle tre metamorfosi.
In questo brano Nietzsche ci illustra tre metamorfosi dello spirito, che non possono non riportarci alla mente le fasi proposteci dallo Stirner nell’unico. La prima immagine che ci viene proposta nello Zarathustra e l’immagine del CAMMELLO, dello spirito forte e paziente che, a somiglianza dell’adolescente stirneriano, va in cerca di ideali e carichi gravosi da sobbarcarsi. Questi ideali sono il pesante ed estraneo fardello che l’uomo, simile al cammello, si trascina sulle spalle. L’estraneita, concetto diametralmente opposto a quello di proprieta, in Stirner e sintomo di sacralita e in Nietzsche si presenta come il fardello che opprime lo spirito di gravita.
«Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore del proprio destino. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare».
Qui l’immagine del LEONE sembra avvicinarsi molto a quella dell’unico che, nella fase distruttiva del suo operare, va in cerca del suo ultimo dio (l’uomo feuerbachiano) per distruggerlo. Si scontra anch’egli, come il leone della metafora, con «il grande drago… che non vuol più chiamare signore e dio». “Tu devi”, questo e il nome del grande drago contro cui anche l’unico si scaglia demolendo tutti gli ideali che si pongo sopra di lui e che gli ordinano un modo di vita; «si aspira a ciò che si dev’essere, perciò non si è».
L’ultima metamorfosi che Nietzsche ci propone e il passaggio da leone a bambino. La figura del BAMBINO succede a quella del leone il quale, dopo aver distrutto tutto, ha posto la base per la creazione di nuovi valori, creazione che spetta appunto al bambino. Solo lo spirito divenuto bambino ora ha la possibilita di conquistare un suo mondo, di volere la sua volonta, e – a mio avviso – l’immagine dell’unico proprietario, che attraverso la sua forza fa valere la sua volonta e si appropria del mondo. «Dovresti essere non solo un uomo libero»,spirito leonino della metafora nietzschiana, «ma anche un individuo proprietario»,proprietario di se, dei propri pensieri e creatore di valori.
All’inizio della seconda parte de L’unico e la sua proprietà, l’autore ci chiarisce la fondamentale distinzione tra liberta e proprieta. Cio che intendiamo per LIBERTA e una realta totalmente negativa; e una liberta da- enon una liberta di-. Ci si puo cristianamente liberare dalle schiavitu e dalle passioni della carne, dominare la propria volonta, tendere alla liberta come valore assoluto, ma tutto cio non portera ad altro che ad un rinnegamento di se stessi. Essere liberi da- significa quindi essere privi di-.
Anche per Nietzsche coloro che si fanno portatori di questa specifica concezione della liberta, sono i deboli e i malriusciti, coloro che non detenendo forza e potere a sufficienza, tentano di raggiungerli predicando giustizia, liberta ed uguaglianza.
Tornando all’individuo proprietario che lo Stirner ci presenta, questi non deve percio limitarsi ad un mero ideale negativo della liberta, ma aspirare a qualcosa di piu, alla liberta di- plasmare il mondo circostante in base alla sua volonta, all’interno degli unici limiti che possano essergli posti innanzi: i limiti del suo potere e della sua forza. Liberta positiva di azione quindi, una liberta che e proprieta dell’oggetto stesso su cui si esercita.
Liberta che in questo caso e POTENZA, capacita di imporre la propria volonta:
«Io non ho niente da obbiettare contro la libertà, ma ti auguro qualcosa di più della libertà: tu dovresti non solo essere libero da ciò che non vuoi, cioè essere privo, ma anche avere ciò che vuoi».
Si potrebbe dire, sfatando finalmente un affermato luogo comune, che qui – L’essere sta nell’avere – proprio perche in Stirner – l’unico e la sua proprieta – e facendone seguire le affermazioni di Nietzsche:
«Questi possidenti hanno un unico articolo di fede: “bisogna possedere qualcosa per essere qualcosa”. Ma questo è il più vecchio e il più sano di tutti gli istinti; io aggiungerei: “bisogna voler possedere di più di quanto si ha per diventare qualcosa di più”. Avere e voler avere di più, in una parola: crescere – è la vita stessa».

mercoledì 28 agosto 2019

IL SÈ E L’ALTRO: L’UNICO E L’UNIONE DEGLI EGOISTI 2



In terzo luogo, Stirner insiste sul fatto che l’Unico è più che “uomo” o “umanità”, e non meno di questo. Stirner afferma che è certamente possibile per gli individui essere più che “uomo” o umanità, ma è impossibile per loro essere meno di questo. Le idee fisse della modernità promuovono una normalizzazione, comunanza e omogeneità che riducono le persone e il loro comportamento al minimo comune denominatore intellettuale e comportamentale.
Gli ideali di religione, filosofia e scienza non sono edificanti e non consigliano alle persone ad essere più di quello che sono, più felici, più intelligenti e più potenti. È vero il contrario, spingono le persone ad aspirare ad essere meno di quello che sono. Ma l’Unico resiste alla riduzione modernista delle persone a categorie astratte. “Considerati più potente di quello che ti danno e hai più potere; considera te stesso di più e avrai di più”.
L’Unico non è uno strumento o un vessillo di idee o di dei, e rifiuta di esistere per lo sviluppo dell’umanità, di una nazione, di una classe sociale o di una razza. Invece, l’unico “vive se stesso, incurante di quanto bene o male” ideologie, cause o movimenti faranno in conseguenza. Stirner deride: “Cosa sono io nel mondo per realizzare idee?” Chiaramente, almeno l’Unico non è nel mondo per realizzare idee o qualche immagine idealizzata di sé.
Solo quando sono sicuro di me stesso e non cerco più me stesso, sono davvero la mia proprietà; ho me stesso, quindi la uso e godo di questo. D’altra parte, non posso mai consolarmi, finché penso di dover ancora trovare il mio vero io, devo arrivare a questo, io e non Cristo o un altro io spirituale, spettrale, vivo in me.
L’Unico (a) possiede la propria vita, mente, corpo e sé; (b) rifiuta qualsiasi scopo esterno, richiamo o destino; (c) rifiuta di essere uno strumento per “poteri superiori” o “esseri supremi”; e (d) conosce e afferma se stesso come unico. L’immagine di Stirner dell’individuo unico definito dall’identità prescelta, che costituisce la sua proprietà, può suggerire la possibilità solo di forme molto tenue e precarie di relazioni sociali.
Cosa dice Stirner sulle relazioni tra e fra le persone? C’è una base per ricostruire la relazione con l’altro sé nel suo pensiero?
Stirner non solo era molto critico nei confronti delle ideologie come l’umanesimo e le relazioni di potere istituzionalizzate come lo stato, ma era anche critico nei confronti della società. Credeva che i concetti a livello macro, di una nazione o società tendessero a imporre credenze e identità restrittive e spersonalizzanti agli individui. La società sottopone gli individui a una moltitudine di vincoli che minano la libera scelta della persona e, di conseguenza, la proprietà e l’autorità. Di concerto con molti altri teorici, Stirner ha quindi posto un conflitto e un’opposizione fondamentali tra la società e l’individuo. Ma a differenza di altri teorici, Stirner non vide la necessità di conciliare entrambe le opposizioni, o di risolvere la contraddizione a favore della società o una presunta reciprocità tra società e individuo. Nelle teorie del contratto sociale di Thomas Hobbes, John Locke, Jean-Jacques Rousseau e le teorie sociologiche moderniste di George Herbert Mead, Charles Horton Cooley e C. Wright Mills, il rapporto tra individuo e società è concepito come uno scambio reciproco, con la persona o la società, che sono presumibilmente in grado di forzare le concessioni date l’una dall’altra.
Pertanto, ognuno dà e riceve da questa relazione. Nel caso dei classici teorici politici, Hobbes, Locke e Rousseau, il contratto sociale assunse uno stato di natura caotico e violento in cui gli individui rischiavano la rapina, il furto e la morte a causa dell’assenza di coercizione istituzionalizzata sufficientemente potente da prevenire violenza e furto interpersonali. L’accordo tra l’individuo e la società, è che lo stato protegga la persona dalle minacce interne ed esterne, è che la persona si sottometta al potere e all’autorità dello stato. Dei tre, solo Locke ha tentato di creare un contratto sociale che mantenne una parvenza di individualità e protezione dell’individuo dallo stato.
Da qui il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. La nozione del Leviatano di Hobbes e la nozione di volontà generale di Rousseau sottendono sia l’individualità, la proprietà e la proprietà nell’interesse dell’ordine politico e il benessere sociale.
Nel caso dei classici teorici sociologici, il problema sociale fondamentale era anche come creare e mantenere l’ordine sociale. I primi sociologi come Auguste Comte ed Emile Durkheim credevano che l’ordine fosse il risultato di un sistema sociale autoritario popolato da individui compatibili e malleabili che non erano solo subordinati allo stato ma suscettibili di gestione da parte di altre istituzioni sociali e dei valori promossi dalla cultura e dalla scienza.
Il fondamento della ricostruzione autoritaria della sociologia è il posizionamento della “società” sullo stesso piano concettuale dell’individuo.
Nel caso di ciascuno di questi teorici politici e sociali, il contratto sociale si fonda sulla convinzione, o sulla metafora, che uno stato di natura pre-sociale violento e insignificante spinga gli individui a fare contratti privati, o a farli con le istituzioni sociali per provvedere all’ordine, alla struttura e significato nella loro vita quotidiana. In opposizione a tutte le forme di teoria dei contratti sociali,
Stirner sostiene che lo “stato di natura” non è un egoistico bellum omnium contra omnes, ma un’esistenza strutturata, istituzionalizzata, collettivizzata in cui stato, società e cultura precedono la nascita e l’interazione della persona. Per Stirner, la società è lo stato della natura. Non ha senso parlare di un contratto che nessuno ha mai accettato. Non ha senso parlare della natura gemellare della relazione tra l’individuo e la società, o l’idea che la lingua, i significati e la cultura siano negoziati tra le persone su base quotidiana. Gli individui non sono “nati liberi” e successivamente verranno ridotti in schiavitù dalla società. Sono nati in una società con preesistenti e potenti controlli istituzionali su lingua, pensiero e comportamento.
Gli esseri umani non “entrano” nella società come soci alla pari con le interazioni regolate da contratti o norme di reciprocità. Indipendentemente dalle circostanze socio-storiche, la relazione tra individuo e società è una lotta fin dall’inizio con la proprietà della vita, del sé, della libertà e della proprietà della persona. Stirner riformula la relazione tra l’individuo e la società come un conflitto sulla proprietà o il proprietario, e non tanto sui vincoli alla libertà della persona imposti dal Leviatano o dalla volontà generale.
Certo, la libertà individuale è limitata dalla società e da tutte le forme di relazioni sociali, ma il conflitto primario riguarda gli sforzi della società per appropriarsi della “proprietà” o potere dell’individuo: ogni società intende appropriarsi del corpo, della mente e del sé della persona. Ogni società cerca la sottomissione della persona, con l’abbandono della propria proprietà. L’esistenza umana è caratterizzata dalla lotta della persona, o dell’Unico, contro l’appropriazione esterna della proprietà.
La società naturalmente, sorge e si evolve anche attraverso l’interazione degli individui. Ma le relazioni diventano organizzazioni. Le istituzioni acquisiscono strutture di autorità coercitive che impongono norme e ruoli. La società degenera in una “fissità” in cui l’unione volontaria degli individui si blocca “.” Stirner distingue tra i rapporti sociali delle organizzazioni, in cui gli individui nascono o sono costretti, e quelle cui si uniscono consapevolmente e volontariamente.
Questa distinzione chiarisce che l’egoista o l’unico non è il misantropo isolato e nichilista descritto dai critici più duri, tra cui Marx, Paterson e Lowith. In opposizione al tipo di legame sociale che è esterno ed eternamente vincolante per le persone, Stirner identifica l ‘”unione di egoisti”, che può limitare la libertà o la autonomia negativa degli individui, ma è principalmente caratterizzata dalla proprietà o dall’auto-proprietà degli stessi che ne fanno parte. La società è preesistente e predeterminante.
L’unione degli egoisti è il risultato del lavoro dei suoi partecipanti. È la loro creazione, prodotto e proprietà. L’unione degli egoisti è il concetto di Stirner di una relazione sociale volontaria, spontanea e per sé che viene continuamente creata e rinnovata da tutti coloro che la possiedono e la sostengono attraverso atti di volontà.
L’unione degli egoisti implica che tutte le parti partecipino all’organizzazione attraverso un egoismo consapevole o un’autodeterminazione autocosciente.
Significativamente, la relazione più importante in questa unione di egoisti è la relazione tra l’individuo e il sé. Stirner sostiene che l’egoista dialettico che partecipa a un’unione di egoisti dissolve la società e tutte le relazioni coercitive interpretando il sé come soggetto di tutte le proprie relazioni con gli altri. Il rapporto tra individuo e sé, partecipando all’unione degli egoisti, è un “nulla creativo”, in cui la persona crea e comprende il sé come soggetto, appropriandosi e consumando la propria vita e le relazioni come proprietà, per sé stesso o il proprio godimento.
Io, l’egoista, non ho a cuore il benessere di questa “società umana”. Non sacrifico nulla per essa. Lo uso solo; ma per poterlo utilizzare completamente lo trasformo piuttosto nella mia proprietà e nella mia creatura; cioè lo annichilisco e al suo posto forma l’unione degli egoisti.
Il punto di vista di Stirner sulla proprietà, l’auto-proprietà e l’ego unico struttura la comprensione delle relazioni sociali, della critica della società e della contro-società o contro-cultura che suggerisce l’idea dell’unione degli egoisti. Ciò che caratterizza in modo specifico l’unione degli egoisti non è la “misura della libertà” che può offrire, ma la caratteristica dove i membri possono essere solo se stessi “davanti ai loro occhi”, non vedendo l’organizzazione come un “potere sovrano”, che adempie a uno”scopo o livello superiore “,il ” sacro dovere “o un” destino storico “. L’unione degli egoisti è costituita da relazioni che sono possedute dai partecipanti come proprietà di individui unici.
L’unione degli egoisti non può essere fondata su idee o principi che esternano le decisioni e le convinzioni degli individui. Invece, l’unione degli egoisti definisce l’alienazione e la reificazione con il nulla. “Anticipa” la società e tutti i principi che promuovono relazioni sociali o interazioni non basate sulla proprietà.
Stirner contrappone alle relazioni e le organizzazioni basate sull’ideologia o su concetti astratti come la giustizia, l’amore, la misericordia, la pietà e la gentilezza, con l’unione di egoisti, basata sulla proprietà, il godimento e l’egoismo. A differenza di altre forme di proprietà, sostiene che l’unione degli egoisti richiede reciprocità perché desideri e concessioni possono essere vinti e acquisiti dagli altri solo in relazioni fondate sulla proprietà, il godimento e l’interesse personale.
Nell’unione degli egoisti, l’individuo ha una certa influenza sugli altri e può influenzare gli effetti della stessa interazione. In altri tipi di organizzazioni, la persona è in svantaggio dall’inizio. Ad esempio, in che modo la persona ottiene gentilezza, amore, misericordia, pietà o giustizia in un’organizzazione basata su tali principi? Come si ottiene la gentilezza o l’amore, o qualsiasi altra forma di desiderata che non può esistere sulla base dello scambio reciproco?
La produzione e lo scambio di gentilezza, amore o giustizia sono interamente a discrezione degli altri. Questi sono doni che sono proposti dal piacere degli altri. In caso di amore, misericordia o pietà:
Il beneficio dell’affetto, si può ottenere solo supplicando, sia con il mio aspetto deplorevole, con il mio bisogno di aiuto, la mia miseria, la mia sofferenza. Cosa posso offrirgli per l’aiuto? Niente! Devo accettarlo come regalo.
È solo nell’unione degli egoisti che l’individuo ha un certo controllo o capacità di influenzare i modi di fare degli altri nell’organizzazione. È solo all’interno dell’unione degli egoisti che i bisogni degli individui possono essere soddisfatti in modo reciproco e volontario.
Le unioni degli egoisti non sono altro che gli individui che le compongono, sono solo strumenti che esistono “per te e attraverso di te”. Non sono entità naturali né spirituali, ma luoghi in cui gli individui possiedono e dominano relazioni e le usano per soddisfare i bisogni, interessi e desideri. “In breve, la società è sacra, l’unione è tua; la società ti consuma, tu consumi l’unione. “
Il contrasto tra Stirner e la società e l’unione degli egoisti colpisce il cuore delle domande filosofiche di base sulla natura e lo scopo dell’organizzazione sociale e della cultura. A che scopo servono, le organizzazioni sociali, che sono caratterizzate dalla reciprocità che i teorici classici hanno cercato, e creato? Sono create e mantenute vivendo, agendo sugli individui che beneficiano della loro appartenenza o stanno preesistendo al servizio degli interessi dell’organizzazione reificata o di un’élite al suo interno?
Inoltre, che tipo di legittimità hanno le organizzazioni preesistenti e reificate?
Qual è la base della loro legittimità? Possono avere qualche tipo di legittimità se non vengono create, mantenute e trasformate, vivendo e agendo per persone che beneficiano di questa appartenenza? Se la società e la cultura non sono create e mantenute dai loro partecipanti e non soddisfano i bisogni e gli interessi, che tipo di lealtà e obbedienza possono legittimamente rivendicare? Se la società e le organizzazioni sociali non sono reciproche, come sono definite dalle persone che le abitano…possono rivendicarne una legittimità?
Il concetto di Stirner dell’unione degli egoisti è principalmente una critica del fatto e dell’ideologia secondo cui la società e le organizzazioni sociali sono entità esterne e vincolanti che mantengono gli individui in uno stato di relativa impotenza e non operano sulla base della reciprocità. Per Stirner, l’unione degli egoisti si basa sull’idea che i legami e le relazioni sono creati a piacere delle persone ed esistono per servire le persone.
L’unione degli egoisti è un concetto che Stirner usa per un’organizzazione basata sui concetti di proprietà e dominio, per contrastare quelli basati sull’auto-rinuncia e l’espropriazione.
Font: AbissoNichilista


martedì 27 agosto 2019

L’IO E L’ALTRO: L’UNICO E L’UNIONE DEGLI EGOISTI 1


Il dibattito di Stirner sulla modernità e sulla proprietà suggeriscono che gli esseri umani hanno una capacità intrinseca di resistere a forme di dominio sia dirette che indirette, oppure suggeriscono che c’è qualche aspetto degli esseri umani che non può essere arrestato dalle istituzioni sociali e dalle ideologie che cercano di ridurre le persone a parti di costrutti collettivisti. Anche se non affronta il concetto in modo sistematico, Stirner si riferisce al “non-uomo” o al “non-umano” in più di una dozzina di posizioni espresse in “L’Unico e la sua Proprietà”.
Il non-uomo o non umano sembra avere almeno tre significati nell’egoismo di Stirner. In primo luogo, egli usa il termine come un modo per descrivere quali ideologie moderniste, in particolare il cristianesimo e l’umanesimo, scelgono di scartare questo. Nella propria ricerca dell’essenze, il pensiero modernista emette giudizi su ciò che è essenziale e ciò che non lo è, ciò che conta per il collettivo e ciò che non lo è. In alcuni riferimenti in “L’Unico e la Sua Proprietà”, il non umano è il residuo, ciò che si è fermato. Secondo, il non umano si riferisce a pensieri, comportamenti e caratteristiche delle persone che il pensiero modernista sceglie di deridere o svalutare; è oggetto di “critica” da parte di liberali, socialisti e umanisti.
Stirner si riferisce a l’egoismo, l’alterità, l’isolamento, la vita privata e la ribellione come qualità particolarmente importanti che sono derise dal modernismo. Identifica “l’egoista” e il “diavolo” come etichette che le ideologie moderniste usano spesso per differenziare il “non umano” dall’essere “umano” apprezzato dal modernismo. In questo senso, Stimer riconosce che “umano” o umanità sono anche un simbolo che ha funzioni di controllo sociale. Identifica non solo ciò che è sacro per l’umanità e la società, ma anche ciò che è deviante o profano. Per il modernista, il non umano è un termine di derisione inteso a denigrare o screditare quei pensieri e quei comportamenti che mettono alla prova o minano il collettivo, il moderno, il razionale.
Il terzo scopo di Stirner del “non umano” è probabilmente il più significativo.
È la base della sua negazione o del rifiuto dell’umanità e della società. Usa chiaramente il termine per riferirsi alla devianza cosciente, alla profanità e alla dimensione ribelle degli individui.
E se il non umano, voltando le spalle a se stesso con cuore risoluto, dovesse allo stesso tempo allontanarsi dal critico inquietante e lasciarlo in piedi, intatto e non provocato dalla sua rimostranza? . . . Ero spregevole perché cercavo il mio “io migliore” al di fuori di me; Ero il non umano perché ho sognato l’umano. . . . Ma ora smetto di apparire a me stesso come un non umano, smetto di misurarmi e di lasciarmi misurare dall’uomo, smetto di riconoscere qualcosa sopra di me.
L’unicità di Stirner accoglie l’etichetta “egoista”, ma non accetta più la critica, l’avversione e la deroga implicita dai critici religiosi, liberali, socialisti e umanisti. Dalla nozione di non-uomo o non-umano, Stirner inizia a sviluppare il suo concetto di unicità … colui che non solo abbraccia l’egoismo come descrittivo del suo rifiuto dei costrutti collettivisti della modernità, ma respinge anche il calcolo o il confronto di sé con l’umano, l’umano e l’altruista.
L’egoismo a cui giunge non è solo una risposta negativa al cristianesimo, il liberalismo, il socialismo e l’umanesimo, ma è una ricostruzione della ribellione fondata sull’unicità dell’individuo. L’egoismo di Stirner rifiuta l’idea che qualsiasi aspetto della persona possa essere scartato come “non-uomo” o “non umano” basato su misurazioni, norme o confronti astratti delle persone.
Le reificazioni della religione, della scienza e della filosofie moderniste si rivelano poco più che spettri o fantasmi che non hanno alcun referente “fuori dalla testa” del pensatore modernista.
Quindi, il non umano è l’espressione iniziale o incipiente dell’unico. È la dialettica di Stirner della ricostruzione dell’ego o del sé. Il pensiero modernista non riesce a ghermire la totalità della persona. L’umano non umano si trasforma nell’unico attraverso l’affermazione che la persona è unica e, quindi, senza alcuna norma valida o misura comparativa.
Le scienze di base e curative della modernità, ovviamente, cercano di comprendere non l’individuo unico ma le rappresentazioni normalizzate della gente. I metodi delle scienze di base e curative si basano sulla ricerca dell’omogeneità, non sulla diversità, non sull’individualità. Gli eventi o gli individui che esistono o si comportano al di fuori delle deviazioni norma specificate sul diagramma di probabilità sono un anatema per i canoni della filosofia e della scienza modernista. Le deviazioni, i valori anomali o i residui che si adattano perfettamente ai paradigmi o ai modelli statistici modernisti devono essere mistificati come irrazionali o inspiegabili.
Oppure, vengono ignorati perché cadono al di fuori dei limiti dell’esperienza accettabili sul diagramma di probabilità, Quindi, il fenomeno che Sigmund Freud ha tentato di classificare nel “Jd” e George Herbert Mead ha tentato di categorizzare nell’Io viene respinto come aggressivo e residuo irrazionale poiché rivelano le fasi di comportamenti individuali che non possono essere catturati o vincolati da modelli scientifici o élite istituzionali.
Per Stirner, tuttavia, il non umano non implica aggressività o irrazionalità; implica solo ciò che viene scartato o marginalizzato dall’umanesimo e dalle forme di pensiero modernista. La proprietà non implica aggressività o irrazionalità; implica solo che le persone stabiliscano dei limiti contro le ideologie e i sistemi sociali che cercano di estirpare la differenziazione tra il Mio e il tuo, io e Tu, Io e gli altri.
Né l’unico implica aggressività, irrazionalità o superiorità.
Stirner include una breve sezione intitolata “L’Unico” alla fine di “L’Unico e la Sua Proprietà”, ma ci sono sezioni aggiuntive del libro che articolano questo concetto critico. Il dibattito di Stirner sull’unico può essere riassunto in tre punti. Primo, l’unico si basa sull’idea che la persona ha un’esistenza autonoma, oggettiva, una vita e un sé che non sono né idealizzati né alienati. La vita e il sé di un individuo non sono solo idee create da qualsiasi tipo di essere esterno e supremo. Inoltre, la persona ha una vita e un sé che appartengono a lui e nessun altro. Certamente, una vita e un sé sono forme di proprietà che la persona può scegliere di alienare, ma non quella dell’unico. L’unico è un essere oggettivo, ma ha anche una coscienza e volontà che asserisce la proprietà sulla sua vita e su se stesso. L’unico ha una realtà in sé e per se stessa. Come dice Stirner, “Io sono [me stesso] non solo di fatto o di essere, ma anche per la mia coscienza, l’unico.”
Secondo, l’Unico non è un obiettivo e non ha né vocazione né destino.
Per l’Unico, la vita non richiede che la persona decida come essere acquisita, il suo significato e il sé. Richiede solo come usarla, consumarla, dissiparla o dissolverla. Vivere è un’azione continua di consumo di tempo, energia, corpo e proprietà usabile per una persona. La sfida che la persona deve affrontare non è trovare, scoprire o ricevere un destino inventato da altri, ma decidere come vivere “se stessi fuori”.
Coloro che sono affamati della vera vita non hanno alcun potere sulla loro vita presente, ma devono applicarla allo scopo di ottenere così quella vera vita, e devono sacrificarla interamente per questa aspirazione e questo compito. . . . In questa visione la vita esiste solo per ottenere la vita, e si vive solo per rendere viva l’essenza dell’uomo in se stessi, si vive per il gusto della sua essenza. Un individuo ha la sua vita solo per cercare attraverso di essa la vera vita purificata da ogni egoismo. Quindi si ha paura di farne un uso di piacere: ma deve servire solo per un “giusto uso”.
Stirner afferma che c’è una differenza tra il desiderio e la ricerca di vita, significato e sé, e il possesso di vita, significato e sé. Una cosa è rincorrere un ideale o un dettame come un destino e un’altra è usare, consumare o dissolvere la propria vita ogni giorno. Nel primo caso, la persona ha un obiettivo, una vocazione e un destino coltivato e imposto da un altro potente destinato a soddisfare un’essenza idealizzata.
Nell’altro caso, la persona non è un obiettivo, ma un punto di partenza che vive, gode, consuma, dissolve e spreca la propria vita e proprietà. L’unico non ha né vocazione né destino. L’unico scopo è assegnato a se stessi per vivere la propria vita, o per sviluppare sé stessi, non per una “essenza superiore”. ” Le persone hanno sempre supposto che dovevano affibbiarmi un destino che giace fuori di me stesso, così che alla fine mi hanno chiesto di reclamare all’umano perché sono un uomo. ” Tuttavia,
Sono Unico. Quindi anche i miei desideri sono Unici e le mie azioni; in breve, tutto di me è Unico. Ed è solo come questo Io Unico che afferro tutto per conto mio, mentre mi muovo, agisco e sviluppo me stesso, solo in questo modo. Non sviluppo gli uomini, né come uomo, ma, come Io, Mi sviluppo.

lunedì 26 agosto 2019

LEOPARDI E LA GENEALOGIA DEL NICHILISMO


La nostra ricerca è volta alla ricostruzione della genesi del nichilismo europeo alla luce del pensiero leopardiano. Quella che ne emerge non è solo l’immagine di un Leopardi anticipatore del “nichilismo europeo”, ma anche la figura di un impensato genealogista di un fenomeno epocale sul quale sono state spesso accampate origini straniere (tedesche, russe o francesi). In questa ottica inedita, la stessa ‘svolta nichilistica del pensiero leopardiano può essere riguardata come una pagina spartiacque nella storia del nichilismo. 
   Il nostro lavoro si articola essenzialmente in due parti: la prima ricostruisce il dibattito sorto intorno al nichilismo leopardiano, dopo aver rievocato i termini della questione del nichilismo in generale, tenendo sullo sfondo le maggiori interpretazioni di tale fenomeno (Nietzsche, Löwith, ecc.). La seconda sezione rintraccia e analizza gli “a priori storici” del nichilismo europeo a partire dall’opera di Leopardi, in costante contrappunto con la diagnosi nietzscheana. Se si libera la Volontà di potenza dal mito della “volontà di potenza”, ciò che resta è una sorprendente analisi genealogica, apparentemente senza precedenti, del fenomeno del “nichilismo europeo”. Diciamo ‘apparentemente’, perché qui vorremmo mostrare, appunto, come il precedente sia rappresentato proprio dall’opera di Leopardi a maggiore densità filosofica. 
   Com’è noto, si parla di “nichilismo europeo” da due secoli a questa parte, da quando Nietzsche vide quell’orizzonte che era rimasto latente nel “movimento di Pascal” e che avrebbe dovuto attendere ancora altri “due secoli” per apparire limpidamente come l’orizzonte di un mondo senza Dio e senza perché. Lo stesso Pascal riconosceva che un mondo senza Dio si sarebbe rivelato un “mostro” e un “caos”: tale ipotesi assurda sarebbe riemersa come un incubo filosofico nell’opera di Jean Paul, per trovare soluzioni diverse in Leopardi e in Nietzsche. 
   Storicamente il termine “nichilismo” comincia a circolare nel dibattito filosofico tedesco a cavallo fra Sette e Ottocento. Al timore verso il nichilismo mostrato da Jacobi avrebbe risposto Fichte con il suo rassicurante nichilismo metodico, mentre Hegel avrebbe superato a sua volta anche la posizione fichtiana col suo peculiare nichilismo dialettico espresso in Fede e sapere. Il timore del nichilismo espresso da Jacobi e Jean Paul veniva così ben presto riassorbito da quello stesso idealismo tedesco che sembrava averlo suscitato.
   Se Leopardi rimane sostanzialmente estraneo tutto questo dibattito, non si può tuttavia affermare che non ne venga minimamente toccato. Leopardi attingerà anzi direttamente alla fonte il problema del nichilismo, prospettato per la prima volta da Pascal in termini non tanto dissimili da quelli che verranno approfonditi dal pascaliano Jacobi, nei termini dell’alternativa: aut Deus aut nihil. Inoltre, l’incubo di un mondo in cui Dio è morto annunciato da Jean Paul non doveva essergli ignoto. La curvatura esistenziale-assiologica del problema del nichilismo appena accennata in Jacobi e Jean Paul diviene anzi preponderante in Leopardi, che tra i primi pensatori europei a porsi in modo radicale il problema del senso dell’esistenza, trasformandolo nella domanda fondamentale del nichilismo. 
   Ora chiediamoci: in che senso si può parlare di nichilismo a proposito di Leopardi? La prima lettura di Leopardi in chiave decisamente nichilistica risale a Nietzsche, il quale intravide nel poeta-pensatore il prototipo del “nichilista”, e tuttavia un “nichilista” ancora troppo “passivo” e lamentevole, per potersi definire “il più perfetto tipo del nichilista”. Il dibattito sul nichilismo in Leopardi viene inaugurato da Cesare Luporini soprattutto alla fine degli anni Ottanta. Luporini corresse la sentenza di Nietzsche su Leopardi, a costo di forzare i termini nietzscheani, considerando Leopardi un “nichilista attivo”, un disincantato mai compiaciuto o rassegnato, anzi intimamente animato da un’“assiologia vitalistica”. Avendo ricostruito e discusso criticamente l’intera storia della ricezione del nichilismo leopardiano (da Luporini a Caracciolo, a Sciacca, a Severino, a Givone, Garaventa, ecc.) abbiamo avuto modo di chiarificare i termini della problematica in questione. Anzitutto, Leopardi può essere considerato un puro nichilista? Posto, poi, che quella di Leopardi sia una “filosofia del nulla”, di che specie dovrà essere considerato tale nulla? E come intendere la sconcertante affermazione che “il principio di tutte le cose e di Dio stesso è il nulla”? Negli anni Novanta si è delineato, in particolare, un conflitto ermeneutico fra l’“ontologia del nulla” difesa da Givone e il nichilismo al suo culminante punto di catastrofe che Severino ha visto emergere in modo inaudito dal pensiero leopardiano. Dall’esame delle numerose voci che hanno animato il dibattito ci è parso che il nulla leopardiano non avesse una valenza esclusivamente nichilistica, ma anche un significato positivamente aperto al mistero o alla creatività, avvalorando in definitiva quella struttura endiadica e dialettica che Caracciolo aveva così bene messo in luce. 
   Il presunto dilemma sul Leopardi nichilista o non nichilista è destinato a rivelarsi uno pseudoproblema al pari della vecchia questione: filosofo o poeta? L’angustia dell’aut aut deve lasciare posto al respiro dell’et et. Solo così potremo accostarci alla ben più radicale questione della nostra indagine, che porta in primo piano l’immagine di un Leopardi genealogista del nichilismo europeo, oltre che anticipatore di quel fenomeno che vedrà in Nietzsche il maggiore profeta, e che desterà in Heidegger la più alta attenzione esegetica. 
   Come Nietzsche, Leopardi vedeva il futuro alle proprie spalle, e poteva interpretare il nichilismo proprio grazie a questa sua capacità di cogliere dietro di sé quel “movimento di Pascal” che, su un’onda più lunga, avrebbe portato al “quesito di Schopenhauer” sul senso dell’esistenza. 
   Pur rimanendone in parte contaminato, Leopardi mette allo scoperto e denuncia il nichilismo platonico-cristiano, così come critica la montante insignificanza imposta dall’“impero della ragione” e della “Verità”, cioè dal disincanto mitico prodotto via via dalla ragione teologica, filosofica, scientifica e tecnica. Di qui la polemica condotta contro il ‘nichilismo’ cristiano, il ‘nichilismo’ della ragione (una ragione, non per caso, definita “madre e cagione del nulla”), come pure contro il ‘nichilismo’ tecnoscientifico che si manifesta attraverso la riduzione a nulla della grandezza e del valore delle cose. Non va poi trascurata, nel quadro della critica del nichilismo etico-politico, la polemica leopardiana contro il ‘nichilismo di bassa lega’ degli italiani (Discorso sullo stato presente dei costumi degl’Italiani), che con il loro cinismo che contrasta con il resto della civiltà europea, oscurano il più filosofico e paradossale nichilismo del genio italico, ben consapevole della necessità di coprire con un velo d’illusione la vanità del tutto. 
   Leopardi ha individuato un altro tratto della genealogia del nichilismo, che verrà evidenziato da Löwith, e in base al quale il mondo contingente è leggibile come un retaggio, ma anche come una conquista, della teologia creazionista cristiana. Leopardi, infatti, sostiene in alcune pagine dello Zibaldone del 1821 che la teologia cristiana ha surrogato la caduta delle idee platoniche con un Dio inteso quale nuovo fondamento del  mondo, mondo che perciò si rivelava contingente, per effetto della volontà del suo creatore (Z 1712-14; 1645). 
   Sempre da buon genealogista, Leopardi è quindi riuscito a rintracciare il grafico di tale destino d’autosoppressione della religione ebraico-cristiana, paradossale “fonte dell’ateismo” (Z 1061-62), come rivela “quasi un albero genealogico” (ivi, 1061), in cui si vede l’originaria religione ebraica dissolversi attraverso le successive mutazioni via via registrate. Quello dell’autodissoluzione della verità e dei valori ideali è un altro dei nuclei nichilistici che possono essere illustrati e verificati attraverso l’esame delle prose leopardiane. 
   Con Leopardi si impone la grande questione che riguarda la storicità o meno del fenomeno nichilismo. Egli, infatti, vide come pochi che il ‘nichilismo’ antico (“Salomone e Omero”), per quanto sintomo di una “filosofia dolorosa, ma vera”, non basta a chiarire la condizione moderna e che quest’ultima è caratterizzata da un’inquietudine metafisica del tutto inedita, da un radicarsi dell’ipotesi pascaliana di un mondo senza fini e senza Dio e dell’interrogazione intorno ai destini umani e intorno all’enigma dell’essere che prelude al grande “quesito di Schopenhauer”. La presenza in Leopardi di tracce del ‘nichilismo’ ebraico-cristiano, come quelle del ‘nichilismo’ silenico dei Greci, non è ancora sufficiente, a nostro avviso, a legittimare un discorso sul nichilismo inteso in senso contemporaneo come radicale problematizzazione del senso. Come dice Nietzsche, “il nichilismo appare ora (…) perché si trova diffidenza a vedere un ‘senso’ nel male e nella stessa esistenza” (FP, 5 [71], 4). Il nichilismo appare nelle crepe del senso infranto, mentre per converso la domanda sul senso aquista significato a sua volta quando il nichilismo appare. 
   Per evitare confusioni, quando non parliamo della nostra epoca, preferiamo adottare la parola ‘nichilismo’ inserita fra due apici. La vanità del tutto predicata nell’Ecclesiaste o il me phynai (“meglio non essere nati”) dei Greci non basta ancora a definire un orizzonte veramente nichilista.         L’autentica svolta nel pensiero di Leopardi, la vera crisi del “sistema della natura” (di una natura ancora “provvidente”) non è dunque da ricercare tanto nella riscoperta di quel pessimismo antico che già con “Salomone e Omero”, e con le figure di Teofrasto e Bruto (nella Comparazione), avevano apportato una “incrinatura nichilistica” (Damiani). Tale incrinatura registrava la delusione della fede nel valore, la caduta della fiducia nella morale, insomma un primo preludio del nichilismo assiologico. Il ‘nichilismo’ antico, o meglio il nullismo accompagnato dal pessimismo sul valore della vita e della virtù non rappresenta ancora un nichilismo degno di questo nome. Perché? Semplicemente perché gli antichi non si erano mai posti in modo esplicito il problema del senso dell’esistenza, né potevano farlo, visto che per loro le cose erano “cose e non ombre” (OM 530), in ciò sorretti dalla persuasione dell’esistenza di un’altra vita (Z 412), una persuasione che dava sostanza e significato anche a questa. Si potrebbe pensare, ancora una volta, al ‘nichilismo’ platonico-cristiano, ma non si tratta solo di questo. Gli antichi non poterono veramente mai accedere all’idea dell’assurdo poiché “giudicavano tanto importanti le cose del mondo”. 
   L’idea di “assurdo”, intesa come ciò che nel mondo resiste ad ogni umana domanda di senso, si è rivelata, alla luce della nostra indagine, la conquista più propria e originale del pensiero di Leopardi troppo a lungo rimasta inavvertita. Basti citare qui almeno due esempi: “l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare” (Z 1470). “Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene…” (Z 4174). L’assurdo è urto e dissonanza, come diranno anche Rensi sull’onda di Leopardi e Camus sull’onda di Rensi. 
   Il pensatore italiano non fu solo (come si è spesso sentito ripetere) un precursore del “nichilismo europeo”, ma soprattutto un genealogista critico di tale fenomeno. Nel suo modo di rivisitarlo, egli rimase in parte contagiato dal ‘protonihilismo’ degli antichi (quello La satira corrosiva di Leopardi contro il della Bibbia come quello silenico dei Greci). Analogamente, postosi sulle tracce del ‘nichilismo’ platonico-cristiano, non mancò di polemizzare contro la ragione moderna, criticando il ‘nichilismo’ metodico della scienza e della tecnica. Infine, come inauguratore del nichilismo europeo, a dispetto di tutte le pretese fonti straniere, Leopardi rimane uno dei suoi maggiori e più rimossi protagonisti. 
   La nostra ricerca contempla: 1) un’ermeneutica del nichilismo leopardiano, volta a sondare in via preliminare la comprensione del problema così come esso è stato recepito dalla “storia degli effetti”: da Luporini ai più recenti apporti della critica; 2) una genealogia del nichilismo dagli antichi ai moderni nell’interpretazione stessa di Leopardi, ma tenendo sullo sfondo le maggiori ricostruzioni a lui posteriori. Queste due fasi distinte sottendono una decifrazione del sistema incompiuto del pensiero leopardiano che delinea i contorni di una singolare prospettiva di scetticismo possibilista aperto al mistero, in definitiva una forma di “nichilismo positivo” (nel senso di Giorgio Penzo) o di “nichilismo aperto” (nel senso di Weischedel). 
   Ma perché sarebbe più appropriato parlare di nichilismo anziché di “scetticismo”, visto che questo è il termine che, in fin dei conti, lo stesso Leopardi adotta per definire il suo sistema di “scetticismo ragionato” (Z 1655), spinto fino alle estreme “verità” con cui si chiude lo Zibaldone? Sta di fatto che lo scetticismo, a differenza del nichilismo, non si è mai posto la questione esistenziale del senso. Ora, quella del senso è una questione che ha avuto una gestazione più lunga e faticosa di quanto non si creda. Basti pensare alle domande gnostiche che riecheggiano nel “discorso del libertino” di Pascal o alla “destinazione” di cui parla Fichte nella Missione dell’uomo. Il “quesito di Schopenhauer” o l’interrogazione del “pastore errante” o dell’“Islandese” leopardiani si collocano su un’onda più lunga del domandare. Hanno già una curvatura inconfondibile, testimoniando una chiara precomprensione esistenziale del problema del senso. 
   Ma prima di conquistare quella nozione prettamente contemporanea dell’assurdo che si accompagna alla “rivolta metafisica” (nel senso di Camus), abbiamo dovuto riattraversare i punti di deflagrazione e di svolta del leopardiano “sistema della natura”. Si tratta di alcuni “a priori storici” che si manifestano nel processo di chiarificazione dell’orizzonte che segna l’epoca contemporanea del nichilismo, e che sono state da noi individuati in quattro momenti successivi. I primi segni che annunciano in Leopardi l’imbocco di una prospettiva di tipo nichilistico derivano quasi tutti dalla crisi del “sistema della natura”, di una natura concepita ancora come provvidente e benevola. Gli elementi che illuminano parallelamente lo sgretolamento di tale sistema e la nascita del nichilismo sono dati da alcuni momenti decisivi della storia delle idee. Tolti tali eventi cruciali, resterebbe vano il tentativo di chiarificare la svolta nichilistica leopardiana. Di più: senza seguire lo svolgersi di tali snodi non si riuscirebbe ad illuminare il movimento epocale del nichilismo europeo né a rendere luminoso quell’orizzonte che Nietzsche vedeva appunto due secoli alle proprie spalle nel profetico “movimento di Pascal” e davanti a lui come una sorta di coazione a ripetere il “quesito di Schopenhauer” e dei “teorici del fine dell’esistenza”: 
  a) il “grandissimo rivolgimento” apportato dalla rivoluzione copernicana, con la conseguente messa in crisi del finalismo antropocentrico;
     b) il crollo del platonismo e dell’innatismo nell’ambito della filosofia moderna;
   c) il “movimento di Pascal”, ossia l’ipotesi, rivelatasi profetica dopo Nietzsche, di un mondo “sdivinizzato” e insensato;
   d) il disastro di Lisbona con cui si registra soprattutto la catastrofe simbolica della teodicea leibniziana e del fondamento metafisico del mondo e della ragione;
   e) il “quesito di Schopenhauer”, la riformulazione della “domanda fondamentale della metafisica” in termini esistenziali e nichilistici. 
   Proviamo ad osservare più da vicino la portata di alcuni di questi punti. Leopardi ha previsto lucidamente le “conseguenze nichilistiche” della rivoluzione copernicana di cui avrebbe parlato Nietzsche: “da Copernico in poi l’uomo scivola verso una x”. Il fatto che si tratti soprattutto di una crisi simbolica o metaforica (come ha chiarito Blumenberg), non diminuisce la portata o gli effetti del fenomeno, che anche via Pascal (col suo senso di spaesatezza metafisica) vengono consegnati al nuovo paradigma della modernità. La rivoluzione copernicana appare, da Leopardi a Nietzsche, come una metafora dell’inarrestabile processo di “deteleologizzazione” del mondo innescato dalla ragione scientifica. La satira corrosiva di Leopardi contro il finalismo antropocentrico si inserisce in tale quadro di consunzione del concetto metafisico di “fine” che verrà diagnosticato da Nietzsche come uno dei sintomi più tipici del “nichilismo europeo”. 
   Un passo decisivo in direzione della cognizione nichilistica dell’assurdo – come abbiamo potuto verificare specie attraverso il Poema sul disastro di Lisbona – lo compie Voltaire con la sua radicale messa in questione della teodicea leibniziana che con Schopenhauer e Leopardi giunge ad un completo ribaltamento. Ma, per quanto ne prefiguri la possibilità, con Voltaire non viene ancora in piena luce la “rivolta metafisica” dell’Islandese alle prese con la figura sfingea e pietrificata dell’enigma cosmico. 
   Si tratta di un progressivo processo di disincantamento del mondo prodotto dall’“impero della ragione” (Z 37). Il nichilismo europeo, in questo senso, rivela un carattere in qualche modo ‘destinale’, poiché la ragione non può fare a meno di far “strage delle illusioni”. Abbiamo visto come questo procedimento negativo della filosofia (si pensi ad un Bayle) e della scienza moderna sia analizzato con acutezza e lucidità assoluti da Leopardi. Non a caso Leopardi ha valorizzato al massimo il versante negativo del pensiero moderno: filosofi come Locke, Cartesio, Newton, è stato osservato, “contano esclusivamente in quanto pensatori negativi”. Ma lo stesso potrebbe certo dirsi per Bacone, Bayle, Montesquieu, d’Holbach, Voltaire, ecc. 
   È però con il “quesito di Schopenhauer”, già intravisto da Leopardi, che l’orizzonte del nichilismo diventa, forse per la prima volta, trasparente a se stesso. Messo da parte lo stereotipo del pessimismo, si tratta di vedere in che senso con questi due “teorici dell’esistenza” si possa fare ingresso nell’epoca nichilistica. In tutta la sua vita Leopardi non cessò di arrovellarsi intorno ai quesiti dell’esistenza. Basti pensare a quell’“arcano mirabile e spaventoso”, o quella “cosa arcana e stupenda” evocati in tutta la loro numinosa potenza nel Cantico del gallo silvestre come nel Coro dei morti del Dialogo di Federico Ruysch. 
   Un capitolo a parte riserviamo al rapporto fra idealismo tedesco e nichilismo romantico. Siamo qui in presenza di un passaggio cruciale per cogliere la genesi storicofilosofica del nichilismo, che coinvolge tutta una serie di personaggi che hanno variamente a che fare con i problemi lasciati aperti dal kantismo: da Jacobi e Jean Paul a Hegel. Ma il dibattito sul nichilismo viene ufficialmente inaugurato, com’è orami noto, nel volgere del secolo decimottavo (1799) dalla Lettera a Fichte. Il nichilismo moderno nasce su una base prettamente gnoseologico-ontologica, sullo sfondo della problematica della rappresentazione e della cosa in sé, ma a partire da questo retroterra comincia furtivamente ad avanzare, già in Jacobi, quella dimensione squisitamente assiologica che anche in Leopardi e Nietzsche diventerà predominante. 
   Abbiamo affrontato il fenomeno del nichilismo romantico tedesco attraverso alcuni testi emblematici di Goethe, Hölderlin, Jean Paul, Klingemann, Büchner, onde saggiare eventuali consonanze con il pensiero di Leopardi. In tutti questi autori, come in Leopardi, la questione gnoseologica è accantonata, per lasciar spazio ad un nullismo metafisico vagamente aperto all’assurdismo. 
   Solo a partire da Leopardi la cifra del nulla diventa la spia dell’assurdo, oltre che la trascrizione rigorizzata del dogma moderno del divenire universale (da e nel nulla). Tenendo presente l’isolamento culturale di Leopardi rispetto alla filosofia tedesca a lui coeva, potrebbe sembrare assai problematico il tentativo di accostare la sua posizione a quella del nichilismo romantico tedesco. Eppure, non mancano certo dei validi appigli. A parte l’indubbio influsso del nullismo di Goethe su Leopardi, nell’opera di Mme de Stäel De l’Allemagne, spesso citata da Leopardi, compare il famoso Discorso di Jean Paul sul “Cristo morto” in cui si proclama esplicitamente la morte di Dio. Si tratta di un incubo che può ricordare l’atmosfera evocata da Leopardi in una sua operetta: il Dialogo di Federico Ruysch, dove pure i morti si destano dalle loro tombe allo scoccare della mezzanotte per contemplare l’arcano dell’esistenza. 
   Al fine di rintracciare la posizione di Leopardi sulla linea del nichilismo europeo non può essere eluso il tema del nulla, che rimane al centro del pensiero leopardiano. Quest’ultimo, per quanto frammentario e incompiuto, non è tuttavia privo di una certa tensione sistematica, che non rende per questo meno inquieto il movimento di oscillazione del nulla da un valore negativo ad un valore positivo. Di qui l’aporia del nulla. Da un lato il nulla si mostra, infatti, come “principio di tutte le cose, e di Dio stesso” (Z 1341), dunque con una misteriosa connotazione da teologia negativa (siamo nel 1821), per ricomparire nella fase più pessimista, nel 1826, come solo “bene” (Z 4174), prospettando questa volta una sorta di estetica negativa (le “cose che non son cose”, il “paese delle chimere”). Dall’altro la vanità del mondo, dei piaceri e la morte dell’universo (Cantico del gallo silvestre; Frammento apocrifo) fanno invece pensare ad un niente inequivocabilmente distruttivo. La soluzione di tale apparente contraddizione andrà ricercata nell’ambivalenza del nulla leopardiano, riconoscendo un valore positivo al nulla creativo, non a caso riferibile alle due figure paradigmatiche della creatività: Dio e il poeta. Il niente inteso come male è invece relegato da Leopardi all’ontologia negativa di questo mondo: alla beffa metafisica della felicità: “le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell’uomo non sono atte alla felicità dell’uomo” (Z 2936) come al “male” cosmico (Z 4174). La delucidazione di un simile sistema promette di offrire una preziosa chiave retrospettiva per rileggere da un’angolazione nuova la genealogia della nostra epoca.

Luigi Capitano 

domenica 25 agosto 2019

Note sul nulla: un’indagine sul nichilismo nel pensiero di Emil Cioran








Senza Dio tutto è nulla. E Dio? Nulla supremo.
Sillogismi dell’amarezza

Che peccato che il «nulla» sia stato svalutato dall’abuso
che ne hanno fatto filosofi indegni di esso!
Squartamento


«Il bene stesso è un male», affermò Cioran in un’intervista [1]. Il commento, emblematico del suo pensiero metafisico, rivela una delle maggiori ossessioni filosofiche del pensatore: il problema del male. Si tratta di un’affermazione e di una negazione allo stesso tempo: affermazione della positività ontologica del male, negazione del fondamento ultimo del bene. Per i suoi presupposti e implicazioni in termini ontologici e assiologici, quest’affermazione-negazione, assurda in apparenza, solleva un problema che oltrepassa i campi tematici del pessimismo filosofico, invocando la logica non-logica di ciò che, nella storia del pensiero occidentale, risponde al nome di nichilismo. Che cosa significa asserire che il pensiero di Cioran è nichilista?
Ci proponiamo dunque di leggere Cioran sotto il segno del nichilismo [2]. Pur riconoscendo i rischi di questa proposta [3], soprattutto quello di incorrere, come sospetta Simona Modreanu, in una caricatura post-nietzschiana del nichilista «che ronza di malessere ontologico» [4], siamo dell’avviso che, di là di tutte le possibili controversie, nell’interpretazione filosofica del discorso cioraniano, la chiave ermeneutica del nichilismo, pur non essendo definitiva, appaia tuttavia ineludibile. Illustreremo come, sebbene sia inevitabile parlare di nichilismo per quanto riguarda l’autore romeno, tuttavia, il suddetto concetto non è dirimente nel suo pensiero complesso e paradossale. Nessun concetto è più equivoco di questo. Stando così le cose, che tipo di nichilismo sarebbe quello di Cioran?

Paradossi e controversie
«Non sono molto sicuro di essere un nichilista. Sono piuttosto uno scettico che sperimenta, a volte, qualcosa di diverso dal dubbio» [5], confessò Cioran a Fernando Savater. L’autore aveva ragioni più che sufficienti per rifiutarsi di vincolare il proprio pensiero al nichilismo dei dizionari e dei manuali di filosofia, al loro gergo troppo accademico e alla loro «formula vuota» [6]. Non si dovrebbe sottovalutare «la guerra del verbo» [7], nella quale gli attori sociali si disputano il privilegio di definire e di classificare – in un rapporto di dominazione e di rigetto attraverso il linguaggio – l’altro, il diverso, l’antagonista. Infine, nessun concetto più del nichilismo si dimostra tanto polisemico e tanto equivoco nel suo nucleo, essendo allo stesso tempo anche inequivocabilmente diffamatorio in superficie.
Per Cioran, la migliore descrizione è quella di scettico – un termine che rimanda, per certi versi, al nichilismo. Cioran respinge quest’ultimo, preferendogli il primo, in un movimento che istaura una distinzione e una «complicità» tra i due concetti. Ponendosi come ostacolo ai dogmatismi positivi, il dubbio scettico dovrebbe lasciare campo libero al dogmatismo negativo e distruttivo del nichilismo. Dall’altra parte però, lo scetticismo è alieno sia al dogmatismo positivo sia a quello negativo [8]. Ad ogni modo, se di nichilismo si tratta, Cioran insiste nel fissarne le proprietà: un nichilismo «in senso metafisico» [9], che riguarda la contemplazione e non l’azione. Si potrebbe affermare che, oltre ad essere metafisico, quello di Cioran è un nichilismo mistico, che trova il proprio coronamento in una sorta di estasi del nulla, o più correttamente, del vuoto o della vacuità – Śūnyatā – termine sanscrito che, nella filosofia zen-buddhista, traduce la (ir)realtà suprema oltre il mondo illusorio delle apparenze.
L’autore de Il funesto demiurgo è troppo scettico per essere un nichilista e, nonostante ciò, troppo pessimista per essere solamente uno scettico. Il dubbio e la negazione coabitano nel suo pensiero; uno spirito scisso tra atteggiamenti contradditori, senza alcuna «preoccupazione di unità» [10], incapace di accomodarsi nel dubbio o nella negazione, senza potere tuttavia prescindere da essi, alla perpetua ricerca di qualcosa che risulta inconoscibile, impensabile, indicibile, impossibile di essere affermato o negato. Permane dunque la necessità di problematizzare la presenza-assenza del/i nichilismo/i nel pensiero di Cioran. Nessun pensatore sulla scena intellettuale europea del XX secolo è stato più unheimlich [11] dell’autore del Sommario di decomposizione. La nozione di Unheimlichkeit non potrebbe essere più familiare (ci sia concesso il gioco di parole) al logos cioraniano: il chiaroscuro, la dualità costitutiva, l’indeterminatezza tra identità e alterità, familiarità ed estraniamento, sicurezza e minaccia, presenza e assenza, eccetera … 

Il giovane pensatore, ancora sotto la fascinazione di Nietzsche, scriveva in Amurgul gândurilor [Il crepuscolo dei pensieri]: «Il nichilismo: forma limite della benevolenza» [12]. Che cosa si dovrebbe intendere con ciò? Come sempre – essendo questo un tratto essenziale del suo stile che combina riflessione critica e creazione poetica – Cioran non definisce nulla, non adopera concetti, preservando sempre un margine d’indeterminatezza e di ambiguità nel suo discorso che costeggia il silenzio. L’impiego del termine «nichilismo» cambierà drasticamente con il passaggio dalla scrittura in lingua romena a quella in francese. All’inizio, Cioran sembra prendere sul serio il concetto «consacrato» da Nietzsche, in una tale guisa che sarà in seguito incompatibile con le opere dell’esilio. Ironia, indifferenza, disprezzo: sono attitudini consuete dell’autore dei Sillogismi dell’amarezza di fronte al concetto. Il Cioran di espressione francese sorvola sul termine, ci gioca, lo svuota di gravità, suggerendoci dunque un volontario allontanamento dalla categoria del Nichilista; per quanto lo avesse desiderato, non sarebbe riuscito a essere uno: «Con un po’ più di fervore nel nichilismo, mi sarebbe possibile – negando tutto – scuotere i miei dubbi e trionfarne. Ma della negazione ho soltanto il gusto, non ne ho la grazia» [13]. Inflazione, ipertrofia: ovunque si posi lo sguardo, vi si troverà il nichilismo – nichilismo ovunque. L’unica via di uscita dal nichilismo – qualora ve ne sia una – sarà quella di assumerlo radicalmente, con tutte le sue conseguenze, con la lucida coscienza della sua inesorabilità: approfondirlo e sfruttarlo fino al suo (im)possibile esaurimento, costeggiando il silenzio e il nulla dell’essere, del pensare e del dire.
Cioran darà al nichilismo un’inflessione anti-nietzschiana negli scritti dell’esilio. Il suo pensiero mescola (prima e dopo la conversione linguistica) razionalità secolare e aspirazione metafisico-teologica, ateismo e misticismo, scetticismo e dogmatismo negativo. Essendo l’uomo per natura un «animale metafisico» (posizione che permette l’accostamento di Cioran a Schopenhauer), non è possibile pensare al di là del bene e del male poiché ciò che si finirebbe per trovare in questo al di là è solo il male che avrebbe dovuto essere superato assieme al bene. La testimonianza personale di Cioran, fedele e infedele alla sua epoca, moderno e anti-moderno («a-moderno») [14], lo porterà a postulare l’inespugnabile realtà del male che compromette la condizione e la storia dell’umanità. «Storia universale: storia del Male» [15]; «Siamo affogati nel male» [16] e non c’è progresso scientifico e tecnologico che possa scongiurare questo stato di cose. Cioran problematizza i dualismi che sono profondamente radicati nello spirito occidentale e lo fa, paradossalmente, accentuandoli, mentre allo stesso tempo sembra accennare non tanto a un’improbabile possibilità di poterli superare, quanto piuttosto a quella di poterli logorare. L’autore si sposta dall’asse del pensiero occidentale – da Platone, Nietzsche e Heidegger – avvicinandosi al mondo orientale con il quale sentiva di avere un’affinità spirituale (tale affinità, al di là di qualsiasi «orientalismo», non dovrebbe essere persa di vista). Da qui deriva la familiarità con con alcuni concetti cruciali della sapienza buddhista – per esempio, la nozione del wu-wei [17], «inazione», o azione spontanea, senza meta e senza sforzo); e ancora, la seguente affermazione, nella medesima conversazione con Sylvie Jaudeau: «Tutto quello che l’uomo intraprende gli si ritorce contro. Qualsiasi azione è fonte di sventura perché l’agire è contrario all’equilibrio del mondo, agire significa darsi uno scopo e proiettarsi nel divenire. Il minimo movimento è nefasto. Si scatenano forze che finiscono per schiacciarti. Vivere davvero significa vivere senza scopo. È quanto predica la saggezza orientale, che ha colto appieno gli effetti negativi dell’agire. Non c’è una sola scoperta che non abbia conseguenze funeste. L’uomo perirà a causa del suo genio. Ogni forza da lui scatenata gli nuoce. È un animale che ha tradito; la storia è la sua punizione. Tutti gli eventi sopravvenuti dagli albori dei tempi in poi rivelano l’onnipotenza di una legge inesorabile» [18].
Di là di tutto lo scetticismo, non si dovrebbe ignorare il fatalismo [19] che sta alla base del pensiero cioraniano (l’intuizione dello «slancio verso il peggio») [20]. Un fatalismo che non significa necessariamente nichilismo, ma che è difficilmente dissociabile da un pessimismo metafisico. Che il pessimismo non sia sinonimo di nichilismo, è una premessa che assumiamo. A questo proposito, trattandosi di pessimismo, si deve rilevare la differenza che intercorre tra il pessimismo di Schopenhauer e quello di Cioran. L’autore de Il funesto demiurgo non erige alcun sistema né tantomeno pone la Volontà come essenza del mondo esistente. Mentre Schopenhauer si caratterizza come un pensatore inequivocabilmente ateista, lo stesso non si può dire di Cioran, almeno non in maniera inequivocabile. Il pessimismo cioraniano è inquadrabile in un paradigma (di)teista eterodosso; il mondo non è l’oggettivazione di una Volontà cieca ma piuttosto la creazione di una divinità abominevole, o ancora, l’emanazione verso il basso, la degradazione o la caduta di questa divinità nella propria creazione.
Quello di Cioran è un pessimismo di tipo gnostico, ragion per cui non è propriamente un pessimismo filosofico-metafisico, ma piuttosto un pessimismo filosofico-teologico (dualistico, diteistico). Questo tipo di pessimismo risulta più vicino a Philipp Mainländer (1841-1876), filosofo direttamente influenzato da Schopenhauer e autore di una Filosofia della redenzione [Die Philosophie der Erlösung] [21], che Cioran lesse in gioventù. Per Mainländer (la cui magnum opus fu pubblicata anni prima de La gaia scienza di Nietzsche, anch’egli lettore di Mainländer), la «morte di Dio» non è dunque il risultato di un atto umano storicamente determinato perché «lo abbiamo ucciso noi» (La gaia scienza §125); viceversa, Mainländer concepisce la «morte di Dio» come una sorta di autosoppressione o «suicidio» da parte dello stesso Dio, di modo tale che il mondo, gli esseri e il divenire possano esistere; Dio è morto ma non Lo abbiamo «ucciso» noi: era morto prima dei tempi «poiché Lui stesso scelse liberamente di morire, suicidarsi e dissolversi nel nulla, dopo aver attraversato il calvario dell’essere in divenire» [22]. In altre parole, Dio scelse per Sua libera volontà di rinunciare alla propria unità stazionaria originaria e di frantumarsi per porre in movimento, malgrado se stesso, l’esistenza degli esseri. Dio, «disintegrandosi, ha prodotto l’essere e questi s’incammina verso l’orizzonte finale del nulla; e in tutto questo processo non c’è interpretazione che tenga: è successo e basta» [23]. In questa prospettiva, gli esseri sono come «pezzi» di questa disintegrazione originaria, le spoglie mortali dell’autosacrificio di Dio – il che ben si accorda con la nozione cioraniana della putrefazione o decomposizione, nozione che ha una valenza ontologica, non solo biologica. Al «destino entropico» [24] dell’essere di Mainländer, corrisponde il fatalismo ontologico di Cioran. Nell’uno come nell’altro caso c’è l’intuizione di una fatalità universale, una necessità negativa che ricade su tutto ciò che è vivente ed esistente, così come sull’unita divina originaria: si tratta dell’Heimarmene [25] come l’avevano definita gli gnostici [26].
Pur non rifiutando la definizione del nichilismo proposta da Nietzsche (come svalutazione dei valori supremi), tuttavia non la riteniamo unica e definitiva. Per di più, è necessario distinguere tra nichilismo – come sintomo di decadenza culturale e d’infermità spirituale – e ciò che s’intende abitualmente quando si parla di teoria del nulla o meontologia [27]. Detto questo, sarebbe un anacronismo etichettare Gorgia come un «nichilista» per argomentare che, se anche qualcosa c’è, non è conoscibile e se anche è conoscibile è incomunicabile agli altri attraverso il linguaggio positivo. E ancora, sollevare problemi metafisici come: «perché esiste qualcosa invece che nulla?», non equivale necessariamente a fare professione di fede nichilistica. È vero che il nichilismo non ha ragion d’essere tranne che in relazione al nulla, tuttavia, non tutta la speculazione sul nulla può essere ricondotta al nichilismo. Cioran confessa di avere «l’ossessione del nulla [néant], o piuttosto quella del vuoto [vide]» [28], ma potrebbe essere questa una ragione definitiva per qualificarlo come nichilista? Infatti, non lo è necessariamente. L’autore romeno di espressione francese può essere collocato in una tradizione di pensiero periferica che non risale al paradigma parmenideo dell’Essere necessario e identico a se stesso; Cioran s’inserisce invece in una linea di pensatori, poeti, mistici e altri marginali che hanno in comune non l’ontologia parmenidea, ma una meontologia, vale a dire, un’ontologia del nulla come fondamento abissale e insondabile dell’essere. Si tratta, in questo caso, non di un’ontologia dell’identità e della necessità, bensì di un’ontologia paradossale della contingenza in quanto differenza differenziante e libertà radicale dell’essere di essere o di non essere, o di essere e di non essere allo stesso tempo. Nel suo libro, Storia del nulla, Sergio Givone collega la meontologia a un’autentica tradizione di pensiero che inizia con i pre-socratici come Anassimandro ed Eraclito e si prolunga con i poeti tragici, i neoplatonici come Plotino e lo Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, i mistici cristiani come Meister Eckhart, San Giovanni della Croce e Jakob Böhme, gli artisti come Albrecht Dürer e William Hogarth, i poeti come Leopardi e Baudelaire (aggiungiamo anche il poeta portoghese Fernando Pessoa, che è assente dall’indagine di Givone), i filosofi come Schopenhauer, Nietzsche e Heidegger – i quali hanno tutti influenzato, in misura maggiore o minore, la genesi del pensiero cioraniano. Per quanto concerne il buddhismo, la scuola Madhyamika, il cui fondatore, Nagarjuna, era sommamente apprezzato da Cioran, potrebbe essere annoverata, a suo modo e al di la delle specificità culturali, come un’espressione orientale della meontologia.
Rimane ancora un problema da affrontare: come riconciliare in un unico pensiero concetti antitetici come necessità e contingenza? Il pessimismo metafisico di Cioran evoca l’idea di un Fato universale al quale tutti gli esseri sono sottomessi. Dall’altra parte, la sua posizione meontologica dovrebbe persuaderci di ammettere l’esistenza di una radicale contingenza fondante, in base alla quale tutto sarebbe possibile, persino l’impossibile. Anche se questa complessa questione filosofica non costituisce il fulcro della qui presente analisi, bisognerà tuttavia soffermarvisi per trarre alcune brevi considerazioni. Necessità e contingenza non sono fortemente irreconciliabili. Anzi, siamo inclini a credere che possano essere pensate assieme in maniera complementare, pur se paradossale. Il problema che riguarda entrambi questi concetti può anche essere formulato sostituendo la contingenza con la nozione di libertà (un problema con il quale gli Stoici, ad esempio, si dovettero confrontare, dal momento che anch’essi postularono l’esistenza di un Fato universale, l’Heimarmene, anche se non in senso gnostico, ma piuttosto come una necessità buona e provvidenziale). Ora, Cioran (al pari di Nietzsche e Schopenhauer) è un pensatore che problematizza radicalmente l’idea del libero arbitrio, sottoponendola alla nozione della determinazione (fisiologica, psicologica e, in ultima istanza, anche cosmica). Detto ciò, quando si tratta di pensiero meontologico e di gnosticismo, l’improbabile connessione tra necessità e contingenza ci avvicina alla mentalità tragica pre-filosofica degli antichi greci.
Clément Rosset è un autore che potrebbe aiutarci a chiarire tale connessione. Secondo lui, si potrebbe benissimo pensare a una coincidenza tra necessità (fato) e contingenza (libertà), donde il duplice paradosso di una contingenza nella necessità e di una necessità nella contingenza. Tale visione (tragica) è radicalmente opposta al dualismo dei «mondi» (la Zwei-Welten Theorie, secondo Wolfgang Müller-Lauter), e precisamente alla metafisica platonica. La concezione tragica della realtà, secondo Rosset, indica una realtà «idiota», quella cioè di un singolo essere-non-essere, rinchiuso in se stesso, il quale si apre dualisticamente tramite la ragione, scindendosi in ciò che è e in ciò che ci aspettiamo, ciò che speriamo o immaginiamo che sia (e che non è). Il risultato è che le nozioni di destino e caso (hasard, in francese) si confondono, così come accade alla stessa realtà. Rosset collega questo modo di pensare alla letteratura oracolare degli antichi Greci (ad esempio, nell’Edipo di Sofocle). A questo riguardo, conviene citare per esteso Rosset: «L’imbroglio del destino, come quello della predizione razionale, è di carpire il doppio dal singolare. Una mattina, alla radio viene annunciato che il presidente è molto malato; quando, la notte, giunge la notizia della morte del presidente, ciò arriva tuttavia come una sorpresa (…). Ad ogni modo, è grazie a questa natura sempre sorprendente degli eventi che la nozione di destino suggerita dagli oracoli, acquisisce un significato reale, universale. Poiché è di destino che si tratta in ultima istanza nelle leggende oracolari, ma in un senso più profondo di ciò che appare immediatamente. C’è sicuramente qualcosa che esiste e che si chiama destino: non si riferisce alla natura inevitabile di ciò che accade, ma al suo carattere imprevedibile. A dire il vero, c’è un destino indipendentemente da qualsiasi necessità e prevedibilità, indipendentemente quindi da qualsiasi manifestazione oracolare, anche se, in un certo senso, l’oracolo lo annuncia a modo suo; si tratta del destino dell’uomo come di quello di qualsiasi essere vivente. Il significato di questo destino apparentemente così paradossale, poiché è estraneo alla nozione di necessità, e che, nonostante tutto, sembra contribuire alla sua essenzialità, se non addirittura unicità, è collegabile a una nozione diametralmente opposta: la certezza dell’imprevedibilità. Ma è proprio di questa certezza che la letteratura oracolare parla in termini criptici. Possiamo essere sicuri che saremo sempre sorpresi: possiamo certamente sempre aspettarci di non essere in grado di aspettarci alcunché» [29].

Nichilismo, gnosticismo, ateismo
Secondo Hans Jonas, l’antico gnosticismo – un universo di pensiero eclettico e di spiritualità eterodossa al quale Cioran guardava con grande ammirazione – possiede un’affinità elettiva esistenziale con il moderno nichilismo, il che non equivale a dire che sono la stessa cosa. Ne Lo gnosticismo, Jonas abbozza un parallelo ermeneutico tra queste due mentalità o attitudini esistenziali tanto distanti nel tempo e nello spazio.  Innanzitutto, ciò che consente di stabilire un parallelo sincronico tra i due fenomeni è la comune nozione, nei loro rispettivi contesti storici, di una profonda crisi culturale e soprattutto spirituale, il clima di angustia e di ansietà che caratterizzò tanto l’epoca ellenistica quanto la tarda modernità. Tuttavia, se questo stato di cose fosse ridotto a nient’altro che al risultato di fattori storici contingenti, non sarebbe possibile identificare negli scritti di Pascal, come fa Jonas, le prime avvisaglie di quel sentimento di derelizione e di disorientamento che caratterizzerà il moderno spirito nichilista e che segnò anche l’età ellenistica nella quale fiorì la religione gnostica. Secondo Jonas, l’originalità di Pascal, che anticipò l’odierno nichilismo, è stata quella di aver esposto «la solitudine dell’uomo nell’universo fisico della moderna cosmologia. “Gettato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che non mi conoscono, ne sono spaventato”» [30]. Ciò che è in gioco è il crollo della visione cosmologica cristiana dell’universo creato da un Dio benevolo e provvidenziale il cui disegno cosmico contemplava una finalità ultima alla quale anche gli esseri erano chiamati a partecipare (nonostante le loro tribolazioni e sofferenze, o proprio in virtù di esse) e l’avvento di un nuovo paradigma cosmologico, copernicano e meccanicista, nel quale il suddetto disegno e la suddetta finalità provvidenziale restano assenti. Ne consegue la percezione dell’insignificanza dell’uomo in mezzo allo spazio infinito, nella vastità di un universo indifferente, se non addirittura ostile alla sua presenza e alle sue aspirazioni, della finitezza umana inserita in un’esistenza temporale assurda e priva di scopo, della solitudine esistenziale in uno spazio e in un tempo che appaiono vuoti e carenti di significato.
Ciò che scompare da questa cosmovisione è l’evidenza di una necessità universale che mantenga uniti il tutto e le sue parti, il cosmo e l’essere umano in quanto microcosmo. Tutto risulta contingente, nulla è necessario, e ancora di meno lo è l’animale cosciente, angustiato dalla sua fragile e insignificante condizione cosmica. «La totale contingenza della nostra esistenza nello schema priva quello schema di ogni senso umano, che possa farlo vedere come una struttura cui riferirsi per la comprensione di noi stessi»[31]. L’uomo non si sente più naturalmente a casa sua in un mondo che è diventato estraneo e persino ostile alla sua fin troppo umana, fin troppo cosciente, fin troppo insignificante presenza. Questa è la prefigurazione pascaliana del nichilismo che Nietzsche avrebbe diagnosticato secoli dopo. Il nichilismo era già alle porte. Ora, la conseguenza più grave di questo cambiamento di paradigma ha a che fare con la sfera dei valori dai quali l’uomo, nella sua qualità di animale metafisico in cerca di senso, non sembra poter prescindere. La percezione di questo nuovo stato di cose implica che l’universo fisico, privo ormai di ogni riferimento ai limiti e ridotto quindi a mera geometria, res extensa, risulti sprovvisto anche di una gerarchia intrinseca e, di conseguenza, di un sistema naturale di valori oggettivamente dati sul quale l’uomo possa fare affidamento. L’uomo «scopre» allora che non ci sono verità oggettive, né valori naturalmente dati in sé: la verità ultima è una chimera, o una questione di flatus vocis, tutti i valori sono relativi e, in fondo, fittizi; inoltre, se necessario, tutto questo dovrà essere fabbricato artificialmente dall’uomo, consapevolmente inventati dal nulla, poiché non c’è nulla che abbia un fondamento ontologico al di là di quanto viene pensato, desiderato e prodotto dall’uomo stesso [32].
Per di più, l’analisi comparativa tra gnosticismo e nichilismo intrapresa da Jonas ci permette di comprendere la pertinenza della questione dell’ateismo nell’ambito della spiritualità gnostica, il cui atteggiamento esistenziale è interpretato dal filosofo tedesco come un atteggiamento «nichilista» avant la lettre. Come sottolineato dall’autore, l’universo di Pascal, nonostante tutto, era ancora un universo creato da Dio e se l’uomo si sentiva già «privo di ogni umano sostegno, poteva pur sempre sollevare il cuore verso il Dio transmondano» [33]. Ma quel Dio sarà sempre più transmondano, vale a dire, ancora più trascendente, fino a diventare completamente alieno e irraggiungibile, praticamente inesistente: the alien God, il Dio sconosciuto, secondo Jonas. Dio si ritira dal cosmo, diventando un ágnostos theós la cui qualità divina non è per niente riconoscibile nell’evidenza visibile della sua creazione. Di tutti gli attributi solitamente assegnatiGli – bontà, giustizia, provvidenza, onniscienza, onnipotenza – solo l’ultima sarà ancora constatabile: l’assurda e oppressiva dimostrazione di forza. «Perché l’estensione, o la quantità, è l’unico attributo essenziale lasciato al mondo, e quindi se il mondo ha qualche cosa da dire del divino, lo fa per mezzo di questa proprietà; e ciò di cui la grandezza può parlare è il potere» [34]. Questo Dio sarà allora visto come un tiranno, come un despota infinitamente remoto.
In che modo dunque si potrà affermare che lo gnosticismo è un ateismo? Nel senso in cui gli gnostici postulano, a grandi linee, un dualismo teologico più o meno radicale – un diteismo – che opera una distinzione tra un Dio creatore (il Dio di Pascal, il «funesto demiurgo» per Cioran), sottodivinità ignorante e prepotente, essa stessa generata e degenerata, e il vero Dio al di là o al di sopra del demiurgo: il «Padre», il Dio ingenerato, buono ma inefficace, impotente, senza alcuna complicità con la Creazione. Così, se appare ragionevole parlare di un ateismo gnostico, si deve precisare che non si tratta dell’ateismo moderno (darwinista, scientista, materialista), né di un ateismo dell’immanenza, ma piuttosto di un ateismo spiritualistico, anarchicamente mistico, diteistico, postulante la trascendenza radicale di un Dio totalmente estraneo, distinto dal demiurgo decaduto. È solo in quest’accezione che ci sembra si possa parlare di ateismo in Cioran.
In che modo si può affermare che lo gnosticismo è un nichilismo avant la lettre? Nel senso che, in assenza di un qualsiasi riferimento evidente e oggettivo a un bene supremo e a una finalità ultima del divenire, l’universo concepito come una creazione demiurgica di scarsa qualità porta all’impraticabilità di ogni valutazione ontologica. Per Nietzsche, il nichilismo europeo presuppone la svalutazione di tutti i valori supremi; d’altra parte, per gli gnostici, il nichilismo consiste nel fatto che l’intero cosmo è privo di valore nella misura in cui è la creazione accidentale e funesta di un dio frettoloso e incompetente. Nietzsche afferma il nichilismo per poterlo superare con lo sforzo della volontà di potenza e dunque, per riportare tutti i valori superiori dall’altro mondo a questo mondo terreno e all’esistenza nella sua immanenza; gli gnostici – così come Schopenhauer, Mainländer, Cioran incluso, anche se quest’ultimo dichiara una sorta di passione contrariata per il mondo e un’ingiustificabile «tentazione d’esistere» ─ considerano il mondo intaccato dal male alla radice e privo di ogni valore di per sé positivo, la vita stessa essendo un dono avvelenato. Così com’è stato «fatto» ed essendo così com’è, il mondo nel quale viviamo – e alla cui struttura demoniaca siamo assoggettati fisicamente e psicologicamente – è affogato nel male, e persino i reami celesti – il sistema planetario, governato dagli Arconti – hanno come scopo (secondo gli antichi gnostici ma non secondo Cioran, che si presenta come un agnostico in merito a questo tipo di speculazione) quello di assicurare l’incarceramento dell’uomo, anima e corpo, in questa misera esistenza mondana e di impedire il ritorno del suo spirito (la «scintilla divina» che dimora profondamente dentro di sé) al regno divino della luce conosciuto come il Pleroma.
Gli antichi gnostici dimostrano non solo un feroce atteggiamento anti-cosmico, ma anche un’attitudine ostile nei confronti del divenire e dell’esistenza del tempo, concepito come la stessa durata del male. Di conseguenza, lo gnosticismo antico può essere considerato «acosmico» e «acronico», poiché gli gnostici rifiutano sia l’adeguatezza di questo mondo sia la realtà del divenire, quest’ultima essendo effettiva (wirklich in tedesco, un altro modo per dire «reale») solo in relazione all’ordine fisico (che gli Gnostici non riconoscono come la loro vera natura), ma non rispetto all’ordine spirituale o pneumatico (che non appartiene in nessun modo a questo mondo). Secondo Henri-Charles Puech (i cui corsi al Collège de France furono seguiti da Cioran), laddove i «pagani» hanno una concezione ciclica del tempo e i cristiani ne hanno una lineare, gli gnostici si allontanano da entrambe queste visioni del mondo e sostengono una concezione temporale come durata «spezzata» o «guastata» [35].
La somiglianza tra questa concezione e la visione personale di Cioran sul tempo è davvero rimarchevole. Il problema del tempo è così cruciale nell’autore de La caduta nel tempo che difficilmente si potrebbe separare dal suo pensiero sull’esistenza stessa. Basti ricordare qui il sentimento di estraniamento dal mondo che egli ribadisce con insistenza, la sua auto-caratterizzazione come «esiliato metafisico» [36] e, ancora più importante, il racconto (alla fine de La caduta nel tempo) della sua personale esperienza di caduta dal tempo in una sorta di eternità negativa, corrotta [37].
Lo gnosticismo può essere considerato quindi una forma di nichilismo avant la lettre, e di tutte forse quella più spietata, giacché, per gli gnostici, l’intera Creazione e il Creatore stesso, sono ridotti a un nulla di valore, di significato, di essere.

Il nulla e il male: questioni complementari
L’aspetto nodale che allaccia tra loro il nichilismo – inteso come meontologia più che come logica storico-culturale della decadenza – e lo gnosticismo antico è il problema del male, nel suo nesso con la questione del nulla. Quello del male è all’origine un problema metafisico-teologico, ereditato secolarmente dalla Modernità filosofica. Che cos’è il male dopotutto? Che cosa intendiamo quando ci avvaliamo di un tale termine? Più che definirlo, optiamo per la raccomandazione di Susan Neiman: se non è possibile definire teoreticamente una proprietà intrinseca del male, è tuttavia possibile rilevare «ciò che il male produce in noi. Se designare qualcosa come male significa indicare il modo in cui distrugge la nostra fiducia nel mondo, è questo effetto, più che la causa» [38] che dovrà essere esaminato. Dio è morto da tempo ormai e la teologia è stata superata dalla scienza moderna; ciononostante, l’umana sofferenza, fisica e psicologica, è tutt’ora presente, forse ancora più accentuata che in passato, visto che, in un mondo disincantato e assurdo, non è più possibile fare ricorso a quel sistema di valori tradizionali con i quali l’uomo aveva tentato di spiegare e persino di giustificare l’orrore della sofferenza indiscriminata – soprattutto quella dei bambini e di altri esseri senza colpa, se non totalmente innocenti. Senza Dio, la teodicea non ha più alcuna ragion d’essere. Per di più, se è insensato dire ormai (a meno che uno sia credente) che gli tsunami e i terremoti sono punizioni divine per i nostri supposti peccati e nefandezze, ciononostante, ci troviamo ancora a fare i conti con il perdurare del male come effetto delle azioni dell’uomo. I genocidi e gli altri crimini contro l’umanità hanno agenti umani responsabili che possono essere identificati e puniti; le catastrofi naturali, no. Il mistero dell’iniquità, del quale parla San Paolo, non sembra essere meno perturbante dopo il fallimento della teodicea; al contrario, messa al bando questa, si mette al bando, in effetti, tutta l’antropodicea. Così, la moderna distinzione tra mali naturali e mali morali è data solo per essere nuovamente sollevata, questa volta, in una maniera del tutto scandalosa: il male umano diventa un caso specifico e ineludibile del male naturale, visto che l’uomo sembra incapace di possedere quanto necessario per sradicare definitivamente il male dalla sua esistenza terrena, che sia una questione di volere o d’intelligenza, o entrambe le cose insieme. L’uomo si rivela dunque essere un «virus», un inestirpabile «cancro» della natura, «il punto nero della creazione» [39].
Dunque, che tipo di relazione si potrebbe stabilire tra il nulla e il male? Il nulla è di per sé un male e viceversa? Sarebbe precipitoso, se non ingenuo, abbordare la questione in questa maniera. Innanzitutto, entrambi i termini hanno in comune il fatto di essere indefinibili e, sostanzialmente, incomprensibili alla luce della ragion sufficiente. Il nulla non è e non può essere, come affermò Parmenide. Al massimo, si potrebbe dire che il non-essere è pensabile solo in relazione all’essere, vale a dire, come una negazione relativa di ciò che è, essendo impossibile che non ci sia. Però il nulla assoluto è, strettamente parlando, impensabile, sprovvisto di qualsiasi realtà e senso. Tuttavia, trattandosi di Cioran, di nichilismo e di gnosticismo, non ci troviamo sul terreno parmenideo, anzi, ci troviamo qui nell’ambito paradossale della meontologia, del pensare-dire il nulla come assoluto non-essere nonostante la logica dell’identità, della necessità e della non-contraddizione [40].
Per Cioran, il nulla costituisce la (ir)realtà ultima dell’esistenza, il fondamento infondato di tutto ciò che «è» (virgolette necessarie, dal momento che per lui nulla è in senso ontologico totale; le cose e gli esseri esistono, e non conviene pensare che ci sia un Essere in quanto Essere, immutabile e necessario). Tra Bergson e Schopenhauer, due filosofi che esercitarono una profonda influenza sulla sua formazione intellettuale, il Nostro si avvicina al secondo, a discapito dell’autore de L’evoluzione creatrice. Come il Solitario di Francoforte, Cioran contempla la possibilità di afferrare il nulla non solo come nihil privativum ma anche come nihil negativum, e questo in funzione di un’inversione del punto di vista e di un cambio di segni mediante i quali sarà possibile concepire l’essere come nulla e il nulla come essere [41]: è la stazione finale della visione mistica che squarcia il «velo di Maya» del mondo come rappresentazione e che permette di contemplarlo nella sua «essenza», al di là dell’opposizione complementare tra soggetto e oggetto e delle determinazioni naturali dell’individuazione.
E ancora, pur non potendo stabilire una relazione immediata e univoca tra il nulla e il male, si deve segnalare tuttavia il legame inespugnabile tra le due nozioni e il fatto che laddove si solleva l’una, si solleva solitamente anche l’altra. Questo è vero specialmente per quanto riguarda lo gnosticismo, il cui corpus dottrinale implica tanto una meonto-teologia quanto un’etiologia del male. Dal punto di vista gnostico, a causa della sua infinita trascendenza, il Dio supremo sarà identificato con il Nulla. E, se questo Dio, l’unico al quale si possa vincolare inequivocabilmente il principio del bene, non mantiene alcuna relazione attiva con il mondo creato, allora si dovranno fare necessariamente i conti con l’ipotesi di un mondo siffatto, che è cioè macchiato del male con il quale il funesto demiurgo maldestramente lo fabbricò. Da un certo punto di vista, Dio coincide con il puro nulla, un’irrealtà, una chimera – donde l’ambiguo a-teismo che si potrebbe predicare in Cioran. Dal punto di vista opposto (quello della visione mistica, che va oltre la rappresentazione del binomio soggetto-oggetto), si potrebbe dire che Dio è quello che è, l’Essere supremo, mentre la sua Creazione e la creatura adamitica sarebbero quello che non sono: il nulla [42]. La correlazione tra Dio e il Nulla, comune agli gnostici e persino ad alcuni mistici cattolici (per esempio Meister Eckhart, i cui sermoni furono motivo di scontro con la Chiesa), compare già in Lacrime e santi: «Tutti i nichilisti hanno avuto a che dire con Dio. Prova supplementare della sua vicinanza al niente. Dopo aver calpestato tutto, altro non vi resta da distruggere se non quest’ultima riserva del nulla» [43]. E, più tardi, ne I sillogismi dell’amarezza, quindi nel periodo francese, la stessa idea ricompare in una critica all’immanentismo, al secolarismo e alla tendenza razionalizzante della modernità: «Non conoscendo ormai, in fatto di esperienza religiosa, se non le inquietudini dell’erudizione, i moderni pesano l’Assoluto, ne studiano le varietà e riservano i loro brividi ai miti – queste vertigini per coscienze storiche. Avendo smesso di pregare, si disquisisce sulla preghiera. Niente più esclamazioni; soltanto teorie. La religione boicotta la fede. Un tempo, con amore o con odio, ci si avventurava in Dio, il quale, dal Nulla inesauribile che era, è diventato ora – con grande disperazione di mistici e atei – soltanto un problema» [44].
In Cioran s’incontrano, in modo a-sistematico, tanto una teoria del nulla (una meontologia che sfocia in una teoria su Dio e il Nulla – una meonto-teologia e in una meonto-antropologia, vale a dire una storia dell’uomo in quanto «nullitudine») quanto una filosofia (una etiologia) del male, il che corrobora il rapporto inscindibile tra le due questioni, che diventano congiuntamente un meonto-teologia diteistica. Perpetuando «la tradizione del funesto demiurgo» [45], il romeno porrà sia la sovranità del male sia la realtà del nulla nell’economia dell’esistenza. Nella diatriba contro il cattolico reazionario Joseph de Maistre, che egli ammirava tuttavia per lo stile virulento, Cioran affermerà che: «altrettanto costitutivo dell’essere quanto il bene e altrettanto reale, esso [il male] è natura, ingrediente essenziale dell’esistenza e per nulla affatto fenomeno accessorio, e che i problemi che solleva divengono insolubili dal momento in cui ci si rifiuta di introdurlo, di situarlo nella composizione della sostanza divina. Come la malattia non è un’assenza di salute, ma una realtà positiva e durevole quanto la salute, così il male vale il bene, anzi lo supera in indistruttibilità e pienezza. Un principio buono e un principio cattivo coesistono e si mescolano in Dio, come coesistono e si mescolano nel mondo. L’idea della colpevolezza di Dio non è un’idea gratuita ma necessaria e perfettamente compatibile con quella della sua onnipotenza: essa sola conferisce una certa intelligibilità allo svolgimento storico, a tutto ciò che esso contiene di mostruoso, di insensato e di derisorio. Attribuire all’autore del divenire la purezza e la bontà significa rinunciare a comprendere la maggior parte degli eventi e in particolare il più importante: la Creazione» [46].
Non dovremmo essere naïf e credere che l’autoproclamata lucidità di Cioran nasconda qualche fede inconfessata, un anelito alla provvidenza sopranaturale che possa operare un miracolo e rettificare la stortura della creazione. «Soltanto l’impurità è segno di realtà» [47] e tale condizione coesiste con lo stesso principio dal quale questo mondo emana. Cioran è un pensatore metafisico poiché ritiene che il pensare metafisico sia essenziale per dare una parvenza di senso a un mondo e a una condizione umana così assurdi come ritiene che siano i nostri. A essere in questione qui è davvero un’antropologia metafisica (o piuttosto teologica). Riflettere su Dio e ammettere l’ipotesi della sua assoluta impurità, non è che una maniera essenziale di riflettere sul nostro mondo e sulla nostra condizione umana. Per questo motivo, il demiurgo degli gnostici è per Cioran «il più utile che sia mai esistito» [48].
Ora, la questione del nulla è più complessa di quella del male e il discorso con il quale la si affronta più equivoco, poiché il nulla contemplato da Cioran non ha necessariamente la connotazione sinistra che gli viene solitamente attribuita nel contesto del nichilismo europeo. Con questo termine, l’autore non concepisce più la negatività assoluta dell’esperienza nichilistica europea ma l’esperienza positiva e luminosa del vuoto o, più precisamente, della vacuità (Śūnyatā) buddhista come la intendono i buddhisti, soprattutto la scuola Madhyamika di Nagarjuna. Mentre il nulla nichilistico «esteriormente assomiglia alla noia [ennui]» [49], essendo un fattore di disturbo per lo spirito, il vuoto o la vacuità saranno, viceversa, «qualcosa di positivo», «pienezza attraverso l’assenza», come spiega Cioran a Léo Gillet [50].

Conclusioni
È un errore dunque leggere Cioran con la lente di Nietzsche. Le loro esperienze personali partono da presupposti distinti, si incrociano in un certo punto e, infine, si separano nuovamente. L’autore romeno non manca di riconoscere l’immensa importanza che Nietzsche riveste per la cultura europea e universale, e anche per se stesso, per la sua formazione intellettuale, pur non potendosi egli dire un pensatore nietzschiano, non più che schopenhaueriano o addirittura pascaliano. Ad ogni modo, la lezione più importante che il nostro autore ricava da Nietzsche è quella di dedicarsi al proprio stile, partendo dalle proprie intuizioni – l’arte come grande stile [51]. E, anche se Nietzsche accusa di nichilismo tutte le forme di ascetismo e di misticismo, che siano cristiane, buddhiste o di un altro tipo, ciò che importa qui è che Cioran (come Schopenhauer) non la pensi necessariamente allo stesso modo (soprattutto in merito al buddhismo). Difatti, il romeno riconosce la pertinenza sia dell’amor fati di Nietzsche sia la negazione schopenhaueriana della volontà, accogliendole entrambe con la condizione di mantenere viva nel suo spirito l’insolubile contraddizione tra lucidità e istinto, lucidità e tentazione d’esistere. È la dualità fondamentale, della quale parlerà nel Sommario di decomposizione: «Possiamo vivere come vivono gli altri e tuttavia nascondere un no più grande del mondo: è l’infinito della malinconia…» [52]. È che «ogni desiderio umilia l’insieme delle nostre verità, e ci obbliga a riconsiderare le nostre negazioni. Noi subiamo una disfatta pratica; eppure i nostri princìpi restano inalterabili… Speravamo di non essere più i figli di questo mondo, ed eccoci sottoposti agli appetiti come degli asceti equivoci, padroni del tempo e asserviti alle ghiandole» [53].
Tra Nietzsche e i mistici, cristiani, buddhisti o altri, Cioran preferisce la compagnia dei secondi – una questione di temperamento. «Ho trascorso parte della mia vita a leggere i mistici, forse per trovarvi una conferma della mia personale esperienza. […] La mistica, ossia l’estasi. Io ne ho avute quattro in tutto, nel mio periodo di intenso smarrimento. Sono esperienze estreme che si possono vivere con o senza fede» [54]. Lettore di Rudolf Otto, autore di Mistica orientale, mistica occidentale, Cioran reitera la tesi del filosofo della religione tedesco sul fatto che la mistica occidentale e quella orientale «si evolvano indipendentemente l’una dall’altra per affrontare i massimi problemi metafisici. Talvolta vi sono anche analogie nel linguaggio. […] È grazie ai mistici che gli occidentali eguagliano gli orientali» [55]. Infine, ci sembra cogliere una confutazione implicita di Nietzsche quando Cioran asserisce che: «Si fraintende la mistica quando si crede che derivi da un infiacchimento degli istinti, da una linfa danneggiata. Un Luis de León, un san Giovanni della Croce coronarono un’epoca di grandi imprese e furono necessariamente contemporanei della Conquista. Lungi dall’essere degli inetti, lottarono per la loro fede, attaccarono Dio arditamente, si appropriarono del cielo» [56].
Ritorniamo all’aforisma citato in precedenza, tratto da Amurgul gândurilor [Il crepuscolo dei pensieri]: «Il nichilismo è la forma limite della benevolenza». Che cosa si potrebbe intendere con tale formula laconica? Innanzitutto, si dovrà sottolineare la differenza tra il capitolo romeno e quello francese nell’opera di Cioran e il fatto che, nel primo, l’autore, ancora sotto l’influenza di Nietzsche, sembra dare a questo concetto una tale importanza che non sarà più riscontrabile nei suoi scritti francesi. Non si tratta, in senso stretto, né di nichilismo passivo né di nichilismo attivo, ma piuttosto di quello che la lucidità – questo sì, il concetto cioraniano per eccellenza – genera progressivamente: la coscienza del male e, oltre a questa, la rivelazione della vacuità (il «nulla») come ultima (ir)realtà dell’esistenza. Alla fine della sua conversazione con Fernando Savater, nel prendere commiato, Cioran gli chiede di trasmettere ai lettori spagnoli quanto segue: «Non dimentichi di dire che io sono soltanto un marginale, uno che scrive per svegliare. Lo riferisca: i miei libri aspirano a svegliare» [57]. La «forma limite della benevolenza» consisterà quindi nel destare (éveiller) il lettore (e Cioran stesso è il suo primo lettore) al peggio (le pire), vale a dire nel condurre alla consapevolezza che «siamo affogati nel male» e nella realtà suprema del «nulla che contempla all’infinito se stesso» [58].
Per concludere, è lecito affermare che Cioran sia un nichilista? Sì e no. Sì, per motivi storici e pertanto esteriori; no, per questioni di ordine metafisico, spirituale e quindi interiori, dovuti alla specificità e complessità del suo pensiero inclassificabile. Come ebbe modo di dire lui stesso, la qualificazione di scettico gli è più consona. Per Cioran, il nichilismo non è una dottrina o una credenza; è soprattutto un fatto culturale e spirituale storicamente determinato (un problema squisitamente occidentale), il che testimonia l’enorme importanza della genealogia della morale nietzschiana. Si deve comunque sottolineare la relativa pertinenza del concetto di nichilismo rispetto al pensiero cioraniano visto che, nonostante la sua forte attrazione per l’Oriente, Cioran si riconosce dall’inizio alla fine irreducibilmente occidentale e, di conseguenza, segnato da secoli di metafisica platonica e di morale cristiana (a maggior ragione poiché egli stesso figlio di un prete ortodosso) [59]. Il nichilismo di Cioran è come la scala di Wittgenstein: può tornare utile come operatore concettuale propedeutico ma, una volta percorsi gli innumerevoli strati del suo pensiero, si dovrà lasciare da parte. Secondo Philippe Tiffreau, Cioran è «anarchico ai bordi, nichilista in mezzo e mistico al centro» [60]. Per di più, l’etichetta di nichilismo, più che spiegare e generare senso, il più delle volte serve semplicemente a diffamare e a squalificare una voce qualsiasi nel dibattito pubblico, com’è accaduto soprattutto dopo l’intervento di Nietzsche nella storia del pensiero occidentale. «L’accusa di nichilismo è oggi tra le più diffuse, tra quelle che più volentieri vengono rivolte all’avversario. È probabile che tutti abbiano ragione» [61].
La nostra proposta è di leggere Cioran nei suoi stessi termini, prestando ascolto alle sue riflessioni e alla musicalità che emanano, in modo tale da non incorrere nell’equivoco di ridurlo a questo o a quell’atteggiamento che fanno invece parte integrante del suo pensiero proteico e polifonico, e soprattutto, da non ridurlo a una caricatura post-nietzschiana del nichilista «che ronza di malessere ontologico», come ammonisce anche Simona Modreanu. Più che nichilista, Cioran è un mistico molto eterodosso e, ciononostante, uno scettico incorreggibile. Concludiamo lasciando che siano le sue stesse parole a dirci che: «Vi ho raccomandato la dignità dello scetticismo: ed ecco che mi aggiro attorno all’Assoluto. Tecnica della contraddizione? Ricordatevi piuttosto le parole di Flaubert: “Sono un mistico e non credo in nulla”. In queste parole riconosco l’adagio del nostro tempo, di un tempo infinitamente intenso, e senza sostanza. C’è una voluttà che ci appartiene: quella del conflitto come tale. Spiriti convulsi, fanatici dell’improbabile, lacerati tra dogma e aporia, siamo tanto pronti a lanciarci in Dio per rabbia quanto sicuri di non potervi vegetare» [62].

Rodrigo Inácio Ribeiro Sá Menezes 
(Traduzione dal portoghese di Amelia Natalia Bulboaca)
(maggio 2017, anno VII)

NOTE 

1.CIORAN, E.M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, Milano, 2009, p. 253.
2. Il testo qui presente è la versione estesa di una comunicazione presentata per la prima volta in occasione del VII Encuentro Internacional Emil Cioran, svoltosi a Pereira, in Colombia, nel 2014.
3. Rodrigo Inácio Ribeiro Sá Menezes ha una laurea in Filosofia, un Master in Scienze della Religione e un Ph.D. in Filosofia, conseguito presso l’ Universidade Católica de São Paulo, in Brasile.
4. MODREANU, S., Le Dieu paradoxal de Cioran, Éditions du Rocher, Mónaco, 2003, p. 19.
5. SAVATER, F., Prefazione, in CIORAN, E.M., Breviario de podredumbre, Taurus, Madrid, 1981, p. 16.
6. CIORAN, E.M., Un apolide metafisico, cit., p. 50.
7. «Il detentore della Parola possiede il privilegio di definire e di classificare: il potere che egli esercita attraverso il linguaggio è l’estensione “civile” della coercizione fisica. “Mangiare o essere mangiati: è la legge della giungla. Definire o essere definiti: è la legge degli uomini”, secondo lo psichiatra americano Thomas Szasz, che aggiunge: “La lotta per la Parola è una questione di vita o di morte. Una scena classica nei film Western mostra due uomini in una lotta disperata per recuperare una pistola che si trova a terra. Chi la raggiunge per primo spara e si salva la pelle; l’altro viene abbattuto e muore. In effetti, la ricompensa non è la pistola, ma l’etichetta: chi la spunta per primo è il vincitore della battaglia; l’altro, etichettato, è ridotto al ruolo di vittima”». JACCARD, R., A loucura [La folie], Zahar, Rio de Janeiro, 1981, p. 37.
8. Sul dogmatismo negativo in relazione allo scetticismo (il primo essendo storicamente una derivazione del secondo), cfr. HANKINSON, R.J., The Sceptics. Arguments of the Philosophers, Routledge, London/New York, 1995.
9. CIORAN, E.M., Un apolide metafisico, cit., p. 50.
10. CIORAN, E.M., La tentazione di esistere, Adelphi, Milano, 2012, p. 141.
11. Aggettivo impiegato da Nietzsche per descrivere il nichilismo come «il più inquietante (unheimlich) fra tutti gli ospiti». È formato dalla radice Heim («casa») e dal prefisso negativo un-. Data la sua densità semantica, può esprimere una serie di nozioni come: «spaesante», «strano», «sinistro», «perturbante», «tetro» e così via.
12. CIORAN, E.M., Le crépuscule des pensées, in: Œuvres, Gallimard, Paris, 1995.p. 493. «Nihilimsul : forma de limită a bunăvoinţii», in Opere, ediţie îngrijită de Marin Diaconu, Introducere de Eugen Simion, vol. 1, Academia Română, Fundaţia Naţională pentru Ştiinţă și Artă, București, 2012, p. 982.
13. CIORAN, E.M., Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, Milano, 2016, pp. 34-35.
14. «Una descrizione più consona di scrittori come Baudelaire e Cioran sarebbe quella di a-moderni, un termine che suggerisce come questi scrittori possano arrivare ad articolare la loro paradossale posizione di autori prototipicamente moderni solo passando dall’esperienza della modernità storica – gli eventi politici, economici e industriali che si verificarono nel XVIII secolo e all’inizio del XIX secolo – dando voce proprio a quel tipo di esperienze contro le quali spesso protestano ma senza invocare tuttavia il ritorno a un periodo anteriore ritenuto putativamente “migliore”. Il fatto che la loro fondamentalmente a-storica visione della storia umana come una serie inevitabile di calamità e di crudeltà sia, ovviamente, storicamente modulata poiché deriva da una serie particolare di circostanze storiche, non intacca la loro (o la nostra) abilità di accedere alle conclusioni estetiche e metafisiche che si possono trarre dalla loro prospettiva non lineare». ACQUISTO, J., The fall out of redemption: writing and thinking beyond salvation in Baudelaire, Cioran, Fondane, Agamben, and Nancy, Bloomsbury, New York, 2005. p. 11.
15. CIORAN, E.M., Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano, 2012, p. 134.
16. CIORAN, E.M., Storia e utopia, Adelphi, Milano, 2008, p. 109.
17. «Il fatto che con wu-wei, non si debba intendere letteralmente il “non-fare” e che si riferisca piuttosto allo stato fenomenologico dell’attore (il quale è, in effetti, alquanto attivo), ci suggerisce che dovremmo comprendere il termine in senso metaforico. In ciò che segue, argomenterò che il termine “wu-wei” rimanda a una situazione metaforicamente concepita nella quale un “soggetto” non deve più esercitare alcuno sforzo per agire. Come sarà discusso nel dettaglio […], “wu-wei” è stato adottato come termine tecnico generale per indicare un’azione priva di fatica poiché è rappresentativo di una serie di famiglie di metafore concettuali che trasmettono l’idea di una coscienza incosciente e senza sforzo. Tali famiglie di metafore includono: il “seguire” (cong) o “scorrere con” (shun), l’essere fisicamente “a proprio agio” (an), il godere di una “adattamento” perfetto al mondo (yi) e il “dimenticare” (wang) il sé, quest’ultima qualità essendo spesso espressa letteralmente anche come coscienza-incosciente (buzhi) o l’oblio che deriva da emozioni forti come la gioia (le)». SLINGERLAND, E., Effortless action. Wu-wei as a conceptual metaphor and spiritual idea in early China, Oxford University Press, Oxford, 2003, pp. 10-11.
18. CIORAN, E.M., Un apolide metafisico, cit., p. 253.
19. «All’origine della mia posizione c’è la filosofia del fatalismo. La mia tesi fondamentale è l’impotenza dell’uomo, che è solo un oggetto della storia, e non il soggetto». Ivi, p. 191.
20. CIORAN, E.M., L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano, 2011, p.16.
21. Ci rifacciamo alla traduzione spagnola: MAINLÄNDER, P., La filosofía de la redención. Trad. di Manuel Pérez Cornejo, Xorki, Madrid, 2014. [22] CORNEJO, M. P., “Introducción”, in: MAINLÄNDER, P., Filosofía de la redención, p. 16.
23. Ivi, p. 16.
24. Ibidem.
25. «Gli Arconti governano collettivamente sul mondo, e ciascuno individualmente nella sua sfera è un guardiano della prigione cosmica. Il loro tirannico governo del mondo è chiamato “heimarméne”. Fato universale, concetto preso dall’astrologia ma colorito ora di spirito gnostico anticosmico». JONAS, H., Lo gnosticismo, SEI, Torino, 1991, pp. 41-42.
26. Sul carattere neo-gnostico de La filosofia della redenzione, rimandiamo all’introduzione di Manuel Pérez Cornejo all’edizione spagnola del libro.
27. L’argomento di Jarlee Salviano può essere applicato anche nel caso di Cioran: «Se consideriamo il concetto [del nichilismo] come una teoria del Nulla, noteremo che difatti, c’è un nichilismo in Schopenhauer e che il filosofo abbozza questa teoria nelle ultime righe della sua opera, Il mondo come volontà e rappresentazione, del 1818». SALVIANO, J. O. S., Labirintos do nada: a crítica de Nietzsche ao niilismo de Schopenhauer, Edusp, São Paulo, p. 12.
28. CIORAN, E.M., Un apolide metafisico, cit., p. 50.
29. ROSSET, C., O real e seu duplo, trad. José Thomaz Brum, José Olympio, Rio de Janeiro, 2008, p. 52.
30. JONAS, H., Lo gnosticismo, cit., p. 221.
31. Ivi, p. 222.
32..«Un universo senza un’intrinseca gerarchia di essere, come è l’universo copernicano, lascia i valori senza sostegno ontologico e l’io è abbandonato interamente a se stesso nella sua ricerca di un significato e di un valore. Il significato non si trova più ma viene “conferito”. I valori non sono più considerati nella visione della realtà oggettiva, ma sono postulati come sforzi di valutazione. I fini, come funzioni della volontà, sono soltanto mia creazione. La volontà sostituisce la visione: la temporalità dell’atto elimina l’eternità del “bene in sé”. Questa è la fase nietzschiana della situazione in cui il nichilismo europeo appare alla superficie. L’uomo è ormai solo con se stesso» (Ibidem).
33. Ibidem.
34. Ivi, p. 223.
35. «Però l’atteggiamento dello gnostico di fronte al tempo si confonde in realtà con il suo generale atteggiamento nei confronti della situazione riservata quaggiù all’uomo e pertanto nei confronti del mondo intero, della storia di questo mondo, del divenire, del dramma che vi si svolge». Abbordando la concezione gnostica del tempo, Puech aggiunge inoltre: «la partita si gioca fra tre opposte concezioni, in cui il tempo può essere rispettivamente raffigurato nella prima da un circolo, nella seconda da una linea retta, nella terza infine da una linea spezzata [ligne brisée]». PUECH, H.-C., Sulle tracce della Gnosi, Adelphi, Milano, 2017, pp. 241-243.
36. «Per tutta la vita ho vissuto con la sensazione di essere stato allontanato dal mio vero luogo. Se l’espressione “esilio metafisico” non avesse alcun senso, la mia sola esistenza gliene fornirebbe uno». CIORAN, E.M., L’inconveniente di essere nati, cit., p. 78.
37. CIORAN E.M., Cadere dal tempo…, in La caduta nel tempo, Adelphi, Milano, 2011, p. 123.
38. NEIMAN, S., In cielo come in terra. Storia filosofica del male, Editori Laterza, Roma-Bari, 2017 p. 11.
39. CIORAN, E.M., Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano, 2011, p. 22; Da qui deriva la disapprovazione di Sartre dell’allegoria della «peste» con la quale Camus dipinse i totalitarismi del XX secolo e i loro agenti. Secondo Susan Neiman, «il resoconto di Sartre è esatto. Come analisi politica la metafora di Camus sconfina nell’irresponsabilità volontaria. Per combattere efficacemente i mali particolari, è necessario comprenderli. Dire che il nazismo è paragonabile ai microbi significa diminuirne la comprensione. I saggi di Camus rivelano perfino di più della verità contenuta nelle accuse di Sartre. La discussione dei mali morali e naturali di Camus è il risultato non di una confusione concettuale ma di un’affermazione consapevole. I mali morali e i mali naturali sono casi particolari di qualcosa di peggiore: il male metafisico insito nella condizione umana». NEIMAN, S., Op. cit., p. 279.
40. Secondo Joan M. Marín, «il discorso cioraniano è evidentemente anti-parmenideo, nella misura in cui, per il rumeno, l’esistenza in generale è priva degli attributi dell’essere (unità, ingenerabilità e incorruttibilità, vale a dire, eternità ecc.) e il nulla non solo è – e ne possiamo parlare – ma ci si rivela come uno dei costituenti essenziali dell’esistenza». MARÍN, J. M., Ciorán o el laberinto de la fatalidad, Institució Alfons el Magnànim, Valencia, 2001, pp. 15-16.
41. «Questa caratteristica è stata attribuita (in modo particolare da Kant) solo al nihil privativum, che viene contrassegnato con il segno “─” in contrapposizione al segno “+”, un segno “─” che, con un rovesciamento del punto di vista, poteva diventare “+”; e, in contrapposizione al nihil privativum, è stato posto un nihil negativum, che fosse il nulla sotto ogni rispetto, come esempio del quale si utilizza la contraddizione logica, che toglie sé medesima. Considerando la questione più da vicino, un nulla assoluto, un nihil negativum vero e proprio, non lo si può neanche pensare; invece ogni nulla di questo genere, se lo si considera da un punto di vista più elevato o lo si sussume sotto un concetto più ampio, si riduce sempre e solo a un nihil privativum. Ciascun nulla è pensato come tale solo in relazione a qualcosa d’altro e presuppone questa relazione, e dunque questo qualcosa d’altro. La stessa contraddizione logica non è che un nulla relativo. Non è affatto un pensiero razionale, ma non per questo è un nulla assoluto. La contraddizione logica è infatti una combinazione di parole, un esempio del non-pensabile, di cui nella logica si ha necessariamente bisogno per provare le leggi del pensiero; perciò, quando a questo scopo si ricorre a un esempio di questo genere, si concentra l’attenzione sull’assurdo, come il positivo di cui si va alla ricerca, e si trascura invece come negativo ciò che ha senso». SCHOPENHAUER, A., Il mondo come volontà e rappresentazione, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 2013, IV, § 71, pp. 522-523.
42. CIORAN E.M., La caduta nel tempo, cit., p.18.
43. CIORAN, E.M., Lacrime e santi, Adelphi, Milano, 2009, p.46.
44. CIORAN, E.M., Sillogismi dell’amarezza, cit., p. 83.
45. JAUDEAU, S., Cioran ou le dernier homme, José Corti, Paris, 1990.p. 61.
46. CIORAN, E.M., Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano, 2005, pp. 28-29.
47. CIORAN E.M., Sommario di decomposizione, cit., p. 36.
48. CIORAN E.M., Il funesto demiurgo, cit., p. 14.
49. CIORAN E.M., Un apolide metafisico, cit., p. 81.
50. E aggiunge: «Significa non avere più alcun vincolo, dopo avere liquidato tutto: si è veramente distaccati, si è superiori a tutto. Si è trionfato sul mondo: non esiste più niente. Quanto a noi che siamo vissuti, che viviamo nella cultura occidentale, questa forma di pensiero estremista la chiamiamo, o l’abbiamo chiamata, nichilismo. Ma non è nichilismo dato che lo scopo, o comunque l’esito è una sorta di estasi vuota, senza contenuto, e quindi la felicità perfetta. Per quale motivo? Per il motivo che non c’è più niente. Ecco perché ciò che per noi è negativo per gli orientali è un trionfo. È questo il lato veramente positivo delle posizioni estreme del pensiero orientale. Dunque ciò che per noi è rovina per loro è coronamento. […] E qual è il suo scopo? Liberare la mente e il cuore. Quindi non è affatto una dialettica nichilista, è sbagliato chiamarla nichilista. Distrugge tutto, Nagarjuna, tutto, tutto, tutto, prende tutti i concetti della filosofia e li annienta uno dopo l’altro. E poi, irrompe una sorta di luce». Ivi, pp. 82-83.
51. Cfr. DEMARS, A., Le pessimisme jubilatoire de Cioran: enquête sur un paradigme métaphysique négatif (tesi di dottorato), Université Jean Moulin 3, Lyon, 2007, p. 53.
52. CIORAN E.M., Sommario di decomposizione, cit., p. 83.
53. Ivi, p.95.
54. CIORAN E.M., Un apolide metafisico, cit., pp. 247-248.
55. Ivi, p. 93.
56. CIORAN E.M., La tentazione di esistere, cit., p. 143.
57. CIORAN E.M., Un apolide metafisico, cit., p. 36.
58. CIORAN E.M., Quaderni. 1957-1972, Adelphi, Milano, 2013, p. 214.
59. Cfr. CIORAN E.M., Pensare contro se stessi, in La tentazione di esistere, cit.
60. TIFFREAU, P., Cioran ou la dissection du gouffre, Henri Veyrier, Paris, 1991, p. 28.
61. JÜNGER E., HEIDEGGER M., Oltre la linea, Adelphi, Milano, 1990, pp. 103-104.
62. CIORAN E.M., La tentazione di esistere, cit., pp. 106-107.

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