venerdì 29 giugno 2012

Arte libera di uno spirito libero

Arte libera di uno spirito libero
Bruno Filippi



Falange di tisici cronici più moralmente che fisicamente, microcefali, zoppi, gobbi, ciechi, visi orrendi scolpiti dal vizio, dalla sifilide, dall'alcool.

Bocche sdentate, gialle, bavose, a che vomitate contro me orrendi improperi?

Tutto l'odio che vi gorgoglia nella strozza, che vi fa colare due rivoletti di bava agli angoli della bocca, non mi smuove dalla mia indifferenza.

Scuotete pur i pugni avvezzi a rivoltar letame! E voi donne insultatemi pure, voi nel cui grembo si perpetua il dolore umano. Siete tutti vili, vili! Esseri spregevoli degni della frusta! Rettili striscianti in cerca di uno sporco tozzo di pane, cani che leccate la mano di chi vi batte! Ed è per voi, proprio per voi che dovrei insorgere?

Per voi, per i vostri figli e le vostre madri?

Carogne imputridite dalla rassegnazione, mummie tarlate di una società in decadenza, voi vi ingannate. Io non darò la più piccola goccia di sangue per la vostra causa, non sacrificherò neanche una sigaretta per voi.

Continuate nella vostra discesa nel fango. Man mano che voi scenderete, io salirò. Io godrò nel vedere la degenerazione che si fa strada entro voi, godo, godo…

Giorno per giorno la fronte vi diviene sfuggente, la bocca patibolare. Giorno per giorno le stimmate della putrefazione avanzata si scorgono sotto la pelle giallastra.

E io rido, rido!

Che gioia assistere allo sfacelo di un mondo, vedere dovunque sangue, cadaveri, putredine!

Mentre e borghesia e popolo s'ingannano a vicenda e a vicenda si sgozzano, io assisto esilarato per tutto questo affannarsi senza scopo.

Là un Kaiser, qui un Wilson ecc..., e dappertutto popoli che si lamentano e non insorgono.

Nel fango, rettili!

Io non voglio unirmi alla corte dei cortigiani del proletariato, che essi scusano, incensano, ornano di lauri. No, o egregi parolai, la vostra verve non maschera nulla. Il popolo è sempre lì, idiota, vigliacco, rassegnato. Ed io che mi sento superiore, voglio esserlo, e la mia sarà una superiorità che pagheranno e borghesia e proletariato. Languite nella fame, negli stenti, vegetate, bestialmente fecondando uteri in un pullulare di rampolli cenciosi, sudici, scrofolosi, rachitici.

Forza! Alzate in coro il vostro lamento vigliacco! Dite che avete fame.

Stendete la mano di fronte alla vetrina colma di gioielli. Fate, fate! Lamentatevi della guerra, mentre siete voi i suoi autori e i continuatori perché la sopportate! Ma io fuggo il vostro putridume che vorrebbe insozzarmi. Superbamente solo, rompo le catene che mi avvincono a voi e mi separo dal gregge dei cani rognosi sommessi al pastore. Solo vagherò per il mondo portando ovunque il mio odio e il mio disprezzo.

Solo nella lotta. Solo nella vittoria, e solo nella sconfitta. Le mie idee saranno il veleno che deve finire per intossicarvi e voi tremerete davanti a me come davanti al Re, al supremo!

E intanto rido alla vostra ridda grottesca e sanguinosa, rido tanto che non vedo più nessuno e mi pare che l'umanità sia un'immensa piaga cancrenosa che continuamente sgorga marciume denso e puzzolente. E questa piaga si muove, si agita, si copre di croste che poi scompaiono per dar posto a un altro sgorgo di materia puzzolente…

E io rido, rido!

Vecchissimi ruderi di un sentimentalismo ormai tramontato, a che v'ostinate nel vostro muffoso ideale? Non udite la vita che rombando incalza ed insegna?

Finora assorti in un placido sogno di pace, in un avvenire lucente, combatteste così, cogli occhi spersi nella vostra illusione. Ma ora poniamo un problema e voi dovete avere il coraggio di affrontarlo e discuterlo.

Vi poniamo il problema dell'essere o non essere. Finora il vostro sogno fu l'altruismo, il sacrificio per l'umanità, per l'avvenire. E così voi, sacrificaste tutto il vostro essere in questa inversione intellettuale. Che vi deve importare dell'avvenire? Che vi deve importare il progresso del popolo? Poiché voi che vi dite anarchici, siete sicuri d'ingaggiare una battaglia per voi, già persa a priori, però voi non vedrete certo una società come la sognate, e se anche il popolo si ribellerà le condizioni sociali per voi non possono cambiare, e la vostra ribellione dovrà continuare.

Quindi a che pro scendere tra una massa che non può seguirvi poiché le sue condizioni sono tali da rendervi inintelligibili presso loro? Se voi siete ingegni ribelli come dite di essere, non dovete sostituire all'abnegazione cristiana, all'asservimento patriottico, l'altruismo dell'anarchico che si sacrifica per un avvenire che non vedrà, e per della gente che non vi segue. Dovete riconoscere che nati in una società per noi perniciosa, noi ribelli siamo in realtà i maggiori schiavi. Schiavi dell'evoluzione noi permettiamo che per mezzo del nostro sacrificio l'umanità faccia un piccolo passo. E questo almeno bastasse; ma visto che il progresso è incessante e quindi inutile, che la società raggiunta la forma sociale da noi propugnata non potrà lì fermarsi, ma bisognerà che proceda verso uno scopo che oggi non possiamo assolutamente neanche immaginare, così bisogna convenire che questo nostro affannarsi è assolutamente senza scopo. Così noi osserviamo che le migliori e più forti energie d'ogni epoca sono sfruttate da questa immensa piovra che è l'umanità.

Socrate, Cristo, Bruno e un'immensa corte di grandi pensatori sono stati le vittime di questo moto ascendente, dannoso per chi lo aiuta e inutile per chi lo subisce. Poiché è naturale che gli schiavi di Roma essendo nati in quell'epoca erano contenti della loro condizione come i salariati d'oggi.

Contentezza, intendiamoci, relativa, formata di rassegnazione, viltà, ignoranza, ecc. ecc. Difetti che la massa avrà sempre in maggiore o minore dose perché gli aggruppamenti sono sempre inferiori agli individui.

I popoli sono conservatori: si contentano della società che trovano. Le minoranze sono novatrici invece e si ribellano quindi. La massa col suo peso bruto frena l'azione rivoluzionaria e la subisce.

Si abitua al nuovo stato di cose, vi si imputridisce finché una nuova volta la minoranza si ribella.

Ed è per tutto questo gioco di equilibrio che io devo soffrire? Io che ho forza e coscienza per essere motore di me stesso, non voglio essere la piccola rotellina che viene dai pesanti ingranaggi sociali travolta, annichilita.

Ribelle, perché oggi la società m'opprime e vuole impedire la libera espansione del mio essere, io adopero tutte le armi per combattere.

Ribelle contro la massa che anch'essa mi è nemica con superstizioni, morale, degradazione, ecc. Pure contro la massa combatto. Solo in lotta per la Mia redenzione, per la Mia libertà, per il Mio presente.

Di tutto il resto me ne infischio.

Trionfi il prete, mieta l'alcool, massacri il governo, non me ne importa perché non mi tocca.

Io solo il mio Io difendo dagli attacchi.

E se nella lotta disuguale io cadrò, certo non solo, avrò la sublime soddisfazione di essere insorto contro un mondo e di averlo battuto, se non materialmente, intellettualmente.

Perché studiosi, scienziati, poeti, romanzieri, pittori, davanti a me il vostro genio non vale. Voi siete un riflesso della vita, io sono l'essenza. E certo sentirete in cuore il dolore atroce del veder crollare i rettorici castelli, e malgrado tutto continuate a sostenerli per misoneismo. E del resto fate bene. Voi siete nati per strisciare, io volo. Per voi il fango, per me le vette. Per voi il pavido annichilimento, per me la sublimazione dell'essere. E certo se la vita è dei più forti, io l'avrò. Per poco; ma l'avrò. La prenderò a forza e a forza le toglierò il bene e il godimento.

E voi, parodie, ombre di uomini continuate nella vostra marcia nel buio.

Sulla mia via splende la luce. Voi avete paura di essere: ecco la verità. L'uomo vero v'intimorisce. La realtà malgrado il vostro rettoricume vi spaventa. E sognate, sognate. Io vivo. Voi non siete; io sono.

Ho risolto il problema. Urlatemi dietro…

«Vorrei sdraiarmi su un soffice odoroso letto di rose…» «Guarda alle spine» mi gridano. «E che me ne importa? Poiché nella vita le spine non mancano, preferisco quelle delle rose che col dolore danno la gioia».

E sta bene. Voi leggendo potrete dire che la mia è prosa pazzesca, anormale, come pazzesche e anormali avete chiamate le mie azioni. Ma il vostro giudizio non mi interessa affatto né io lo sollecito.

Voglio solo, per un indefinibile sentimento, che i cervelli superiori sappiano il perché io mi slanciai nel buio, voglio che la mercenaria penna avversaria non possa coprire il mio nome col pattume che è nel loro bagaglio. Io solo sono il reporter di me stesso: sfuggo gli intermediari che potrebbero, in buona o in malafede, deformare le mie idee. E poiché probabilmente io non potrò manifestarle, desidero che dopo la mia scomparsa si sappia come io abbia deciso questa lotta alla società. Affido quindi questi pensieri a una persona che ignora il mio progetto e che lo renderà noto quando il sipario sarà calato.

È la nebulosa dell'universo che già con le sue tristi brume mi attrista? È un'oscura fatalità che mi minaccia? Io non so quale sia il movente di questa malinconia che su me si abbatte dilettandosi a torturarmi, strappandomi tutto quello che io mi illudo di amare e di credere.

Oh! la gioconda fede dei tempi trascorsi quando lietamente combattevo la buona battaglia per l'Idea, senza timori, senza dubbi! Ora tutto invece mi appare vano; per ogni dove scorgo l'oscurità densa e inscrutabile.

Tutto, tutto ho distrutto, ed ora sono rimasto solo coi miei pensieri tristi e di tutto e di tutti dubitando. E sento questa necessità di espandere l'animo mio su questa nuda carta che non ha fremiti all'apprendere la bufera che mi tormenta. Chi leggerà queste righe? Forse nessuno. Resteranno ignote come ignoto è per chi conosce l'affannoso mio pensare.

Stasera come al solito stavo leggendo, quando un passo della lettura mi colpì vivamente ed io allora per riflettere cessai di leggere. Stavo appunto cogitabondo, quando volgendo distrattamente lo sguardo per la camera vidi, anzi mi vidi seduto sul letto. Non io, ma pure ero io, perché era assolutamente come me. Stupito guardavo in silenzio e anch'esso, l'altro io, mi guardava, ma con un certo risolino ironico.

«Chi sei?», gli domandai. «La tua ombra», mi rispose. «Sono venuta qui per discutere un po'!». «E discutiamo», dissi, allettato da una così straordinaria avventura.

«Bene: perché sei anarchico?». «Ma, perché oggigiorno siamo sfruttati, calpestati dai dominatori».

«Rettorica, rettorica caro mio. Senti: tu sei anarchico e non sai neanche tu il perché. Io ho sempre visto questo: che in qualunque società ci sono stati degli innovatori che finirono sul rogo, in croce, ecc. ecc… Quindi questi novatori con tutti i loro sogni e i loro sacrifici fecero un buco nell'acqua, perché è fatale che qualunque rinnovamento precorso da un individuo qualsiasi, accada molto tempo dopo la morte del medesimo. E così accadrà di voialtri anarchici. Voi morrete senza vedere attuato nulla del vostro ideale, e le generazioni che verranno dopo di voi, viventi magari in regime anarchico, aneleranno un Ideale più alto e per questo morranno a loro volta senza nulla ottenere. È un circolo vizioso, un eterno rincorrersi…”

Mai come oggi le tenebre mi avvolsero. Ed accade difatti che dopo esser vissuto per qualche ora circondato dal tepore del sole, quando questo si eclissa un subito brivido di freddo ci scuota la persona.

Il freddo mi è entrato nell'animo che sogna un avvenire di tepore e che lo vede lontanissimo o, come mi disse uno, quasi irraggiungibile. Come sono tristi queste parole. Dite alla rondine che vola alla ricerca della primavera che essa non la raggiungerà mai; la vedrete piegare le ali smarrita, sconfortata. Io non desisto, non piego. Chi sa che quell'albeggiare lontano non possa raggiungerlo; chi sa?…

Il mio spirito è arido come un deserto, i miei occhi ardono come per febbre. E mi pare che ad ogni tratto qualche cosa si spezzi dentro di me con uno schianto lugubre. Chi, chi potrebbe descrivere ciò che sento? Non posso farlo neppur io. A momenti sento la mia anima allargarsi, espandersi lieta, fiduciosa. E poi d'un tratto raggrinzirsi subito, con un acutissimo dolore. Che m'importa del mondo, degli uomini? Io non vedo più nessuno. I miei occhi vedono solo una cosa, un albeggiare lontano… Tutto il resto è tenebra.

La natura che ride m'irrita poiché stride coi miei pensieri dolorosi e par che quasi mi beffeggi. Vorrei che il cielo fosse tetro, lampeggiante come me in questi momenti. Come il naufrago che si vede intorno la desolata vastità del mare e trema della solitudine funesta, e spia l'orizzonte per vedere se una vela amica si mostri, io pure, smarrito in un'immensità paurosa, mi sento solo, dolorosamente solo. Ma non mi lascio vincere dai flutti. Solcherò il mare colle mie braccia vigorose alla ricerca, viatore instancabile ed ardito.

Fluctuat in porto. Il motto latino mi sprona, ed io come il nocchiero fisso il faro che lontano lontano rompe la nebbia col suo fascio di luce. Ed io voglio raggiungere quella luce. Voglio, voglio! Non vi saranno ostacoli che me lo impediranno, né scogli, né infuriare di libecci. Io sarò forte, io arriverò. Come le carovane arabe che si accingono alla traversata del Sahara e guatan l'immensità sabbiosa che dovranno attraversare, con l'ansia di restar per via, e vanno, vanno, vanno, sotto le vampe del sole, fra l'infuriar del simum, assetati, affamati, stanchi, accanto ai gibbosi cammelli che allargano le nari per rubare un po' di frescura all'aria secca, con la visione fissa assillante di una snella candida moschea donde il muezzin saluta la Mecca alla sera, di una cittadina fresca dove riposare, così pure io vado, vado, vado con una visione unica negli occhi. Instancabile procedo con la gola serrata e con tutta una tempesta in me. Se ciò che sento si potesse tramutare in vento, io passerei come una bufera devastatrice distruggendo tutto sotto i miei soffi violenti. E vado, e vado. L'anima geme, le palpebre mi si serrano; sento un bisogno di pace, di riposo, una lusinga a restare così sulla sabbia, svanire, scomparire sotto il sole, ritornare nel nulla. Verrebbero gli sciacalli e farebbero festino del mio corpo, lasciando solo biancheggiare il mio scheletro, come una muta ironia alla vita. Ma io insorgo, uccido il germe di pace e proseguo. Arriverò perché voglio. E se non arrivassi? Allora il deserto s'impadronirebbe di me.

Sono ammalato dello stesso male di Nietzsche e mi dispiace confessare di avere qualche cosa in comune con uno di questo o dell'altro mondo. Sono irrequieto, nevrastenico. Alle tempia ho un ferreo cerchio che mi stritola il cranio, e gli occhi stanchi di sogni mi martellano nelle occhiaie gonfie e sanguigne. Sono destinato a passare ramingo come una invisibile meteora traverso questo mondo. Appunto perché superiore dovrò vuotare tutto il calice dei dolori e dello sconforto senza che la gioia mi allieti. Ma l'aspra ebbrezza di libare al calice dei dolori è un superbo godimento che solo chi sfida incurante la sorte, solo a chi da se stesso con le proprie mani si straccia a brandelli l'anima, è dato degustare. Anch'io talvolta agogno sì l'altro calice, quello della gioia, per bagnarvi le mie labbra avide, ma esso fuggì ed ora giorno per giorno si fa più spaventoso il baratro che mi divide dagli altri. Chi verrà a me? Chi avrà il coraggio di sorvolare la voragine per udire le mie verità, per sperdere un poco la mia tristezza? Chi?… Ieri nel colmo della mia stanchezza mi giunse una cartolina da una ignota. Tre viole che con la gaiezza del pensiero e del simbolo mi rallegrarono un po'; dodici parole che mi fecero sognare piacevolmente.

Ringrazio l'ignota del suo pensiero e della sua misteriosità che mi permise di slanciarmi di volo sul cavallo alato della chimera. Ignota gentile, dove sei? Forse nell'Andalusia passionale, o nella gaia Francia? Chi sa? Chi sa che il raggio di luce sia ella, l'ignota!… No, impossibile. Intorno a me grava la tenebra fitta, paurosa. Io non penso, non parlo, ma desidero il sole, la luce…

Vagabondo per la vorace città, mi immergo nel fragore della vita per uccidere un germe di melanconia che si fa strada entro me. Erro senza meta ed osservo l'incessante via vai, il succedersi continuo di fisionomie stereotipate ed indifferenti. Passan donne sgargianti e in tutte le loro movenze e i loro atti più semplici vedi lo sforzo, l'ostentazione, lo scopo unico di stuzzicare il desiderio. E l'uomo si ferma, segue con lo sguardo cupido le figurine chiassose e procaci ed esclama il commento triviale. Ecco uno stuolo di ricoverati, insaccati malamente in abiti mal fatti, procedono guidati da un prete tozzo e volgare. Poveri bimbi! Cresciuti nella bigotteria, nell'ambiente corrotto del collegio, sono i rassegnati, gli iloti di domani. Vedo una chiesa. Un grosso parroco discorre con delle beghine che lo ascoltano compunte e attente, e il pretonzolo agita le mani pelose e sguscia gli occhietti lanciando occhiate oblique. Il ben pasciuto all'ombra del tempio bugiardo sente inquietarsi l'urlo del lavoro e della miseria, che pare aleggi sulla grande città. «Signore, la carità» si lamenta un essere cencioso e sporco… «Signore, la carità…». E la folla procede indifferente pensando alla minestra della sera, all'osteria, al gioco delle bocce. E il richiamo del mendicante continuando noioso e implacabile, mi trafigge le tempie, mi martella il cervello.

Allungo il passo, sono nella zona borghese. Carrozze, automobili, servitori gallonati, dai visi idioti, aprono portiere, fanno inchini. Vedo donne imbellettate , profumate, ganimedi attillati, coi guanti gialli, la caramella, il bastoncino, la coccarda tricolore. Si urta, si confonde questa gente: parla di pranzi, ballerine. Sale un profumo nauseabondo che mi prende alla gola e mi soffoca. Ma quasi affascinato rimango, sento il fruscio delle sete, il ciangottare delle gentildonne. Da un caffé sortono a ondate le note di un inno patriottico: un mutilato vicino a me, appoggiato alle grucce, guarda stupito la fiumana incessante.

Fuggo. Vo per vie solitarie semibuie: sbocco in piazze, in vicoli.

Fanciulli stracciati, sporchi, donne gravide, uomini neri di fumo e puzzolenti di cicca. Spazzatura, fango. Case umide, sgretolate, pisciate sui canti, osterie piene di avventori urlanti e ubriachi. Ecco dei soldati: a passo pesante, cadenzato, sudati, polverosi, rughe sulla fronte, e schiena curva. Esce la gente, guarda, commenta, compassiona e poi ritorna a bere, a urlare, a cantare.

Fuggo sempre. Veggo sulle cantonate annunci di varie operette, di vari caffé chantant: sento un crocchio di giovanotti che discorre di football, di ciclismo. Povera umanità che sorge!

Lascio le vie, mi interno per prati, voglio dimenticare, sognare. Una figura sorge da un gruppo d'alberi e mi si avvicina. Sento una tanfata di vino colpirmi l'ofatto. «Vieni, mi darai trenta centesimi!».



Ho sognato un mondo in fiamme roteante nell'infinito e lanciare bolidi infuocati e scintille per gli spazi siderei.



Ho un dio come gli altri: ma esso è senza d.



Decadenza.



Come enormi arieti, diverse razze oggi si cozzano, ognuno volendo la supremazia sulle altre.

La romantica latinità, la mercantile Albione, contro l'imperativa Germania, mentre a rimorchio vengon le nazioncelle balcaniche col bagaglio pittoresco dei loro costumi orientali arretrati. E sull'orizzonte fiammeggia la Russia, che entra in una nuova fase della sua vita.

Dall'oriente le civiltà rinnovate e ringagliardite da novelle energie, spiano a settentrione ove si sente buon odor di cadavere, e què piccoli figli del sole, attendono di poter qui riversare la sovrabbondante popolazione in una rinnovata espansione di civiltà asiatica.

Eppure questo spettacolo, questo spreco folle di energie, questa lotta accanita per la vita, non mi rivela nessuno slancio di forza vera e cosciente. Io vedo solo un immenso sfasciarsi, un diroccare di castelli, un mortale spingersi di popoli, mentre la terra indifferente apre il seno per accogliere tutta quella giovane carne che la feconderà. Questo magnificamente terribile decadimento avviene al lume titanico di un incendio colossale, adeguato al ruinare di questa civiltà.

Così io vedo questo immenso aggrovigliarsi di uomini, vedo mieter dall'alcool, dalla tisi, dal cannone: vedo storpi, scrofolosi, acefali, delinquenti.

Letteratura, arte, scienze, tutto supplisce l'influsso di questa mostruosa discesa. Tutto il mondo è un pullulare solo di marciume che sale, sale e invade tutto e tutto inghiotte.

L'umanità si crede alta. Parla di eroismi, di progresso e non s'accorge di essere ulcerata. Il baratro è lì spalancato ed essa vi cade cantando, urlando, rissando, col suo dio, la sua patria, la sua civiltà assassina, la sua degenerazione elegante.

Tutto cade, tutto crolla. Morale muffosa, filosofie greppaiole e bugiarde, rettoricume antiquato, non salvano la situazione. Il male è avanzato e non s'impedisce più ormai. I lecchezzi che adornano il vecchio edificio sono divenuti il nido di microbi che inquinano. Ormai tutto è condannato a sparire schiacciato sotto il cumulo enorme di vecchiume. La storia chiude questa fase curiosa, che diede lo spettacolo incomprensibile di supinità nei suoi membri devoti a una ridda di vari fantasmi inesistenti, e che fece vedere il ridicolo continuo costruire per poi distruggere, il continuo paziente soffrire della moltitudine e il gavazzare di pochi, tutto un insieme di vigliaccheria, inversione, nefandezze che vi vogliono far passare per azioni eroiche, tutta una mentalità rinsecchita che loro dicono geniale.

Così ha fine questa età. Ben vada. Al cospetto di tante rovine, novello Nerone canto sul disastro, godo nel vederlo, poiché su queste rovine edificherò il mio edificio, la mia civiltà, il mio mondo. Perciò canto…



[Da I grandi iconoclasti: scritti postumi, raccolta di scritti di Bruno Filippi

a cura della rivista "Iconoclasta!", Pistoia 1920]

«Maledetto anarchico!»

«Maledetto anarchico!»
di Léo Malet

Gli restituii prima la stretta, poi la mano e risi:
«Per fortuna che non sono un poliziotto. Altrimenti la segnalerei ai suoi superiori. Cos’è questo vocabolario? Aderisce forse a una cellula comunista?».
Replicò anche lui ridendo:
«È a lei che bisogna chiederlo».
«Io non sono comunista».
«È stato anarchico. Forse lo è ancora. Per me, è la stessa cosa».
«È ormai molto tempo che non lancio bombe», sospirai.
«Maledetto anarchico!», ridacchiò l’ispettore.
Sembrava divertirsi sul serio.
«Oh! Ma smettiamola! Signor Mac Carthy», dissi. «Ha mai sentito parlare di Georges Clemenceau?».
«La Tigre?».
«Si, la Tigre. O, se preferisce, il Primo Poliziotto di Francia, come si è autodefinito lui. Purché mi lasci in pace, le ripeterò quello che ha detto un giorno la Tigre, detto o scritto, cito a memoria: “L’uomo che a sedici anni non è stato anarchico è un imbecille”».
«Davvero? La Tigre ha detto questo?».
«Si, vecchio mio. Non lo sapeva?».
«Ma si, certo...».
Sospirò:
«…La Tigre!…».
E con un gesto automatico gettò uno sguardo in direzione dell’orto botanico.
Poi, tornando a me:
«…La sua citazione mi sembra incompleta. Non ha per caso aggiunto: “…ma lo è – imbecille – anche chi è ancora anarchico a quaranta”, o qualcosa del genere?».
«È esatto. Ha aggiunto qualcosa del genere».
«E allora?».
Sorrisi:
«Tra le affermazioni di Clemenceau bisogna fare una cernita. Io ne scarto non poche».
Sorrise a sua volta:
«E lei però non è un imbecille!».

giovedì 28 giugno 2012

GLI ANARCHICI E LA MASSA


* IL PROLETARIO *
ANNO I • N. 5 • Pontremoli, 12 Dicembre 1922

GLI ANARCHICI E LA MASSA

Cos’è l’anarchismo? È una filosofia materiata di spiritualità e d’eroismo che ha avuto intelletti ed anime che l’hanno concepito come una dottrina densa di raffinata spiritualità, e di martiri che l’hanno tinto di uno sfolgoreggiante eroismo degno di tutte le riverenti ammirazioni.
Ah! Come era bello quando si veniva all’anarchismo per cognizione profonda e coll’animo adusato a tutti i sacrifici!… Allora s’imponeva rispetto. Era solo compreso da una élite di aristocratici del pensiero e dell’azione. E le pagine che incisero nella storia furono incancellabili. Ma poi ci fu chi — forse male avendolo interpretato — ha cercato di «popolarizzarlo», «democratizzarlo», renderlo «comune» tra la massa, sfrondandolo di quella sensazione di eroismo di cui era permeato.
La massa cos’è? È quella brulicante materia grigia dallo stomaco affamato solo di pane, abituata a tutti i lenocinii dei partiti autoritari, dove si baratta la coscienza cogl’interessi particolaristici. I partiti socialisti, con tutte le loro clientele e favoritismi sono stati come la cancrena, hanno conturbato la virilità della massa rivoluzionaria, sono stati la lue contro la cristallina salute. Almeno ci fosse piuttosto stata la saggezza di non creare fantocci che al primo soffio di libeccio cadono travolti.
E le organizzazioni? Nemmeno quelle camuffate da rivoluzionarie hanno resistito alla raffica ed alla procella. Era logico e fatalmente naturale. Seguivano il medesimo circolo vizioso. La massa era considerata «maestà». Il suo numero, e l’ascendente su di essa: ecco quello che era considerato necessario. Numeri che si sono sottratti presto, ed ascendenza sparita.
Ma se ancora vi sono dei gaglioffi che per il proprio mestiere hanno bisogno di servirsene o di… servirla, continuino pure a distribuire tessere e scrivere numeri, ma non si trascini ancora l’anarchismo nei vicoli oscuri degli esseri senz’anima e senza cervello, nel pantano del gretto democraticismo figlio del ricatto e di un ventraiolismo corporale.
Sarebbe ignominia e insulto a quell’anarchismo incisosi nella coscienza di quegli eroi quando la raffica pur soffiava.

La Redazione

mercoledì 27 giugno 2012

Charles Gallo


Charles Gallo – Citazioni dal processo per l’attentato alla Borsa di Parigi

Non avevo di mira i poveri commessi, tirai nel gruppo degli agenti di cambio e dei cambieri; ma se taluni commessi ebbero le loro ferite, inseguendomi, non me ne duole. Quando si nasce al di qua non si sta coll’animo, colla devozione, coll’accanimento dell’altra riva, non si ha diritto alla nostra solidarietà ed alla nostra pietà. Deve bastare ai mastini del capitale, sieno birri o gendarmi, soldati o lacchè, la pietà dei padroni.

Sarebbe desiderabile certo che la povera gente avesse coscienza del posto che occupa nella società e sapesse tenerlo, e non è colpa nostra quando assalendo il nemico secolare nelle sue trincee troviamo di povera gente guernito l’esercito dei suoi sgherri e difensori. Non è colpa nostra, noi siamo rimasti al nostro posto. Coltivar la pietà pei rinnegati, pei transfughi, pei traditori equivale ad organizzare il fallimento della rivoluzione.

fonte: Luigi Galleani – Faccia a faccia col nemico


LA COSTITUENTE

LA COSTITUENTE

L’inesorabile offensiva persistente della reazione statale e capitalista, ha posto a repentaglio anche la posizione dei mestieranti più palesi del socialismo politico e sindacale. — Poiché le forze bianche costituitesi in Partito col duplice organismo politico e sindacale, tendono con ogni mezzo legale ed extralegale, blando, insidioso e violento, ad assorbire e svuotare i quadri dei rossi e metterli fuori gioco dal conteso terreno del predominio sulle masse. Gli anfibi del confederalismo social-democratico che sentono scosso il loro prestigio, che vedono distrutte o espropriate le loro molteplici istituzioni e con esse le comode sinecure, che vedono violate e calpestate le stamburate conquiste parlamentari e corporativiste, vilipese le magnificate guarentigie dello «Stato liberale…» e quel ch’è peggio, che sentono la tremenda minaccia alle reni che intima: «o la borsa o la vita» — cercano con la consumata abilità propria dei conformisti una via di scampo purchessia onde ingraziarsi il nemico travolgente e mantenersi in equilibrio…
Ora è la volta di Lodovico Calda, versipelle matricolato e tipico esponente di quel funzionarismo sindacale parassitario che ha fatto delle Camere del Lavoro tante succursali di prefettura e della Confederazione industriale al servizio del governo e del capitalismo e che infine ha trascinato il proletariato di passo in passo nel baratro mostruoso delle odierne sventure.
L’emerito funzionario social-democratico, dunque, nella sua qualità di segretario delle Organizzazioni Portuarie e nel nome di questo, con un ordine del giorno ove si espongono diversi «considerando» fra i quali alcuni con cui si ripudia il Socialismo, l’Alleanza del Lavoro, la lotta di classe ed il «patto di alleanza» col Partito Socialista… invoca e propone la «Costituente Operaia» per la creazione del famoso «Partito del Lavoro», o meglio dell’organismo che raduni e comprenda tutte le organizzazioni operaie italiane senza distinzione di colore…, mediante la proclamazione di un nuovo Statuto, la rinnovazione e ampliamento degli organi direttivi!...
Frammassoni o popolari, socialisti e fascisti, repubblicani, comunisti e sindacalisti… già tutti in un bel fascio sindacale unitario… «senza colore» o di «tricolore»!
«Ma che roba è questa?» — si domanderanno i proletari sbalorditi! «Viste le cose come stanno» — spiega Lodovico Calda — ogni espediente che valga a salvare… l’epa e il foraggio al polluto funzionarismo sindacale è lecito.
Quindi ben venga il famigerato «labourismo» antiproletario, il nefasto «gompersismo» trafficante, lo «Stato grigio» del Lavoro, sotto i felicissimi auspici del grigio e nefasto Lodovico Calda.
Peccato che la lardosa pappagorgia del funzionario genovese non abbia apertamente invocato anche la fusione della Confederazione degli industriali nell’«Organismo Sindacale Unitario»!!! Per quali ragioni dovrebbe essa restarne esclusa? Per salvare le apparenze e il camufflage della vecchia, stolida commedia con cui i pastori sindacali possano perpetuare insieme ai capitalisti la tosatura dello smunto gregge lavoratore?
Ma per non vederla ed intenderla oramai i lavoratori bisognerebbe che fossero dei ben duri montoni.
Noi invece «viste le cose come stanno» — a differenza di tutti i Lodovico Calda del burocratismo sindacale — invitiamo i lavoratori a liberarsi una volta per sempre dai ceppi di tutte le organizzazioni e dal conseguente pungiglione vampiro di tutti i funzionari e mestieranti; per fare da se stessi.
È ben ora che abbiano imparato duramente a loro spese, che allo sfruttamento padronale cui sono soggetti, si aggiunge lo sfruttamento non lieve degli intermediari, funzionari ed organizzatori di professione che si sono moltiplicati in un vero esercito con il maggiore sviluppo degli organismi sindacali operai.
Senza pertanto ottenere da questi, le classi lavoratrici, la loro emancipazione e liberazione dal giogo capitalista; ma cadendo nelle vane, illusorie, pervertitrici insidie del riformismo salariale, politico economico, che maggiormente le asservisce.
Non dimentichino gli operai che «l’emancipazione dei lavoratori deve esser opera dei lavoratori stessi», il che significa non dover attendersi il bene e la redenzione dalle promesse degli altri, siano essi capi organizzatori o parlamentari; ma conquistarsi l’uno e l’altra con le proprie forze.
Nel mutuo sforzo, nella lotta diuturna e diretta dei proletari faticanti, organizzati naturalmente sui posti di lavoro, liberatisi da tutti i capitani di professione e da tutte le pastoie dei gerarchismi sindacali del funzionarismo operaio di ogni colore, contro l’usurpazione e l’oppressione dello Stato e del capitale; è unicamente possibile la salvezza del mondo del lavoro.
Auro d’Arcola

martedì 26 giugno 2012

Dell'Individualismo e della Ribellione

Dell'Individualismo e della Ribellione

C’è chi afferma che l’uomo sia per natura un essere sociale. Altri affermano che per natura l’uomo è antisociale.
Ecco; io confesso che non sono mai riuscito bene a comprendere che cosa essi intendano di dire con quel loro «per natura»: ma ho compreso però che gli uni e gli altri hanno torto inquantoché l’uomo è sociale ed antisociale nello stesso tempo.
La necessità, il bisogno, gli affetti, l’amore e la simpatia sono gli elementi che lo spingono alla socievolezza ed all’unione.
La brama d’indipendenza e il desiderio di libertà, lo spingono verso la solitudine e l’individualismo. Ma, mentre l’individualismo funziona e si realizza contro la società, la società si difende dagli attacchi di questo. La guerra tra il «societarismo» e l’«individualismo» è dunque guerra feconda di vitalità e di energia. Ma, mentre l’individuo è necessario alla società, questa è a sua volta necessaria a quello.
Non ci sarebbe alcuna possibilità di esistenza per l’individualismo se non vi fosse una società contro la quale questi potesse affermarsi e vivere; espandersi e tripudiare!
***
Soltanto il ribelle è — tra gli uomini — la figura più bella e l’essere più completo. Egli sa essere lo strumento potenziale della sua volontà di volere. Sa obbedirsi e comandarsi: conservarsi e distruggersi. Perché il ribelle è colui che ha imparato il segreto del vivere e l’arte del morire.
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Colui che cade ribellandosi a tutti ed a tutto, anche cadendo domina.
E dominare vuol dire infondere negli altri la fiamma del proprio pensiero ed imporre la luce delle proprie idee.
Ma il più vero discepolo del ribelle che cade, è colui che cadendo sa ribellarsi anche contro la «ribellione» dell’eroe già caduto.
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Chi vuole che lo spirito di ribellione si eterni deve volere che la ribellione del figlio non si trasformi a sua volta in tirannia di padre.
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Se mio padre si ribellò a mio nonno per non essere schiavo della «fede» paterna, io mi ribello a mio padre per non essere schiavo di quella sua «fede» che lo fece a sua volta ribelle.
Come potrebbe fare mio figlio ad essere domani quello ch’io oggi sono?
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Soltanto dalle macerie di tutto ciò che il ribelle ha distrutto può nascere il genio creatore.
Ma che cosa prepara la creazione del genio se non una nuova rivolta?
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Sono d’accordo con Federico Nietzsche nel credere che non ci sia mai stato il bisogno di interrogare un martire per sapere la verità. Ma la forza che vuole, l’audacia che osa e la volontà capace che crea, sono tesori che si ereditano dal genio, dal ribelle e dall’eroe soltanto.
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Ho veduto un genio «rubare» ed un idiota lanciare un ordigno di morte contro un ministro di Stato.
Il primo ha rubato per vivere indipendente e creare nella libertà. Il secondo ha ucciso per un segreto odio personale e per volontà di morire.
Il primo ha consumato un «volgare reato comune» ed è un «delinquente comune», il secondo ha consumato un «reato politico» ed è un «nobile e generoso delinquente politico». Io domando ora a tutti gli uomini politici di parte sovversiva in generale, ed agli anarchici in particolare — se innanzi a questo fatto sia il caso di innalzare ancora il «reato politico» fra lo splendore della gloria e le feste del sole per gettare il «reato comune» nel fango.
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Troppi sono ancora, ohimé! coloro che guardano all’opera. Ma io prima di guardare l’opera guardo l’autore di questa. Ma anche per molti — troppo molti — anarchici, sembra che l’individuo conta molto poco…
La maggioranza di costoro si trovano ancora tra la plebaglia che dice: «Gli uomini non contano. Contano i fatti e le idee.». Ed è questa la ragione per cui anche tra noi, molti esseri superiori e sublimi sono stati gettati nel fango, mentre molti idioti sono stati innalzati nel sole.
***
Nego il diritto di giudicarmi a tutti coloro che non comprendono la voce delle mie brame, l’urlo della mia necessità, i voli del mio spirito, il dolore dell’anima mia, il fremito delle mie idee e l’ansia del mio pensiero. Ma tutto ciò lo comprendo io solo. Volete giudicarmi? E sia! Ma voi non giudicherete mai il vero me stesso. Bensì quel «me» che voi vi siete inventati. Ma mentre voi crederete di avermi tra le dita e stritolarmi, Io sarò lassù a ridere in lontananza!
Renzo Novatore

E il fronte unico?


E il fronte unico?

Vi ricordate quanto si è vociato la primavera scorsa tra i mestatori e… masturbatori del movimento operaio, per varare ancora una volta il fronte unico, o meglio la semplice Alleanza del Lavoro? E a sentirli sembrava che ormai si dovesse proprio prendere le picche in mano per abbattere l’edificio borghese. Più nessuno era mandarino, o pompiere, o esaltato. Sembrava il giorno di nozze di tante coppie di coniugi.
Ma i capi non ci hanno dato l’ordine nemmeno questa volta di imbracciare le picche e non sono già più in letizia tra di loro. In così poco tempo han già fatto reciprocamente le corna ed ora le ritirano…
Ma noi reprobi vi conoscemmo che eravate mascherine!!…
I denari dello Stato
Fa il giro dei giornali, che un personaggio della razza dinastica ha sciupato parecchi milioni per un’impresa coloniale. I milioni sono stati anche dello Stato. Cosa importa se vi sono tanti straccioni per le vie d’Italia che trascinano la loro vita in tutti gli angiporti? Cosa importa se la tetra miseria assilla tutte le case operaie?
Fate bene voi, uomini grandi, a sperperare e sciupare, intanto il goffo pantalone sarà sempre una bestia.
I corvi neri
La Marsica anni fa fu flagellata dal terremoto. Chi non s’impietosisce quando i convulsi tellurici radono al suolo città e villaggi? Diventa una buona occasione per i coccodrilli che così possono piangere!! E gli umanitari in simili occasioni si sdilinquiscono e piangono come teneri agnellini. Ma poi diventano corvi rapaci dalle unghie adunche per sperperare e speculare su quelle infelici popolazioni.
Osservate ora il camorrismo che si effettua precisamente nella Marsica… e poi venite a ripeterci che soltanto noi siamo dei… cinici.
Libertad

Verso il Partito ?

 
Verso il Partito ?
Abbiamo ricevuto la circolare di Gaetano Di Bartolo per la costituzione del partito anarchico (?). Quantunque pregati, non la inseriamo, perché crediamo sia meglio che sia pubblicata sui giornali che seguono un’altra condotta dal nostro.
Premettiamo subito però che il Di Bartolo è conseguentemente più logico e sincero di quelli che continuano a permanere sotto il velo dell’equivoco, ma che nella realtà sono più partitisti del lanciatore dell’appello.
Ora discutiamo. Può essere anarchico un partito? Anarchia significa ribellione, autonomia, libertà, assenza di vincoli disciplinari, coscienza pura alla volontà di tutti i sacrifici spontanei e non imposti da un numero e da una tessera. Se l’uomo per essere anarchico ha bisogno di essere un automa nelle mani di un altro uomo, io dichiaro esplicitamente di non essere più anarchico… Ma la filosofia della storia mi ha insegnato che l’anarchismo trae la sua logica d’essere dall’assenza di ogni pratica e dall’integrazione di tutte le libertà che negano l’ordine dei capi indossanti le feluche di qualsiasi potere. Il comando e l’obbedienza non possono essere anarchici. Si accomodi pure, chi ha bisogno di essere diretto, di diventare una tessera, un numero, chi ha bisogno di questo miserabile orgoglio per essere anarchico (?) si sollazzi pure… io non bevo.
Ma poi, per fare? Per la relazione degli elementi? Ma occorre proprio costituire il partito? Per sposare quella che è la zavorra? L’esperienza e la débacle di tutti gli altri partiti cosiddetti proletari non hanno insegnato nulla? A cosa gli è valsa la disciplina? Il partito è l’ambiente adatto per la soddisfazione degli ambiziosi, arrivisti, in vena di scroccare fama di arrivare… all’apogeo per poi voltare casacca quando il vento non è più in… poppa. I partiti sono gli ambienti dove gli uomini si corrompono la coscienza e seminano le rivalità; le masse cieche, stupide ed incoscienti seguono i capi, che di esse ne fanno stame per lo sfogo dei loro rancori, per l’arrivismo delle loro ambizioni. Io sono convinto che, se nel movimento operaio non fossero esistiti i partiti, il potere dei capi e l’ubbidienza dei gregari, non si sarebbe in questa situazione. Meditate su uomini e cose.
Si vuole ancora presentare lo specchietto dell’inquadramento delle forze sane? Ma l’esperienza del Partito Comunista non ha dimostrato nulla? Cosa ha fatto questo partito? Se non ci fosse ancora un’attività giornalistica sovvenzionata — si sa da chi… — anche questo partito sarebbe finito solo sotto l’egemonia di qualche ambizioso ed arrivista che vorrebbe imporre la propria dittatura e ordinare agli… altri di fare.
«Ma noi scamperemmo tutte le vie torte seguite dagli altri» sembra che vogliano dire gli ultimi arrivati del… partito anarchico (?). Già, come se l’esperienza non ci dimostrasse che il partito anarchico finirebbe nello sbocco di essere egemonia e bottega di pochi. Chi scrive, nell’ultimo decennio ha preso parte a diversi convegni e congressi ed ha smesso di andarci — ad… Ancora… Ebbene che filastrocca, che scena e che briga, sempre i soliti… intelligenti, i grandi Senussi. Uno propone, osserva o critica? Vade retro Satana! e vieni qui tu sul proscenio o cannone da… cento e spara. Magari per la platea devi dire qualcosa di differente da quello che dici nei conversari degli intermezzi di congresso. E chi ha la posa più rodomontesca emerge e sembra diventare un uomo di… Stato. Del resto nessuna meraviglia! Non ci sono già gli ambasciatori anarchici(?). E così non ci si stupirebbe se domani costituito il partito si tentasse di sopprimerci. Del resto, al congresso di Firenze, non ci fu chi fece la proposta, in vista dell’uscita del quotidiano anarchico, di sopprimere tutti gli altri giornali anarchici?
Che si è fatto poi di pratico colle commissioni di corrispondenza? Fare la bella figura in occasione del fatto del Diana? Andare a farsi prendere in giro nei comitati di alleanza e dei fronti unici? A stare eternamente in coda ai partiti autoritari? A me sembrerebbe davvero ora di finirla. Chi vuol diventare un’autorità od ubbidire, di partiti che si prestano a questo ce ne son di già perfino troppi. Ci vada chi vuole. Ma far degenerare quest’idea che è rimasta integra e sfolgoreggiante per il sacrificio volontario di tanti suoi martiri, oltre che un’incoscienza, sarebbe un’ignominia.
Ripeto: libertari o autoritari. Autoritari, se logicamente si vuol arrivare perfino ad indossare la feluca del ministro del re. Libertari, se si vuole lo scardinamento di tutte le archie, di tutti i poteri, dell’incisione di tutte le menzogne ed ipocrisie.
Armando Diluvi

lunedì 25 giugno 2012

Il Canto Maledetto

Il Canto
Maledetto

Oh!… Perché non sono io nato su di una nave corsara, sperduto nell’Oceano infinito, fra mezzo ad un pugno di uomini, rudi e gagliardi, che montano furiosamente all’arrembaggio, cantando la selvaggia canzone della distruzione e della morte? Perché non sono nato nelle sconfinate praterie dell’America fra i gauchi, liberi e fieri, che domano col «lazo» l’igneo puledro e attaccano impavidi, il giaguaro terribile?… Perché? Perché?… I figli della notte, i miei fratelli insofferenti di ogni legge e di ogni freno, mi avrebbero compreso. Essi, spiriti assetati di libertà e d’infinito, avrebbero saputo leggere in quel gran libro che è l’animo mio, tutto un meraviglioso poema di dolore e di lotta, di aspirazioni sublimi e di sogni impossibili… Il mio patrimonio spirituale sarebbe stato il loro tesoro intan­gibile ed alla limpida fonte del mio orgoglio satanico e dell’eterna mia ribellione, essi avrebbero ritemprata la propria forza, già squassata da mille uragani. In­vece sono fatalmente nato fra mezzo al nauseabondo gregge di schiavi proni nell’immondo brago, dove la Menzogna impera sovrana e l’ipocrisia si scambia con viltà il bacio della fratellanza. Sono nato nella civile società ed il prete, il giudice, il moralista ed il gendarme hanno voluto caricarmi di ceppi e trasformare il mio organismo, esuberante di vitalità e di energia, in una macchina incosciente ed automatica per la quale non doveva esistere che una parola: Obbedire. Hanno voluto assassinarmi!… E quando sono scattato in un impeto d’irresistibile forza ed ho gridato selvaggiamente il mio «no», il volgo idiota mi ha lanciato, fra spruzzi di fetida bava, il suo raca…
Ora rido… La folla è incapace di comprendere certe profondità spirituali, né ha uno sguardo tanto acuto da penetrare gli ascosi recessi del mio cuore… Male­ditemi, maleditemi pure, dall’ora maculata d’ignavia sulla quale, da sessanta secoli, consumate il rito della menzogna; maleditemi, osannando alle vostre leggi ed agli idoli vostri… io vi lancerò sempre sul volto i fiori rossi del mio disprezzo.
***
Dalla vetta sulla quale vivo con l’aquila e con il lupo, fedeli compagni della mia solitudine, io miro, con immensa nausea l’umanità, questa grottesca parodia del rettile. Intorno a me la natura rigogliosa avviluppa la roccia in un verde manto di boscaglia, la cui bellezza selvaggia dona all’animo un sentimento ineffabile di potenza e di gioia. Giù, alle falde del monte, si stendono i campi ubertosi, macchiettati qua e là da casolari e da villaggi nei quali gli uomini rinsaldano, con sciagurata cecità, le millenarie catene.
Ed io rido… Rido guardando gli uomini, questi mostriciattoli rimpiccioliti dallo spazio, quando si avvelenano nelle officine, dove i gas mefitici e puteo­lenti fanno strazio dei loro polmoni… quando passano salmodiando, in processione, curvi sotto gli idoli del fanatismo e dell’incoscienza… e quando consacrano vigliaccamente la propria schiavitù, lambendo la mano del padrone che ferocemente percuote… Io vedo svol­gersi sotto i miei piedi la miserabile commedia dell’ipo­crisia e della grettezza umana ed un profondo senso di ribrezzo m’invade ed uno schifo indicibile mi serpeggia nel cuore… Però rido… E mentre dal villaggio sale, nel silenzio della notte, il rintocco delle campane suonanti a festa, io canto all’aquila ed al lupo, i fedeli compa­gni della mia solitudine, la mia canzone più pura, la canzone del mio dolore e della mia passione… 
Ed il mio canto dice: «O Dio della distruzione, o terribile e mostruoso Dio, sorgi dall’ime viscere dell’ignoto e, attraverso le piaghe squarciate della vecchia terra, vieni a me… vieni con la furia travolgente del turbine e schianta, devasta, distruggi questo mondo, infrollito e decadente che ha bisogno di un lavacro di sangue per rinnovarsi… io ti presterò il mio braccio ed il mio pensiero. Insieme lotteremo, finché un tempio sorgerà a testimoniare la superstizione e l’ignavia degli uomini... finché una legge scolpita sulle tavole della menzogna vorrà imporre al ribelle la dedizione di se stesso... e finché la vita, con­culcata ed oppressa, non potrà risorgere trionfante, alla luce del giorno... Poi, quando dalle macerie fumanti si leveranno minacciosi verso il cielo cupo nembi di fiamme, noi, satanici, demoniaci, folli, canteremo il nostro inno iconoclastico di negazione e di rivolta…». Così dico! E la mia voce è sì possente ed arcana, sì ricca d’odio e di emozione, che la mia aquila s’innalza superba nell’orizzonte saettato da lampi sinistri… e il mio lupo dagli occhi di bracia si scaglia, ululando, nelle stradicciuole fangose del villaggio, dove porta il terrore e la morte…
Su, nella mia vetta, eccelsa ed inaccessibile, palpita al vento il simbolo fatidico del mio riscatto: la nera bandiera.
***
Ora danzo sull’orlo dell’abisso, in fondo al quale serpeggiano, sinuosamente, le acque limacciose della morte… Danzo, tragicamente, con l’anima fissa nel­l’aurora della mia «vera» vita, di quella vita, libera ed intensa, che voglio conquistarmi, contro tutto e contro tutti, a costo d’ogni più fiera lotta e d’ogni sacrificio più duro. Perché io appartengo a quella razza d’indomiti giganti per i quali il pericolo non è una barriera, ma un aculeo, uno sprone che li spinge a realizzare più fortemente la propria volontà. E io danzo, danzo… Le pallide e clorotiche virtù che spadroneggiano in questo mondo di eunuchi e di servi, hanno cercato di adescarmi… Ma ai loro vezzi, alle loro minacce, io ho risposto con il cachinno diabolico del mio sarcasmo atroce. Umanità, Società, Stato, Legge, Morale… Voi già conoscete la potenza dei miei colpi come io conobbi quella dei vostri… E pure non smettete dall’attaccarmi, non desistete dal carezzare il folle proposito di ridurre la mia tempra inflessibile nelle pastoie dell’obbedienza… Ebbene, scendete pure nella lizza, trascinate al vostro seguito questa massa brulla ed informe di flaccidi schiavi, aguzzate le vostre armi che s’infrangeranno sull’usbergo mio invulnerabile… io vi attendo a pie’ fermo. Io, il maledetto, il ribelle… vi attendo con la mia aquila e il mio lupo, i fedeli compagni della mia solitudine. Ed al mio fianco, schierati in battaglia, vi aspettano pure i miei fratelli, gli eroici ed invitti figli del Male…
Su, dunque, venite! L’iconoclasta sacrilego e di­struttore vi ha lanciato la sua sfida. E in una ebbrezza di entusiasmo, in un delirio di energia, in una esaltazione di audacia, egli combatterà la sua guerra, palese ed occulta… Poi, quando i dardi velenosi avranno forata la corazza e raggiunto il suo cuore, egli scivolerà, sog­ghignando, in fondo all’abisso cupo dove serpeggiano, sinuosamente, le acque minacciose della Morte…
Enzo Martucci

Arte-fatto

Arte-fatto
Nella sua esigenza di totalità, di sconvolgere il mondo che conosciamo nel suo insieme, la rivolta non può non estendersi anche all’ambito delle parole e delle immagini, dove l’arte occupa uno spazio predominante. A sua volta l’arte non sopporta limiti e regole, di cui è nemica per natura; ecco perché spesso si è giunti a legare intimamente l’arte alla rivoluzione, a vedere gli artisti come rivoluzionari e viceversa.
Per questi motivi, le avanguardie artistiche che si sono richiamate più o meno esplicitamente al progetto rivoluzionario (dadaismo, futurismo, surrealismo, Internazionale Situazionista) sono state sovente portate come dimostrazione pratica della sostanziale complicità fra arte e rivoluzione ed hanno sempre esercitato un certo fascino, rappresentando secondo alcuni il "superamento dialettico" dei limiti dell’arte e della politica.
In sostanza sono state date tre interpretazioni dei rapporti che dovrebbero intercorrere tra arte e rivoluzione. C’è chi pensa che entrambe debbano mantenere la propria autonomia, trattandosi di due ambiti differenti con principi propri, che non bisogna confondere se non si vuole correre il rischio di fare una cattiva arte e una rivoluzione sulla carta. C’è poi chi sostiene che l’arte debba essere messa al servizio della rivoluzione, diventandone la reclame pubblicitaria, uno strumento fra mille altri da impiegare per la causa. Infine c’è chi considera la rivoluzione un soggetto poetico, una fonte da cui prendere spunto per creare nuove opere d’arte, poiché come tutti sanno le rivoluzioni passano mentre l’arte è eterna.
Ma si sa che, pur invertendo i fattori di una operazione, il risultato finale non cambia. In effetti ci sembra che un dibattito così impostato si basi su un presupposto di fondo che riteniamo privo di fondamento, cioè l’accettazione dei concetti di "arte" e "rivoluzione" così come ci sono stati tramandati dalla cultura istituzionale: l’arte intesa come produzione di opere in possesso di un loro valore intrinseco e la rivoluzione intesa come l’abbattimento più o meno violento del vecchio ordine statale per l'instaurazione di uno nuovo.
In realtà a porsi questo genere di problemi sono gli artisti e i politici, ripugnanti razze di specialisti spesso alle prese con i propri problemi di coscienza e di strategia, affetti dalla convinzione di possedere una funzione sociale infinitamente superiore a quella della maggioranza degli individui. Sono proprio gli artisti ed i loro adulatori i soli a non avere compreso che «l’arte è un prodotto farmaceutico per imbecilli» (Picabia).
Noi la equipariamo ad un supermercato dell’estetica, ad un letamaio per maiali compiaciuti, ad un trampolino di lancio per miserabili in cerca di successo e di gloria. L’artista, questa meschina vittima delle proprie angosce e nevrosi esistenziali, questo castrato che quando frequenta la rivolta lo fa solo per trarne ispirazione e che crede davvero che la sua "creatività" (cioè la sua efficienza lavorativa) possa essere utile a qualcosa che non sia il suo conto in banca. Si considera artista chiunque si compiaccia di firmare autografi o di venire intervistato, chi per differenziarsi dal gregge umano sente il bisogno di salire sul piedistallo artistico per usufruirne dei privilegi.
Ogni tentativo di rivalutare l'arte è destinato al fallimento, perché l’arte porta in sé le cause della sua miseria. È inutile versare fiumi di inchiostro per decantarne il valore, gli effetti terapeutici, l'origine primordiale. Persino la distinzione fra arte accademica e arte sovversiva, l’ipotesi dell’esistenza di un’arte rivoluzionaria (così come l’hanno immaginata i dadaisti, i surrealisti e i situazionisti) serve a dare ossigeno ad un cadavere che bisogna seppellire una volta per tutte.
Allo stesso modo bisogna farla finita con un altro cadavere che continua a impestare l’aria, la politica, che non è espressione della vita umana, ma ne è la regolamentazione, la sottomissione ad uno Stato cui viene delegata. Tutto ciò che abbiamo detto sugli artisti si attaglia bene anche ai politici, a queste canaglie che modellano l’esistenza in base a programmi e risoluzioni, mozioni d’ordine e candidature, congressi ed assemblee, commissioni e partiti. Così, mentre l’artista misura il suo successo in base alla vendita delle copie dei suoi prodotti, delle recensioni ottenute, dei passaggi televisivi; il politico trova la dimostrazione della propria ragione d’essere nel numero di tessere del partito cui appartiene o dei voti ricevuti durante le ultime elezioni.
Ecco perché i cosiddetti artisti rivoluzionari non possono costituire il superamento di vecchi limiti, avendo unito alla tara artistica quella politica. Solo a partire dalla distruzione di arte e politica si apre una possibilità di trasformazione.



Le avanguardie artistiche e quelle politiche hanno molti difetti in comune. Entrambe certe di possedere una capacità superiore agli altri nel proprio campo specifico, pretendono di erudire "chi è rimasto indietro", finendo così con l’indicare, il teorizzare, lo scomunicare. Il lato comico è che non si rendono conto che alla stragrande maggioranza delle persone non interessa proprio nulla della loro attività specifica, e che la rivoluzione di cui vanno cianciando non si farà grazie al loro apporto ma contro di loro. Se gli artisti rappresentano la vita e i politici la amministrano, a noi interessa viverla, godercela il più intensamente possibile.
Solo in una data prospettiva è possibile fare una distinzione fra artisti e politici. Se questi ultimi agiscono in funzione del potere, fra i primi si possono trovare persone che credono malgrado tutto alla "purezza" dell’arte. Nel passato, quando il mercato dell’arte non era sviluppato com’è oggi e la sirena del denaro non era in grado di attrarre gli arrivisti che oggi costituiscono l’insieme del panorama artistico, molti artisti erano animati da genuine aspirazioni creative, senza fini commerciali. Ciò che questi (pochissimi) artisti hanno realizzato teoricamente e praticamente, pur con tutti i loro limiti, spesso non manca di avere aspetti interessanti.
Ecco perché i contributi che le avanguardie artistiche hanno dato devono sì venire sottoposti ad una serrata critica, ma non possono venir tralasciati o sottovalutati. Per questo motivo intendiamo esaminare la storia e l’opera delle varie avanguardie artistiche, o di singoli artisti, per vedere se e come sia possibile rivitalizzarne quegli elementi che riteniamo validi ed attuali.

Così, piuttosto che censurare o esaltare le diverse correnti artistiche, cercheremo di strappare alla loro parzialità quegli strumenti che, posti in una dimensione rivoluzionaria, possono acquisire forza e vigore

domenica 24 giugno 2012

SOGGHIGNO BEFFARDO


* IL PROLETARIO *
ANNO I • N. 4 • Pontremoli, 17 Settembre 1922

SOGGHIGNO BEFFARDO

Dopo la tragica esperienza della guerra, per i popoli occorreva anche la beffarda illusione della pace. Dai rappresentanti degli stati capitalisti i poveri pezzi di carta straccia che sono i trattati di… pace, sono squadernati da una conferenza all’altra. Ed ivi, tutti espettorano la loro eloquenza, manifestano le loro mire imperialiste, la candida… pace promessa ai popoli è flagellata invece da cumuli di odii e di cupidigie, che si cimentano ed acuiscono nel concetto di predominio di un popolo su di un altro. È la logica politica borghese e di stato.
Ma non sempre la megalomania dei dominanti serba la scaltra prudenza di saper abbacinare i popoli che mentre si parla di… pace, non si deve guerreggiare, perché l’istinto dei caimani alle volte è furente. Così, mentre non si è ancora confezionato un abito decente da far insozzare alla povera fanciulla, dalla fronte ricoperta di un niveo velo… per capriccio di megalomani governanti, i popoli continuano ad assassinarsi, a gettarsi nel cratere infuocato dei massacri. E conseguentemente siamo precipitati alla nuova guerra greco-turca. Nuovi supplizi e strazi, disagi e crudeltà che si perpetueranno nella pelle di… tamburo dei popoli che si dilaniano e straziano. E gli altri stati? La Francia di… Poincarè non vuol disarmare della revanche della guerra, non è ancora… contenta. Riprincipiano le trattative isolate come i recenti convegni italo-austriaci. Le volpi non fanno più la pantomima, ma trescano e vedrete che presto faranno azzannare perché loro non ci azzannano… Ancora per «l’ultima volta». I socialismi… internazionalisti in tempo di pace e nazionalisti in tempo di guerra consegneranno le loro pecore per l’assomoir. Poi dopo verranno le fortune di speculare sui disagi e la morte che hanno avallato e così continuerà beffardamente a sghignazzare la guerra e la pace senza che gli uomini imbecilli si accorgano che tra le morse del ferro e del fuoco non vi può essere che il rantolo dell’agonia o il respiro della morte.
E noi non speculeremo sui cadaveri o sul sacrificio incosciente, ma sorrideremo nella comprensione aristocratica di cosa è l’uomo: più bestia delle bestie.
La Redazione


Stamane non avevo nulla da mangiare per il lupo — il cuore — e per il mio demonio — il cervello . Sono sceso tra le strade viscide e fangose degli umanitari. Meno male, ho trovato subito un buon figliuolo da un ottimismo grande così. Pieno di cieco fanatismo e con un cuore tutto gonfio per il bene degli altri. È vero, sputa sentenze e dà consigli, somministra morale e dà sberletti, ma è ancora “goliardo”…
Scendendo dalla vetta ho portato con me un bel bisturi tagliente. E così il mio giovanotto… non so se più “goliardo” o professore, l’ho preso colle mie aspre e callose mani, e gli ho detto: Ohé, io non sono quel pessimista che dice delle cose blasfeme per voi umanitari. Inforcando due occhiali cekisti — poiché il mio “goliardo” li deve portare — stupefatto mi ha fissato in volto ed ha esclamato: Come, tu!
Sicuro, io sono quel cinico che bestemmia e scandalizza così e che tutte le cose te le faccio per una soddisfazione personale e per un orgoglio intimo. Che tu forse quando mi dai lezioni di morale lo fai per il bene che vuoi a me? Quando tu scrivi, lo fai proprio solo per il bene che vuoi agli altri? Tu, barricadero domani moriresti per il bene che vuoi agli altri? Tu ami una donna proprio solo per soddisfazione a lei? E poi finiamoli con tutti quest’altri, vieni piuttosto qui, con questo bi¬sturi io ho il segreto d’interrogare il tuo lupo — il cuore — ed il tuo demonio — il cervello. Se tu sapessi con questo quante stampe ho aperto?!… E quanto gelo e materia granitica vi ho trovati… A proposito, la tua indignazione contro la ferocia degli antiumanitari, il tuo bene esuberante per l’umanità a quegli atti di eroismo, ti ha ancora trasportato? Ma sento tagliando la carta, se tu vuoi che ti lasci la maschera dell’altruismo te la lascerò, perché vedo che ti dev’essere troppo necessaria e cara, e siccome io ne posso e ne so fare a meno, se vieni sulla mia vetta ti dò anche la mia che però è più piccola della tua.
ROGI