Arte libera di uno spirito libero
Bruno Filippi
Falange di tisici cronici più moralmente che fisicamente, microcefali, zoppi, gobbi, ciechi, visi orrendi scolpiti dal vizio, dalla sifilide, dall'alcool.
Bocche sdentate, gialle, bavose, a che vomitate contro me orrendi improperi?
Tutto l'odio che vi gorgoglia nella strozza, che vi fa colare due rivoletti di bava agli angoli della bocca, non mi smuove dalla mia indifferenza.
Scuotete pur i pugni avvezzi a rivoltar letame! E voi donne insultatemi pure, voi nel cui grembo si perpetua il dolore umano. Siete tutti vili, vili! Esseri spregevoli degni della frusta! Rettili striscianti in cerca di uno sporco tozzo di pane, cani che leccate la mano di chi vi batte! Ed è per voi, proprio per voi che dovrei insorgere?
Per voi, per i vostri figli e le vostre madri?
Carogne imputridite dalla rassegnazione, mummie tarlate di una società in decadenza, voi vi ingannate. Io non darò la più piccola goccia di sangue per la vostra causa, non sacrificherò neanche una sigaretta per voi.
Continuate nella vostra discesa nel fango. Man mano che voi scenderete, io salirò. Io godrò nel vedere la degenerazione che si fa strada entro voi, godo, godo…
Giorno per giorno la fronte vi diviene sfuggente, la bocca patibolare. Giorno per giorno le stimmate della putrefazione avanzata si scorgono sotto la pelle giallastra.
E io rido, rido!
Che gioia assistere allo sfacelo di un mondo, vedere dovunque sangue, cadaveri, putredine!
Mentre e borghesia e popolo s'ingannano a vicenda e a vicenda si sgozzano, io assisto esilarato per tutto questo affannarsi senza scopo.
Là un Kaiser, qui un Wilson ecc..., e dappertutto popoli che si lamentano e non insorgono.
Nel fango, rettili!
Io non voglio unirmi alla corte dei cortigiani del proletariato, che essi scusano, incensano, ornano di lauri. No, o egregi parolai, la vostra verve non maschera nulla. Il popolo è sempre lì, idiota, vigliacco, rassegnato. Ed io che mi sento superiore, voglio esserlo, e la mia sarà una superiorità che pagheranno e borghesia e proletariato. Languite nella fame, negli stenti, vegetate, bestialmente fecondando uteri in un pullulare di rampolli cenciosi, sudici, scrofolosi, rachitici.
Forza! Alzate in coro il vostro lamento vigliacco! Dite che avete fame.
Stendete la mano di fronte alla vetrina colma di gioielli. Fate, fate! Lamentatevi della guerra, mentre siete voi i suoi autori e i continuatori perché la sopportate! Ma io fuggo il vostro putridume che vorrebbe insozzarmi. Superbamente solo, rompo le catene che mi avvincono a voi e mi separo dal gregge dei cani rognosi sommessi al pastore. Solo vagherò per il mondo portando ovunque il mio odio e il mio disprezzo.
Solo nella lotta. Solo nella vittoria, e solo nella sconfitta. Le mie idee saranno il veleno che deve finire per intossicarvi e voi tremerete davanti a me come davanti al Re, al supremo!
E intanto rido alla vostra ridda grottesca e sanguinosa, rido tanto che non vedo più nessuno e mi pare che l'umanità sia un'immensa piaga cancrenosa che continuamente sgorga marciume denso e puzzolente. E questa piaga si muove, si agita, si copre di croste che poi scompaiono per dar posto a un altro sgorgo di materia puzzolente…
E io rido, rido!
Vecchissimi ruderi di un sentimentalismo ormai tramontato, a che v'ostinate nel vostro muffoso ideale? Non udite la vita che rombando incalza ed insegna?
Finora assorti in un placido sogno di pace, in un avvenire lucente, combatteste così, cogli occhi spersi nella vostra illusione. Ma ora poniamo un problema e voi dovete avere il coraggio di affrontarlo e discuterlo.
Vi poniamo il problema dell'essere o non essere. Finora il vostro sogno fu l'altruismo, il sacrificio per l'umanità, per l'avvenire. E così voi, sacrificaste tutto il vostro essere in questa inversione intellettuale. Che vi deve importare dell'avvenire? Che vi deve importare il progresso del popolo? Poiché voi che vi dite anarchici, siete sicuri d'ingaggiare una battaglia per voi, già persa a priori, però voi non vedrete certo una società come la sognate, e se anche il popolo si ribellerà le condizioni sociali per voi non possono cambiare, e la vostra ribellione dovrà continuare.
Quindi a che pro scendere tra una massa che non può seguirvi poiché le sue condizioni sono tali da rendervi inintelligibili presso loro? Se voi siete ingegni ribelli come dite di essere, non dovete sostituire all'abnegazione cristiana, all'asservimento patriottico, l'altruismo dell'anarchico che si sacrifica per un avvenire che non vedrà, e per della gente che non vi segue. Dovete riconoscere che nati in una società per noi perniciosa, noi ribelli siamo in realtà i maggiori schiavi. Schiavi dell'evoluzione noi permettiamo che per mezzo del nostro sacrificio l'umanità faccia un piccolo passo. E questo almeno bastasse; ma visto che il progresso è incessante e quindi inutile, che la società raggiunta la forma sociale da noi propugnata non potrà lì fermarsi, ma bisognerà che proceda verso uno scopo che oggi non possiamo assolutamente neanche immaginare, così bisogna convenire che questo nostro affannarsi è assolutamente senza scopo. Così noi osserviamo che le migliori e più forti energie d'ogni epoca sono sfruttate da questa immensa piovra che è l'umanità.
Socrate, Cristo, Bruno e un'immensa corte di grandi pensatori sono stati le vittime di questo moto ascendente, dannoso per chi lo aiuta e inutile per chi lo subisce. Poiché è naturale che gli schiavi di Roma essendo nati in quell'epoca erano contenti della loro condizione come i salariati d'oggi.
Contentezza, intendiamoci, relativa, formata di rassegnazione, viltà, ignoranza, ecc. ecc. Difetti che la massa avrà sempre in maggiore o minore dose perché gli aggruppamenti sono sempre inferiori agli individui.
I popoli sono conservatori: si contentano della società che trovano. Le minoranze sono novatrici invece e si ribellano quindi. La massa col suo peso bruto frena l'azione rivoluzionaria e la subisce.
Si abitua al nuovo stato di cose, vi si imputridisce finché una nuova volta la minoranza si ribella.
Ed è per tutto questo gioco di equilibrio che io devo soffrire? Io che ho forza e coscienza per essere motore di me stesso, non voglio essere la piccola rotellina che viene dai pesanti ingranaggi sociali travolta, annichilita.
Ribelle, perché oggi la società m'opprime e vuole impedire la libera espansione del mio essere, io adopero tutte le armi per combattere.
Ribelle contro la massa che anch'essa mi è nemica con superstizioni, morale, degradazione, ecc. Pure contro la massa combatto. Solo in lotta per la Mia redenzione, per la Mia libertà, per il Mio presente.
Di tutto il resto me ne infischio.
Trionfi il prete, mieta l'alcool, massacri il governo, non me ne importa perché non mi tocca.
Io solo il mio Io difendo dagli attacchi.
E se nella lotta disuguale io cadrò, certo non solo, avrò la sublime soddisfazione di essere insorto contro un mondo e di averlo battuto, se non materialmente, intellettualmente.
Perché studiosi, scienziati, poeti, romanzieri, pittori, davanti a me il vostro genio non vale. Voi siete un riflesso della vita, io sono l'essenza. E certo sentirete in cuore il dolore atroce del veder crollare i rettorici castelli, e malgrado tutto continuate a sostenerli per misoneismo. E del resto fate bene. Voi siete nati per strisciare, io volo. Per voi il fango, per me le vette. Per voi il pavido annichilimento, per me la sublimazione dell'essere. E certo se la vita è dei più forti, io l'avrò. Per poco; ma l'avrò. La prenderò a forza e a forza le toglierò il bene e il godimento.
E voi, parodie, ombre di uomini continuate nella vostra marcia nel buio.
Sulla mia via splende la luce. Voi avete paura di essere: ecco la verità. L'uomo vero v'intimorisce. La realtà malgrado il vostro rettoricume vi spaventa. E sognate, sognate. Io vivo. Voi non siete; io sono.
Ho risolto il problema. Urlatemi dietro…
«Vorrei sdraiarmi su un soffice odoroso letto di rose…» «Guarda alle spine» mi gridano. «E che me ne importa? Poiché nella vita le spine non mancano, preferisco quelle delle rose che col dolore danno la gioia».
E sta bene. Voi leggendo potrete dire che la mia è prosa pazzesca, anormale, come pazzesche e anormali avete chiamate le mie azioni. Ma il vostro giudizio non mi interessa affatto né io lo sollecito.
Voglio solo, per un indefinibile sentimento, che i cervelli superiori sappiano il perché io mi slanciai nel buio, voglio che la mercenaria penna avversaria non possa coprire il mio nome col pattume che è nel loro bagaglio. Io solo sono il reporter di me stesso: sfuggo gli intermediari che potrebbero, in buona o in malafede, deformare le mie idee. E poiché probabilmente io non potrò manifestarle, desidero che dopo la mia scomparsa si sappia come io abbia deciso questa lotta alla società. Affido quindi questi pensieri a una persona che ignora il mio progetto e che lo renderà noto quando il sipario sarà calato.
È la nebulosa dell'universo che già con le sue tristi brume mi attrista? È un'oscura fatalità che mi minaccia? Io non so quale sia il movente di questa malinconia che su me si abbatte dilettandosi a torturarmi, strappandomi tutto quello che io mi illudo di amare e di credere.
Oh! la gioconda fede dei tempi trascorsi quando lietamente combattevo la buona battaglia per l'Idea, senza timori, senza dubbi! Ora tutto invece mi appare vano; per ogni dove scorgo l'oscurità densa e inscrutabile.
Tutto, tutto ho distrutto, ed ora sono rimasto solo coi miei pensieri tristi e di tutto e di tutti dubitando. E sento questa necessità di espandere l'animo mio su questa nuda carta che non ha fremiti all'apprendere la bufera che mi tormenta. Chi leggerà queste righe? Forse nessuno. Resteranno ignote come ignoto è per chi conosce l'affannoso mio pensare.
Stasera come al solito stavo leggendo, quando un passo della lettura mi colpì vivamente ed io allora per riflettere cessai di leggere. Stavo appunto cogitabondo, quando volgendo distrattamente lo sguardo per la camera vidi, anzi mi vidi seduto sul letto. Non io, ma pure ero io, perché era assolutamente come me. Stupito guardavo in silenzio e anch'esso, l'altro io, mi guardava, ma con un certo risolino ironico.
«Chi sei?», gli domandai. «La tua ombra», mi rispose. «Sono venuta qui per discutere un po'!». «E discutiamo», dissi, allettato da una così straordinaria avventura.
«Bene: perché sei anarchico?». «Ma, perché oggigiorno siamo sfruttati, calpestati dai dominatori».
«Rettorica, rettorica caro mio. Senti: tu sei anarchico e non sai neanche tu il perché. Io ho sempre visto questo: che in qualunque società ci sono stati degli innovatori che finirono sul rogo, in croce, ecc. ecc… Quindi questi novatori con tutti i loro sogni e i loro sacrifici fecero un buco nell'acqua, perché è fatale che qualunque rinnovamento precorso da un individuo qualsiasi, accada molto tempo dopo la morte del medesimo. E così accadrà di voialtri anarchici. Voi morrete senza vedere attuato nulla del vostro ideale, e le generazioni che verranno dopo di voi, viventi magari in regime anarchico, aneleranno un Ideale più alto e per questo morranno a loro volta senza nulla ottenere. È un circolo vizioso, un eterno rincorrersi…”
Mai come oggi le tenebre mi avvolsero. Ed accade difatti che dopo esser vissuto per qualche ora circondato dal tepore del sole, quando questo si eclissa un subito brivido di freddo ci scuota la persona.
Il freddo mi è entrato nell'animo che sogna un avvenire di tepore e che lo vede lontanissimo o, come mi disse uno, quasi irraggiungibile. Come sono tristi queste parole. Dite alla rondine che vola alla ricerca della primavera che essa non la raggiungerà mai; la vedrete piegare le ali smarrita, sconfortata. Io non desisto, non piego. Chi sa che quell'albeggiare lontano non possa raggiungerlo; chi sa?…
Il mio spirito è arido come un deserto, i miei occhi ardono come per febbre. E mi pare che ad ogni tratto qualche cosa si spezzi dentro di me con uno schianto lugubre. Chi, chi potrebbe descrivere ciò che sento? Non posso farlo neppur io. A momenti sento la mia anima allargarsi, espandersi lieta, fiduciosa. E poi d'un tratto raggrinzirsi subito, con un acutissimo dolore. Che m'importa del mondo, degli uomini? Io non vedo più nessuno. I miei occhi vedono solo una cosa, un albeggiare lontano… Tutto il resto è tenebra.
La natura che ride m'irrita poiché stride coi miei pensieri dolorosi e par che quasi mi beffeggi. Vorrei che il cielo fosse tetro, lampeggiante come me in questi momenti. Come il naufrago che si vede intorno la desolata vastità del mare e trema della solitudine funesta, e spia l'orizzonte per vedere se una vela amica si mostri, io pure, smarrito in un'immensità paurosa, mi sento solo, dolorosamente solo. Ma non mi lascio vincere dai flutti. Solcherò il mare colle mie braccia vigorose alla ricerca, viatore instancabile ed ardito.
Fluctuat in porto. Il motto latino mi sprona, ed io come il nocchiero fisso il faro che lontano lontano rompe la nebbia col suo fascio di luce. Ed io voglio raggiungere quella luce. Voglio, voglio! Non vi saranno ostacoli che me lo impediranno, né scogli, né infuriare di libecci. Io sarò forte, io arriverò. Come le carovane arabe che si accingono alla traversata del Sahara e guatan l'immensità sabbiosa che dovranno attraversare, con l'ansia di restar per via, e vanno, vanno, vanno, sotto le vampe del sole, fra l'infuriar del simum, assetati, affamati, stanchi, accanto ai gibbosi cammelli che allargano le nari per rubare un po' di frescura all'aria secca, con la visione fissa assillante di una snella candida moschea donde il muezzin saluta la Mecca alla sera, di una cittadina fresca dove riposare, così pure io vado, vado, vado con una visione unica negli occhi. Instancabile procedo con la gola serrata e con tutta una tempesta in me. Se ciò che sento si potesse tramutare in vento, io passerei come una bufera devastatrice distruggendo tutto sotto i miei soffi violenti. E vado, e vado. L'anima geme, le palpebre mi si serrano; sento un bisogno di pace, di riposo, una lusinga a restare così sulla sabbia, svanire, scomparire sotto il sole, ritornare nel nulla. Verrebbero gli sciacalli e farebbero festino del mio corpo, lasciando solo biancheggiare il mio scheletro, come una muta ironia alla vita. Ma io insorgo, uccido il germe di pace e proseguo. Arriverò perché voglio. E se non arrivassi? Allora il deserto s'impadronirebbe di me.
Sono ammalato dello stesso male di Nietzsche e mi dispiace confessare di avere qualche cosa in comune con uno di questo o dell'altro mondo. Sono irrequieto, nevrastenico. Alle tempia ho un ferreo cerchio che mi stritola il cranio, e gli occhi stanchi di sogni mi martellano nelle occhiaie gonfie e sanguigne. Sono destinato a passare ramingo come una invisibile meteora traverso questo mondo. Appunto perché superiore dovrò vuotare tutto il calice dei dolori e dello sconforto senza che la gioia mi allieti. Ma l'aspra ebbrezza di libare al calice dei dolori è un superbo godimento che solo chi sfida incurante la sorte, solo a chi da se stesso con le proprie mani si straccia a brandelli l'anima, è dato degustare. Anch'io talvolta agogno sì l'altro calice, quello della gioia, per bagnarvi le mie labbra avide, ma esso fuggì ed ora giorno per giorno si fa più spaventoso il baratro che mi divide dagli altri. Chi verrà a me? Chi avrà il coraggio di sorvolare la voragine per udire le mie verità, per sperdere un poco la mia tristezza? Chi?… Ieri nel colmo della mia stanchezza mi giunse una cartolina da una ignota. Tre viole che con la gaiezza del pensiero e del simbolo mi rallegrarono un po'; dodici parole che mi fecero sognare piacevolmente.
Ringrazio l'ignota del suo pensiero e della sua misteriosità che mi permise di slanciarmi di volo sul cavallo alato della chimera. Ignota gentile, dove sei? Forse nell'Andalusia passionale, o nella gaia Francia? Chi sa? Chi sa che il raggio di luce sia ella, l'ignota!… No, impossibile. Intorno a me grava la tenebra fitta, paurosa. Io non penso, non parlo, ma desidero il sole, la luce…
Vagabondo per la vorace città, mi immergo nel fragore della vita per uccidere un germe di melanconia che si fa strada entro me. Erro senza meta ed osservo l'incessante via vai, il succedersi continuo di fisionomie stereotipate ed indifferenti. Passan donne sgargianti e in tutte le loro movenze e i loro atti più semplici vedi lo sforzo, l'ostentazione, lo scopo unico di stuzzicare il desiderio. E l'uomo si ferma, segue con lo sguardo cupido le figurine chiassose e procaci ed esclama il commento triviale. Ecco uno stuolo di ricoverati, insaccati malamente in abiti mal fatti, procedono guidati da un prete tozzo e volgare. Poveri bimbi! Cresciuti nella bigotteria, nell'ambiente corrotto del collegio, sono i rassegnati, gli iloti di domani. Vedo una chiesa. Un grosso parroco discorre con delle beghine che lo ascoltano compunte e attente, e il pretonzolo agita le mani pelose e sguscia gli occhietti lanciando occhiate oblique. Il ben pasciuto all'ombra del tempio bugiardo sente inquietarsi l'urlo del lavoro e della miseria, che pare aleggi sulla grande città. «Signore, la carità» si lamenta un essere cencioso e sporco… «Signore, la carità…». E la folla procede indifferente pensando alla minestra della sera, all'osteria, al gioco delle bocce. E il richiamo del mendicante continuando noioso e implacabile, mi trafigge le tempie, mi martella il cervello.
Allungo il passo, sono nella zona borghese. Carrozze, automobili, servitori gallonati, dai visi idioti, aprono portiere, fanno inchini. Vedo donne imbellettate , profumate, ganimedi attillati, coi guanti gialli, la caramella, il bastoncino, la coccarda tricolore. Si urta, si confonde questa gente: parla di pranzi, ballerine. Sale un profumo nauseabondo che mi prende alla gola e mi soffoca. Ma quasi affascinato rimango, sento il fruscio delle sete, il ciangottare delle gentildonne. Da un caffé sortono a ondate le note di un inno patriottico: un mutilato vicino a me, appoggiato alle grucce, guarda stupito la fiumana incessante.
Fuggo. Vo per vie solitarie semibuie: sbocco in piazze, in vicoli.
Fanciulli stracciati, sporchi, donne gravide, uomini neri di fumo e puzzolenti di cicca. Spazzatura, fango. Case umide, sgretolate, pisciate sui canti, osterie piene di avventori urlanti e ubriachi. Ecco dei soldati: a passo pesante, cadenzato, sudati, polverosi, rughe sulla fronte, e schiena curva. Esce la gente, guarda, commenta, compassiona e poi ritorna a bere, a urlare, a cantare.
Fuggo sempre. Veggo sulle cantonate annunci di varie operette, di vari caffé chantant: sento un crocchio di giovanotti che discorre di football, di ciclismo. Povera umanità che sorge!
Lascio le vie, mi interno per prati, voglio dimenticare, sognare. Una figura sorge da un gruppo d'alberi e mi si avvicina. Sento una tanfata di vino colpirmi l'ofatto. «Vieni, mi darai trenta centesimi!».
Ho sognato un mondo in fiamme roteante nell'infinito e lanciare bolidi infuocati e scintille per gli spazi siderei.
Ho un dio come gli altri: ma esso è senza d.
Decadenza.
Come enormi arieti, diverse razze oggi si cozzano, ognuno volendo la supremazia sulle altre.
La romantica latinità, la mercantile Albione, contro l'imperativa Germania, mentre a rimorchio vengon le nazioncelle balcaniche col bagaglio pittoresco dei loro costumi orientali arretrati. E sull'orizzonte fiammeggia la Russia, che entra in una nuova fase della sua vita.
Dall'oriente le civiltà rinnovate e ringagliardite da novelle energie, spiano a settentrione ove si sente buon odor di cadavere, e què piccoli figli del sole, attendono di poter qui riversare la sovrabbondante popolazione in una rinnovata espansione di civiltà asiatica.
Eppure questo spettacolo, questo spreco folle di energie, questa lotta accanita per la vita, non mi rivela nessuno slancio di forza vera e cosciente. Io vedo solo un immenso sfasciarsi, un diroccare di castelli, un mortale spingersi di popoli, mentre la terra indifferente apre il seno per accogliere tutta quella giovane carne che la feconderà. Questo magnificamente terribile decadimento avviene al lume titanico di un incendio colossale, adeguato al ruinare di questa civiltà.
Così io vedo questo immenso aggrovigliarsi di uomini, vedo mieter dall'alcool, dalla tisi, dal cannone: vedo storpi, scrofolosi, acefali, delinquenti.
Letteratura, arte, scienze, tutto supplisce l'influsso di questa mostruosa discesa. Tutto il mondo è un pullulare solo di marciume che sale, sale e invade tutto e tutto inghiotte.
L'umanità si crede alta. Parla di eroismi, di progresso e non s'accorge di essere ulcerata. Il baratro è lì spalancato ed essa vi cade cantando, urlando, rissando, col suo dio, la sua patria, la sua civiltà assassina, la sua degenerazione elegante.
Tutto cade, tutto crolla. Morale muffosa, filosofie greppaiole e bugiarde, rettoricume antiquato, non salvano la situazione. Il male è avanzato e non s'impedisce più ormai. I lecchezzi che adornano il vecchio edificio sono divenuti il nido di microbi che inquinano. Ormai tutto è condannato a sparire schiacciato sotto il cumulo enorme di vecchiume. La storia chiude questa fase curiosa, che diede lo spettacolo incomprensibile di supinità nei suoi membri devoti a una ridda di vari fantasmi inesistenti, e che fece vedere il ridicolo continuo costruire per poi distruggere, il continuo paziente soffrire della moltitudine e il gavazzare di pochi, tutto un insieme di vigliaccheria, inversione, nefandezze che vi vogliono far passare per azioni eroiche, tutta una mentalità rinsecchita che loro dicono geniale.
Così ha fine questa età. Ben vada. Al cospetto di tante rovine, novello Nerone canto sul disastro, godo nel vederlo, poiché su queste rovine edificherò il mio edificio, la mia civiltà, il mio mondo. Perciò canto…
[Da I grandi iconoclasti: scritti postumi, raccolta di scritti di Bruno Filippi
a cura della rivista "Iconoclasta!", Pistoia 1920]
Bruno Filippi
Falange di tisici cronici più moralmente che fisicamente, microcefali, zoppi, gobbi, ciechi, visi orrendi scolpiti dal vizio, dalla sifilide, dall'alcool.
Bocche sdentate, gialle, bavose, a che vomitate contro me orrendi improperi?
Tutto l'odio che vi gorgoglia nella strozza, che vi fa colare due rivoletti di bava agli angoli della bocca, non mi smuove dalla mia indifferenza.
Scuotete pur i pugni avvezzi a rivoltar letame! E voi donne insultatemi pure, voi nel cui grembo si perpetua il dolore umano. Siete tutti vili, vili! Esseri spregevoli degni della frusta! Rettili striscianti in cerca di uno sporco tozzo di pane, cani che leccate la mano di chi vi batte! Ed è per voi, proprio per voi che dovrei insorgere?
Per voi, per i vostri figli e le vostre madri?
Carogne imputridite dalla rassegnazione, mummie tarlate di una società in decadenza, voi vi ingannate. Io non darò la più piccola goccia di sangue per la vostra causa, non sacrificherò neanche una sigaretta per voi.
Continuate nella vostra discesa nel fango. Man mano che voi scenderete, io salirò. Io godrò nel vedere la degenerazione che si fa strada entro voi, godo, godo…
Giorno per giorno la fronte vi diviene sfuggente, la bocca patibolare. Giorno per giorno le stimmate della putrefazione avanzata si scorgono sotto la pelle giallastra.
E io rido, rido!
Che gioia assistere allo sfacelo di un mondo, vedere dovunque sangue, cadaveri, putredine!
Mentre e borghesia e popolo s'ingannano a vicenda e a vicenda si sgozzano, io assisto esilarato per tutto questo affannarsi senza scopo.
Là un Kaiser, qui un Wilson ecc..., e dappertutto popoli che si lamentano e non insorgono.
Nel fango, rettili!
Io non voglio unirmi alla corte dei cortigiani del proletariato, che essi scusano, incensano, ornano di lauri. No, o egregi parolai, la vostra verve non maschera nulla. Il popolo è sempre lì, idiota, vigliacco, rassegnato. Ed io che mi sento superiore, voglio esserlo, e la mia sarà una superiorità che pagheranno e borghesia e proletariato. Languite nella fame, negli stenti, vegetate, bestialmente fecondando uteri in un pullulare di rampolli cenciosi, sudici, scrofolosi, rachitici.
Forza! Alzate in coro il vostro lamento vigliacco! Dite che avete fame.
Stendete la mano di fronte alla vetrina colma di gioielli. Fate, fate! Lamentatevi della guerra, mentre siete voi i suoi autori e i continuatori perché la sopportate! Ma io fuggo il vostro putridume che vorrebbe insozzarmi. Superbamente solo, rompo le catene che mi avvincono a voi e mi separo dal gregge dei cani rognosi sommessi al pastore. Solo vagherò per il mondo portando ovunque il mio odio e il mio disprezzo.
Solo nella lotta. Solo nella vittoria, e solo nella sconfitta. Le mie idee saranno il veleno che deve finire per intossicarvi e voi tremerete davanti a me come davanti al Re, al supremo!
E intanto rido alla vostra ridda grottesca e sanguinosa, rido tanto che non vedo più nessuno e mi pare che l'umanità sia un'immensa piaga cancrenosa che continuamente sgorga marciume denso e puzzolente. E questa piaga si muove, si agita, si copre di croste che poi scompaiono per dar posto a un altro sgorgo di materia puzzolente…
E io rido, rido!
Vecchissimi ruderi di un sentimentalismo ormai tramontato, a che v'ostinate nel vostro muffoso ideale? Non udite la vita che rombando incalza ed insegna?
Finora assorti in un placido sogno di pace, in un avvenire lucente, combatteste così, cogli occhi spersi nella vostra illusione. Ma ora poniamo un problema e voi dovete avere il coraggio di affrontarlo e discuterlo.
Vi poniamo il problema dell'essere o non essere. Finora il vostro sogno fu l'altruismo, il sacrificio per l'umanità, per l'avvenire. E così voi, sacrificaste tutto il vostro essere in questa inversione intellettuale. Che vi deve importare dell'avvenire? Che vi deve importare il progresso del popolo? Poiché voi che vi dite anarchici, siete sicuri d'ingaggiare una battaglia per voi, già persa a priori, però voi non vedrete certo una società come la sognate, e se anche il popolo si ribellerà le condizioni sociali per voi non possono cambiare, e la vostra ribellione dovrà continuare.
Quindi a che pro scendere tra una massa che non può seguirvi poiché le sue condizioni sono tali da rendervi inintelligibili presso loro? Se voi siete ingegni ribelli come dite di essere, non dovete sostituire all'abnegazione cristiana, all'asservimento patriottico, l'altruismo dell'anarchico che si sacrifica per un avvenire che non vedrà, e per della gente che non vi segue. Dovete riconoscere che nati in una società per noi perniciosa, noi ribelli siamo in realtà i maggiori schiavi. Schiavi dell'evoluzione noi permettiamo che per mezzo del nostro sacrificio l'umanità faccia un piccolo passo. E questo almeno bastasse; ma visto che il progresso è incessante e quindi inutile, che la società raggiunta la forma sociale da noi propugnata non potrà lì fermarsi, ma bisognerà che proceda verso uno scopo che oggi non possiamo assolutamente neanche immaginare, così bisogna convenire che questo nostro affannarsi è assolutamente senza scopo. Così noi osserviamo che le migliori e più forti energie d'ogni epoca sono sfruttate da questa immensa piovra che è l'umanità.
Socrate, Cristo, Bruno e un'immensa corte di grandi pensatori sono stati le vittime di questo moto ascendente, dannoso per chi lo aiuta e inutile per chi lo subisce. Poiché è naturale che gli schiavi di Roma essendo nati in quell'epoca erano contenti della loro condizione come i salariati d'oggi.
Contentezza, intendiamoci, relativa, formata di rassegnazione, viltà, ignoranza, ecc. ecc. Difetti che la massa avrà sempre in maggiore o minore dose perché gli aggruppamenti sono sempre inferiori agli individui.
I popoli sono conservatori: si contentano della società che trovano. Le minoranze sono novatrici invece e si ribellano quindi. La massa col suo peso bruto frena l'azione rivoluzionaria e la subisce.
Si abitua al nuovo stato di cose, vi si imputridisce finché una nuova volta la minoranza si ribella.
Ed è per tutto questo gioco di equilibrio che io devo soffrire? Io che ho forza e coscienza per essere motore di me stesso, non voglio essere la piccola rotellina che viene dai pesanti ingranaggi sociali travolta, annichilita.
Ribelle, perché oggi la società m'opprime e vuole impedire la libera espansione del mio essere, io adopero tutte le armi per combattere.
Ribelle contro la massa che anch'essa mi è nemica con superstizioni, morale, degradazione, ecc. Pure contro la massa combatto. Solo in lotta per la Mia redenzione, per la Mia libertà, per il Mio presente.
Di tutto il resto me ne infischio.
Trionfi il prete, mieta l'alcool, massacri il governo, non me ne importa perché non mi tocca.
Io solo il mio Io difendo dagli attacchi.
E se nella lotta disuguale io cadrò, certo non solo, avrò la sublime soddisfazione di essere insorto contro un mondo e di averlo battuto, se non materialmente, intellettualmente.
Perché studiosi, scienziati, poeti, romanzieri, pittori, davanti a me il vostro genio non vale. Voi siete un riflesso della vita, io sono l'essenza. E certo sentirete in cuore il dolore atroce del veder crollare i rettorici castelli, e malgrado tutto continuate a sostenerli per misoneismo. E del resto fate bene. Voi siete nati per strisciare, io volo. Per voi il fango, per me le vette. Per voi il pavido annichilimento, per me la sublimazione dell'essere. E certo se la vita è dei più forti, io l'avrò. Per poco; ma l'avrò. La prenderò a forza e a forza le toglierò il bene e il godimento.
E voi, parodie, ombre di uomini continuate nella vostra marcia nel buio.
Sulla mia via splende la luce. Voi avete paura di essere: ecco la verità. L'uomo vero v'intimorisce. La realtà malgrado il vostro rettoricume vi spaventa. E sognate, sognate. Io vivo. Voi non siete; io sono.
Ho risolto il problema. Urlatemi dietro…
«Vorrei sdraiarmi su un soffice odoroso letto di rose…» «Guarda alle spine» mi gridano. «E che me ne importa? Poiché nella vita le spine non mancano, preferisco quelle delle rose che col dolore danno la gioia».
E sta bene. Voi leggendo potrete dire che la mia è prosa pazzesca, anormale, come pazzesche e anormali avete chiamate le mie azioni. Ma il vostro giudizio non mi interessa affatto né io lo sollecito.
Voglio solo, per un indefinibile sentimento, che i cervelli superiori sappiano il perché io mi slanciai nel buio, voglio che la mercenaria penna avversaria non possa coprire il mio nome col pattume che è nel loro bagaglio. Io solo sono il reporter di me stesso: sfuggo gli intermediari che potrebbero, in buona o in malafede, deformare le mie idee. E poiché probabilmente io non potrò manifestarle, desidero che dopo la mia scomparsa si sappia come io abbia deciso questa lotta alla società. Affido quindi questi pensieri a una persona che ignora il mio progetto e che lo renderà noto quando il sipario sarà calato.
È la nebulosa dell'universo che già con le sue tristi brume mi attrista? È un'oscura fatalità che mi minaccia? Io non so quale sia il movente di questa malinconia che su me si abbatte dilettandosi a torturarmi, strappandomi tutto quello che io mi illudo di amare e di credere.
Oh! la gioconda fede dei tempi trascorsi quando lietamente combattevo la buona battaglia per l'Idea, senza timori, senza dubbi! Ora tutto invece mi appare vano; per ogni dove scorgo l'oscurità densa e inscrutabile.
Tutto, tutto ho distrutto, ed ora sono rimasto solo coi miei pensieri tristi e di tutto e di tutti dubitando. E sento questa necessità di espandere l'animo mio su questa nuda carta che non ha fremiti all'apprendere la bufera che mi tormenta. Chi leggerà queste righe? Forse nessuno. Resteranno ignote come ignoto è per chi conosce l'affannoso mio pensare.
Stasera come al solito stavo leggendo, quando un passo della lettura mi colpì vivamente ed io allora per riflettere cessai di leggere. Stavo appunto cogitabondo, quando volgendo distrattamente lo sguardo per la camera vidi, anzi mi vidi seduto sul letto. Non io, ma pure ero io, perché era assolutamente come me. Stupito guardavo in silenzio e anch'esso, l'altro io, mi guardava, ma con un certo risolino ironico.
«Chi sei?», gli domandai. «La tua ombra», mi rispose. «Sono venuta qui per discutere un po'!». «E discutiamo», dissi, allettato da una così straordinaria avventura.
«Bene: perché sei anarchico?». «Ma, perché oggigiorno siamo sfruttati, calpestati dai dominatori».
«Rettorica, rettorica caro mio. Senti: tu sei anarchico e non sai neanche tu il perché. Io ho sempre visto questo: che in qualunque società ci sono stati degli innovatori che finirono sul rogo, in croce, ecc. ecc… Quindi questi novatori con tutti i loro sogni e i loro sacrifici fecero un buco nell'acqua, perché è fatale che qualunque rinnovamento precorso da un individuo qualsiasi, accada molto tempo dopo la morte del medesimo. E così accadrà di voialtri anarchici. Voi morrete senza vedere attuato nulla del vostro ideale, e le generazioni che verranno dopo di voi, viventi magari in regime anarchico, aneleranno un Ideale più alto e per questo morranno a loro volta senza nulla ottenere. È un circolo vizioso, un eterno rincorrersi…”
Mai come oggi le tenebre mi avvolsero. Ed accade difatti che dopo esser vissuto per qualche ora circondato dal tepore del sole, quando questo si eclissa un subito brivido di freddo ci scuota la persona.
Il freddo mi è entrato nell'animo che sogna un avvenire di tepore e che lo vede lontanissimo o, come mi disse uno, quasi irraggiungibile. Come sono tristi queste parole. Dite alla rondine che vola alla ricerca della primavera che essa non la raggiungerà mai; la vedrete piegare le ali smarrita, sconfortata. Io non desisto, non piego. Chi sa che quell'albeggiare lontano non possa raggiungerlo; chi sa?…
Il mio spirito è arido come un deserto, i miei occhi ardono come per febbre. E mi pare che ad ogni tratto qualche cosa si spezzi dentro di me con uno schianto lugubre. Chi, chi potrebbe descrivere ciò che sento? Non posso farlo neppur io. A momenti sento la mia anima allargarsi, espandersi lieta, fiduciosa. E poi d'un tratto raggrinzirsi subito, con un acutissimo dolore. Che m'importa del mondo, degli uomini? Io non vedo più nessuno. I miei occhi vedono solo una cosa, un albeggiare lontano… Tutto il resto è tenebra.
La natura che ride m'irrita poiché stride coi miei pensieri dolorosi e par che quasi mi beffeggi. Vorrei che il cielo fosse tetro, lampeggiante come me in questi momenti. Come il naufrago che si vede intorno la desolata vastità del mare e trema della solitudine funesta, e spia l'orizzonte per vedere se una vela amica si mostri, io pure, smarrito in un'immensità paurosa, mi sento solo, dolorosamente solo. Ma non mi lascio vincere dai flutti. Solcherò il mare colle mie braccia vigorose alla ricerca, viatore instancabile ed ardito.
Fluctuat in porto. Il motto latino mi sprona, ed io come il nocchiero fisso il faro che lontano lontano rompe la nebbia col suo fascio di luce. Ed io voglio raggiungere quella luce. Voglio, voglio! Non vi saranno ostacoli che me lo impediranno, né scogli, né infuriare di libecci. Io sarò forte, io arriverò. Come le carovane arabe che si accingono alla traversata del Sahara e guatan l'immensità sabbiosa che dovranno attraversare, con l'ansia di restar per via, e vanno, vanno, vanno, sotto le vampe del sole, fra l'infuriar del simum, assetati, affamati, stanchi, accanto ai gibbosi cammelli che allargano le nari per rubare un po' di frescura all'aria secca, con la visione fissa assillante di una snella candida moschea donde il muezzin saluta la Mecca alla sera, di una cittadina fresca dove riposare, così pure io vado, vado, vado con una visione unica negli occhi. Instancabile procedo con la gola serrata e con tutta una tempesta in me. Se ciò che sento si potesse tramutare in vento, io passerei come una bufera devastatrice distruggendo tutto sotto i miei soffi violenti. E vado, e vado. L'anima geme, le palpebre mi si serrano; sento un bisogno di pace, di riposo, una lusinga a restare così sulla sabbia, svanire, scomparire sotto il sole, ritornare nel nulla. Verrebbero gli sciacalli e farebbero festino del mio corpo, lasciando solo biancheggiare il mio scheletro, come una muta ironia alla vita. Ma io insorgo, uccido il germe di pace e proseguo. Arriverò perché voglio. E se non arrivassi? Allora il deserto s'impadronirebbe di me.
Sono ammalato dello stesso male di Nietzsche e mi dispiace confessare di avere qualche cosa in comune con uno di questo o dell'altro mondo. Sono irrequieto, nevrastenico. Alle tempia ho un ferreo cerchio che mi stritola il cranio, e gli occhi stanchi di sogni mi martellano nelle occhiaie gonfie e sanguigne. Sono destinato a passare ramingo come una invisibile meteora traverso questo mondo. Appunto perché superiore dovrò vuotare tutto il calice dei dolori e dello sconforto senza che la gioia mi allieti. Ma l'aspra ebbrezza di libare al calice dei dolori è un superbo godimento che solo chi sfida incurante la sorte, solo a chi da se stesso con le proprie mani si straccia a brandelli l'anima, è dato degustare. Anch'io talvolta agogno sì l'altro calice, quello della gioia, per bagnarvi le mie labbra avide, ma esso fuggì ed ora giorno per giorno si fa più spaventoso il baratro che mi divide dagli altri. Chi verrà a me? Chi avrà il coraggio di sorvolare la voragine per udire le mie verità, per sperdere un poco la mia tristezza? Chi?… Ieri nel colmo della mia stanchezza mi giunse una cartolina da una ignota. Tre viole che con la gaiezza del pensiero e del simbolo mi rallegrarono un po'; dodici parole che mi fecero sognare piacevolmente.
Ringrazio l'ignota del suo pensiero e della sua misteriosità che mi permise di slanciarmi di volo sul cavallo alato della chimera. Ignota gentile, dove sei? Forse nell'Andalusia passionale, o nella gaia Francia? Chi sa? Chi sa che il raggio di luce sia ella, l'ignota!… No, impossibile. Intorno a me grava la tenebra fitta, paurosa. Io non penso, non parlo, ma desidero il sole, la luce…
Vagabondo per la vorace città, mi immergo nel fragore della vita per uccidere un germe di melanconia che si fa strada entro me. Erro senza meta ed osservo l'incessante via vai, il succedersi continuo di fisionomie stereotipate ed indifferenti. Passan donne sgargianti e in tutte le loro movenze e i loro atti più semplici vedi lo sforzo, l'ostentazione, lo scopo unico di stuzzicare il desiderio. E l'uomo si ferma, segue con lo sguardo cupido le figurine chiassose e procaci ed esclama il commento triviale. Ecco uno stuolo di ricoverati, insaccati malamente in abiti mal fatti, procedono guidati da un prete tozzo e volgare. Poveri bimbi! Cresciuti nella bigotteria, nell'ambiente corrotto del collegio, sono i rassegnati, gli iloti di domani. Vedo una chiesa. Un grosso parroco discorre con delle beghine che lo ascoltano compunte e attente, e il pretonzolo agita le mani pelose e sguscia gli occhietti lanciando occhiate oblique. Il ben pasciuto all'ombra del tempio bugiardo sente inquietarsi l'urlo del lavoro e della miseria, che pare aleggi sulla grande città. «Signore, la carità» si lamenta un essere cencioso e sporco… «Signore, la carità…». E la folla procede indifferente pensando alla minestra della sera, all'osteria, al gioco delle bocce. E il richiamo del mendicante continuando noioso e implacabile, mi trafigge le tempie, mi martella il cervello.
Allungo il passo, sono nella zona borghese. Carrozze, automobili, servitori gallonati, dai visi idioti, aprono portiere, fanno inchini. Vedo donne imbellettate , profumate, ganimedi attillati, coi guanti gialli, la caramella, il bastoncino, la coccarda tricolore. Si urta, si confonde questa gente: parla di pranzi, ballerine. Sale un profumo nauseabondo che mi prende alla gola e mi soffoca. Ma quasi affascinato rimango, sento il fruscio delle sete, il ciangottare delle gentildonne. Da un caffé sortono a ondate le note di un inno patriottico: un mutilato vicino a me, appoggiato alle grucce, guarda stupito la fiumana incessante.
Fuggo. Vo per vie solitarie semibuie: sbocco in piazze, in vicoli.
Fanciulli stracciati, sporchi, donne gravide, uomini neri di fumo e puzzolenti di cicca. Spazzatura, fango. Case umide, sgretolate, pisciate sui canti, osterie piene di avventori urlanti e ubriachi. Ecco dei soldati: a passo pesante, cadenzato, sudati, polverosi, rughe sulla fronte, e schiena curva. Esce la gente, guarda, commenta, compassiona e poi ritorna a bere, a urlare, a cantare.
Fuggo sempre. Veggo sulle cantonate annunci di varie operette, di vari caffé chantant: sento un crocchio di giovanotti che discorre di football, di ciclismo. Povera umanità che sorge!
Lascio le vie, mi interno per prati, voglio dimenticare, sognare. Una figura sorge da un gruppo d'alberi e mi si avvicina. Sento una tanfata di vino colpirmi l'ofatto. «Vieni, mi darai trenta centesimi!».
Ho sognato un mondo in fiamme roteante nell'infinito e lanciare bolidi infuocati e scintille per gli spazi siderei.
Ho un dio come gli altri: ma esso è senza d.
Decadenza.
Come enormi arieti, diverse razze oggi si cozzano, ognuno volendo la supremazia sulle altre.
La romantica latinità, la mercantile Albione, contro l'imperativa Germania, mentre a rimorchio vengon le nazioncelle balcaniche col bagaglio pittoresco dei loro costumi orientali arretrati. E sull'orizzonte fiammeggia la Russia, che entra in una nuova fase della sua vita.
Dall'oriente le civiltà rinnovate e ringagliardite da novelle energie, spiano a settentrione ove si sente buon odor di cadavere, e què piccoli figli del sole, attendono di poter qui riversare la sovrabbondante popolazione in una rinnovata espansione di civiltà asiatica.
Eppure questo spettacolo, questo spreco folle di energie, questa lotta accanita per la vita, non mi rivela nessuno slancio di forza vera e cosciente. Io vedo solo un immenso sfasciarsi, un diroccare di castelli, un mortale spingersi di popoli, mentre la terra indifferente apre il seno per accogliere tutta quella giovane carne che la feconderà. Questo magnificamente terribile decadimento avviene al lume titanico di un incendio colossale, adeguato al ruinare di questa civiltà.
Così io vedo questo immenso aggrovigliarsi di uomini, vedo mieter dall'alcool, dalla tisi, dal cannone: vedo storpi, scrofolosi, acefali, delinquenti.
Letteratura, arte, scienze, tutto supplisce l'influsso di questa mostruosa discesa. Tutto il mondo è un pullulare solo di marciume che sale, sale e invade tutto e tutto inghiotte.
L'umanità si crede alta. Parla di eroismi, di progresso e non s'accorge di essere ulcerata. Il baratro è lì spalancato ed essa vi cade cantando, urlando, rissando, col suo dio, la sua patria, la sua civiltà assassina, la sua degenerazione elegante.
Tutto cade, tutto crolla. Morale muffosa, filosofie greppaiole e bugiarde, rettoricume antiquato, non salvano la situazione. Il male è avanzato e non s'impedisce più ormai. I lecchezzi che adornano il vecchio edificio sono divenuti il nido di microbi che inquinano. Ormai tutto è condannato a sparire schiacciato sotto il cumulo enorme di vecchiume. La storia chiude questa fase curiosa, che diede lo spettacolo incomprensibile di supinità nei suoi membri devoti a una ridda di vari fantasmi inesistenti, e che fece vedere il ridicolo continuo costruire per poi distruggere, il continuo paziente soffrire della moltitudine e il gavazzare di pochi, tutto un insieme di vigliaccheria, inversione, nefandezze che vi vogliono far passare per azioni eroiche, tutta una mentalità rinsecchita che loro dicono geniale.
Così ha fine questa età. Ben vada. Al cospetto di tante rovine, novello Nerone canto sul disastro, godo nel vederlo, poiché su queste rovine edificherò il mio edificio, la mia civiltà, il mio mondo. Perciò canto…
[Da I grandi iconoclasti: scritti postumi, raccolta di scritti di Bruno Filippi
a cura della rivista "Iconoclasta!", Pistoia 1920]