sabato 25 aprile 2020



Vai,
non voltarti,
e non avere mai paura
né vergogna
di cadere.
Ricorda sempre
che anche l'aquila muore.

Pawnee

mercoledì 15 aprile 2020

IL SALUTO




Fu solo nel tardo pomeriggio che Zarathustra, dopo lunghe e vane ricerche, dopo aver molto vagato, fece ritorno alla sua caverna. Ma quando si trovò di fronte ad essa, e distante solo una ventina di passi, accadde ciò che adesso egli meno attendeva; udì nuovamente l'acuto grido di soccorso. E, cosa strana! esso proveniva questa volta, dalla sua caverna. Ma era un grido lungo, singolare e molteplice, e Zarathustra notò distintamente che si componeva di molte voci: sebbene paresse, a distanza, il grido di un'unica bocca.
Zarathustra si slanciò allora verso la sua caverna ed ecco! quale spettacolo l'attendeva dopo tale concerto! Giacchè sedevano tutti gli uni presso gli altri coloro nei quali s'era incontrato lungo il giorno: il re di destra e il re di sinistra, il vecchio mago, il papa, il mendicante volontario, l'ombra, il coscienzioso dello spirito, il triste indovino e l'asino; ma il più brutto tra gli uomini s'era messo in capo una corona e s'era cinto di due sciarpe di porpora, – poichè, come tutti i deformi, gli piaceva mascherarsi e nascondere la propria bruttezza. Ma in mezzo a quella accolta di afflitti stava l'aquila di Zarathustra, inquieta, irte le penne, poichè doveva rispondere a troppe cose per le quali non aveva risposte la sua superbia: e gli si era attorto al collo l'accorto serpente.
Con grande stupore mirò tutto ciò Zarathustra; poi considerò ad uno ad uno i suoi ospiti; con benigna curiosità, leggendo nell'anima loro, e stupì nuovamente.
Frattanto i convenuti s'erano levati da sedere; e con rispetto attendevano che Zarathustra parlasse. E così parlò Zarathustra:
«Voi disperati! Voi singolari! Fu dunque il vostro grido di aiuto che udii? Ora so pure dove si può cercare colui che invano oggi cercai: l'uomo superiore: – egli siede nella mia caverna, l'uomo superiore! Ma perchè mi stupisco! Non fui io stesso ad attirarlo verso di me con offerte di miele e con gli astuti richiami della mia felicità?
Mi sembra che voi mal v'intendiate, con cuore arcigno, voi che chiamate soccorso mentre sedete qui insieme. È necessario che prima venga qualcuno, qualcuno che vi faccia ridere di nuovo, un buon compagno allegro, un danzatore, uno scapestrato, oppure un pazzo: – che ve ne pare?
Perdonatemi dunque, o voi disperati, che vi parli così volgari parole, indegne, in verità, di simili ospiti! Ma voi non indovinate ciò che fa petulante il mio cuore: – Siete voi stessi e lo spettacolo di voi, perdonatemi!
Giacchè guardando chi dispera, ognuno riprende coraggio, ognuno si crede forte abbastanza – per consolare un disperato.
A me stessi voi donaste tal forza, – un dono prezioso, o miei ospiti illustri! Un dono degno d'ospiti onesti! Ebbene, non v'adirate se v'offro pure del mio.
Questo è il mio regno e il mio dominio: ma ve l'offro per questa sera e per questa notte. Vi servano i miei animali: la mia caverna sia il vostro luogo di riposo! Albergati da me, non disperi alcuno di voi; io proteggo ciascuno nella mia contrada, dalle bestie feroci. Sicurezza!
Ecco la prima cosa che v'offro.
E la seconda è il mio mignolo. E quando lo avrete prendetevi pure tutta la mano, ecco! Ed anche il cuore!
Benvenuti qui, benvenuti, ospiti miei!».
Così parlò Zarathustra, e rise di cattiveria e d'amore.
Dopo questo saluto s'inchinarono gli ospiti ancora una volta, in silenzio, e riverenti; ma gli rispose, a nome di tutti, il re di destra.
«Al modo col quale ci presentasti la tua mano e il tuo saluto, Zarathustra, noi riconosciamo che tu sei Zarathustra. Tu, innanzi a noi, t'umiliasti; per poco non feristi il nostro rispetto – ma chi dunque saprebbe, al pari di te, umiliarsi con tanta fierezza? Questo ci conforta, è un ristoro per i nostri occhi e i nostri cuori.
Solo per esserne spettatori noi ascenderemmo volontieri montagne più alte di queste. Giacchè siamo avidi di spettacolo, e vogliamo vedere ciò che rende sereni gli occhi turbati.
Ed ecco, già cessarono i nostri gridi d'aiuto. Già la nostra mente e il cuore nostro s'aprono pieni di gioia. Poco manca che il nostro coraggio non divenga insolenza. Nulla su la terra, o Zarathustra, vince la gioia di una volontà alta e forte: questa è la pianta migliore quaggiù.
Un intero paesaggio acquista bellezza da un albero tale. Io lo assomiglio a un pino, o Zarathustra, quegli che cresce come te: slanciato, silenzioso, duro, solitario, del migliore e più flessibile legno, superbo – che diffonde i suoi rami vigorosi e verdi per afferrare il suo dominio, rivolgendo robuste domande ai venti e alle tempeste, e a tutto ciò che è familiare alle altezze, – rispondendo ancora più forte, come uno che comanda, un vittorioso: ah! chi non ascenderebbe alti monti per contemplare simili piante?
Da questo albero tuo, Zarathustra, ha conforto anche chi è cupo e deforme; nel guardarti anche l'incostante acquista sicurezza e salute.
E in verità molti sguardi si dirigono oggi verso il tuo monte e l'albero tuo: un desiderio ardente s'è levato verso di te, e molti impararono a chiedere: chi è Zarathustra?
E tutti coloro ai quali stillasti nell'orecchie il tuo miele e la tua canzone; tutti coloro che sono nascosti solitari o a due, dissero improvvisamente nel cuore:
«Vive ancora Zarathustra? Più non vale la pena di vivere. Tutto è simile, tutto è vano: a meno che – non viviamo con Zarathustra!».
«Perchè non viene colui che s'annunziò da tempo sì lungo? – così molta gente si chiede; – lo divorò forse la solitudine? Oppure dobbiamo andare da Zarathustra?».
Ora accade che la solitudine stessa divenga fracida e si spezzi, simile a tomba che s'apre e più non può contenere i suoi morti. Dappertutto si vedono risuscitati. Ora salgono e s'accavallan le onde attorno al tuo monte, o Zarathustra. E lontano nell'eccelsa altitudine, molti debbono ascendere verso di te; la tua nave non deve rimanere più lungo tempo all'asciutto.
E che noi siam venuti verso la tua caverna, noi che disperammo e che ora più non disperiamo: è un segno e un presagio che s'avviò alla tua volta taluno migliore di noi,  giacchè s'avviò a te l'ultimo avanzo di Dio tra gli uomini; cioè tutti gli uomini che hanno gran disgusto, gran sazietà, – tutti coloro che non vogliono vivere senza poter di nuovo sperare – o imparare da te, Zarathustra, la grande speranza!».
Così parlò il re di destra, afferrando la mano di Zarathustra, per baciarla; ma Zarathustra si schermì e si ritrasse spaventato, silenzioso; poi tacque, quasi volesse fuggire lontano. Ma dopo un po' era già nuovamente presso i suoi ospiti, e guardandoli con occhi chiari e indagatori, egli disse:
«Ospiti miei, uomini superiori, voglio parlarvi tedesco e con molta franchezza. Non siete voi che io attendevo su questa montagna».
(«Tedesco e con franchezza? lo preservi Iddio! disse allora il re di sinistra; si vede ch'egli non conosce i buoni tedeschi, questo savio d'Oriente! Ma egli vuol dire «tedesco e rudemente» – ebbene, non è questo, oggi, il gusto peggiore!»).
«Può darsi che voi siate tutti, gli uni e gli altri, uomini superiori, continuò Zarathustra, ma, per me, voi non siete nè grandi nè forti abbastanza.
Per me, voglio dire: per la volontà inesorabile che in me tace, che tace, ma che sempre non tacerà. E se voi siete miei, non siete però il mio braccio destro. Giacchè colui che, come voi, cammina su gambe malate e deboli, vuole anzitutto, lo dica o no, venir risparmiato. Ma io non risparmio le mie braccia e le mie gambe, io non risparmio i miei guerrieri: come potreste voi servire alla mia guerra?
Con voi guasterei le mie vittorie, e più di uno fra voi cadrebbe al solo rullo dei miei tamburi.
Anche non siete belli e bennati abbastanza per me.
Ho bisogno di specchi puri e lisci per quello che insegno; riflessa sulla vostra superficie la mia imagine sarebbe deformata.
Pesano sulle vostre spalle molti fardelli, molti ricordi; molti nani maligni s'annidano nei vostri angoli. Anche in voi v'è plebe nascosta.
E se pur siete alti e di buona razza, molte cose in voi sono curve e deformi, e non v'è fabbro al mondo che possa raddrizzarvi come vorrei.
Voi, non siete che ponti: possano, i migliori di voi, passare dall'altra parte! Voi rappresentate gradini: non v'irritate dunque contro colui che vi sale per giungere alla sua altezza!
Può, dalla vostra semente, nascere un giorno per me, un vero figlio, un erede perfetto: ma quel tempo è lontano.
Voi non siete affatto coloro ai quali appartiene il mio nome e la mia eredità.
Non voi io attesi su questa montagna; non con voi discenderò un'ultima volta tra gli uomini. Voi non siete che precursori, venuti a me per annunziarmi che altri, più grandi, camminano verso di me, – non già gli uomini che hanno il grande desiderio, il grande disgusto, la gran sazietà, nè ciò che voi chiamate quanto resta di divino tra gli uomini, – no! no, tre volte no! Altri attendo qui sulla montagna, e non voglio, senza di essi, volgere i miei passi lungi da qui, – altri che saranno più grandi, più forti, più vittoriosi, uomini più giocondi, che sono dritti di corpo e d'anima: debbono venire, leoni ridenti!
O singolari ospiti miei – non udiste ancora parlare dei miei figli? non sentiste dire che vengono verso di me?
Parlatemi dunque dei miei giardini, delle mie isole beate, della mia nuova e bella stirpe – perchè non mi parlate di ciò?
Imploro l'amor vostro di ricompensare la mia ospitalità parlandomi dei miei figli. Per essi mi feci ricco, per essi mi feci povero; che cosa non ho dato, – che non darei per avere quest'unica cosa, questi figli, questa vivente vegetazione, questi alberi vitali della mia volontà e della mia più alta speranza!».
Così parlò Zarathustra e s'arrestò d'improvviso nel suo discorso; giacchè fu assalito dal suo desiderio e chiuse gli occhi e la bocca per la commozione del cuore.
E tacquero anche tutti i suoi ospiti, immobili e costernati: soltanto il vecchio indovino faceva cenni con le mani e gesticolava.

F. Nietzsche

venerdì 10 aprile 2020

Le urla delle CorNaCcHie



le cornacchie anarchiche

lanciano urla di rivolta

come i soldatini di Zion

si collegano a Matrix

tutto è un Passepartout

ma se la chiave non ce l'hai

il dito te lo metti nel culo

GRIDANO

revolution companeros

ma non danno da mangiare

ai CABRONES

il POPOLO si sa è volubile

si lamenta sempre quando è a digiuno

ma se gli riempi la PANCIA

i PEONES li trovi a fare la siesta

Geronimo era uomo di poche parole

le Cornacchie scambiano

il tomahawk per punchlines

linee vuote in onda su Matrix

Orso Nero

lunedì 6 aprile 2020

Il povero Pazzo



Ah, sì! Tu cercavi la VIA povero pazzo. Ma la via non c’era...
Ci sono molte vie ma non l’unica via! E l’unica via eri tu. Tu con tutti i tuoi grandi difetti e le tue grandi virtù.
Ma tu non ti vedesti... Fosti uno scopritore di mondi ignorati ma tu non ti scopristi. Tu che di tutti i mondi eri il centro animatore.
Tu non fosti mai il grande solitario monologico, dimentico del mondo, e di te stesso Dio e contemplatore.
Io ho veduto i materialisti strisciare con il ventre a terra come dei neri rettili, e gli spiritualisti (idealisti) volare, trasportati e vuoti come delle miserabili perfezioni disseccate. E dietro di loro ho vedute le lunghe coorti dei mistici e le infinite teorie degli asceti, vagare – poveri pazzi - alla ricerca di leggi esteriori da servire in una chiavica umida e muffosa di teoria e ombrata di fede, entro la quale incanalare la loro inutile vita di ossessi!
L’uomo - anche colui che porta nel pugno il labaro della Libertà - cerca sempre la schiavitù nella vita.
Nessuno vuole persuadersi d’una verità che nega ogni “sistema”, ogni “regola”, ogni “forma”.
Anche i libertari cercano il sistema, la regola, la forma...
Cercano la teoria svirilizzante e la fede omicida. Prova dire a costoro: né “regole” né “forme” e né “sistemi”, ma Brividi e Fremiti, Sensività e Intuizione, Lirismo e Immaginazione, Forza e Fantasia ed essi ti diranno: “Ben altro ci vuole per la Società, ben altro ci vuole per l’Umanità!”
La Società e l’Umanità sono l’incubo degli ossessi! E questo incubo tormentatore della Società e del “Ci vuole...” crea le oscure falangi dei pessimisti che tutto vedono nero e quelle degli ottimisti che tutto vedono rosso. Il mondo è - per se stesso - la stessa cosa di tutti. Ma gli scettici non credono e i religiosi adorano. Ma gli uni e gli altri si ostinano rabbiosamente a condannare colui che sa essere religioso e ateo, santo e peccatore, scettico e credente, ribelle e dominatore proprio al medesimo tempo. E questo semplicemente perché nessuno vuole comprendere che l’essere è un tutto nel tutto e non una particella infinitesimale dell’universo o una rotella microscopica della macchina umana. Ed anche tu - mio povero pazzo - cercavi una via, un orizzonte, un “là” alla tua vita. Ma al vagabondo dello spirito tutte le vie sono aperte, come per l’iconoclasta ogni tempio è vulnerabile ed all’Eroe possibile ogni mèta.
Non c’è una VIA ma vi sono tutte le VIE.
Non c’è una Verità ma vi sono tutte le Verità.
Non c’è il diritto ma la Forza.
Non c’è la legge ma il libero arbitrio.
Non esiste la Giustizia ma l’Ingiustizia.
Non esiste ciò che si chiama Amore ma bensì l’Egoismo.
Ogni coerenza teoretica è mutilazione vitale e la vera logica è l’illogicità. Ogni uomo che segue una via con gli occhi fissi a una mèta è sempre in compagnia del rimorso come colui che giurando trova sempre il rimpianto.
Solo colui che cammina su tutte le vie con l’occhio fisso nel disco del suo mondo interiore può essere il signore della serenità e il Dio della pace felice”.
R.N.

martedì 31 marzo 2020

Dialogo tra un prete e un moribondo

Donatien-Alphonse François marchese de Sade




Il prete: Arrivato infine all’istante fatale in cui il velo dell’illusione non si apre che per mostrare al peccatore il quadro crudele dei suoi errori e dei suoi vizi, non vorrai pentirti, figlio mio, dei diversi disordini in cui la debolezza e la fragilità umana ti hanno trascinato?

Il moribondo: Certamente, amico mio, mi pento.

Il prete: Approfitta quindi di questi fortunati rimorsi per ottenere dal cielo, negli ultimi istanti della vita, la completa assoluzione dei peccati, pensando però che soltanto attraverso il santissimo sacramento della penitenza ti sarà possibile ottenerla dall’Eterno.

Il moribondo: Non credo di capire più di quanto tu non abbia compreso me.

Il prete: Cosa vuoi dire?

Il moribondo: Ti ho detto che mi pentivo.

Il prete: Questo l’ho sentito.

Il moribondo: Sì, ma senza capire.

Il prete: Ma come dovrei interpretare…?

Il moribondo: Ecco… Creato dalla natura con gusti vivissimi e assai robuste passioni, unicamente venuto al mondo per soddisfarli; ed essendo questi effetti del modo in cui fui creato semplicemente necessità relative ai fini essenziali della natura, o se preferisci, derivazioni essenziali dei progetti della natura sul mio conto, sempre in rapporto alle sue leggi; io non mi pento che dell’uso mediocre che ho fatto delle facoltà (secondo te criminali, semplicissime per me) ch’essa m’aveva dato per servirla. Qualche volta io resistetti ai suoi impulsi: ora me ne pento. Accecato dall’assurdità dei tuoi sistemi mi pento di avere contrastato la violenza dei desideri che un’ispirazione ben più che divina mi forniva, limitandomi a cogliere fiori quando avrei potuto cogliere frutti. Ecco i motivi del mio giusto pentimento, ti prego di stimarmi abbastanza da non attribuirmene altri.

Il prete: Dove mai ti portano i tuoi errori, dove ti conducono i tuoi sofismi! Alla cosa creata attribuisci tutta la potenza del creatore, e queste sciagurate tendenze che ti hanno posto sulla cattiva strada, non ti accorgi che sono solamente gli effetti di quella natura corrotta, alla quale attribuisci l’onnipotenza?

Il moribondo: Amico mio, la tua dialettica mi sembra falsa quanto il tuo spirito. O ti sforzi di ragionare esattamente o mi lasci morire in pace. Che cosa intendi per creatore e che cosa per natura corrotta?

Il prete: Il creatore è il padrone dell’universo, colui che ha fatto tutto, che ha creato tutto, e che tutto conserva per un semplice effetto di onnipotenza.

Il moribondo: Un grand’uomo, in fede mia! Ebbene, dimmi allora perché un uomo simile, così potente, ha fatto, secondo te, una natura corrotta.

Il prete: E quale sarebbe stato il merito degli uomini se Dio non avrebbe lasciato loro il libero arbitrio? e quale premio avrebbero potuto godere se sulla terra non vi fosse stata la possibilità di fare il bene e quella di evitare il male?

Il moribondo: Così il tuo Dio ha voluto fare tutto al contrario, unicamente per tentare o provare la sua creatura; ma non la conosceva dunque, non aveva certezza dunque del risultato?

Il prete: La conosceva indubbiamente, ma ancora una volta voleva lasciarle il merito della scelta.

Il moribondo: Ma perché, dal momento che conosceva a priori la sua scelta, non sarebbe dipeso da lui, visto che lo dici onnipotente, non sarebbe dipeso da lui, dico io, costringerla a scegliere il bene?

Il prete: Chi può comprendere le immense ed infinite vedute di Dio sull’uomo, chi può mai capire tutto quello che vediamo?

Il moribondo: Colui che semplifica le cose, amico mio, specie colui che non moltiplica le cause per meglio imbrogliare gli effetti. Perché ti crei una seconda difficoltà, quando non sei capace di spiegarti la prima? e poiché è possibile che la natura, da sola, abbia fatto tutto ciò che attribuisci al tuo dio, perché vuoi andare a cercarle un padrone? La causa che ti sfugge può essere la più semplice del mondo. Approfondisci la tua fisica, e comprenderai meglio la natura; purifica la tua ragione, elimina i pregiudizi e non avrai più bisogno del tuo dio.

Il prete: Disgraziato! ti credevo semplicemente sociniano, e m’ero preparato a combatterti, mi accorgo che sei ateo visto che il tuo cuore rifiuta l’immensità delle prove autentiche che riceviamo ogni giorno circa l’esistenza del creatore, non ho più nulla da dirti. Non si può restituire la vista ad un cieco.

Il moribondo: Amico mio, ammetti un fatto: il più cieco di noi due è quello che si mette la benda sugli occhi non quello che se la strappa. Tu costruisci, inventi, moltiplichi; io distruggo, semplifico. Tu assommi errori ad errori: io li combatto tutti. Chi di noi due è il cieco?

Il prete: Allora non credi per niente in Dio?

Il moribondo: No. E ciò per una ragione assai semplice: non mi è possibile credere in ciò che non comprendo. Tra la comprensione e la fede debbono esserci rapporti immediati; la comprensione è il primo alimento della fede; dove non agisce la comprensione, la fede è morta, e coloro che, in questo caso, pretendessero di averne, sarebbero degli impostori. Io sfido anche te a credere nel dio che vai predicando, in quanto non sapresti dimostrarmelo, in quanto non lo sai definire, e conseguentemente non lo capisci; e poiché non lo capisci non puoi fornire la benché minima dimostrazione. In una parola tutto ciò che è al di sopra dei limiti dello spirito umano, è o chimerico, o inutile; e poiché il tuo dio non può essere che l’una o l’altra di queste cose, nel primo caso sarei un pazzo a credervi, nel secondo un imbecille.
Amico mio, provami l’inerzia della natura, e ti concederò il creatore; provami che la natura non è autosufficiente, e ti permetterò di supporre un padrone. Fino a quel momento non aspettarti nulla da me, mi arrendo solo all’evidenza e questa non la ricavo solo dai miei sensi; dove questi si arrestano la mia fede perde le sue forze. Credo nel sole perché lo vedo e lo concepisco come il centro di riunione di tutta la materia infiammabile della natura; il suo periodico cammino mi dà gioia ma non mi stupisce. Si tratta di un fenomeno di fisica, forse molto semplice come l’elettricità; ma che non comprendiamo. Che bisogno c’è di andare oltre? Quando avrai innalzato il tuo dio al di sopra di tutto ciò, che vantaggio ne ricaverò, non mi ci vorrà forse per comprendere l’artefice uno sforzo altrettanto grande di quello occorrente a definire l’opera?
Non mi hai reso alcun servizio, quindi, costruendo la tua chimera, hai turbato il mio spirito ma non lo hai illuminato, per cui ti devo solo del rancore in luogo di riconoscenza. Il tuo dio è una macchina che hai fabbricato per servire le tue passioni, e tu la fai muovere secondo le necessità di queste; ma non appena essa disturba le mie, adattati a vederla rovesciare. Nell’istante in cui la mia debole anima ha bisogno di calma e di filosofia, evita di disturbarla con i tuoi sofismi, che incutono paura senza riuscire a convincere, che irritano senza rendere migliore. La mia anima, amico mio, è ciò che la natura ha deciso che fosse, cioè il risultato degli organi forniti da essa in funzione dei suoi scopi e delle sue necessità; e, siccome essa ha parimenti bisogno di vizi e di virtù, quando le è piaciuto spingermi ai primi lo ha fatto, quando ha voluto le seconde, me ne ha ispirato il desiderio, ed io mi sono ugualmente abbandonato. Non cercare che le sue leggi come unica causa dell’incoerenza umana, e non cercare a queste leggi principio differente del suo volere e delle sue necessità.

Il prete: Così nel mondo è tutto necessario?

Il moribondo: Assolutamente.

Il prete: Ma essendo tutto necessario tutto soggiace ad una regola.

Il moribondo: E chi dice il contrario?

Il prete: Ma chi potrebbe regolare tutto in questo modo se non una mano onnipotente e saggia?

Il moribondo: Non è necessario che la polvere prenda fuoco quando si avvicina alla fiamma?

Il prete: Sì.

Il moribondo: E quale saggezza ci trovi?

Il prete: Nessuna.

Il moribondo: È possibile quindi che esistano cose necessarie ma prive di saggezza, e per conseguenza è possibile che tutto derivi da una causa prima senza che in questa vi siano ragione o saggezza.

Il prete: Dove vuoi arrivare?

Il moribondo: A provarti che tutto può essere così com’è e come lo vedi, senza che alcuna causa saggia e ragionevole lo guidi, e che effetti naturali debbono avere cause naturali, senza la necessità di supporre per loro una causa soprannaturale come sarebbe il tuo dio,il  quale, come ti ho detto, avrebbe bisogno di spiegazione invece di fornirne; e che per conseguenza non essendo buono a nulla, è perfettamente inutile. Ora essendo assai probabile che ciò che è inutile sia vano e che ciò che è vano sia niente, così, per convincermi che il tuo dio è una chimera, non ho bisogno di ragionamenti diversi da quelli che mi fornisce la certezza della sua inutilità.

Il prete: Su queste basi mi pare superfluo parlarti di religione.

Il moribondo: Perché no? Nulla mi diverte di più della prova degli estremi cui sono giunti il fanatismo e l’imbecillità degli uomini su questo argomento. Si tratta di pervertimenti così straordinari, che la descrizione, secondo me, sebbene terribile, risulta sempre interessante. Rispondi francamente, e soprattutto senza egoismo. Se fossi tanto debole da lasciarmi sorprendere dai tuoi ridicoli sistemi sull’esistenza favolosa dell’essere che rende necessaria la religione, sotto quale forma mi consiglieresti di onorarlo? Vorresti che adottassi le fantasie di Confucio piuttosto che le assurdità di Brama? dovrei adorare il gran serpente dei negri, l’astro dei Peruviani, o il dio degli eserciti di Mosè? a quale setta di Maometto vorresti che mi abbandonassi? o quale eresia cristiana sarebbe secondo te preferibile? Attento alla tua risposta.

Il prete: E puoi avere dei dubbi su questa risposta?

Il moribondo: Ecco allora il tuo egoismo.

Il prete: Assolutamente, è perché ti amo come me stesso che ti consiglio ciò in cui credo.

Il moribondo: Ma il prestare orecchio a simili errori significa amar ben poco tutti e due.

Il prete: Ma chi potrà restare cieco davanti ai miracoli del nostro divino redentore?

Il moribondo: Colui che non vede altro in lui che il più comune dei furbi o il più volgare degli impostori.

Il prete: O dèi, voi lo udite e non tuonate?

Il moribondo: No, amico mio, tutto è in pace, perché il tuo dio, sia per impotenza, sia a ragione, sia tutto quello che vuoi tu, dando per buono quest’essere che accetto per un momento solo per accondiscendenza verso di te, o, se credi meglio, per adattarmi alle tue ristrette vedute, perché questo dio, dicevo, se esiste come tu hai la follia di credere, non può avere scelto per convincerci dei mezzi così ridicoli come quelli che il tuo Gesù suppone.

Il prete: E come, le profezie, i miracoli, i martiri, non sono forse delle prove?

Il moribondo: Come vuoi che in buona logica io possa accettare come prova qualcosa che ha bisogno a sua volta di essere provata? Perché la profezia possa considerarsi come prova occorre anzitutto avere l’assoluta certezza che sia stata fatta. Ora essendo ciò certificato dalla storia, non può avere per me altra validità che quella di tutti gli altri fatti storici, dei quali i tre quarti sono fortemente dubbi. Se a questo aggiungo ancora il sospetto più che ragionevole che questi fatti sono stati tramandati da storici interessati, come vedi sarò bene in diritto di dubitare. D’altra parte chi mi garantirà che quella determinata profezia non sia stata fatta dopo l’avvenimento, che non sia l’effetto di una combinazione di astuzia semplicissima, come quella che prevede un regno felice sotto un re giusto, o un gelo d’inverno? E se tutto sta cosi, come vuoi che la profezia, la quale ha un simile bisogno di essere provata, possa essa stessa diventare una prova?
In merito ai tuoi miracoli, essi non mi convincono di più. Tutti i furbi ne hanno fatti e tutti gli sciocchi li hanno creduti. Per convincermi della verità di un miracolo, dovrei essere sicuro che l’avvenimento che chiamate tale, sia assolutamente contrario alle leggi della natura, in quanto solo ciò che è al di fuori di essa può essere considerato miracolo: ma chi la conosce così profondamente da osare affermare qual è precisamente il punto dove essa si ferma o dove è infranta? Sono sufficienti due sole cose per accreditare un preteso miracolo: un ciarlatano e delle donnette. Va’, non cercare mai altra origine ai tuoi miracoli, tutti i nuovi settari ne hanno fatti, e, cosa più singolare, tutti hanno trovato degli imbecilli che vi hanno posto fede. Il tuo Gesù non ha fatto nulla di più originale di Apollonio di Tiana, eppure nessuno penserebbe di considerare quest’ultimo come un dio. Quanto ai tuoi martiri, essi sono certamente il più debole di tutti i tuoi argomenti. Basta l’entusiasmo e la resistenza per avere dei martiri, e finché la causa contraria ne presenterà quanto la tua, non mi sentirò mai sufficientemente autorizzato a credere l’una migliore dell’altra, ma caso mai spinto a considerarle entrambe discutibili.
Oh, amico mio, se esistesse davvero il dio che predichi, avrebbe bisogno dei miracoli, dei martiri e delle profezie per stabilire il suo regno? E se, come dici, il cuore dell’uomo è opera sua, non sarebbe là il santuario che sceglierebbe per la sua legge? Questa legge, uguale per tutti perché frutto di un dio giusto, sarebbe irresistibilmente impressa in modo identico in tutti, da una punta all’altra dell’universo; così tutti gli uomini accomunati da quest’organo delicato e sensibile, si rassomiglierebbero maggiormente nell’omaggio che renderebbero al dio da cui l’hanno ricevuto; così tutti avrebbero soltanto un modo di adorarlo e di servirlo, e sarebbe per loro impossibile misconoscerlo come pure resistere alla intima attrazione del culto. Invece che cosa vediamo nell’universo? Tante divinità per quanti sono i paesi, tanti modi di servire questi dèi per quanti sono le teste e le immaginazioni. E questa molteplicità d’opinioni, nella quale è materialmente impossibile orientarsi, sarebbe, secondo te, l’opera di un dio giusto?
Va’, predicatore, tu oltraggi il tuo dio presentandomelo in questo modo; lasciamelo negare del tutto, in quanto se esiste lo oltraggio meno io con la mia incredulità che tu con le tue bestemmie. Torna alla ragione, predicatore, il tuo Gesù non vale di più di Maometto, Maometto non vale di più di Mosè, e tutti e tre non valgono di più di Confucio, il quale in ogni caso riuscì a dettare qualche buona massima mentre gli altri farneticavano. In generale si tratta di tutta una genia di impostori, di cui il filosofo si burla, in cui la canaglia ha fede e che la giustizia avrebbe dovuto impiccare.

Il prete: Purtroppo è quello che la giustizia fece con uno dei quattro.

Il moribondo: Era quello che lo meritava di più: sedizioso, turbolento, calunniatore, furfante, libertino, grossolano, buffone e pericoloso mentitore, possedeva l’arte di imporsi al popolo, e conseguentemente diventava passibile di pena in un regno nelle condizioni in cui si trovava allora quello della Gerusalemme dell’epoca. Hanno fatto bene quindi a liberarsene, e questo può essere considerato uno dei rari casi, in cui i miei princìpi, estremamente dolci e tolleranti, ammettono la severità di Temi. Scuso tutti gli errori, eccetto quelli che possono diventare pericolosi per il governo sotto cui si vive; i re e le loro maestà sono le sole cose che mi incutono riverenza, le sole che rispetto: chi non ama il suo paese e il suo re non è degno di vivere.

Il prete: Ma in definitiva ammetterete l’esistenza di qualche cosa dopo questa vita? È impossibile che il vostro spirito non abbia voluto qualche volta penetrare le tenebre della sorte che ci attende; e quale sistema può averlo soddisfatto meglio di quello che prevede una serie di pene per chi è vissuto male e una eternità di ricompense per chi è vissuto bene?

Il moribondo: Quale, amico mio? Quello del nulla. Non mi ha mai spaventato e non vi vedo altro che semplicità e consolazione; tutti gli altri sistemi sono figli dell’orgoglio, questo solo è prodotto dalla ragione. Per altro il nulla non può essere né spaventoso né assoluto. Non ho forse davanti ai miei occhi la perpetua generazione e rigenerazione della natura? Nulla perisce, amico mio, nulla si distrugge nel mondo; oggi uomo, domani verme, dopodomani mosca, non è sempre un esistere? E perché vuoi che venga ricompensato delle virtù che non costituiscono in alcun modo un mio merito o punito dei delitti di cui non ho responsabilità? Puoi accordare la bontà del tuo preteso dio con questo sistema, può avermi creato per prendersi il piacere di punirmi, e ciò solo in conseguenza di una scelta di cui non mi ha fatto padrone?

Il prete: Ma lo siete.

Il moribondo: Naturalmente, lo sono secondo i tuoi pregiudizi, ma la ragione li distrugge; il sistema del libero arbitrio dell’uomo è stato inventato solo allo scopo di costituire il sistema della grazia, che tanto bene favorisce le tue stupidaggini. Qual è l’uomo che commetterebbe il crimine vedendovi accanto il patibolo, se fosse libero di commetterlo? Noi siamo trascinati da una forza irresistibile, mai padroni di noi stessi e soltanto capaci di indirizzarci dove la natura ci spinge. Non esiste una sola virtù che non sia necessaria alla natura, e all’incontro, un solo delitto di cui essa non abbia altrettanto bisogno, nel perfetto equilibrio che riesce a mantenere tra questi estremi consiste tutta la sua abilità. Possiamo quindi essere colpevoli della tendenza che ci inculca? Non di più di quanto lo sia la vespa che viene a trafiggerci con il suo pungiglione nella pelle.

Il prete: In questo modo il più gran delitto non dovrebbe ispirarci alcun orrore?

Il moribondo: Non si tratta di questo; è sufficiente che la legge lo condanni e che la spada della giustizia lo punisca, perché esso debba ispirarci un senso di ripulsa e di terrore; una volta, però, che sfortunatamente sia stato commesso, bisogna sapere prendere una decisione e non abbandonarsi a sterili rimorsi. L’azione del rimorso e vana in quanto non avendoci preservato prima, non può porvi riparo dopo: dunque assurdo avere rimorso, è più assurdo ancora temere la punizione nell’altro mondo, una volta che si è stati tanto fortunati da sfuggire alla punizione in questo mondo. Mi guardo bene però da incoraggiare così il delitto! Bisogna assolutamente evitarlo finché è possibile, ma è con la ragione che dobbiamo sfuggirlo e non tramite falsi timori che non concludono nulla e il cui effetto è tosto svanito in un animo sia pure un poco saldo. La ragione, amico mio, solo la ragione deve avvertirci che nuocere ai nostri simili non potrà mai farci felici, mentre il nostro cuore dovrà avvertirci che il contribuire alla loro felicità è la gioia più grande accordataci dalla natura sulla terra. Tutta la morale umana è racchiusa in questa frase: rendere gli altri tanto felici quanto desideriamo esserlo noi stessi e non fare loro più male di quanto desidereremmo riceverne. Ecco, amico mio, ecco i soli princìpi che dobbiamo seguire, e non c’è bisogno di religione né di dio per apprezzarli e ammetterli: occorre soltanto buon cuore.
Ma mi accorgo di perdere le forze, predicatore; lascia i tuoi pregiudizi, sii uomo, sii buono, senza paura e senza speranza; lascia i tuoi dèi e le tue religioni; tutto ciò non è buono che a mettere la spada in mano agli uomini, e il solo nome di questi orrori ha fatto versare più sangue sulla terra di quanto non abbiano fatto le altre guerre e gli altri flagelli tutti insieme. Rinuncia dunque all’idea d’un altro mondo, esso non esiste, ma non rinunciare al piacere di essere e fare felici in questo. Ecco il solo modo che la natura ti offre di raddoppiare la tua esistenza o di prolungarla… Amico mio, la voluttà fu sempre il più caro dei miei beni, l’ho adorata tutta la vita e ho voluto terminare nelle sue braccia: la mia fine si avvicina, sei donne più belle del giorno sono nello stanzino qui accanto, le serbavo per questo momento; prenditi la tua parte, seguendo il mio esempio cerca di dimenticare sul loro seno tutti i vani sofismi della superstizione e tutti gli sciocchi errori dell’ipocrisia.

Il moribondo suonò, le donne entrarono, e il predicatore divenne tra le loro braccia un uomo corrotto dalla natura, per non aver saputo spiegare che cosa fosse la natura corrotta.

mercoledì 25 marzo 2020

Il miracolo secondo Jùnger

    



    Viviamo in un’epoca in cui è difficile distinguere la pace dalla guerra. I confini tra obbedienza cieca e delitto sono sempre più incerti. E persino l’occhio più esercitato è tratto in inganno perché sempre, in ogni singolo caso, interviene la confusione dell’epoca, la colpa universale. Tutto è poi reso ancora più difficile dall’assenza di prìncipi, nonché dal fatto che non c’è potente che non abbia percorso, un gradino dopo l’altro, la scala ascendente del sistema partitico. È infirmata così fin dall’origine l’idoneità a compiere atti rivolti al bene comune: trattati di pace, sentenze, feste, elargizioni e accrescimenti. Le forze al potere intendono piuttosto vivere a carico della totalità; sono incapaci di preservarla e di arricchirla col dono di un’eccedenza interiore, ossia col dono dell’essere. L’intero capitale è così disperso dalle fazioni vittoriose, a favore di prospettive e iniziative che durano lo spazio di un giorno – proprio ciò che già paventava il vecchio Marwitz.

    In questa scena, l’unico elemento confortante è che si scende in una direzione precisa, verso una meta ben definita. Periodi come il nostro un tempo erano chiamati interregni, mentre oggi si presentano come un paesaggio industriale. La loro caratteristica è quella di mancare di certezze ultime. E sarebbe già molto riconoscere che così deve essere: e che è meglio, comunque, che reintrodurre o conservare elementi logori attribuendogli un valore di certezza. Come l’occhio rifiuta l’inserimento di forme gotiche nel mondo delle macchine – così accade per il mondo della morale.

    È un tema che abbiamo trattato esaurientemente nel nostro studio sul mondo del lavoro. Non si può esimersi dal conoscere le leggi del paesaggio in cui si vive. D’altra parte la coscienza che fonda i valori rimane incorruttibile: da ciò la sofferenza e la percezione, inevitabile, della perdita. La vista di un cantiere non ci può dare lo stesso piacere riposante di un capolavoro e neppure possono essere perfette le cose che vediamo al suo interno. Il prenderne consapevolezza è segno di onestà che indica rispetto verso ordinamenti superiori. Questa onestà crea necessariamente un vuoto che è evidente per esempio nella pittura, e che ha anche dei riscontri nella teologia. Ma la coscienza della perdita si esprime inoltre nel fatto che ogni attendibile giudizio sulla nostra condizione fa riferimento al passato o al futuro. A parte le dottrine cicliche, si arriva così alla critica della civiltà o all’utopia. L’allentarsi dei vincoli imposti dal diritto e dalla morale è anche uno dei grandi temi della letteratura. In particolare, il romanzo americano spazia in territori dove non esiste la benché minima traccia di obblighi morali. Ha toccato la nuda roccia che altrove è ancora ricoperta dall’humus degli strati in decomposizione.

    Nel bosco dovremo essere pronti ad affrontare crisi da cui non usciranno intatti né la legge né i costumi. Potremo fare osservazioni simili a quelle svolte all’inizio del libro a proposito delle elezioni. Le masse seguiranno la propaganda, che le costringe a un rapporto tecnico sia con il diritto sia con la morale. Non così il Ribelle. Quella che egli deve prendere è un’ardua decisione: riservarsi sempre di esaminare ciò per cui è richiesta la sua approvazione o la sua adesione. Non saranno sacrifici di poco conto. Tuttavia ne trarrà un guadagno immediato in fatto di sovranità – anche se solo pochissimi, allo stato attuale delle cose, lo percepiranno come tale. Ma il dominio può venire unicamente da quegli uomini che hanno mantenuto intatta la consapevolezza della dimensione originaria dell’uomo; e che da nessun potere superiore potranno mai essere indotti a rinunciare ad agire da uomini. In che modo ciò sia possibile è un problema della resistenza, che non necessariamente deve risolverlo alla luce del sole. Pretendere che ciò avvenga è una tipica idea di chi sta a guardare, e in pratica equivale a consegnare in mano ai tiranni l’elenco degli ultimi uomini. 
Quando tutte le istituzioni divengono equivoche o addirittura sospette, e persino nelle chiese si sente pregare ad alta voce non per i perseguitati bensì per i persecutori, la responsabilità morale passa nelle mani del singolo, o meglio del singolo che ancora non si è piegato.

    Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice. Abbiamo visto che la grande esperienza del bosco è l’incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l’essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Anche sul piano morale, questo incontro così importante sia nel guarire sia nel fugare la paura ha un valore altissimo. Porta verso quello strato sul quale poggia l’intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E verso quell'essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui s’irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c’è l’identità. È questo che si profila nel simbolo dell’abbraccio. L’io si riconosce nell’altro – secondo la formula antichissima: «Tu sei quello!». L’altro può essere la persona amata, e anche il fratello, il dolente, lo sprovveduto. L’io che gli porge aiuto s’innalza nell'imperituro. Qui si consolida la struttura che è a fondamento del mondo.

    Sono fatti di esperienza. Oggi conosciamo moltissime persone che nella loro vita hanno attraversato i centri dell’ingranaggio nichilistico, gli abissi più profondi del maelstrom. Costoro sanno che lì il meccanismo si rivela sempre più minaccioso; l’uomo si trova al centro di una grande macchina ideata per distruggerlo. Ed essi hanno dovuto sperimentare che ogni razionalismo sfocia nel meccanismo, e ogni meccanismo nella tortura, che è la sua logica conseguenza. Nel diciannovesimo secolo non era ancora possibile rendersene conto. 
    
    Soltanto un miracolo può salvarci da questo gorgo. Un miracolo che si è già ripetuto innumerevoli volte: quando, tra le cifre inerti, l’uomo è comparso a porgere aiuto. Fin dentro le prigioni, anzi lì più che altrove. In ogni situazione e di fronte a chiunque il singolo può diventare il prossimo – rivelando così i suoi tratti originali, la sua nascita principesca. In origine la nobiltà consisteva nell’offrire protezione dalla minaccia di mostri e demoni. È ciò che tuttora distingue un carattere superiore: ed è quanto ancora risplende nella figura del secondino che passa di nascosto al prigioniero un tozzo di pane. Quei gesti non possono andare perduti: il mondo intero ne vive. Sono i sacrifici su cui esso poggia.

Ernst Jünger