giovedì 28 marzo 2019

VANGELO NICHILISTA






Sindrome Mallarmè


<<Non si fa altro che scribacchiare>>

Duca di Gloucester


Perché leggi questo libro?Il motivo è uno solo: perché non ti basti.L’umanità ha bisogno di libri, di storie, perché non basta a se stessa.Per questo io scrivevo. Levigavo il testo per ottenere superfici riflettenti,ma volevo andare oltre la mimesi. Volevo delle poesie che fossero una bomba, un libro che fosse la fine del mondo. Volevo un libro che valesse la pena, un’opera in continua evoluzione, di cui i tabloid non potessero stancarsi.Avevo una tensione insopportabile dentro di me, ed ora ho un libro fuori di me. Questo libro è l’elenco delle stronzate che non sono bastate a confondere la verità. La verità è che per eliminare il germe della mia tensione dovevo squarciarmi le carni.Valutavo l’ingiustizia del mio libro: dieci anni per scriverlo, mentre per leggerlo basta una notte. Allora ho pensato: che sia almeno la vostra ultima notte.Il vasto lenzuolo di citazioni con cui ricoprivo i miei pensieri era evidente segno di insicurezza. Era come il cercare l’assoluzione argomentando sull'antichità e il pregio dell’arma usata per il delitto.Ero altre sì ossessionato dall'incomunicabilità. Non tolleravo che i miei pensieri fossero travisati e che il mio messaggio fosse frainteso. Poi finalmente capii come centrare il bersaglio e scrissi un libro immune da tutto questo. Decisi semplicemente di togliere i target e sparare a caso.Giuro che non voglio dirvi niente e che non ho niente da dire. Il mio scopo è suggestionarvi, perché sono suggestionato a farlo.E poi che cazzo di utilità può avere una storia?Può essere una bella giornata, e puoi avere la pancia piena e i coglioni vuoti. Può essere che ti hanno appena lucidato il SUV, e dici: <<adesso avrei proprio bisogno di una storia>>.Ma le storie sono tutte stupide teorie, tutte uguali, e non sappiamo che farcene. Arriverebbe il sabato senza sapere a chi affibbiarle.In passato ho amato solo i libri in grado di lasciare un segno. Una volta con una brossura di Sombart ho ferito un operaio, mentre con un grosso volume di Lefebre ho staccato il naso a un marmo.Questo libro è stato concepito per colpire di taglio e di punta. Potete staccare la parte seghettata di questa pagina e tagliare i polpastrelli dell'agente, oppure potete aprire il libro a metà e richiudervelo sul cazzo.Questo è un libro da consumare. Consumate il mio libro e siate felici.Consumate, mettete in circolo i fluidi corporei e l’economia, e siate allegri.L’artista è considerato la malattia della società, ma non ne è che il sintomo.L’arte è una forma sociale di onirismo. L’artista è quello che si occupa della notte, quando la ragione va a letto.I libri sono i sogni dell’umanità, scaricano nell'immaginario la tensione collettiva, sublimano le pulsioni dalle nostre società. Il poeta è quello che permette all'inconscio di manifestarsi, e all'energia di venire in superficie.Le opere sono Kunstwollen. Le idee, le passioni, le catastrofi sono già nel mondo, lo scrittore è solo quello che si prende la colpa di evocarle.Non spaventatevi quindi per la loro violenza: la loro manifestazione è anche il loro esorcismo.

P.S.
Tutto ciò che ho scritto è vero, lo giuro su questa copia di Bollito Misto con Mostarda.

lunedì 25 marzo 2019





Le buone idee senza azione non servono a nulla.

O lotti o stai zitto. 

Non è più tempo di lamentele.

domenica 24 marzo 2019

VOLONTÀ DI POTENZA DELLA CONCEZIONE ‘STATICA’ DELL’ESSERE





Per molto tempo la dottrina della volontà di potenza è stata considerata come il nocciolo della filosofia di Nietzsche, anche grazie all’edizione del libro Volontà di potenza apprestata dalla sorella Elisabeth Foerster e dall’amico Peter Gast. In quest’opera si è voluto vedere il tentativo di Nietzsche di compiere una sistematizzazione del proprio pensiero. La dottrina esposta in essa doveva essere considerata per lungo tempo l’ultima e definitiva parola di Nietzsche, e non solo da interpreti come Baeumler, che videro in questa dottrina il valore più alto della filosofia di Nietzsche, bensì anche da coloro che la considerarono in modo negativo, come una ricaduta nella metafisica (per esempio Jaspers). Sulla base di quest’opera, considerata come «l’opera sistematica fondamentale» di Nietzsche, «si è orientata di fatto la storia della ricezione della sua filosofia per quasi quarant’anni».

Questo vale anche per l’interpretazione heideggeriana, sebbene essa consideri la dottrina della volontà di potenza strettamente collegata al pensiero dell’eterno ritorno e rivendichi la maggiore importanza di quest’ultimo sulla prima. Heidegger ritiene che «Nietzsche dà due risposte riguardo all’ente nel suo insieme: l’ente nel suo insieme è volontà di potenza (…) riguardo alla sua costituzione» e «l’ente nel suo insieme è eterno ritorno dell’uguale (…) riguardo al suo modo di essere».

Per Heidegger, insomma, tanto la dottrina della volontà di potenza quanto il pensiero dell’eterno ritorno costituiscono un insegnamento metafisico, cioè un insegnamento sull’ente nel suo insieme. Si tratta dell’ultima forma della metafisica occidentale. Si deve tener presente che Heidegger ascrive inizialmente alla dottrina della volontà di potenza carattere metafisico (precisamente nelle lezioni del 1936/37: “La volontà di potenza come arte”), e successivamente lo riferisce anche al pensiero dell’eterno ritorno (lezioni del 1937: “L’eterno ritorno dell’uguale”.

Per l’interpretazione che fa Jaspers del pensiero nietzschiano il discorso è diverso. Essa mette al centro la critica svolta da Nietzsche contro la metafisica, e in particolare contro il concetto di verità. Qui la dottrina della volontà di potenza appare come una ricaduta nella «modalità della precedente metafisica dogmatica». Una ricaduta considerata da Jaspers «contraddittoria», perché si tratta di una «interpretazione del mondo» generale e assoluta che si sa, però, come interpretazione e quindi non può rivendicare di essere assoluta.

La dottrina della volontà di potenza, ad ogni modo, sia che venga considerata come momento della sistematizzazione del pensiero di Nietzsche (come nell’interpretazione di Baeumler, di Heidegger, ma anche di Löwith) che come elemento contraddittorio della sua filosofia ) ha svolto un ruolo determinante nella comprensione del pensiero nietzschiano, pur essendo una teoria contenuta quasi esclusivamente negli scritti inediti. Questo fino a che la nuova edizione critica di Colli e Montinari (citata KGW) ha mostrato come, se non il pensiero della volontà di potenza, come voleva Schlechta, almeno l’opera edita con questo titolo sia niente più che una “leggenda”, che non trova reale riscontro nell’analisi filologica degli appunti nietzschiani pervenutici. Alla luce di questo lavoro filologico si è ridotta l’importanza della teoria della volontà di potenza e si sono aperte nuove possibilità interpretative sulla scorta di altre rilevanti riflessioni presenti negli scritti nietzschiani dell’ultimo periodo.

In generale, però, c’è da dire che tra le interpretazioni sopra citate quella che ha avuto più fortuna nei recenti studi nietzschiani è senz’altro quella di Jaspers, che ha posto l’accento soprattutto sulla dimensione asistematica della filosofia di Nietzsche. Alle posizioni di Jaspers si richiamano coloro che vedono nella volontà di potenza l’espressione di un processo infinito di interpretazione, capace di innumerevoli prospettive e che, nello stesso tempo, operano una rilettura filologicamente più attenta degli scritti inediti.

Anche Heidegger, per la verità, aveva inteso la volontà di potenza come un prospettivismo, soprattutto nelle lezioni del 1939 che portano il titolo: “Volontà di potenza come conoscenza”. Un capitolo di questo testo è intitolato: “Il bisogno pratico come bisogno di schemi. Formazione di orizzonte e prospettiva”. In esso la produzione di prospettive da parte di colui che conosce, espressione della sua volontà di potenza, viene collegata ad un “bisogno pratico”. Questo “bisogno pratico” mira a fornire al “caos della vita” qualcosa di “stabile” (Beständiges).

Questa assicurazione di stabilità viene fornita dalla determinazione di un certo punto di vista che viene assunto e subito assolutizzato dal soggetto. Tali punti di vista sono le prospettive: «La prospettiva è la traiettoria di uno scorcio, preventivamente tracciata, sulla quale si forma di volta in volta un orizzonte». In questo modo il prospettivismo viene posto da Heidegger in relazione con il primato del soggetto, che costituisce il “destino della metafisica”. D’altra parte, il prospettivismo di Nietzsche mostrerebbe il carattere eminentemente pratico del pensare, almeno nella sua manifestazione in Occidente, della quale la filosofia nietzschiana costituisce l’ultimo, insuperabile stadio. Per la verità qui si tratta di un concetto particolare di prassi, che Heidegger riassume in questo modo: «la prassi è in sé – in quanto assicurazione della sussistenza – un bisogno di schemi». E più sotto: «Il bisogno di schemi è già un mirare (Ausblick) a qualcosa che fissi e quindi delimiti.

Ciò che delimita si dice in greco το οριζον. Dell’essenza del vivente nella sua vitalità, della assicurazione della sussistenza nel mondo del bisogno di schemi, fa parte un orizzonte. Questo non è quindi un confine che capita al vivente dall’esterno e contro il quale l’attività della vita va a sbattere e si sciupa». Prassi, quindi, per Heidegger è il conoscere in sé, il pensiero metafisico quale costruzione del “vero” sulla base della prospettiva del soggetto. Questo concetto di prassi ha a che fare con il tradimento della verità quale αλεθεια, svelamento. Esso è alla fin fine un concetto eminentemente teoretico, che non lascia spazio per una dimensione propria e differenziata del “pratico”. Il primato della “prassi” nella filosofia occidentale, che sarebbe rivelato in modo eclatante dalla teoria della volontà di potenza, è in realtà un primato della teoria.

Il carattere teoretico della dottrina nietzschiana è stato intuito e mostrato anche da Jaspers alla fine del suo libro su Nietzsche, là dove egli parla della formazione della teoria della volontà di potenza. Secondo Jaspers, Nietzsche ha derivato la sua dottrina della volontà di potenza da determinati ambiti scientifici (l’ambito psicologico, sociologico, politico). Alla base della sua formulazione, quindi, sta una considerazione fenomenologica, eminentemente teoretica, che egli poi ha volto in una pretesa metafisica, nel momento in cui ha esteso il carattere fenomenico osservato all’intero essere vivente e anche al non vivente. Il carattere imperativo, poi, che egli attribuisce alla dottrina della volontà di potenza, non si differenzierebbe da quello della morale tradizionale, che, come Nietzsche stesso ha evidenziato, costituisce una forma di orientamento della prassi basato su una visione metafisica del mondo. Il primato della teoria sulla prassi, quindi, riappare, secondo Jaspers, nell’ultimo Nietzsche, nonostante le sue esplicite dichiarazioni in senso contrario delle fasi precedenti.

La permanenza del primato della teoria sulla prassi in Nietzsche, soprattutto nell’ultimo Nietzsche, è riscontrata da Jaspers anche sulla base di altre osservazioni. Innanzitutto, la volontà di potenza è, come già detto, un infinito interpretare, quindi un’operazione teoretica, benché priva di un referente ontoveritativo.

La volontà di potenza, infatti, si pone come il risultato della messa in questione e della soppressione del concetto di verità. Dopo aver criticato radicalmente il concetto di verità e averlo eliminato quale referente del pensiero, Nietzsche non poteva far altro che proporre una interpretazione della realtà del mondo e della vita priva di referenza veritativa. Ma “senza referenza veritativa” significa senza riferimento a qualcosa di determinato, che possa fungere da misura per qualsivoglia asserzione. Da ciò deriva che l’interpretazione stessa non può essere nient’altro che un infinito interpretare. Solo così, infatti, il riferimento ad una verità, che necessariamente è contenuto in ogni interpretazione, può venire prolungato e dissolto in un processo infinito. Tale interpretazione viene poi ulteriormente infinitizzata col fatto che essa interpreta il mondo stesso come “interpretazione” e “interpretare”. Si tratta di un gioco di specchi che fa perdere il punto di riferimento originario.

La volontà di potenza sta ad indicare l’essenza di un divenire infinito di carattere teoretico, che è strettamente collegato con il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale. Entrambi, infatti, propongono la dissoluzione della concezione ‘statica’ dell’essere, ritenuto dalla metafisica occidentale, debitrice dell’eleatismo, come ciò che è massimamente sussistente e inalienabile. Entrambi aboliscono il collegamento, anch’esso inaugurato dall’eleatismo, tra essere e pensiero, approdando all’inconcepibile. Entrambi, tuttavia, proprio nel momento in cui portano il pensiero ai suoi limiti, riaffermano il primato del ‘teoretico’, anche se il pensiero dell’eterno ritorno contiene il tentativo di superare questo primato, come vedremo meglio nel prossimo capitolo. Infine, entrambi, secondo Jaspers, non vengono a capo dell’esistenza nella sua autenticità.

La grossa mancanza della filosofia nietzschiana, secondo Jaspers, è stata quella di non vedere un aspetto essenziale dell’esistenza: il suo essere “davanti alla trascendenza”. «Ciò che nell’esistenza si sa davanti alla trascendenza, non può riconoscersi apparentato con questa metafisica».

La radicale rinuncia alla trascendenza in nome della critica alla “teoria dei due mondi” conduce a non poter comprendere autenticamente la finitezza dell’esistenza. Questa finitezza, infatti, esige un essere -di-fronte-alla-trascendenza, carattere che sfugge alla comprensione della vita di Nietzsche. La vita è per Nietzsche la vita nell’al di qua, la vita dell’esistente, che si definisce in contrapposizione con tutto ciò che è «fisso, solo pensato, astratto» e «contro la deviazione nel niente di un essere-altro che sta nell’al di là». Si tratta, insomma, di un «concetto della vita come pura immanenza». Ma con questo concetto non si può «cogliere in modo inequivocabile l’esistenza», perché l’esistenza abbisogna di un orizzonte trascendente.

Stabilire in che misura le considerazioni di Jaspers siano valide, anche a fronte delle nuove conoscenze dei testi nietzschiani, fornite dall’edizione critica Colli- Montinari, non è cosa di poca importanza, se si vuole arrivare a fondo del problema della “fedeltà alla terra”. Da quanto abbiamo visto finora, infatti, possiamo affermare che l’imperativo “restare fedeli alla terra” mira a liberare l’esistenza dalla sottomissione ad un «mondo dietro al mondo», che è costruito sull’essere fisso e invariabile della tradizione metafisica. Resta, però, incerto se esso sia in grado di indicare una via per esistere nel mondo dell’al di qua, ovvero se esso sia in grado di comprendere autenticamente l’esistenza, che è determinata in modo essenziale dalla finitezza. Infatti, l’essere dell’esistenza, la vita, alla luce della dottrina della volontà di potenza (e dell’eterno ritorno), viene vista piuttosto come un eterno, infinito divenire. La finitezza dell’esistenza è certamente tema insistente della fase illuministica, ma essa appare qui più come un motivo polemico, un elemento di differenziazione da Schopenhauer e da Wagner, che il nocciolo di una filosofia che si confronti con questo problema. Tant’è che questa accentuazione della finitezza scompare nello Zarathustra, dove con il pensiero dell’eterno ritorno si propone una nuova e radicale enfatizzazione dell’infinitezza dell’esistenza. Dietro questo afflato per gli “infiniti orizzonti”, tuttavia, permane il pungolo di un interrogativo. Esso appare in un motivo non tematizzato, eppure essenziale nell’opera di Nietzsche: quello della temporalità.

lunedì 18 marzo 2019

LIMITI DELLA RIDUZIONE PRIMORDIALE E INTERSOGGETTIVITÀ APERTA (PRIMA PARTE)


Nella V Meditazione cartesiana, che tuttora rappresenta un accesso privilegiato alla conoscenza della fenomenologia husserliana dell’intersoggettività, il concetto della «riduzione primordiale» è forse quello più delicato e nevralgico, proprio per l’essenziale funzione strategica che svolge nel processo argomentativo. Se, infatti, Husserl dedica uno sforzo notevole all’individuazione di una sfera solipsistico-trascendentale, è per illustrare in modo sistematico le strutture noetico-noematiche dell’esperienza dell’estraneo, le funzioni intenzionali che si mettono in moto nella mia coscienza trascendentale non appena un «alter ego» (o, meglio, ciò che si dirà poi l’«altro io») vi faccia, in qualche maniera, il suo ingresso. In questa ottica, come abbiamo già notato, la questione dell’intersoggettività parrebbe coincidere con quella della Fremderfahrung, intesa come problema parziale (sebbene importante) all’interno del più vasto orizzonte della fenomenologia trascendentale; senonché Husserl, fin dall’inizio, ha tenuto a sottolineare fortemente il nesso della Fremderfahrung con la costruzione di una teoria dell’«oggettività», poiché l’essere propriamente oggettivo è l’«essere-per-tutti».
Di fatto, la forma originaria della Fremderfahrung è per Husserl l’Einfühlung, che nel suo nucleo più elementare corrisponde ad un’apprensione della corporeità organica estranea: l’altro vi è colto come «alter ego»; analogon della mia soggettività incarnata; titolare di una «seconda» sfera primordiale, analogamente strutturata, ma autonoma e separata dalla mia. La costituzione dell’alter ego si è realizzata, innanzitutto, come una sorta di «trasferimento» del mio sistema di riferimento percettivo e cognitivo all’«altro», sulla base della somiglianza con il mio corpo; ovviamente, non si tratta di un trasferimento immediato e diretto (in quel caso non potrei comprendere l’altro come tale), bensì di una «presentificazione» di vissuti che rimangono, per il loro stesso senso, originalmente irraggiungibili. In termini diversi, e forse un po’più chiari, l’alter ego costituito tramite l’Einfühlung, è un «ego» in quanto possiede le mie stesse strutture cognitive, è aperto alla stessa realtà (il «mondo») di cui ho esperienza diretta, ma è anche irriducibilmente «alter» in quanto la prospettiva di approccio al mondo è assolutamente singolare e inconfondibile («monadica», in questo senso preciso). Ora, il punto che occorre discutere qui, con maggiore approfondimento, non è tanto l’impressione di «circolarità» cui non è agevole sottrarsi seguendo l’analisi husserliana della Fremderfahrung nelle Meditazioni cartesiane, quanto ciò che, presumibilmente, sta alla radice di tale impressione, ovvero la patente difficoltà di tener fermo fino in fondo al concetto di «riduzione primordiale» e a quello, strettamente connesso, di «costituzione solipsistica» del reale.
Ma se una «riduzione primordiale», così come Husserl la concepisce, risultasse ineseguibile per interne ragioni fenomenologiche, non ne deriverebbe automaticamente il crollo delle tesi più significative di Husserl sull’intersoggettività trascendentale (come talvolta si è ritenuto), e ciò sostanzialmente per due motivi: 1) Non sempre Husserl ha considerato indispensabile il ricorso preliminare alla «riduzione primordiale» per tematizzare l’intersoggettività (tra gli «inediti» husserliani raccolti in Hu XIII-XIV-XV, vi sono numerose, importanti linee di ricerca che prescindono del tutto dall’ipotesi solipsistica ed affrontano le tematiche intersoggettive entrando, per così dire, in medias res); 2) Il fatto che Husserl abbia in certi casi sopravvalutato, in sede metodologica, le possibilità effettive di attingere una sfera di radicale «proprietà» del soggetto, non vuol dire che questa schematizzazione sia inservibile, semmai si tratterà di precisarne più attentamente i limiti (anche sotto questo riguardo, è dallo stesso Husserl, e non solo dai fenomenologi post-husserliani, che ci vengono preziose indicazioni per una qualche correzione della linea teorica sviluppata nelle Meditazioni).
Come abbiamo visto, l’obiettivo della riduzione primordiale è l’individuazione di una sfera di esperienza fenomenologica così «privata», così radicalmente «propria» da escludere, per il suo costituirsi, ogni rimando, esplicito o implicito, ad altri soggetti, reali o possibili. Il «solus ipse trascendentale» è il soggetto di questa sfera, un soggetto che non risulta più immerso in alcuna atmosfera intersoggettiva e tuttavia continua a fare esperienza di un «mondo» e di «cose», nel proprio flusso di coscienza, senza che questa messa fuori causa del concetto dell’alterità abbia provocato il cortocircuito dell’attività intenzionale e, con ciò, reso impossibile ogni donazione di senso. Ciò che Husserl, nella V Meditazione, chiama «mondo primordiale» corrisponde a quello strato di «esperienza pura» (reine Erfahrung) che dovrebbe precedere — certo non nel tempo, ma nella connessione dei fondamenti — l’«esperienza fenomenologico-trascendentale» nel senso più ampio e concreto, che include necessariamente l’intersoggettività. In un testo del 1930, dove si prende in esame l’interna stratificazione del campo trascendentale, si afferma chiaramente questa corrispondenza di piani: «In quanto ora si mostra che il mondo ha un nucleo di senso (Sinneskern) che è «esperienza pura», cioè non presuppone alcuna esperienza dell’estraneo (nämlich keine Fremderfahrung voraussetzt), abbiamo perciò operato la riduzione alla primordialità trascendentale» (Hu XV, 110).
L’«esperienza pura», per Husserl, è dunque un’esperienza non ancora intersoggettiva, in nessun senso pensabile, proprio perché la categoria dell’«intersoggettività» non vi ha ancora impresso, per così dire, le sue pieghe, non vi ha fatto valere la sua opera costitutiva: un’esperienza che, beninteso, non è nulla di «naturale», di «reale», e tuttavia rappresenta una sorta di «nucleo profondo» del trascendentale fenomenologico, che è possibile afferrare astrattivamente, separandolo dai nessi funzionali superiori. Nella Logica formale e trascendentale, questo «mondo dell’esperienza pura» diventa il correlato di un’«estetica trascendentale», intesa kantianamente, ma in senso radicalmente nuovo, come primo grado di una teoria della conoscenza; «al grado superiore si situa il Logos dell’essere mondano obbiettivo e della scienza nel senso «superiore», della scienza che indaga secondo le idee dell’essere «rigoroso» e della rigorosa verità e che configurano corrispondentemente teorie «esatte»» (LFT, 356). Il concetto dell’«esperienza pura» può prestarsi ad equivoci di ogni genere, ma la «purezza» qui non è in alcun modo assimilabile ad un contesto omogeneo, indifferenziato, oppure strutturato sì, ma nello stesso senso limitativo per cui, nell’Estetica kantiana, si dà un mero inquadramento spazio-temporale delle sensazioni; il «mondo primordiale» di Husserl rimane, nonostante tutto, una realtà nettamente articolata, un mondo di cose, di oggetti percepiti, e non di «dati sensibili». Nella «trascendenza immanente» come residuo della riduzione primordiale vi sono «oggetti», sebbene non ancora una vera e propria «oggettività», poiché essa presuppone la costituzione della Fremderfahrung e dunque l’esperienza di altri soggetti nell’Einfühlung.
Ma, dobbiamo ora chiederci, è davvero possibile un riferimento ad «oggetti» senza che sia posta, correlativamente, una qualunque dimensione «intersoggettiva» del loro darsi? L’oggetto non è, come tale, il polo di referenza di una soggettività strutturalmente plurale e comunitaria, di una totalità di monadi? È stato proprio Husserl a scorgere questo nesso di implicazione trascendentale in tutta chiarezza, ad esempio nel passaggio seguente, che problematizza senza esitazioni la stessa possibilità di definire «soggettiva» un’esperienza solipsistica della cosa: «È problematico (fraglich), più che problematico, se io qui, al livello di una costituzione cosale pensata solipsisticamente (auf der Stufe einer solipsistisch gedachten Dingkonstitution) posso designare le manifestazioni come soggettive. Le manifestazioni, e quindi le sensazioni, non sono miei stati (meine Zustände) come può esserlo una gioia, che non ho [di fronte a me] come un dato di rosso (Rotdatum), ma nella quale vivo, o come possono esserlo un apprendere, un porre, ecc., un pensare, in cui «mi» attivo e mi colgo in questa attività. L’introiezione delle sensazioni e manifestazioni in un soggetto o la loro comprensione come meramente soggettive deriva dall’intersoggettività» (Hu XIII, 388-389). Questa conclusione, per certi versi sconcertante in un filosofo che ha dovuto a lungo difendersi dall’accusa di solipsismo e al quale si obietta tuttora di aver sottovalutato l’importanza dell’intersoggettività, appare, argomentativamente, ineludibile: se le categorie di «oggettività», trascendenza e realtà sono costituite intersoggettivamente, altrettanto si deve dire delle correlative categorie di «soggettività», immanenza e manifestazione.
L’intersoggettività si rivela una struttura pervasiva che in multiformi profili coopera alla stessa autocostituzione ed autocomprensione dell’io. Dire infatti che la mia esperienza del mondo è «soggettiva», è un modo di apparire di qualcosa «in sé» (come tale irriducibile alla manifestazione che ne ho o posso averne) equivale a sostenere che il mondo è esperibile da altri (e, in linea generale, da tutti): la «soggettività» delle manifestazioni sembra presupporre, qui, l’«intersoggettività» del sistema di riferimento. Se dobbiamo prendere sul serio il passo precedente, così come le altre asserzioni husserliane circa il carattere non semplicemente «costituito», bensì costituente (e, in un certo senso, «assoluto») dell’intersoggettività, tutto il complicato iter metodologico che abbiamo visto all’opera nella V Meditazione cartesiana non può che destare il sospetto di una petizione di principio: il compito di una costituzione dell’intersoggettività, a partire dalla «sfera primordiale», risulterebbe impossibile, in quanto i «fenomeni» di questa sfera non sono nulla di originario, non possono neppure definirsi «soggettivi» senza presupporre, ad un qualche livello semantico, ciò che si trattava di costituire.
È, questo, un singolare effetto di «ristrutturazione» del campo fenomenologico-trascendentale, che occorre valutare nelle sue dimensioni e conseguenze, per dare adeguatamente conto degli equilibri sottili e, talora, ambigui della teoria husserliana della costituzione: man mano che ci si addentra nella problematica dell’intersoggettività, quest’ultima sembra assumere un ruolo sempre più marcato e inglobante, al punto che è solo dalla considerazione dell’io in quanto «intersoggettivo» che si può comprendere, in concreto, ciò che la «soggettività trascendentale fenomenologica» realmente significa, la sua configurazione effettiva. Il «solipsismo trascendentale» manifesta sempre più chiaramente i tratti di una mera «ipotesi», di una proiezione fatta al fine di semplificare il contesto dell’esperienza dell’io, e tuttavia, come ampiamente rilevato, Husserl vi annette una «funzione di fondamento» per i gradi fenomenologici successivi e più complessi. La convinzione sottesa ai passaggi cruciali della V Meditazione, è che senza empatia, senza esperienza di una soggettività estranea reale, corporeamente presente nel mio campo di percezione, non si dà alcun accesso pensabile all’intersoggettività: il soggetto rimarrebbe chiuso in un ambiente cognitivo indubbiamente articolato e ricco di contenuti, ma esclusivamente «proprio», senza alcuna traccia di alterità, di «differenza».
Questa posizione è bene espressa anche nelle Lezioni sulla Filosofia prima del 1923-24: «Facciamo ora l’ipotesi che nel mio mondo circostante non si siano mai presentati corpi organici (Leiber), in modo tale da non aver alcun indizio di una soggettività estranea. Allora per me di fatto ogni realtà oggettiva, il mondo intero […] sarebbe nient’altro che una molteplicità unificata di poli intenzionali, come unità correlative per sistemi di mie possibili e reali esperienze» (Hu VIII, 186). Volgendo la questione in senso positivo, che è quello che interessa maggiormente Husserl, è solo dopo aver esperito «una seconda vita trascendentale» (Hu VIII, 181), un analogon della mia soggettività, che il mondo, da «primordiale» e strettamente «soggettivo», diventa per me «intersoggettivo»: in termini diversi, l’esperienza di un’altra monade, come centro autonomo di vita soggettiva, rende «oggettivo» il mondo decentrando la mia prospettiva di approccio ad esso e rivelandola appunto come «prospettiva», come ciò che solo per me è inevitabile e vincolante. Da questo nucleo tematico deriva una serie di importanti conseguenze sul piano della fenomenologia, dell’epistemologia ed anche dell’ontologia, la cui analisi richiederebbe un lavoro specifico e un confronto approfondito con i testi più significativi in proposito, peraltro numerosi; sarebbero quindi da esaminare le nozioni di «normalità», di «esperienza normale», e le loro variazioni (le «anomalie»), che in realtà Husserl non relega allo status di fenomeni secondari, trascendentalmente irrilevanti, ma include a pieno titolo tra i problemi fondamentali di una filosofia trascendentale concreta.
In Husserl troviamo non pochi elementi che, elaborati, concorrono a porre in crisi il concetto della «riduzione primordiale», almeno nella sua pretesa più estrema, di delineare una sfera di esperienza totalmente priva di strutturazione e di semantica intersoggettive. Per rendersene conto, non è necessaria un’astratta disamina del «metodo fenomenologico», basta riferirsi alle penetranti analisi husserliane della percezione esterna e della struttura di orizzonte che caratterizza ogni datità percettiva determinata.

venerdì 15 marzo 2019

Risposta ad un viandante


Tu dici che gli anarchici sono accomunati dalla lotta allo Stato e al capitale.
Tale asserzione la trovo limitativa e limitante.
Nel vivere metropolitano accade ogni giorno di scontrarsi ad esempio con la sbirraglia che rappresenta il braccio armato dello Stato coercitivo, così come con il capitale, con la questione del lavoro e di seguito ad esso il consumo ed il consumismo.
Vi sono però centinaia di Individui che per scelta vivono al di fuori del sistema lavoro-capitale, quali i primitivisti, quelli nelle lande sperdute, i tanti che vivono nel qui ed ora non soggetti a cartellini e supermercati. Essi non considerano la lotta allo Stato esigenza primaria ma spesso i loro scontri identificano come da abbattere le barriere del proprietario del rudere che hanno occupato, o del campo che gli accorcia il sentiero, dei cacciatori che fanno parte di quella umanità che andrebbe eliminata e di tutti quei ostacoli-barriere che il vivere quotidiano oppone.
Essi, isolati e autosufficienti, non si scontrano quotidianamente con lo Stato e il capitale, non è una loro priorità, ma ciò non significa che non possono essere definiti anarchici.
La storia serve a capire le dinamiche, tenendo chiaramente conto di tutti i fattori.
Teniamo da parte l'individualismo anarchico di scuola Stirneriana i cui individui non vivevano in funzione dello Stato ma del puro istinto; Novatore, Martucci, Viviani, Filippi, ecc, già un secolo fa avevano INDIVIDUATO il nocciolo della questione, basta andare a leggere i loro testi..
E ad oggi nulla è cambiato.
Dicevo, ma dunque la storia....
Le due correnti principali dell'anarchismo si dividevano in organizzatori, Malatesta, Berneri, Fabbri, Borghi, ecc,
E antiorganizzatori, Ciancabilla, Bresci, Schicchi fino a Bonanno.
I secondi praticavano l'individualismo in seno al movimento anarchico esclusivamente come metodo di condotta contro ogni possibile degenerazione autoritaria del movimento.
Ma i principi fondamentali di questi ultimi comunque restano quelli socialisti e comunisti professati dal resto dello stesso movimento.
Tra queste due correnti la faida iniziata un secolo fa continua ai giorni nostri ed è fondata sui diversi metodi organizzativi, strutturarsi in maniera formale o informale : le politiche partecipate o partire da basso come tu dici Vs il gesto esemplare o l'insurrezione: propositivi Vs distruttivi. Ecc
Entrambe queste correnti, che cmq traggono origine dalla prima internazionale quindi le origini socialiste/comuniste del movimento, necessitano del principio fondamentale dell'emancipazione delle masse.
E come detto nell'assioma della mia risposta precedente, condizione che, per quanto detto prima, non avverrà mai e cosa più importante è la base del fallimento di tutte le scuole di pensiero socialiste e comuniste, incluse quelle anarchiche.
Anche supponendo che l'umanità ..... Secoli dopo.....possa raggiungere la preconizzata società anarchica, all'indomani della sua realizzazione ai suoi margini già nasceranno dei nuovi pensatori, i nuovi illuminati, nuovi eretici, i nuovi vagabondi, i nuovi sognatori.
Da ciò è chiaro che l'Anarchia non è una cosa a cui tendere, di realizzabile nell'arco di una vita di un uomo, ma per esso rimane un'utopia.
L'Anarchia è un divenire non raggiungibile che ammette come sola concretizzazione l' essere anarchici.
Sei anarchico perché vivi in una società a cui non appartieni, perché le tue idee sono anni luce distanti dalla massa uniformata, sei un sognatore, sei un ribelle verso ogni prestabilito.
L'essere anarchico significa la ricerca del proprio io interiore e la sua realizzazione nell'arco della propria vita, il vivere qui ed ora dando sfogo alla propria rabbia, alla propria realizzazione, alla necessità di distruggere il pre-esistente, all'erigere il nuovo, ai propri sentimenti.
E tutto ciò è sempre soggettivo, mai collettivo.
È il vivere anarchicamente e non il tendere all'anarchia che accomuna gli anarchici.
Chiù Pac

mercoledì 13 marzo 2019


La mia anima danza
danza maledetta
come un angelo
alla luce nera
di una divina
FOLLIA
non ancora
CONTAMINATA
dall'idea
di DIO
e come
un demone
brucia
nel mezzo
di una SACRA
ORGIA
DIONISIACA
non ancora
CORROTTA
dall' idea di
PECCATO.
E' un gatto nero,
graffia
la tua coscienza
che sussulta
e si contorce
confessandogli
di aver contratto
questo mio
folle démone
che abita
la luce riflessa
del giorno
ma anche la notte
tra gli scantinati
più bui e oscuri
del cuore.
Della mente
dell'uomo
tutto vuol capire
il dolore
come la gioia
il tormento
come la passione
l'emozione
come l'ansimare
fino a scorgere
tutto l'orrore
della desolazione
racchiusa
nella morte
che va cingendogli
il cappio al collo
come esige
la povertà del tempo
se vuole salvarsi
in questa notte
sempre più notte!
P.L. Porcu

giovedì 7 marzo 2019

DALLA STRADA... QUALI CRITERI DI RAPPORTAZIONE?





Vi sono individui in cui è latente la stessa propensione alle cose

contro cui si battono,(vedi i democratici, i comunisti autoritari,

molti omosessuali o .lesbiche, gli anti-razzisti, ecc..). Essendo

idealisti vorrebbero allo stesso modo di chi li reprime e violenta

estendere la propria influenza sugli altri. Ma in maniera più

sottile e con l'arma più maligna escogitata dall'uomo:

l'ideologia che è la forma laicizzata della religione, questa è una

fede che consiste nel voler ridurre tutti al loro stesso modo,

pensandoli simili tutti a se stessi. In sostanza sono nemici delle

differenze che percepiscono come ignominie, e per loro non si

è mai andati troppo a fondo verso quello che è un reale

processo di 'omogeneizzazione sociale'. Effetto di questo è

anche il razzismo attuale, dovuto essenzialmente al crearsi di

'un'unica società' multi razziale, che distruggendo le

differenze in tutti i sensi inerenti alle società passate, come per

conseguenza degli individui, va incorporandole e pianificandole

all'interno di un unico e solo criterio e regola, dove la paventata

diversità consiste nel fare cose diverse ma tutte ben dentro la

stessa logica. Non è un caso se questo spaventoso processo di

'colonizzazione dei cervelli', trascina gli individui a

riconoscersi tramite vincoli di sangue, colore della pelle, gusti e

tendenze sessuali, che vanno aggregandosi proprio perché

minacciati dai gruppi avversi, e in senso reazionario avviene

l'analogo processo. Tutto è dovuto al processo di distruzione

indotta dal sistema, che avendo frantumate l'infrastrutture

comunicative dei vecchi gruppi sociali tanto proletari quanto

borghesi e piccolo borghesi, invade sfere di rapportazione

individuali e interpersonali che per loro natura non si possono

formalizzare e standardizzare sotto un 'unico' e normativo

criterio. Sulla distruzione e cancellazione di interi patrimoni

culturali, ciò che una volta erano dei popoli con una loro

propria identità , sulle loro rovine vagano oggi grandi masse di

sradicati alla perenne ricerca di ciò che possa dar loro una

qualche parvenza d'identità . Da qui l'esaltazione e l'abnorme

adesione ai simboli, alle religioni, insomma verso tutto ciò che

costituisce e crea un segno forte come divisa mentale

esteriorizzata tramite l'abbigliamento e i vari trucchi facciali

adottati per riconoscersi appartenenti a questo o quel branco

umano. L'individuo ridotto, frammentizzato, esaltato nelle sue

congenite e funzionali parzialità dal sistema, viaggia nei suoi

ragionamenti con lo stesso criterio di chi lo domina,

riproducendo il dominio.

Molti individui volendo fare 'i liberati' si presentano disinibiti

a tal punto che il loro non farsi problemi è sintomo -come

direbbe Adorno- di questa causa: tutta la società e immigrata

in loro. Ciò li rende ai miei occhi esseri insignificanti proprio

perché a parlare non sono mai loro, ma un composto di luoghi

comuni, accettati come norma dalla costumanza della gente.

Sono esseri oggettivati. Il soggetto sono le cose che fanno, e

loro l'oggetto di queste. Quelli che ancora hanno delle

inibizioni, mi sembrano persone vive. Si fanno problemi.

Non esiste una morale, così come non esiste una immoralità.

Si è più vicini a quel che corrisponde alla natura umana,

quando si dice che si tratta di un modo emozionale-affettivo e

di sensibilità psico-intellettiva di sentire e provare le cose, e

varia da individuo a individuo, combinandosi in mille maniere

e modi differenti nel percepirle. I guai sono cominciati

quando alcuni su altri hanno preteso di voler codificare e

pontificare il proprio modo di sentire e di provare le cose

volendolo appiccicare agli altri. Ma essendo la sensibilità fatto

eminentemente soggettivo e singolare in ciascuno, si è finito

dall'imposizione operata col ferro e col fuoco nel corso di

tutta la storia umana, ad una situazione oggi apparentemente

volontaria e creduta come tale nel pregiudizio logica e

istintuale: ognuno pensa il proprio modo sensibile di guardare

e provare le cose come quello più giusto e vorrebbe diventasse

quello di tutti. L'estendersi delle proprie passioni a l'altro/a e

viceversa, fa si che donne e uomini si trovino

permanentemente in tutte le loro relazioni impegnati

reciprocamente a difendersi da questa latente aggressione che

avvertono quando si fraintendono, avendo ciascuno, quando

parla del comportamento dell'altro, ficcato in testa il proprio.

Si litiga soprattutto per questo.

P.L. Porcu