domenica 30 settembre 2012

I miei principi


I miei principi


Mentre era in prigione, questo documento è stato dettata alla polizia da Ravachol. E' rimasto inedito fino a quando lo storico Jean Maitron lo trovò negli archivi della polizia di Parigi nel 1964

Il sopra citato (Ravachol,ndb), dopo aver mangiato a sazietà, ci ha parlato come segue:

"Signori, è mia abitudine, ovunque mi trovi, fare il lavoro di propaganda. Sai cos'è l'anarchismo? "

Abbiamo risposto "No" a questa domanda.

"Questo non mi sorprende", ha risposto. "La classe operaia che, come voi, è costretta a lavorare per guadagnarsi il suo pane, non ha il tempo da dedicare alla lettura di opuscoli dai. E' lo stesso per voi.

L'anarchia è l'annientamento della proprietà.

Oggigiorno esistono anche tante cose inutili, molte professioni sono inutili come pure, per esempio, la contabilità. Con l'anarchia non c'è più bisogno di soldi, senza ulteriore necessità di contabilità e le altre forme di occupazione che derivano da questo.

Ci sono attualmente numerosi cittadini che soffrono, mentre altri nuotano nell'opulenza, in abbondanza. Questa situazione non può durare, noi tutti dovremmo usufruire dal profitto del surplus dei ricchi; ma ancor più ottenere, come loro, tutto ciò che è necessario. Nella società attuale, non è possibile arrivare a questo obiettivo. Niente, nemmeno una tassa sul reddito, potrebbe cambiare il volto delle cose. Tuttavia, la maggior parte dei lavoratori pensano che se abbiamo agito in questo modo, le cose sarebbero migliorate. E' un errore pensare in questo modo. Se noi tassiamo il proprietario, egli dovrà aumentare i suoi affitti e in questo modo organizza,per coloro che soffrono,nuove tariffe imposte da pagare. In ogni caso, nessuna legge può toccare i padroni di casa perché, essendo i padroni dei loro beni, non possiamo impedire loro di fare quello che vogliono con loro. Che cosa, allora, dovrebbe essere fatto? Cancellare proprietà e, così facendo, cancellare quelli che prendono tutti. Se questa abolizione avviene, abbiamo a che fare anche col via con il denaro, al fine di evitare qualsiasi idea di accumulazione, che costringerebbe un ritorno al regime attuale.

Sono in pratica le risorse che è la causa di tutte le discordia, l'odio, di tutte le ambizioni, è, in una parola, il creatore della proprietà. Questo metallo, in verità, non ha nulla, ma ha un prezzo concordato, nato dalla sua rarità. Se non eravamo più obbligati a dare qualcosa in cambio di quelle cose che abbiamo bisogno di vivere, l'oro perde il suo valore e nessuno lo cerca. Né potevano arricchirsi, perché nulla avrebbero potuto accumulare ed ottenere una vita migliore di quella degli altri. Non ci sarebbe quindi più alcuna necessità di leggi, non c'è bisogno di padroni.

Per quanto riguarda le religioni, sarebbero distrutte, perché la loro influenza morale non avrebbe più alcuna ragione di esistere. Non ci sarebbe più l'assurdità di credere in un Dio che non esiste, dal momento che dopo la morte tutto è finito. Quindi dovremmo tenere alla vita, ma quando dico vita voglio dire la vita, il che non significa schiavi tutto il giorno a fare i padroni grassi e, pur se stessi morendo di fame, diventano gli autori del loro benessere.

I padroni non sono necessarie, queste persone il cui ozio è mantenuto dal nostro lavoro, ognuno deve rendersi utile alla società, con cui io intendo lavorare secondo le sue capacità e la sua attitudine. In questo modo, uno sarebbe un fornaio, un altro insegnante, ecc Seguendo questo principio, il lavoro sarebbe diminuito, e ognuno di noi avrebbe soltanto una o due ore di lavoro al giorno. L'uomo, non essendo in grado di rimanere senza una qualche forma di occupazione, avrebbe trovato la sua distrazione nel lavoro; non ci sarebbe fannulloni pigri, e se esistesse, ci sarebbero così pochi di loro che possiamo lasciarli in pace e, senza denuncia, li si lascia al profitto del lavoro altrui.

Non essendoci più le leggi, il matrimonio sarebbe stato distrutto. Vorremmo unire per inclinazione, e la famiglia sarebbe stata fondata sull'amore di un padre e una madre per i figli. Per esempio, se una donna non amava più, che aveva scelto un altro comapgno, avrebbe potuto separarsi da lui e formare una nuova unione. In una parola, libertà di vivere con coloro che amiamo. Se nel caso che ho appena citato ci sono stati i bambini verranno assistiti dalla società stessa.

Con questa unione libera, non ci sarà più la prostituzione. Malattie segrete non esisterebbe più, dal momento che questi sono solo nate dall'abuso dell'unione di due sessi; un abuso di cui le donne sono costrette a presentare, dal momento che le attuali condizioni della società li obbliga a prendere questo come un lavoro per sopravvivere . Non è il denaro necessario per vivere,ma bisogna guadagnare a qualunque costo?

Con i miei principi, che non posso in così poco tempo esplicare nei dettagli, l'esercito non avrà più ragione di esistere, poiché non ci saranno più nazioni distinte: la proprietà privata sarebbe stata distrutta, e tutte le genti, si sarebbero uniti in uno solo, che sarebbe l'Universo.

Non più guerra, non contesta più, non più la gelosia, non più furto, non più omicidio, non più sistema giudiziario, non più di polizia,non più amministrazione.

Gli anarchici non sono ancora andati nei dettagli della loro costituzione: le pietre miliari da solo sono state disposte. Oggi gli anarchici sono abbastanza numerosi per rovesciare lo stato attuale delle cose, e se questo non è ancora avvenuto, è perché dobbiamo completare la formazione dei seguaci, partorire in loro l'energia e la ferma volontà di contribuire alla realizzazione dei loro progetti. Tutto quello che occorre per questo è una spinta, che qualcuno si mette alla loro testa, e la rivoluzione avrà luogo.

Colui che fa saltare in aria le case ha come obiettivo lo sterminio di tutti coloro che, per la loro condizione sociale o dei loro atti, sono dannosi per l'anarchia. Se è stato permesso di attaccare apertamente queste persone senza temere la polizia, e quindi per la propria pelle, non avremmo deciso di distruggere le loro case anche con ordigni esplosivi, che potrebbe uccidere i bisognosi che lavorano a loro servizio ma che in realtà sono degli schiavi"

Ravachol

Contributo a una lettura critica de L’unico



Contributo a una lettura critica de L’unico

Alfredo M. Bonanno


Si potrebbe trascrivere agevolmente un piccolo trattato dell’individualismo anarchico limitandosi alle citazioni tratte da L’unico e la sua proprietà. Sarebbe di certo opera vana, ed è questo che in alcuni casi non pochi studiosi di Stirner si sono limitati a fare. Faccenda discutibile, per persone chiamate ad approfondire tematiche e problemi, ma anche dolorosa, per le conseguenze pratiche negative, quando la stessa cosa, in sostanza, viene fatta da rivoluzionari entusiasti e superficiali.

Tutto il lavoro di Stirner si presta a stiracchiamenti di questo tipo, e quindi può venire utilizzato per accontentare palati facili e spiriti bisognosi di tutela. Ora, la cosa non deve apparire strana, visto che questi lettori, e l’immagine che gli stessi amano proiettare di sé, sembrano lontani dal prototipo umano bisognoso d’aiuto. L’individualista stirneriano ama gridare ai quattro venti di collocare in se stesso, e nella propria forza, il proprio diritto alla vita e alla gioia. Si compiace di affermare che ogni “causa” esterna al proprio io gli è estranea, e quindi la rinnega, identificando soltanto in ciò che è suo la propria causa, insomma una causa “unica”, come è unico il suo “io”.

L’appello alla rivolta ha affascinato tanti anarchici, e non poteva essere altrimenti. Ha affascinato, e continua ad affascinare chi scrive, in quanto anarchico e in quanto uomo che ha dedicato la propria vita alla rivoluzione, ma il fascino di qualcosa non può ottundere le capacità critiche, in caso contrario ogni dichiarazione di principio cade sotto il rasoio che lo stesso Stirner, insieme ad altri filosofi, ha approntato. Rasoio tagliente quanto altri mai. Ogni sacralizzazione è un fantasma che mi porta lontano da me stesso, e quindi risulta, in definitiva, qualcosa di contrario a me stesso. E se questa sacralizzazione fosse quella del proprio stesso io? Se fosse la sacralizzazione del nulla?

Qui voglio proporre una critica a questa tesi fondamentale contenuta ne L’unico, ma principalmente voglio affrontare il problema della rivolta fine a stessa, equivoco tanto più grave, quanto più difficile diventa un suo possibile smascheramento. L’occasione fornita da Stirner è molto importante, infatti nel suo lavoro fondamentale si trovano tutti gli elementi che covano, spesso in maniera irriflessa, modelli di vita che proiettano in avanti istinti di rivolta, desideri di conquista del mondo, stimoli al piacere, utilizzo degli altri, impadronimento dei mezzi di cui il mondo è sovraccarico, e così via, in un montaggio variopinto, gradevole agli spiriti aggressivi. Dopo tutto, la vita non va centellinata, è sempre meglio strapparne grossi pezzi e gustarla anche a costo di sporcarsi le mani.

Il bisogno di un fondamento. Dietro tutta l’opera di Stirner, non solo dietro il suo libro fondamentale, ci sta il bisogno di un fondamento, una base da cui partire. L’elencazione di tutte le basi “false”, come per esempio “Dio”, l’ “uomo”, la “libertà”, la “verità”, ecc., corrisponde a un’altra elencazione di basi “vere”: cioè il “nulla”, l’ “io”, l’ “autoliberazione”, la “proprietà”. Naturalmente questi due elenchi, esattamente corrispondenti, si possono allungare considerevolmente, e nello schema triadico della dialettica hegeliana hanno il proprio “superamento” nella terza fase, quella della sintesi, in cui emerge e si consolida l’ “egoista”, l’ “individualista".

Tutto il lavoro di Stirner è diretto a costruire questo fondamento e ad allargarlo, passando dall’egoista alla società degli egoisti, sviluppando analisi di grande interesse che hanno costituito e costituiranno anche in futuro l’eterna fortuna di questo filosofo.

Qui voglio dire soltanto una cosa, che svilupperò a partire da questo punto. Come ogni fondamento, anche l’egoista soggiace alle considerazioni critiche di Stirner. Se non si ammette la possibilità che una volta costituitosi questo fondamento, una volta intrapresa la strada della rivolta contro ogni istituzione mondana e divina, una volta trovato l’individualista nei suoi aspetti vitali più intimi, non ci si possa indirizzare verso un’ulteriore visione critica, procedendo oltre, verso altre prospettive, sempre più lontane e sempre più arrischiate, proprio perché prive di fondamento, se non si ammette tutto ciò, l’egoista sarà un “ossesso” anche lui, un ulteriore “fantasma”. È Stirner che ci fornisce il mezzo per arrivare a questa conclusione che lui, comunque, evita accuratamente di proporre in quanto la cosa avrebbe rotto il meccanismo sigillatore della dialettica triadica.

È per questo motivo che spesso l’uomo forzuto, il coraggioso vincitore di mille battaglie, anche con se stesso, il vaticinatore di prospettive di liberazione, conchiude la propria vita nella miseria di una ribellione fittizia, destinata ad accasarsi nell’àmbito della propria immagine, tristemente riflessa nello specchio deformante della vita quotidiana, garantita da meccanismi tutt’altro che individualisti.

Di quale “superamento” parliamo? Interessante domanda. Purtroppo penso che il superamento di Stirner, diretto a costruire l’egoista, sia destinato a cadere nella trappola del fondamento. L’egoista o si costituisce in quanto tale e nel momento che lo fa al primo risultato ottenuto si chiude nel proprio egoismo, sigillandosi in un mondo sia pure unico ma comunque chiuso, o si muove verso l’egoismo, quindi si ribella e acquisisce, si appropria, usa e tutto il resto, non soltanto in vista della costituzione del proprio egoismo, ma per fare qualcosa di questo stesso egoismo, cioè per godere di se stesso, per vivere la propria vita realmente.

Stirner si è posto questo problema, e lo ha risolto affermando che lo scopo deve restare all’interno dell’io egoista. Quindi l’individualista, per non diventare la causa degli altri, cioè non sua, deve essere esso stesso il proprio scopo, cioè deve semplicemente vivere meglio che può. Ma non si tratta di una risoluzione radicale, in quanto il superamento alla fase individualista definita, in modo chiaro, non prende in considerazione il fatto che non si può godere se non di qualcosa che si conosce, e non si può possedere se non qualcosa che si conosce. Lo stesso Stirner afferma che il possesso involontario, come il godimento involontario, non sono che momenti inferiori della vita. Ma, come è facile capire, il conoscere, anticamera indispensabile di ogni godere e di ogni vivere, non può essere chiuso in un fondamento definitivo, ma deve essere continuamente posto in gioco. Non c’è un momento in cui la conoscenza può essere considerata conchiusa, quindi non c’è un momento in cui il proprio godimento può dirsi individualisticamente perfetto.

Un altro modo di considerare il “superamento”. La filosofia di questo secolo ha raccolto l’eredità niciana e ha proposto un differente concetto di superamento, differente da quello hegeliano che presuppone il meccanismo dialettico, l’Aufhebung, che è inevitabile ritrovare anche nella costituzione dell’egoista così come viene proposta da Stirner.

Questo nuovo concetto consiste nel non lasciarsi nulla alle spalle, nel superare partendo dalla propria stessa condizione di bisogno, che altrimenti il superamento sarebbe privo di senso. Questa Überwindung, ripresa in pochi passi della sua opera da Martin Heidegger, è certamente da ricondurre a Friedrich Nietzsche. Se l’egoista è l’uomo nuovo ha bisogno di un superamento che riassuma in sé le forze vecchie, distruggendole nella sintesi che appunto produce il nuovo. Ma a ben riflettere possiamo diventare nuovi? È l’egoista un uomo nuovo? Secondo la stessa analisi di Stirner egli non lo è, non può esserlo. Ma se non può esserlo, se può essere solo quello che è, e solo a condizione di non sacralizzare scopi al di fuori di se stesso, non può nemmeno diventare “nuovo”. Ma l’Aufhebung hegeliana produceva realmente una cosa nuova, faceva scomparire il vecchio. L’egoista distrugge il vecchio uomo, distrugge ogni residuo di verità passata, egli soltanto è la verità. Ma questa distruzione, se portata fino in fondo, distrugge anche se stessa, avendo bisogno per essere reale proprio di un fondamento, e questo viene fornito dall’individualismo, che ben presto, in un modo o nell’altro, nella società degli egoisti o nella ferocia singolare del solitario, trova quiete.

Nietzsche ha notato che definendo il nuovo come il superamento della novità precedente considerata superata – e questo processo critico nell’egoista è garantito dalla riduzione alla sua essenziale proprietà al di fuori di ogni rifiuto sacralizzante l’esterno – si innesta un processo inarrestabile di dissoluzione, il quale impedisce una reale novità, una posizione effettivamente diversa. Ogni processo di Aufklärung, ogni percorso ermeneutico, ogni itinerario critico, selezione dei mezzi utilizzabili dall’individualista nella prospettiva di vivere la propria vita e di goderla, riassume in sé tutto quello che precede, non chiude un periodo e getta via la chiave. Nessuna ribellione risolve problemi, né costruisce definitivamente ribelli. Sono io che mi ribello – e qui ritorna costante l’insegnamento di Stirner – e non la ribellione che mi garantisce la mia individualità. Non diventerò mai un professionista garantito della ribellione. Se faccio della mia ribellione un mestiere, o sia pure uno sport – come purtroppo è il caso di molti compagni che conosco – sarò sempre lo strumento della ribellione, e questa non sarà la mia ribellione, ma io il suo ribelle.

Nietzsche radicalizza il superamento, affermando che nulla può essere effettivamente superato in modo definitivo. L’egoista non può mettere da parte, o tra parentesi, il mondo che ha superato, almeno non può metterlo da parte per sempre. Nessun coraggioso è garantito in maniera assoluta contro la vigliaccheria. Tutte le volte che la vita gli propone un’occasione di vivere il proprio coraggio, egli è questo stesso coraggio, con tutte le sfumature che quest’ultimo comporta. Non è il coraggio in assoluto, il modello del coraggio che si è cristallizzato per sempre nel coraggioso. Nessun essere è perfettamente egoista, neanche l’unico stirneriano, tanto che nella sua assoluta unicità, logicamente solo teorica, per concretizzarsi, per rendersi egoista fino in fondo, ha bisogno degli altri egoisti, ha bisogno dell’unione degli egoisti, e questa condizione di bisogno lascia intendere che appunto la Not sta agendo in lui, e dal bisogno non è possibile altro superamento che quello indicato da Nietzsche e sviluppato dalla filosofia successiva, non quello suggerito per primo da Hegel.

Dall’assenza del fondamento alla diminuzione d’importanza dell’origine. In un passo di Aurora [1881], Nietzsche dice: «Con la piena conoscenza dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine». (Opere complete, tr. it., vol. V, Milano 1964, p. 44). Solo riconoscendo come tale l’estensione del fondamento (Grund), si vede che quest’ultimo non è qualcosa da costruire, su cui poi vivere, ma qualcosa che attraversa tutta la nostra vita, anche quella inautentica, per dirla con Stirner, e anche di quella inautenticità di vita abbiamo bisogno, perché anche quella è nostra proprietà, ci appartiene e, sia pure in controluce, concorre a completare la nostra vita attuale, ogni singolo momento di questa vita che viviamo e che non vogliamo venga smarrita nell’inautenticità.

Così, proprio nel momento in cui il fondamento si allarga anche al passato, scade la sua importanza. Non più un risultato da conquistare, non più norma nuova da instaurare, solo per noi, solo da noi e solo in noi, non più tutto questo, ma patrimonio comune da utilizzare, più intensamente nell’affinità, meno intensamente in tutti gli altri casi.

Non è più quindi il contenuto di questo Grund che adesso ha importanza, non un decalogo nuovo da sostituire al vecchio, come sembra a volte minacciare qualche lettura di Stirner, non una diversa violenza da impiantare nel corpo dell’antica violenza, non una più grande forza con cui sconfiggere una forza meno grande, ma l’assenza stessa della pretesa del fondamento di costituire una garanzia alla vita. E noi non abbiamo in fondo da custodire nessun catalogo, perché non abbiamo nessun luogo sacro dei rituali definitivi, nessun libro sacro, meno che mai Der Einzige.

La bellezza dei colori dell’unicità. In un’epoca in cui la filosofia è stata costretta a trascrivere i dati di una realtà priva di senso, riappare il senso della mancanza di realtà. Almeno intendendo come realtà qualcosa di definitivo, di fondamentalmente definitivo. La base solida su cui Immanuel Kant si illudeva di rendere possibile ogni futura costruzione logica si è rivelata per quello che era, il giardino delle torture. La ragione ha messo a nudo i meccanismi terribili che la regolano. La verità si è scoperta ancella dell’oppressione e mezzana dell’imbroglio.

La condizione dell’unico è quindi particolarmente vivida, estremamente mossa. Non è fissa in maniera irrevocabile. In essa alberga, come altrove, la possibilità del contrario, l’improvviso cedere alla molteplicità del bisogno, agli aspetti deteriori della vita. Per poi riconquistare quello che si è smarrito, in modo radicale, non per paura di perderlo, ma semplicemente per assenza di fondamento certo, una volta per tutte.

L’unicità dell’individualista non costruisce nel deserto della vita quotidiana, ma in un luogo in cui costruire significa distruggere, in cui l’abbattimento degli ostacoli e dei limiti, tutto quello che di supremamente odioso la società ha saputo erigere nei millenni, è momento de-costruttivo, non banale esercizio di critica sia pure radicale. Se usa il martello, o la dinamite, non ha l’atteggiamento compromissorio di chi danneggia il meno possibile perché pensa di essere l’erede di quella parte che resterà in piedi. Il suo buon temperamento naturale, cui non mancava mai di far riferimento Nietzsche, la sua familiarità con l’odio verso tutto ciò che opprime e giustifica l’oppressione, lo fa agire in maniera naturale, spontanea, risparmiandogli, e risparmiandoci, la figura di colui che dopo finisce sempre per presentare il conto.

La vivezza dei colori nell’unicità non può comunque farci scordare la pregnanza di quello che ci circonda. Un oblio, sia pure momentaneo, e ci chiudiamo in una prigione costruita da noi stessi. Questo contesto malato, che pur continua a circondarci, non possiamo mai metterlo definitivamente tra parentesi, né possiamo mettere noi tra parentesi, chiamandoci fuori. Possiamo avere opinioni su tutto il resto, e convogliarle nel senso negativo dell’opposizione all’unicità, ma non possiamo cancellarlo, dobbiamo fare i conti con esso, dominarlo o farci dominare, non ci sono altre alternative.

Così, non possiamo dire che il completamento della nostra singolarità sia intensificazione assoluta di quella vivezza di colori. Né l’una né l’altra possibilità possono conchiudersi definitivamente. L’esperienza dell’unico resta viva e vivida a condizione di rimetterla in gioco in ogni istante, quindi a condizione di non considerarla “completa”.

Conclusione provvisoria. L’unico mantiene tutte le caratteristiche individualiste di cui l’anarchismo è ricco solo a condizione di non fermarsi nel suo percorso di lotta e di ribellione, a condizione di essere costantemente se stesso nel cercare non solo le condizioni della propria differenza, ma anche quelle degli altri. Di più. Queste condizioni, una volta trovate, devono essere viste nella loro possibile affinità, allo scopo di permettere l’identificazione di quel territorio delle differenze che rende possibile l’esercizio delle qualità essenziali dell’unicità, in primo luogo quella di vivere la propria vita nella maniera migliore.

Tutto ciò ha senso solo se si considera la condizione privilegiata dell’individualista come una condizione continuamente in movimento, essa stessa priva di una base solida e definitiva su cui contare in qualsiasi momento. Il rischio e il pericolo sono tali solo quando ci si sente esposti alle avversità, non quando si sa di essere sicuri in un fortilizio ben custodito. Non dimentichiamo che ogni luogo ben custodito, prima di ogni altra cosa, è una prigione.

Non possiamo usare la realtà, nel senso stirneriano dell’individualista, se non la conosciamo, e questa conoscenza è una costante rimessa in gioco, un rischio e un coinvolgimento. Non esiste vera e propria conoscenza nell’arroccamento e nella difesa del proprio territorio, per quanto quest’ultimo possa essere privilegiato.

Possiamo quindi ricondurre, o se si preferisce “rivivere”, nell’àmbito dell’unico, tutte quelle condizioni dell’assenza e del dolore che caratterizzavano la vita inautentica, ma solo quando siamo talmente forti da poterle considerare ulteriori sperimentazioni della nostra forza, esercizi del nostro dominio. Questo, che in effetti è un amplissimo problema meritevole di essere trattato adeguatamente, qui viene solo accennato. L’individualista stirneriano non può avere paura dell’eccesso, neanche dell’eccesso che ha appena lasciato la traccia della propria vita negata, ricacciata indietro e distrutta, e ciò proprio perché sa che ogni distruzione non è mai definitivo abbandono ma, al contrario, permanenza e trasformazione.

Non c’è un progresso su cui giurare e a cui affidarsi. Questa illusione tarda a morire. L’individualista non manca di considerarsi migliore di coloro che si dibattono nella quotidianità del vacuo e non si accorge che proprio questa valutazione etica appartiene a qual mondo di fantasmi su cui Stirner esercitava con tanto acume il suo sarcasmo.

Nessuno si salva dalla generale contaminazione.


[Pubblicato in AA.VV., Fuori dal cerchio magico. Stirner e l’anarchia, Centrolibri, Catania 1993.

Ora in Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio, Edizioni Anarchismo, Trieste 2004]

sabato 29 settembre 2012

ORA, DATECI TORTO!



ORA, DATECI TORTO!

Il progresso è un ciclone. Nelle sue spire vertiginose, nei suoi gorghi ululanti trascina , travolge, inghiotte spietato, inesorabile, credenze, programmi ed istituti i quali nella bufera infemal cbe mai non resta perdono la maschera e l'intonaco e l'orpello. L'utopia di avantieri, realtà ieri, è oggi superata, distanziata da aspirazioni, da utopie che saranno domani collo stess
o procedimento sommario, colla stessa vertiginosa rapidità sgretolante, polverizzante, disperse.
Ricordo, ventitre anni fa - e con l'eco pare ieri - le fanfare dei cento comizii in cui la voce tonante di Giovanni Bovio e la parola alata di Felice Cavallotti e l'apostrofe garibaldina di Matteo Renato Imbriani e la magnifica eloquenza di Edoardo Pantano urgevano le plebi delle cento città d'Italia alla conquista di quel suffragio universale da cui dovevano avere indulgente sepoltura di placidi tramonti le vecchie forme politiche, da cui doveva assurgere ai culmini dell'irrequieta ed indocile aspirazione mazziniana, al suo antico apostolato di libertà e di redenzione la terza Italia rinata, per virtù inesausta del suo popolo, dai dolori e dalle onte del suo stesso martirio.

Si scopron le tombe - si levano i morti
i martiri nostri - son tutti risorti

Squillavano fanfare e cori per ogni borgo, nei comizi i ondeggianti che un' interiezione telegrafica di Garibaldi metteva in eruzione rimescolando il sangue in ogni vena plebea, irritando il cannibalismo professionale della polizia regia, scatenando le collere olimpiche della magistratura inamovibile.
Ed era così proprio. Volere, allora il suffragio universale era essere sovversivi, sobillatori dell 'odio di classe, malfattori e canaglia, su per giù, come l'essere oggi anarchici. Gli arresti arbitrarii , i processi per direttissima, i processoni per cospirazione, la vigilanza speciale piovevano allora fitti come la grandine, come ai bei giorni delle sucessive incarnazioni della reazione Pellousiana.
Domandatene ad Amilcare Cipriani pel quale, proprio in quei giorni, a toglierli di presiedere in Roma il Comizio dei Comizii, fu esumata la celebre accusa d'assassinio che - per quanto estinta dalla prescrizione ventennale - lo mandò in quattro e quattr'otto al bagno di Portolongone.
Dalle clamorose insurrezioni popolari per la conquista dell 'elettorato non sono passati cbe ventitre anni, meno che un minuto nella storia incessante dell 'evoluzione, e siamo a questo punto: che del suffragio universale nessuno vuole più.
Lavoratori e proletari avevano dato all 'agitazione tutta la loro energia, la loro attività, la loro fede, non perché avessero penetrato anch'essi l'enigma metafisico della sovranità nazionale o l'alchimia misteriosa e subdola della composizione dei partiti parlamentari - sorridevano in fondo, scetticamente, e dell'una e dell'altra - ma in realtà perché volevano sub- stanziare di speranze meno diafane e ' meno ideali il sentimento di nazionalità che in essi, muratori autentici dell'unità e dell'indipendenza della patria, era la religione superstite dell'ultima rivoluzione italiana: dal suffragio sarebbero venuti il pane, il benessere, la libertà.
Così fu del suffragio elettorale in Italia ed altrove e dovunque.
Il suffragio democratico non fece miglior prova di quello privilegiato e Depretis, Nicotera, Crispi lasciarono in più di un'anima il dubbio se non si stesse meglio quando si stava peggio e se non si dovessero all'epoca delle convenzioni ferroviarie, della Banca Romana, del dazio sul grano e delle leggi eccezionali rimpiangere Minghetti, Serra e Cantelli, il macinato ed i tempi borgiani della Regia. Il suffragio privilegiato aveva anzi sul democratico il vantaggio incontestabile della sincerità. Lo Stato, il governo erano allora senza equivoci, senza attenuazione, lo strumento d'oppressione della minoranza dissanguatrice, erano il palladio impudente, sfrontato del monopolio, erano in tutto il loro orrore manifesto lo Stato, il governo di classe. Col suffragio democratico m.entre in sostanza nulla era mutato (né poteva mutare rimanendo inalterata la costituzione economica del paese), nella forma si veniva giustificando ad ogni sconfitta proletaria la rampogna del savio che ogni popolo ha il governo che si merita.
Non avevamo la scheda? non potevamo fare e disporre a nostro talento? non potevamo colla coalizione delle coscienze proletarie espellere la borghesia dal parlamento e dal governo ed installarci il quarto Stato? Avevamo dunque abdicato ad ogni diritto di dolerci e di ribellarci non ci rimaneva che ubbidire, servire e tacere.
La patria intanto salita alla gloria di grande nazione s'impegnava in alleanze disastrose, profondeva negli armamenti ogni sua risorsa, triplicava le tasse, soffocava col piombo a Conselice, a Gratteri, a Caltavaturo la protesta dell'inedia cenciosa e cresimava ad Adua nel sangue di diecimila proletari la gloria militare dell'Italia libera e una.
Il triste è che mentre noi, forti dell'esperienza storica e dell'invitta nostra costrizione libertaria, anarchica, andavamo pochi, perseguitati e dispersi suscitando tra le folle schiave una cordiale diffidenza contro i nuovi agguati del suffragio, interpreti senza dubbio ortodossi anche della dottrina marxista per cui lo Stato politico non è che l'esponente della struttura economica e non può essere come tale nella società nostra, nella società capitalista, che arma terribile di sfruttamento e di oppressione condannata a sparire il giorno in cui i mezzi di produzione e di scambio oggi fraudolenti e violentemente detenuti da pochi vampiri torneranno alla collettività propietà comune ed indivisibile di tutti, e doversi quindi dare al problema economico la precedenza su quello politico; i sacerdoti del marxismo ufficiale e ravveduto, i rappresentanti del socialismo scientifico ed addomesticato, alla nuova nicchia s'adattarono tutti lieti di lasciare la canaglia piena d'odii inesorabili, piena di cenci, piena d'impeti temerari, lieti di lasciare la piazza piena di responsabilità, di pericoli, di avventure e di trovare in parlamento, nelle argute disquisizioni accademiche uno scampo raffinato contro il tanfo, la volgarità e l'insolenza plebea stemperando quelle meraviglie di leggi sociali che conciliano nell'inganno e nell'equivoco le istituzioni borghesi e le aspirazioni proletarie rinnegano non soltanto la lotta di classe, il marxismo e il socialismo, ma rimodernando, riadattando ai tempi nuovi il regime borghese eternizzano, rinnovandola, la dittatura della classe capitalista sul mansueto gregge degli sfruttati.
Perché a questo è giunto ai giorni nostri - e non da ieri - il partito socialista: che non solo ha subordinato il problema economico a quello politico ma quello relegato tra le reliquie, venerande negli archivi, circoscrive tutta l'opera sua nella sterile lotta elettorale amministrativa e politica con un sacro orrore per tutte le agitazioni, i sussulti, le rivolte operaie che, sia pure pel pane o pel domani, rompono la ragnatela dolorosa delle convenienze, delle transazioni, degli interessi elettorali al medagliettato socialista.
E ' d'uopo soggiungere tuttavia che alla cuccagna rabbiosa accesa tra i partiti del suffragio democratico la grande maggioranza dei lavoratori guardò con indifferenza costante, talvolta con sdegno manifesto. Le statistiche periodicamente erette dal Ministero dell'Interno constatano che in Italia non vota mai più che il terzo degli elettori inscritti (1); che in totale sopra trentadue milioni d'abitanti (due milioni d'elettori in media) non votano mai più che seicentomila elettori. Tenete conto della minoranza parlamentare e verrete a questo meraviglioso risultato, che la famosa rappresentanza nazionale, quella che legifera e ci impone le sue leggi non è ben sicura di rappresentare trecentomila elettori, metà della popolazione di Napoli.
Noi siamo le mille miglia lontani, dal desiderio di vestirci delle penne del pavone e di illuderci che astensione così larga e così costante sia frutto della nostra propaganda antiautoritaria. Tolti i preti che non votano in ossequio al non expedit pontificio, tolti gli anarchici che non votano per coerenza politica e qualche mazziniano superstite che ripudia ogni transazione colla monarchia e la vergogna del giuramento, la maggior parte degli elettori diserta le urne per indifferenza od apatia.
D'accordo; ma l 'indifferenza, ma l'apatia non sono che una forma larvata della diffidenza e del disprezzo. Se invece che ad esercitare una volta ogni quattro anni, per un minuto, ed a patto di lasciar le cose come stanno e come piace al padrone, i cittadini elettori fossero chiamati, magari tutti i giorni, a ritirare alla loro sezione una pagnotta fresca o un buon paio di fangose a doppia suola, le sezioni elettorali rigurgiterebbero da mane a sera.
Si capisce: i cittadini elettori - ma soprattutto affamati e scalzi - ubbidirebbero ad un bisogno, vigilerebbero un interesse. Questo bisogno della sovranità, quest'interesse dell'elettorato i nostri lavoratori non sentono e non tengono nel conto di una pagnotta o di un paio di scarpe.
Può darsi che l'anima e la funzione dello Stato sfuggano alla loro tarda indagine ma essi sentono in ogni spasimo della vita quotidiana e nella tradizione della loro specie che di lì san sempre venuti le catene, la miseria, il saccheggio, la corveé, l'imposta e la coscrizione, che di li non può venir la salute. E non votano, non infondono sangue nelle vene dello Stato, rivelato in tutta la sua mostruosità dalla critica moderna e dalla propaganda libertaria.
Con noi essi anemizzano lo Stato .
Lassù se ne inquietano. Essi pensano fin d 'ora, i furbi, alla miseria vana e fragile del loro scettro e del loro dominio il giorno in cui i comizii deserti e le urne desolate non raccoglieranno più che il verbo dei latifondisti, dei monopolizzatori dell'industria e dei banditi della borsa e il governo apparirà qual'è - meno evidentemente - anche oggi, quale fu, quale sarà sempre, il manutengolo od il gendarme dei grandi ladri in pennacchio, in commenda o in guanti.
Se ne inquietano; inquieta sempre un nemico che operi fuori del piano preveduto, ' fuori dal raggio d'azione da noi scelto e in cui vorremmo costringerlo, lontano dalla nostra vigilanza e dal nostro controllo. A quale terribile arma confiderà la sua causa il proletario disilluso dal suffragio?
Se ne inquietano e corrono ai ripari dell'estrema salute, al voto obbligatorio se è vero quanto telegrafano all' Araldo da Roma in data del 16 Agosto corrente: "Si assicura che tra alcuni ministri sia stata ventilata l'idea di proporre alla Camera (alla sua riapertura) un disegno sul voto obbligatorio.
Però si aggiunge che l'ono Giolitti per diverse ragioni non ritiene opportuno che il governo faccia simile proposta.
Si sarebbe perciò deciso di far presentare il progetto d'iniziativa parlamentare; si vuole anzi che esso porterebbe la firma di molti deputati di parecchie regioni, ma prevalentemente napoletani.
Il Governo se ne rimetterebbe per ora alla Camera".
Vent'anni fa eran l'arresto e la persecuzione politica a chi reclamava un po' vibratamente il diritto di sciegliersi i propri padroni, tra qualche settimana la persecuzione, l'arresto, l'ammenda, l'incapacità civile colpiranno colui che stanco di cambiar basto non voterà più, non vorrà più la responsabilità né la vergogna d'avere da se stesso posto il collo al giogo e le reni alle nerbate.
Il mondo galoppa, nessuna utopia è temeraria, il regno della verità, della giustizia, della liberazione sorride nell'aurora del domani dell'uomo redento dall'esperienza e dalla ragione.
Dirà almeno qualche cosa all'eterno giobbe proletario il proposito ministeriale del voto obbligatorio? avrà forza di strappare dai suoi occhi ostinatamente chiusi alla luce le bende impenetrabili dell'eterno inganno?
Predicavano ieri i cattivi pastori che l'era delle insurrezioni e delle rivolte armate era chiusa per sempre; che è puerile sognare ai nostri giorni per le città rettilinee a questi lumi di Maxim a tiro rapido l'ingenua coreografia di un vespro; proletari che i rivoluzionari del ventunesimo secolo non potevano essere né trogloditi, né bevitori di sangue, né settembrizzatori feroci; che la rivoluzione si fa nella scuola e nel parlamento e l'insurrezione col voto, arma civile di difesa e di liberazione.
L'esperimento ha mostrato che il voto è una burla, che l'opera legislativa degli onorevoli socialisti è un'irrisione a questo ventennio di suffragio democratico ha confermato la verità che da mezzo secolo gli anarchici diffondono tra il popolo; la borghesia monarchica ci ha elargito il voto perché era ben sicura che non avremmo con esso spostato d'una linea il rapporto d'interessi in forza .del quale essa detiene privilegiatamente ogni mezzo di produzione e di scambio, in forza della quale essa impone a noi gli sfruttati, i diseredati, i reietti la sua dittatura parassitaria e assassina. Il suo progetto ministeriale le riconferma la rettitudine ed il valore della nostra critica luminosamente.
Come ci imposero violentemente il contributo del sangue e levarono colla coscrizione tra i senza pane, i senza patria l'esercito che vigila a difesa dei loro monopoli di classe, i capitalisti, i vamp11'1 Cl Impongono oggi colla violenza e colla coercizione di salvare col voto le istituzioni che storia, ragione e cilviltà hanno irrimisibilmente condannato.
Predichino i furbi e credano gli eunuchi che la borghesia ci vuole, emancipare a forza col voto e si facciano eleggere e votino .
Noi che le fonti della nostra miseria e della nostra schiavitù ritroviamo immutate nella propietà individuale e nell'autorità che il suffragio elettorale consolida non distrugge, noi non voteremo per minacci e come per lusinghe, non votammo mai, ma continueremo l'opera nostra ribelle chiamando gli sfruttati alla riscossa, alla rivoluzione sociale che espropriata la borghesia instaurerà sulle rovine del privilegio economico, la società dei liberi e dei felici.
Contro il diritto illuminato la frode obliqua ha dovuto tosto o tardi disarmare.
Il domani è per noi.

1) E' la stessa proporzione media in Francia, in Svizzera, in Spagna.

G. Pimpino
Da CRONACA SOVVERSIVA, a. II, n. 36, 3 settembre 1904, p. 1 e 2.

venerdì 28 settembre 2012

L'intellettualizzazione è l'ultimo stadio dell'espansione mercantile.



Il godimento implica la fine della funzione intellettuale e dello stato. L'intellettualizzazione è l'ultimo stadio dell'espansione mercantile.


1 - I progressi dell'intellettualità esprimono il progresso dell'organizzazione come bisogno prioritario dell'economia.

Dal diciannovesimo secolo alla prima metà del ventesimo l'imperialismo mercantile si fonda su due preoccupazioni dominanti: lo sviluppo della tecnica e la conquista di mercati. Con l'apparizione del capitalismo di Stato ciò che passa in primo piano e la necessità di una organizzazione economica onnipresente. La merce investe il suo potere in una amministrazione delle sue risorse dove essa tende a prodursi e ad allargarsi secondo un circolo chiuso. Condannata a realizzare fino in fondo la sua propria astrazione, essa stessa esegue la sentenza pianificando e burocratizzando la sua morte e la morte delle società che la produce. La burocrazia è la forma concreta di questa astrazione che svuota gli individui e loro sostanza umana e li riduce ad essere nient'altro che l'ombra della merce. Essa è il rapporto pratico che lo Stato intrattiene con se stesso cioè, con la parte di vita che annette, controlla, governa. Gli ingranaggi dello Stato descrivono volentieri la burocrazia come un'escrescenza assurda, un'ernia operabile con un trattamento appropriato, un apparato grottesco che impedirebbe un'organizzazione migliore delle cose. Ma essa è la realizzazione perfetta dello Stato come pensiero come separato dal vivente, e niente altro. Cos'è il pensiero così separato se non il prodotto del lavoro che ciascuno è costretto a fornire socialmente e a spese della propria vita?
Dopo che la merce ha finito di espandersi, essenzialmente attraverso le guerre e la colonizzazione, essa ha incominciato la conquista delle province del vivente con un'arroganza accresciuta dalle procedure di sfruttamento. Più si concretizza il suo bisogno di astrazione, più diventa tangibile la sua astrazione. Il progresso dell'umano attraverso la merce accorda a tutti la libertà di pensare, mentre il simultaneo progresso della merce attraverso l'umano non accorda che la libertà di agire secondo un pensiero separato. Il lavoro del pensiero è il pensiero che fa lavorare. Ecco su cosa si fondano le nostre libertà! Attingendo dalla vita una forza lavoro che poco a poco la esaurisce ognuno arriva a svuotarsi della sua presenza viva, a perdere il suo corpo, a non essere che un'immagine proiettata, sullo schermo del pensiero morto, dal film fantastico che gli presta le forme del vissuto. E molti stanno ancora a battersi per la liberalizzazione delle immagini.
L'emancipazione intellettualizzata non è che un altro balzo nella proletarizzazione. Il totalitarismo della merce si propaga attraverso la testa.

Il partito intellettuale costituisce l'esercito di riserva della burocrazia.
Con il pretesto e il privilegio di non lavorare l'aristocrazia esercitava un'autorità che era in fondo un lavoro intellettuale. Al contrario, la borghesia, vede nel diritto - acquistato a caro prezzo - di governare, la vittoria dell'intelligenza sulla materia, la superiorità dell'intellettuale sul manuale. La sua funzione dirigente non porta più il sigillo del divino, ma si vuole « natura » pensante. Più il potere cibernetico assorbe il lavoro manuale, come l'industria ha inghiottito l'artigianato, più vada sé, che il lavoro generalizzato, all'insieme dei comportamenti, prende la forma di un lavoro intellettuale. La funzione intellettuale è l'arma del padrone. Lo schiavo che se ne impadronisce è catturato. La stessa ragione che lo libera riproduce la schiavitù. Essa ha giustificato tutti i crimini dello Stato: gli dei, la gerarchia, la morale le appartengono, come tutto quello che perpetua il servaggio. Ma da essa sono nati anche i miti insurrezionali di Prometeo e di Lucifero. Essa ha saputo ridicolizzare convenientemente gli dei, lavorare al fallimento del sacro, scalzare dal potere i signori, i padroni, i burocrati, è stata in tutte le rivolte, ha risposto a tutti gli appelli della libertà. Non merita questo ordine di cose che definisce la prospettiva del potere la sua reputazione di essere allo stesso tempo la migliore e la peggiore?
Tuttavia, essa perde ogni ambiguità quando rivela la sua partecipazione allo sviluppo contraddittorio della merce. Religiosa e antireligiosa, nelle società agrarie, diventa ideologica e anti-ideologica quando l'astrazione tangibile del denaro e del potere si allarga a tutte le attività umane. Essa non cessa di attaccare e di consolidare il sistema mercantile, di cui sposa il movimento di autodistruzione e di rafforzamento. Alla fine dei conti, la classe burocratico-borghese ci guadagna tanto a reprimere le idee sovversive che a tollerarle – finché esse stanno separate dalla volontà di vivere. Il pensiero « rivoluzionario » serve alla liberazione della condizione oppressiva che il pensiero mantiene nel rapporto con il potere. Più chiaramente, la sua natura di lavoro intellettuale ne fa la più astuta e la più moderna delle repressioni, quella che si esercita in nome dell'emancipazione. Voi che puntate sul progresso dell'intellettualità per accelerare la presa di coscienza delle masse, proponete, nei fatti, al proletariato da sempre condannato al lavoro manuale, di migliorare il suo destino diventando lavoratore intellettuale. Eccovi qui a fare, senza saperlo l'elogio dell'automazione, della cibernetica, dello spettacolo, dell'alienazione autoamministrata. La peggiore intellettualità è quella che si rifiuta, che prende le parti del corpo contro la testa, oppone le forze oscure e oscurantiste dell'io ai lumi della ragione, preferisce il lavoro manuale a quello intellettuale come se non si trattasse di due momenti della stessa dittatura del lavoro. Quelli che si aspettano dalla muscolatura proletaria la verifica della radicalità del loro pensiero non sono molto diversi dagli ufficiali che fan fare le battaglie alla soldatesca. Il loro disprezzo dell'intellettuale esorcizza cinicamente il disprezzo che hanno per se stessi. Essi si sacrificano nella migliore della tradizione stalinista e fascista, al culto ambiguo del lavoro manuale e del lavoro intellettuale, questa divinità cornuta che si insinua, fino alla chiaroveggenza radicale, sotto il nome di teoria e di pratica. Il partito intellettuale non finisce di crescere all'interno del proletariato. Esso costituisce l'esercito di riserva della burocrazia. La canaglia spirituale rimpiazza opportunamente la canaglia in sottana. Ha le sue ortodossie e le sue eresie, le sue scomuniche e i suoi ecumenismi. Il lodare e vituperare alternativamente la nullità studente riconvertita in critica-critica e le teorie rivoluzionarie che un gruppetto dí pensatori fa pascolare nel libero campo degli affari tenta invano di dissimulare che la funzione intellettuale opera in ciascuno di noi e che ella ci proletarizza e ci ficca nella testa il cuneo progressista del deperimento mercantile. Accettare la funzione intellettuale come l'unica forma di intelligenza, significa lavorare alla rimozione dei desideri della vita, a reprimersi di più. L'illusione nata dai colpi inferti in passato al capitalismo non è più all'altezza dei tempi. Ora, è essa stessa a darci dei colpi più gravi ancora, perché ci spinge a separarci da noi stessi, realizzando praticamente il progetto di autodistruzione mercantile.
Essa fa dell'emancipazione il misero approdo di una miserabile rimozione. Pertanto, se la funzione intellettuale è l'arma essenziale della classe dominante, essa arriva al proletariato, classe senza un potere riconosciuto, come una intrusione dall'esterno; lo spirito che governa questo lavoro manuale attraverso cui si definiscono, all'inizio della loro storia, i proletari. Solo quando il proletario tenta di prendere il potere invece di distruggerlo essa si trasforma in un'astratta coscienza di classe, la cui interpretazione è riservata ai burocrati e ai timonieri della liberazione proletaria. Ma come l'emancipazione si rinnega passando per la filiera intellettuale, così, il sussulto della volontà di vivere individuale, contro la proletarizzazione incombente, offre a ciascuno un'arma radicalmente diversa per sbarazzarsi delle attività separate dal godimento.


2. Il mondo alla rovescia raggiunge il suo punto di rovesciamento possibile quando la proletarizzazione per riflesso intellettuale non ha altra via d'uscita che la morte o la superiorità dell'intelligenza sensuale.

L'intellettualità cresce a spese della volontà di vivere.
Poiché la divisione del lavoro si riproduce nella divisione del corpo, la separazione in schiavi e padroni ha fatto della testa il ricettacolo del pensiero separato. L'apparire di una classe intellettuale e di una classe manuale ne hanno fatto diventare il luogo del potere che controlla e ricaccia la sessualità nel resto del corpo. A giudicare dal culto delle teste tagliate, sacerdoti e capi, fin dalle origini, sembrano aver vissuto concretamente questa separazione dal corpo.
Non so cosa sia la morte naturale, ma la morte che noi conosciamo nasce nella culla del potere gerarchico, con la castrazione economica.
Per molto tempo è durato il costume di decapitare i condannati appartenenti alla classe superiore, mentre i colpevoli provenienti dalle classi inferiori - questi bassifondi libidinali che costituiscono il « corpo laborioso » dello Stato - sono pubblicamente appesi per il collo e subiscono lo strattone fino a svuotarsi, con una specie di orgasmo, della vergognosa materia che li compone, sperma, urina, escrementi. A questi sistemi rozzi si avvicinano, ancora i torturatori in camice bianco, gli psichiatri, gli educatori,quelli che usano gli elettrodi;è con più finezza, ormai, che l'astrazione crescente che ci guida ci prende per la testa e ci svuota della nostra sostanza umana. La razionalità nevrotica e le sue crisi di disinibizione «bestiale» e assurda sigillano la nostra epoca di gulag umanista con il marchio della lacerazione finale del corpo.

Il sistema cervicale si è modellato sul sistema mercantile.
Esso traduce in meccanismo di potere l'organizzazione astratta dell'economia, catalizza la reazione di scambio in cui la vita si trasforma in lavoro. La testa diventa così il luogo del corpo estraniato da se stesso. Più bisogno di comandare si identifica apertamente con un lavoro, più la testa porta la parola dello Stato fino ai confini dei territori non ancora controllati della vita. La società si riduce al mercato, i piaceri diventano un lavoro, il lavoro tende a intellettualizzarsi, e la corazza muscolare, reprimendo gli impulsi sessuali, mantiene la testa fuori dalla mischia e gli affida il mantenimento dell'ordine. Come la normalità di un tale mondo non potrebbe confondersi con una accolita di pazzi?
Stretta fra la testa che comanda, controlla, organizza, e il resto del corpo che esegue gli ordini e blocca l'uscita dei desideri, la « lotta di classe » riesce difficilmente a sfuggire la trappola dello scambio, essa si dibatte nell'immobilità costitutiva del mondo dominato dall'economia. E' l'equilibrio nel terrore dove ogni parte reclama per sé il diritto all'insurrezione e alla repressione. Succede che il corpo scoppia, esige i suoi divertimenti, le sue licenze esige il suo carnevale, le sue sommosse. Cosa importa se continua a restare rigido, a reprimere i suoi desideri, a filtrarne l'energia a vantaggio del lavoro. Anche la testa sa prendersi le sue libertà, perdersi nelle stravaganze, sprofondare, delirare, identificarsi al corpo con lo zelo dell'intellettuale populista. Ciò che non sparisce mai è la separazione. Sia che vegli sulla bestia apocalittica che dorme in noi o la liberi in un'orgia di sfrenatezza e di sangue, la funzione intellettuale continua a riprodurre l'evoluzione della merce che si distrugge distruggendo la vita, una vita che essa identifica scientificamente con la malattia da cui vuole assolutamente guarirci. Le nevrosi del potere non possono volere che dei nevrotici a potere. Più risputiamo le medicine che teste rozze e meno rozze son d'accordo a farci ingoiare, più si raffinano i sistemi per farcele ingurgitare. Appena l'aspirazione al godimento minaccia di espandersi, ecco arriva l'ideologia psicosomatica ad affermare che «l'organico e lo psichico costituiscono una unità i cui termini sono indissociabili», ma per farci ignorare meglio l'origine della separazione e i mezzi per combatterla. Lo stesso vale per il culto della sensazione che si allarga quanto più si riduce a una astrazione a una immagine mentale. Mentre la vita si ritira fino ad essere una forma vuota, il sensualismo fiorisce sulla sua dove il piccolo uomo avido di guadagni viene a celebrare l'odore del fieno tagliato e della frutta matura. Più il godimento è una questione dì testa, più si parla di culo.

L'emancipazione che parte dalla testa si porta dietro la sua propria putrefazione
Chiamo intellettuale non l'individuo che usa la testa più delle mani, ma chiunque lavori a rimuovere i suoi desideri dalla vita. L'intellettualità non si misura con il grado di sapere, di erudizione, di scienza, di discernimento d'intelligenza. Essa non traccia un confine fra, da una parte, il pensatore, l'artista, l'ideologo, il critico, l'organizzatore, il burocrate, il capo, e dall'altra, l'operaio, il manovale, il pugile, l'ignorante, il contadino, il macellaio, il bruto, il militare. E' presente in ciascuno, perché traduce l'ancoraggio dell'economia nell'individuo, come la cultura, in senso lato, lo impone alla società. La funzione intellettuale appartiene ai meccanismi di rimozione e di disinibizione.
Porta fatalmente il marchio della trappola, del non-superamento, della peste delle emozioni, del cambiamento nell'immobilità. Il godimento essa lo vede solo a rovescio, con lo sguardo dell'impossibilità a godere, non vi scorge che un'illusione destinata a mascherare la vera mancanza di vita. L'intellettuale è l'individuo proletarizzato dall'inflazione cerebrale della merce, dal lavoro che produce il pensiero diviso dalla vita. Egli arriva alla comprensione degli esseri e delle cose attraverso un gioco di tramoggie funzionanti per compulsione ed espulsione, e questo genere di comprensione è tipico del mondo dominante, della merce che si nega e si rafforza. Non capisce niente se non per necessità, costrizione, ragione esterna; perché è vero, perché bisogna, perché questo è l'ordine perentorio venuto dal cielo delle idee che insieme venera e maledice.
Partire dalla funzione intellettuale, vuol dire prendere la direzione opposta dei desideri, reprimere la volontà di vivere per la volontà di potenza, che ne è l'inversione. Il proletariato, che subisce la parte più faticosa del lavoro, è meglio attrezzato per farla finita con l'intellettualità della classe dominante che l'ha organizzata e imposta.
La condizione proletaria gode del privilegio di poter rifiutare i capi, ma questo rifiuto riproduce il principio che la comanda e serve solo a lubrificare gli ingranaggi della burocrazia, visto che non deriva immediatamente dalla volontà di vivere di ciascuno.

Il linguaggio dominante è la riduzione economica applicato al linguaggio del corpo.
L'economia ha prodotto il suo linguaggio producendo il lavoro senza il quale non potrebbe esistere e sul quale si è modellata lentamente la società. La trasformazione della vita in forza di produzione si esprime necessariamente secondo le forme astratte che ci svuotano della nostra umanità. La comunicazione ufficiale è fondata sull'inversione dei desideri e perpetua la nostra alienazione radicale. Esiste, tuttavia, un infralinguaggio che l'economia deve recuperare giacché ha bisogno di conquistare le zone non ancora controllate della vita. Intorno ai vuoti oscuri del linguaggio del dominio, danzano affannosamente le parole del potere. Quello che non possono definire, afferrare, nominare, tentano di trasformarlo in "gratuità", vale a dire in assurdità, tentativi maldestri, arretratezza, aldilà leggendario, sconvenienza. L'abisso da dove salgono le pericolose pulsioni sessuali, l'antico potere patriarcale, l'ha immediatamente equiparato alla bocca della donna, per la quale il godimento è ancora un canto, un inno panico di cui la musica e la poesia conservano il lontano ricordo. La saliva del linguaggio sensuale, del linguaggio del corpo, si secca lungo la storia. La donna è, all'inizio, il vaso malefico dove il potere tenta di imprigionare l'incomprensibile.
Le favole, la letteratura, la religione non la descrivono forse come quella che parla troppo e parla per non dire niente? Essa non scambia le parole, le getta a piacere. Chiacchierona, petulante, confidente, indiscreta e infedele, simbolizza la parte oscura dell'umanità, recalcitrante alle ragioni dell'intelletto, che rifiuta l'economia del linguaggio in cui l'economia si esprime. Parola selvaggia, recuperata al sacro soprattutto negli antichi riti: seduta su un treppiede, il sesso aperto al di sopra del suolo mentre dalle crepe escono vapori sulfurei, la profetessa lancia dalla bocca parole e grida giaculatorie che i sacerdoti traducono ai loro clienti. Anche le streghe danzeranno nude sotto la luna, bocche del cielo, fino al trance orgiastico nel quale profetizzano. Più tardi, gli uomini, nella loro infinita accondiscendenza, accrediteranno le donne di una qualità che si compiaceranno di non avere, l'intuizione, un orecchio misterioso che capta le vibrazioni occulte delle cose, una comunicazione che i criteri del linguaggio economico giudicano naturalmente sottosviluppata.
Le donne hanno per lungo tempo diviso con gli artisti,i bambini e i folli, il privilegio di gridare, cantare, piangere, gesticolare, dire qualsiasi cosa, tradire quello che non va detto. Dopo che l'industrializzazione le ha emancipate all'inestimabile diritto di lavorare in fabbrica, guadagnare un salario, dirigere un'impresa e comandare una divisione aereo-navale - mentre gli artisti entrano nel funzionariato della promozione culturale - non restano che i bambini e i cosiddetti malati di mente ad esprimere confusamente le pieghe del linguaggio sfuggito all'influsso della merce. L'intellettualità compie il filtraggio del linguaggio con l'economia. Dal discorso quotidiano, fino ai gesti impacciati nella peste delle emozioni, l'espressione e la comunicazione si trasformano a loro volta in lavoro, un modo costrittivo di esistenza, una astrazione del vissuto. L'aspetto critico e negatore della funzione intellettuale ha così bene dimostrato la menzogna del linguaggio dominante che ha finito per imporsi come verità. Ma la verità svelata attraverso l'intellettualità non è forse la confessione spontanea dell'autodistruzione mercantile? Che valore ha una verità intellettuale che è d'accordo nel dissimulare la menzogna che la fonda, la sua natura di lavoro, di separazione, di castrazione? Non è che la macchia di sangue del mondo alla rovescia dei desideri di morte. La parola che si « ammutoliva » per il suo silenzio e le sue falsità si modernizza diventando la parola del consenso. L'inconscio è rivelato, ma a profitto di una nuova oppressione, i gesti interpretati e commentati forniscono i materiali per le altre requisitorie. Ognuno si fa trasparente per essere meglio giudicato. Non bisogna ingannarsi sulle persone! Bisogna dire tutto! Via dunque! L'era della franchezza e della trasparenza arriverà a far rimpiangere la vecchia lingua biforcuta, l'ipocrisia del puritano e del burocrate rivoluzionario. Là, la separazione era evidente, ora, invece, la verità intellettuale ricostruisce l'unità della vita nella sua perfetta astrazione. La dittatura delle parole su tutti gli aspetti del vissuto è peggiore di quella del silenzio, perché la vita non ha niente in comune con il linguaggio che le è imposto. Che approvi o no il mondo dominante, il linguaggio ridotto all'intellettualità è sempre e solo lavoro e, il suo rifiuto, lavoro di rifiuto. Per quanto radicale si creda, non si dissocia dalla concrezione mercantile che ci distrugge. Tuttavia, enuncia questo godimento che porta in sé la fine dell'intellettualità, sia quando tenta di dissimulare la sua funzione repressiva, sia quando cerca di definire ciò per cui mancano le parole. La lingua qui impiegata non nasconde il suo intrinseco discredito. La critica che si rivolge contro di sé non riesce ad evitare, sapendolo, il processo mercantile.
Del resto, non può distruggersi all'interno del suo stesso movimento. E' alla soglia della vita, dove necessariamente si ferma, che aspetta dalla vita, la sua distruzione. E' dall'esuberanza sensuale di ciascuno, dalla realizzazione individuale dei desideri che aspetta la sua sparizione. Ed è la sola possibilità che abbiamo di farla finita con le parole e con i segni che governano il corpo e la società. Quando l'unità del sentire l'avrà vinta sul pensiero separato, più niente sarà nominato che non distrugga allo stesso tempo il nome.

L'intellettualità parla la lingua della castrazione.
E' sufficiente ascoltare la maggior parte delle conversazioni: ordini dati o suggeriti,rapporti di polizia, requisitorie da procuratori, panegirici da avvocati. Nello sferragliamento verbale del prestigio e dell'interesse, avere l'ultima parola non nasconde più che si ha l'ultima delle vite. La ferocia scaturita dalla repressione dei desideri si libera in urla, polemiche, colpi di spillo e botte che non hanno altra ragione di quella dell'economia che distrugge l'umano. Il linguaggio è così compenetrato di una tale fatalità da paralizzare subito ogni fondamentale rimessa in discussione del sistema mercantile. Più lascerete che il linguaggio della volontà di potenza blocchi l'impulso alla vita nella corazza muscolare, più vi distruggerete nel flusso di emozioni negative, più subirete l'usura spregevole dello scambio che emana da ogni incontro. Parlate di un film, di un amico, di una avventura, di un avversario, di una futilità? Non sono che constatazioni di elogio o di svalutazione nati dalle vostre rinunce; compensazioni ambiziose o mortificate cercano di riempire bene o male il vaso rotto delle vostre frustrazioni. A che pro fustigare i politicanti malati di virtù, i giornalisti bugiardi, le vedettes radicali dello spettacolo rivoluzionario? In lotta contro di essi con il loro stesso linguaggio, voi vi associate con loro nei fatti, una comune castrazione dei desideri vi unisce nel bene e nel male. A parlare per gli altri, mentre altri parlano per me, come non perdere il senso della vita a vantaggio del linguaggio che mi altera, come fare a tenere il filo dei desideri nel groviglio inestricabile della loro inversione? Le chiacchiere pedagogiche che cullano l'infanzia salmodiano la lezione delle tenebre e del terrore.
I racconti di morte, di malattie, di incidenti, di cataclismi, di miseria quotidiana danno il tono su cui si modulano gli appelli alla rivolta e gli inviti alla rassegnazione, la colpevolezza e i suoi esorcismi. Il terrorismo del linguaggio familiare regna sulla vita intera. Questa peste delle emozioni, questo mormorio patetico, questa ironia congelata che ossessiona i discorsi, le frasi dette a tavola, le dispute, le rotture e le riconciliazioni, tutto questo linguaggio della testa dove la sessualità è investita in una mostruosa inversione ha,sotto la varietà delle sue intonazioni, dei gesti e delle espressioni, un solo significato: la castrazione iniziale. Ora, bisogna bene che il linguaggio che astrae l'individuo da sé stesso, lo appende per il collo, lo confronta, lo misura, lo scambia ad arbitrio della sintassi al potere, colpito dalla sua stessa miseria, sveli il suo di qua e il suo di là, la volontà di vivere che, unica, manca di un linguaggio riconosciuto. Questa funzione intellettuale che ci trascina per la testa, noi la stiamo spingendo verso le sue ultime difese, togliendole l'alibi della sua autocritica e piegandola davanti alle porte dell'indicibile per farle gridare « chi vive? ». E' da questo grido che verrà la sua distruzione. Chi vuole veramente essere innamorato di sé in un mondo innamorato di lui perde a poco a poco la sua esistenza intellettuale, non esiste più niente nell'ordine del linguaggio, perché godendo, egli cessa di lavorare. Una persona gelosa, autoritaria, avara può ben capire e rimproverarsi questi odiosi atteggiamenti, tuttavia, non cambierà, ma vi si attaccherà attraverso i tormenti masochisti della cattiva coscienza e l'astuzia sadica della menzogna. Quando l'autoanalisi gli riveli, sotto l'angoscia e le voluttà che prova, i piaceri della vita che lì si nascondono rovesciati, eccolo giunto al rovesciamento di prospettiva. Qui si arresta l'autodistruzione della funzione intellettuale, qui si arresta il Libro dei piaceri. Qui, ciascuno è libero di accontentarsi della sua preveggenza e morirne, o di accordare all'impulso dei suoi desideri l'energia abitualmente usata a vessarli. L'ultima pratica dell'intellettualità è d'indicare quello che non può raggiungere, la vita intorno alla quale essa si stringe e che nondimeno la distruggerà.


3 - La storia sul punto di rovesciarsi passa per il punto di rovesciamento della storia individuale.

La funzione intellettuale è l'intelligenza strappata ai piaceri della vita e rivoltata contro di essi.
Dietro i vostri discorsi e i vostri gesticolamenti sta seduta la vita che ride di tanto sforzo. Mentre la voce declama e i muscoli ne puntualizzano gli effetti, i desideri repressi si vendicano, come un auditorio che s'accorga improvvisamente di essere preso in giro. Il viso che arrossisce è la parodia dell'erezione, le dita che girano e rigirano l'anello dicono che un piccolo abbraccio vale più di un grande proposito, i piedi s'incrociano e si sciolgono approvando la suggestione delle dita, mentre il ventre mescola ironici gorgoglii alle urla della volontà di potenza.
Ascoltate, di un interlocutore, anche l'eco lontana che parla contro di lui. Il mondo dell'apparenza è un teatro di nevrosi, le labbra atteggiate al disprezzo, i tics del prestigio, il portamento del corpo, l'occhio autoritario, i tratti induriti, la voce impostata, tante porte sbattute sui desideri della vita, tanti nodi scorsoi stretti attorno al godimento, tante future decompressioni in inchini di umiliazioni, apatia, stanchezza, rabbia autodistruttiva. Ridicole nebbie, non basterebbe un solo istante di vera felicità per dissiparvi?
Siamo andati così lontano nella disperazione che davanti a noi non abbiamo che la vita da risalire. Non sentite come i piaceri incominciano ad agitarsi sempre più frequentemente contro la dittatura del denaro e della testa? Da tempo la sessualità strizza l'occhio dietro i giochi di parole, le fantasie dello sguardo, le risonanze e le omofonie. Fiabe, paesaggi, segni e messaggi indescrivibili infilano le perle di un erotismo rimosso. Non c'è niente che non si accoppia e non si accarezzi, ma lo schermo della rimozione non lascia vedere che l'allusività lasciva del puritano, la miserabile salacia dell'amore frustrato. Mi piace pensare che un tempo l'intelligenza sia stata la mano e lo strumento dei desideri, la chiarezza del loro soddisfacimento confusamente ricercato. Sui sentieri della chiaroveggenza sensuale si sono sovrapposte, fino a cancellarli, le vie del commercio tracciate dal lavoro e dal profitto. La pratica istintiva e rozza delle prime età dell'uomo non ha forse subito con lo strumento prodotto dalla sua creatività, una evoluzione parallela, la trasformazione degli uomini in padroni e schiavi che va di pari passo con il recupero economico degli oggetti inventati nel gioco dei desideri? Così, si vede la famiglia castrare l'intelligenza sensibile del bambino per applicarla al lavoro, all'educazione, alla produzione. Rifletti!, dice lo specchio della volontà di potenza al bambino - sii ragionevole!, insegna la ragione economica.
Dove hai la testa?, chiede allarmato l'intelletto prendendo il controllo del corpo? Strappata alla sessualità globale, la chiarezza sensuale, che cresce con il risveglio dei primi desideri, passa al servizio dello scambio generalizzato, diventa l'intellettualità che reprime, dirige, capovolge le pulsioni della vita. Questa che voi definite intelligenza, questo prodotto misurabile, testabile e giudicato per il suo rendimento, a me pare solo rimozione delle passioni e allenamento alla produttività. La vera intelligenza, quella che nasce dall'autosoddisfazione dei desideri, se ne prende gioco. E se è davvero che ciascuno ha la stupidità delle rimozioni - perché non c'è altra stupidità - allora, l'intellettualità è davvero la stupidità dell'intelligenza sensibile, sensuale, sensitiva.

La supremazia del godimento innesca la fine del pensiero separato.
La funzione intellettuale lavora, l'intelligenza dei desideri crea. Non voglio altra lucidità che quella nata nella ricerca dei piaceri, affinandosi dalla spina alla rosa, coltivando l'esuberanza sessuale nell'ordine delle soddisfazioni senza numero. Che me ne importa dei vostri libri, delle vostre dispute sapienti, delle vostre arti e delle vostre decorazioni dello spirito? Che me ne importa della conoscenza, della curiosità, della scienza, della coscienza se non riescono a completare i miei godimenti, liberare le mie passioni, nutrire la mia volontà di vivere. Ogni volta che dei gruppi si sono formati non sulla realizzazione e l'armonia dei desideri individuali, ma su uno stesso modo di pensare, la società mercantile non ha dovuto alzare neanche un dito per recuperare quello che vi si elaborava. Per quanto a loro agio si trovino in tutte le teste, le idee sono sempre nell'orbita del potere, e tutte si portano appresso la loro putrescenza finché ignorano che solo il godimento può distruggerle attraverso il loro superamento.
La funzione intellettuale deperisce ormai per ipertrofia. Nell'estrema astrazione che si è impadronita dei desideri, il punto di rovesciamento è raggiunto nell'istante in cui comincio a desiderare di non possedere altro linguaggio che non abbia lo stesso sapore del godimento, come accade per certi vini che si odorano e si commentano ancor prima di gustarli. Io voglio, invertendo l'ordine delle priorità, soggiogare il lavoro del pensiero a quello che per lungo tempo esso ha considerato futilità, piccole cose. Un sogno, un ricordo fuggente, un'impressione, una gioia fugace, una carezza piena di emozione, ecco cosa voglio cogliere in tutta la loro lucida trasparenza. Continuo a rimanere bene al centro della mia storia individuale, e ho coscienza di preparare l'eliminazione, oggi storicamente possibile, dello Stato e del suo pensiero separato onnipresente. Esiste un'alchimia da cui ciascuno si sente misteriosamente attratto, e che la scienza ha nascosto sotto i suoi imperativi. Essa cerca una irradiazione irriducibile alle radiazioni mortifere della merce, l'irradiazione della vita. Come intendere ragione quando il piacere è là? L'antenna dei desideri non capta che ciò che vuole ardentemente. La volontà di godere di tutto mi appassiona troppo perché mi possano fermare le parole che tentano di fissarmi, definirmi, giudicarmi, farmi più grande o più piccolo a seconda della illuminazione variabile del potere dominante e dei suoi poteri di ricambio.
Chi va per la sua strada in cerca di tutte le soddisfazioni senza prezzo impara presto ad evitare le trappole, e si libera senza fatica di questi «tu devi », « tu non puoi » che ci feriscono tutti i giorni in mille tagli velenosi. Quello che porta avanti un simile gioco non è il volontarismo del rifiuto, ma la sensibilità epidermica del « io voglio », « amo », « mi piace », « non mi piace », « ho una gran voglia », la musica della profusione dell'io, la pulsione a voler vivere, il turbinio dei desideri dove son trascinate le parole vuote, la misura, il giudizio, il confronto, la svalutazione, lo scambio.
Le rare società dove sussiste un primitivismo della merce hanno conservato una impronta più vivace dell'intelligenza sessuale. Succede che le mani guariscano, che uno sguardo incanti, che una parola sussurrata oltrepassi i fiumi, che un desiderio rovesci leggi ritenute immutabili, che dei segni riescano ad ammaliare piante e animali. Chi parla di poteri sovrannaturali? Si tratta solo di un incontro con la natura, ma un incontro che la « seduce » senza ridurla, come fanno le mentalità industriali, ad oggetto di lavoro. Il corpo civilizzato agonizza in una galvanizzazione che lo riduce a una fabbrica di muscoli, nervi, sforzi, sport, rendimento, di asetticità, di estetica, di vergogna, tortura, nevrosi, di esperienza sado-medica. Tuttavia, il suo doppio linguaggio non smette mai di diffondere i messaggi contraddittori della vita e della morte. Sotto il peso dell'angoscia, della paura, della repressione, la gabbia toracica si rinchiude, e il cuore, che è il suo uccello, si dibatte contro le sbarre e cessa di fremere. Al contrario, nel respiro della felicità, nello slancio della passione, il cuore dispone di tutto il corpo per spassarsela e il suo battito risuona dappertutto. Il cuore imprigionato è auscultato, appartiene al medico. Il cuore appassionato riempie lo spazio vissuto ed echeggia come l'organo di una fantasia che si moltiplica in una eco. Così sarà di tutti gli organi del corpo. Sappiamo che la mano che lenisce un dolore, crea, carezza, gioca, incita a godere vincerà presto la mano ridotta alla merce che manipola; che l'intelligenza cesserà d'identificarsi alla funzione intellettuale. Se è vero che il cervello lavora a un terzo delle sue capacità,non è proprio perché lavora,perché è stato tagliato da corpo e irregimentato nella testa? Lasciate che si pieghi all'avanzata dei piaceri e si unisca all'impulso sessuale,e avrete la sensazione che stiamo cercando l'intelligenza superiore della nostra animalità.


4 - La fine dello Stato e la fine dell'intellettualità sono inseparabili.
L'intelligenza sensuale creerà la società senza classi.

Come potremo eliminare i capi se non ci sbarazziamo della funzione intellettuale, se non scacciamo il rappresentante permanente del lavoro che si muove nella testa di ciascuno? Il rifiuto che non proviene dalla volontà di vivere è un nuovo rifiuto di vivere. Abbiamo troppo a lungo preso gli uomini e le cose dalla parte sbagliata, cioè proprio nella direzione in cui abitualmente ci aspetta o per colpirci, per ammazzarci. Solo il vivo mi appassiona, non l'astrazione che lo uccide.
Il rovesciamento di prospettiva improvvisamente rivela all'incontro dei miei desideri il grazioso movimento di una piccola pietra, di un viso, di un'atmosfera, di un paesaggio, di un libro, di una sonata o di una salsa sbattuta. Perché continuare a trattare sotto forme disincarnate, ostili, indifferenti, un mondo che il fascino dei godimenti possibili ha il privilegio di liberare dalle tare della merce? Contro la produttività delle cose e delle persone, contro la falsa gratuità contemplativa che ne è il completamento, lentamente la prospettiva del potere ha obliato nel cuore delle pietre, degli alberi e degli uomini. Nel suo irrompere imprevisto spariranno l'economia e gli Stati, mentre emergerà la società dove la ricchezza tecnica è al servizio della ricchezza dei desideri individuali. Questa è la lotta collettiva che la merce e i suoi storpi si rifiutano di veder montare contro di loro.
La nuova sensibilità annuncia un mondo nuovo. L'intelligenza sensuale dà forma alla fine definitiva del lavoro e delle sue separazioni. La vera spontaneità è propria solo dei desideri alla ricerca dell'emancipazione. Essa dissolverà l'incubo millenario dell'economia, la civilizzazione mercantile con le sue banche, le sue prigioni, caserme, fabbriche, la sua noia mortale. Presto costruiremo le nostre case, le nostre strade riscaldate, i nostri percorsi labirintici in una natura riconciliata con la mano dell'uomo. Avremo delle regioni fetali, dei posti d'avventura, dimore ispirate e fluttuanti, altri tempi, dove l'età non avrà più senso e il reale non avrà limiti. Inventeremo dei microclimi varianti secondo gli umori, e dimenticheremo l'epoca in cui, la burocrazia scientifica, perfezionando le armi della distruzione meteorologica, ci trattava da utopisti. Perché la spontaneità ha l'innocenza di cancellare questo passato terribilmente presente dove niente di ciò che uccide è impossibile, e dove tutto ciò che incita a vivere è tacciato di follia.

Tratto da " il libro dei piaceri" di Raoul Vaneigem

giovedì 27 settembre 2012

GLI ANARCHICI FANNO IL GIUOCO DELLA BORGHESIA


Era il 1904 con l'infamia e la calunnia  i marxisti denigravano gli anarchici, da li a poco quelle stesse pratiche furono adottate anche dagli anarchici comunisti ... Ma questa è un altra storia  



GLI ANARCHICI FANNO IL GIUOCO DELLA BORGHESIA

Chi oserebbe ancora dubitarne? Da Carlo Marx a Guglielmo Liebknecht i quali al congresso di Basilea (Settembre 1869) disseminavano con velenosa insinuazione tra i delegati dell'Internazionale che Michele Bakounine era un agente del governo russo (1), giù, giù, fino a Giorgio Plechanow il fornitore delle forche imperiali, giù fino a Gabriele Deville ve
nduto alla pagnotta, giù fino a Camillo Prampolini denunziatore di Vittorio Pini, giù fino all'ultimo scagnozzo dell'ultima sinagoga legalitaria non v'è socialista che si rispetti e voti il quale, abbandonato sugli scalini dell'Olimpo o lasciato a mezza via della sua corsa alla cuccagna, non abbia vomitato e non vomiti che gli anarchici sono fratelli siamesi dei capitalisti (2), che fanno il giuoco della borghesia (3), che servono la causa della reazione (4); che l'ideale anarchico spuntato sulla groppa del manchesterianismo borghese (5), concorda completamente colle tendenze della società capitalistica (6), e chi più ne ha più ne metta.
Gli anarchici fanno il giuoco della borghesia: chi oserebbe ancora dubitarne dopoché l'hanno detto Marx e Liebknecht, Plechanow e Deville, Turati e Prampolini? 
La storia, veramente, anche quella scritta .. . un dì da Filippo Turati non ancora onorevole né riformista dell'ordine giolittiano, insinua che Michele Bakounine condannato a morte dopo la rivoluzione di Dresda imprigionato per sette anni nella fortezza di S. Pietro e Paolo, poi deportato in Siberia e spogliato di tutti i suoi beni, poi evaso e rituffato nell'immane corrente dell'Internazionale, travolto dai moti lionesi del 1870 e nel lentativo insurrezionale di Bologna (1874) non visse che nell'azione, non servì che all' azione, ignorando il lusso e le convenienze pigmee della vita in assoluta abnegazione dell'io e lo saluta maestro tra i socialisti sperimentali e positive (7).
Ma che monta! Turati è rinsavito e non riscriverà l'apologia di Bakounine, un pecca to giovanile: la storia sonnecchia negli scaffali polverosi sacra all'oblio e alla sordina, Marx trionfa e sui sacrileghi che osino ribellarsi alla parola del profeta: anathema sit!
Bakounine è una spia.
La storia recente, quella di avant'ieri, quella di tutti i giorni registra insurrezioni e rivolte periodiche di ventri vuoti e di spiriti liberi sulle cui fronti è passato sobillatore il soffio dei tempi nuovi.
Gli anarchici in prima fila, alle barricate d'avamposto propizino alle primavere sacre della redenzione colle loro giovinezze più pure, col loro sangue migliore, lasciandovi, come a Xerres, sotto la stretta oscena cella garro ta la pelle, lasciando come a Montjuich od a Santo Stefano, tra i tormenti, la carne e il cervello, la ragione e la vita, senza invocare le palme del martirio paghi d'aver dato alla lotta terribile che s'accende ogni giorno più spietata tra sfruttati e sfruttatori, tra oppressi e oppressori, tra proletari e borghesi più che la chiacchera astuta e vischiosa, più che l'intrigo e la viltà.
Che monta? "Gli anarchici sono i fratelli siamesi dei capitalisti", l'ha detto Prampolini e sui sacrileghi che osino ribellarsi alla parola del profeta: anathema sit! Allargo, apollaiati sui gradi alti del Circo, girando l'occhio lenone ed il sorriso lusingatore sui vincitori, sui carnefici, sui beccai, trinciando le scomuniche rumorose ed invereconde sulle vittime e l'anatema salariato sugli impulsivi, sui degenerati sui delinquenti della piazza e sui morenti nell'arena, è tutto lo sciame dei furbi pronti a rovesciare sui confessori della loro fede l'abiura cinica, la distinzione alfonsina, la bava degli esorcismi astuti e dei vituperi studiati, pronti a stringere al boia, lì, sui morti insepolti, la destra caina, pronti a stringere sul collo dei vinti superstiti il cilicio delle leggi d'eccezione, delle deportazioni in blocco, dei secoli di galera che faccian tabula rasa degl'indocili i quali sono all'ordine pubblico ed alla circoscrizione elettorale un'insidia e una minaccia perpetua.
Prampolini e Ferri danno alle leggi eccezionali del Crispi il benvenuto; Millerand abbracciando Gallifet ribadisce della sua sanzione socialista le leggi scellerate, Wandervelde vende agli accaparratori i minatori del Belgio, Turati rifiuta a Bresci il suo patrocinio d'avvocato e guaisce sulla tomba d'Umberto l'epicedio servile e copre della sua giornea socialista le prevaricazioni giolittiane, e Gabriele Deville recita in marsina alla regina d'Italia i suoi madrigali cortigiani mentre Paolo Iglesias e Garcia Queiido fanno intorno agli scioperanti catalani il vuoto, il digiuno e l'abbandono. 
Che monta? gli anarchici sono fratelli siamesi dei capitalisti, fanno il giuoco della reazione, servono la causa della borghesia. L'han detto Plechanow e Denville, Prampolini e Turati e sui sacrileghi che osino ribellarsi alla parola dei profeti: anathema sit!
Ebbene no! Per una volta tanto se non ci cantano l'osanna ci commiserano.
A Reggio Emilia "l'Associazione del bene economico," un covo di bottegai, di negrieri, di strozzini, di uccellacci di rapina in lotta, per la conquista del Comune, colle Sezioni del partito socialista avrebbero visto con piacere che gli anarchici attivassero la loro propaganda antielettorale contro i socialisti emiliani, lasciando anzi capire che avrebbero ave d'uopo favorito dai congrui mezzi finanziari una turneé del Gori nel Collegio.
I compagni nostri, che non vanno a scuola di sincerità politica né dal Prampolini né dal Turati, respinta sdegnosamente l'oscena proposta hanno pubblicato un manifesto in cui inchiodano alla gogna i forcaioli turpi del Bene Economico e pur rivendicando intera la loro attitudine di "astensionisti in modo assoluto di qualsiasi elezione che miri alla conquista dei pubblici poteri" hanno scritto al compagno Gori di guardarsi dai tiri ruffiani degli armeggioni e di mettere in quarantena qualsiasi invito potesse eventualmente provenirgli dal collegio di Reggio Emilia.
L'attegiamento franco e sincero dei compagni nostri di Reggio Emilia è superiore ad ogni encomio e noi li felicitiamo di gran cuore: la sua serena obbiettività che non si ispira alle mutabili opportunità dell'ora ma trae la sua forza da maturità e convinzioni e di coscienza non toglie però che nel momento presente torni a scorno delle coalizioni borghesi a vantaggio della Sezioni socialiste del Reggiano a favore delle quali sposta simpatie feconde e fatalmente efficaci.
Onde è che per una volta tanto i corrispondenti prampoliniani dell'Avanti! illustrando la protesta dei nostri compagni di Reggio trovano che invece di essere i fratelli siamesi dei capitalisti noi ne siamo le vittime!
Per una volta tanto! Ma è facile da questo primo esperimento sondare la moralità, la sincerità e l'onestà della critica che il socialismo pinzochel'o muove contro l'anarchismo rivoluzionario. Noi, i fratelli siamesi dei capitalisti, saremmo ottimi figlioli, santi da incastonare per le nicchie delle sacrestie socialiste se volessimo di quanto in quanto comprendere che è nell'interesse della civiltà e della rivoluzione conservare la diocesi e il pastorale a sua eminenza Camillo Prampolini, la parrocchia, la prebenda e le decime ai suoi abati e parroci e scagnozzi e sacrestani e ... andassimo per la sua maggior gloria a votare.
Ma noi vogliamo fare da noi e poiché (senza curarci di approfondire se, contro la nostra volontà, l'attegiamento nostro possa tornare a loro di vantaggio o di danno) persistiamo nella fede e nell'azione che meglio risponde alle nostre aspirazionii emancipatrici, i cugini ripeteranno domani , pur sapendo di servire soltanto alla menzogna, all'infamia ed alla questura, che noi serviamo la reazione, facciamo il giuoco della borghesia e siamo fratelli siamesi dei capitalisti,
Ma la maschera vi va giù, il tempo le toglie l'intonaco di biacca e di carmino, la prima raffica ve la strapperà dal ceffo osceno, gesuiti!
G. Pimpino


1) Memorie de la Federation ]urassienne; pago 84 e 242. Sonvillier, 1873.
2) L'insurrezione e il Partito Socialista; pago 11. Milano, 1899.
3) L'anarchismo; pago 16. Altamura, 1899.
4) Anarchismo e socialismo; pago 92. Milano, 1895.
5) Id. pago 80.
6) Id. pago 75.
7) Filippo Turati nello Sperimentali di Brescia, gennaio-febbraio 1887.
Da Cronaca Sovversiva, a. Il, n. 29, 16 Luglio 1904, p. 1.