Etienne De La Boétie.
DISCORSO SULLA SERVITU' VOLONTARIA.
INTRODUZIONE.
1. L'opera nella storia
delle sue interpretazioni: pamphlet politico o esercitazione retorica?
Il
"Discorso sulla servitù volontaria" è una di quelle opere dallo
strano destino: ignorata per lunghi periodi improvvisamente riesce ad accendere
non solo dispute fra storici ma anche passioni politiche, per poi ricadere
nell'ombra della dimenticanza. Ogni epoca se n'è così appropriata
l'interpretazione autentica o la lettura più acuta portandola all'interno delle
misure usate per giudicare le lotte del momento. Non si tratta qui dell'ovvia
constatazione che ogni rilettura o riscoperta è legata all'interesse
fondamentale di colui che muove alla ricerca del significato di una determinata
scrittura: ogni testo in una certa misura acquista rilievo all'interno di una
precomprensione, di un pre-testo che ne costituisce l'orizzonte. Il fatto è che
molte volte laddove il problema posto non si chiude in una soluzione ma viene
lasciato come interrogativo, come questione fondamentale aperta (ed è appunto
il caso del "Discorso"), il lettore non riesce a sopportare questo
stato di sospensione e riduce il testo ad un pretesto, senza alcun rispetto per
l'origine e la struttura interna che dà coerenza allo scritto. Nel caso del
"Discorso sulla servitù volontaria" inoltre questo gioco di reinterpretazioni
si complica per il fatto che vi è incertezza già sull'origine e sulla struttura
dell'opera: essa ci appare trasversalmente, emergente in testi di altra natura,
quasi fosse stata trafugata di nascosto oppure inventata per l'occasione ma in
modo da rimandare ad un'aura di mistero (1).
La
figura dominante in tutta la vicenda non è l'autore, Etienne De La Boétie, ma
il suo grande amico, Michel De Montaigne. Prima di morire La Boétie affida a
Montaigne tutti i suoi scritti che vengono poi pubblicati nel 1571, comprese
alcune traduzioni di testi classici compiute dall'autore e alcune sue poesie. Non
compare però il "Discorso sulla servitù volontaria"; Montaigne pensa
di dare rilievo a questo scritto inserendolo come pezzo centrale nei suoi
"Essais". Ma allorché nel 1580 appaiono i primi due libri degli "Essais"
al posto del "Discorso" troviamo ventinove sonetti dell'amico, che
rimarranno ancora nell'edizione definitiva del 1588. Era successo infatti quel
che oggi chiameremmo un tipico caso di pirateria editoriale: il testo inedito
era venuto in mano ad alcuni ugonotti che nella loro feroce polemica contro la
monarchia francese non esitarono ad inserire alcune parti del
"Discorso", dove si descrive lo strapotere del tiranno e la condizione
miserevole dei sudditi, in un loro pamphlet anonimo: "Le Reveille-matin
des François et des leurs voisins", fatto circolare nel 1574. Due anni più
tardi il testo integrale veniva pubblicato in "Mesmoires des Estats"
de France sous Charles le Neuviesme con il titolo "Contr'un",
all'interno di una raccolta di vari scritti anti-monarchici a cura del
calvinista ginevrino Goulard.
Il
destino dell'opera di La Boétie è ormai segnato: il "Discorso"
diventa uno dei tanti pamphlets politici d'ispirazione anti-monarchica e
«democratica» ante-litteram del Cinquecento francese. Pubblicato negli anni che
vedono l'acuirsi delle guerre di religione in Francia dopo il massacro degli
ugonotti nella notte di S. Bartolomeo, il "Contr'un" viene letto come
un trattato filosofico-giuridico in cui si teorizza la giusta resistenza al re.
Allo stesso modo alcuni anni più tardi, quando la fazione ugonotta dei nobili
capeggiata da Enrico di Borbone riesce ad impossessarsi della monarchia, il
libretto di La Boétie può essere usato dai cattolici della Lega santa nella
loro lotta contro il re ed è certamente presente ai vari giuristi che dopo l'assassinio
di Enrico Terzo sostengono il diritto di uccidere il sovrano che si è messo
contro Dio. E del resto non è proprio nella Lega cattolica che il movimento
popolare dei contadini in Francia, sul finire del sedicesimo secolo, pone le
sue speranze di cambiamento e la sua volontà di ribellione? (2) Così La Boétie può
diventare il teorico delle prime rivoluzioni contro lo Stato nell'era moderna,
bloccate tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento per l'intervento
del dispotismo e dell'assolutismo della monarchia, ma riemerse nel 1789: La
Boétie insomma come uno dei primi avvocati della causa del popolo, eroico antesignano
della rivoluzione francese (3). Ed è proprio in questi anni, dopo due secoli di
dimenticanza, che riaffiora il "Contr'un", posto in appendice a
scritti polemici contro la monarchia o preso come modello letterario e fonte
d'ispirazione per esortazioni rivoluzionarie: è il caso dello scritto di Marat,
"Chaînes de l'esclavage", che pone a tema la servitù volontaria.
Nelle grandi occasioni rivoluzionarie lo scritto di La Boétie fa la sua
ricomparsa: non sfugge all'attenzione dei primi comunisti che all'inizio
dell'Ottocento si rifanno alla esperienza di Babeuf. Uno di questi, Charles
Teste, amico di Buonarroti, trascrive il "Discorso" nei termini della
politica militante del momento. Ma è soprattutto Félicité De La Mennais che
scrivendone la prefazione nel 1835 esalta con grande passione quest'opera
dimenticata, tutta pervasa da quei sentimenti di giustizia, di amicizia, di
libertà che sono propri del cristianesimo autentico e dello spirito
rivoluzionario (4). Il socialismo cristiano francese, quello che solitamente
viene chiamato utopistico, fa di La Boétie uno dei suoi diretti antecedenti,
così come avverrà all'inizio di questo secolo anche da parte di quella lucida intelligenza
anarchica rappresentata da Landauer (5): in quest'ultimo caso però val forse la
pena di osservare che accanto all'ormai usuale tentativo di porre La Boétie
nella galleria degli antenati della rivoluzione, precursore di Stirner,
Proudhon, Bakunin e Tolstoj, appare anche una considerazione più attenta del "Discorso"
che lo sottrae al filone tradizionale dei pamphlets democratici per coglierne
invece la profondità di pensiero che rimanda a questioni ancora irrisolte. In
un certo senso si potrebbe dire che la letteratura fatta da Landauer segna il
punto d'arrivo di tutte le varie interpretazioni in chiave rivoluzionaria:
l'opera in questione inizia ad apparire come «il microcosmo della rivoluzione»
e nello stesso tempo come l'intuizione che per un progresso totale e duraturo
degli uomini che vogliano giungere al superamento delle istituzioni è necessario
qualcosa d'altro dalla rivoluzione, qualcosa di radicalmente diverso. Ed è
forse per questa intuizione, riscoperta da Landauer, che qui si chiude la
storia delle letture rivoluzionarie del "Contr'un". Dopo Landauer e
il fallimento dell'ultimo grande periodo rivoluzionario della nostra storia,
che va sotto il nome di biennio rosso, La Boétie cade ancora nell'oblio: le
perfette ideologie rivoluzionarie del secolo ventesimo così come le raffinate
tecniche del potere non possono sopportare le questioni sconcertanti che vengono
esposte in questo libretto.
Quasi
prevedendo quale sarebbe stato il destino dell'opera dell'amico, Montaigne
prende sdegnosamente le distanze dall'uso politico del "Contr'un" ed
esclude decisamente che rientrasse nell'intenzione dell'autore qualsiasi
attacco al potere costituito. A La Boétie Montaigne ha dedicato le famose
pagine sull'"Amitié", dove la figura e l'opera dell'amico vengono
magnificamente esaltate: « E' un discorso che egli chiamò "La Servitude
volontaire"; ma quelli che non l'hanno conosciuto, l'hanno in seguito
assai propriamente ribattezzato "Le Contr'un". Lo scrisse a mo' di
saggio, nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni.
Da tempo va per le mani delle persone d'ingegno, raccomandandosi per i suoi
grandi meriti: perché è fine e succoso quant'è possibile. E tuttavia si deve
ben dire che non sia il meglio che egli avrebbe potuto fare; e se all'età in
cui l'ho conosciuto, più maturo, si fosse proposto un disegno simile al mio, di
metter cioè per iscritto i suoi pensieri, vedremmo parecchie cose di raro
pregio... Ma di lui non è rimasto che quel discorso, e anche questo per caso, e
credo che egli non l'abbia più visto dopo che gli sfuggì dalla penna» (6). Come
si vede Montaigne, senza sminuire le doti dell'amico, anzi allo scopo di elogiarle
ancora di più, tende a limitare il significato del "Discorso",
scritto a suo dire in modo occasionale e frettoloso. L'intenzione del grande
umanista diventa chiara in un passo più avanti che merita di essere riportato
per intero: «Poiché ho visto che quest'opera è stata poi pubblicata e a cattivo
fine da quelli che cercano di turbare e cambiare il nostro regime di governo
senza preoccuparsi di sapere se lo miglioreranno, e che l'hanno mescolata ad
altra farina del loro sacco, recedo dal mio proposito di metterla qui. E
affinché la memoria dell'autore non abbia a soffrirne presso quelli che non hanno
potuto conoscere da vicino le sue opinioni e le sue azioni, li avverto che
questo argomento fu da lui trattato quando era ragazzo, a mo' di esercitazione
soltanto, come argomento volgare, fritto e rifritto mille volte nei libri. Non
metto in dubbio che credesse in quello che scriveva, poiché era abbastanza
coscienzioso da non mentire nemmeno per gioco. E so inoltre che se avesse
dovuto scegliere avrebbe preferito esser nato a Venezia anziché a Sarlat; e a ragione.
Ma aveva un'altra massima sovranamente scolpita nella sua anima, cioè di
obbedire e sottomettersi molto scrupolosamente alle leggi sotto le quali era
nato. Non ci fu mai cittadino migliore, né più attaccato alla tranquillità del
suo paese, né più nemico degli sconvolgimenti e delle innovazioni del suo
tempo; egli si sarebbe servito delle proprie capacità piuttosto per estinguerli
che per fornir materiale di che maggiormente fomentarli. Aveva lo spirito
forgiato sul modello di altri secoli, e non di questo» (7).
Dunque
Montaigne, pur riconoscendo l'aspirazione sincera alla libertà del suo amico
(l'accenno a Venezia è quanto mai significativo), precisa subito che lo scritto
in questione non può essere usato contro la monarchia, dato che il suo autore
più ti ogni altro era contrario a mutamenti e rivoluzioni. In definitiva il "Discorso"
non sarebbe altro che una esercitazione retorica, scritta da La Boétie negli
anni della sua prima giovinezza: non già dunque il frutto di un'osservazione
attenta e matura delle tendenze della società moderna, ma una composizione
tipicamente scolastica che non sa prender spunto se non dai classici del mondo
antico.
A
questo punto l'opera di La Boétie ha tutte le caratteristiche per trasformarsi
in argomento di una grande "quérelle" storico-letteraria: da un lato
vi è chi, sulla linea che si presume sia quella di Montaigne, considera il
"Contr'un" «un capolavoro del secondo anno di retorica... uno di quei
mille classici delitti compiuti uscendo dalla tutela di Tito Livio o di
Plutarco, prima di conoscere il mondo moderno o di aver approfondito la
conoscenza della società antica» (8), Dall'altro lato si accusa Montaigne di
aver approfittato dell'amicizia che lo legava a La Boétie per censurarne
l'opera, riducendo il suo significato politico nell'orizzonte di una pura e semplice
esercitazione formale. Non sarebbe del resto né la prima né l'ultima volta che
un'amicizia fra grandi personaggi nasconda profonde divergenze e forse anche
rivalità: l'amico si trasforma così in unico autorevole interprete dell'opera e
della vita del proprio compagno, appiattendo le differenze su uno schema di
comodo. Ci troveremmo così di fronte a un La Boétie sinceramente democratico e
appassionato ad un'opera di costruzione politica, manipolato e sopraffatto
dalla figura del grande umanista francese, profondamente deluso dall'impegno
politico, scettico osservatore delle miserie degli uomini, «padre dell'egoismo
borghese e conservatore».
A
questa tesi, divenuta ormai classica tanto è stata sostenuta da quasi tutti gli
autori citati in precedenza, non mancano peraltro punti di appoggio: un'attenta
critica interna del testo è ormai giunta a contestare in modo deciso la data di
composizione proposta da Montaigne. Lo scritto infatti contiene allusioni alle poesie
di Ronsard e Du Bellay, sconosciute prima del 1551 o 1552. D'altro canto
Montaigne dimostra una grande incertezza nell'attribuzione della data: l'unica
sua insistenza è sulla giovane età dell'autore, diciotto anni (cioè nel 1548)
secondo la prima edizione degli "Essais", sedici nella seconda
edizione. Appare insomma la tendenza ad anticipare al massimo la data di
composizione, come in uno sforzo di collocare il "Discorso" il più
lontano possibile dagli avvenimenti politici dell'epoca. Detto tutto questo non
è facile comunque andare oltre nelle illazioni. Nonostante le poche notizie che
si hanno della vita di La Boétie un dato appare evidente: il giovane amico di
Montaigne, nato a Sarlat nella Francia sud-occidentale, dopo aver compiuto gli
studi umanistici si diede alla carriera giuridica diventando a 23 anni
consigliere al parlamento di Bordeaux, molto stimato per la sua competenza e
incaricato più volte di compiere delicate missioni come uomo di fiducia della
monarchia, nel tentativo di reprimere le prime ribellioni ugonotte all'inizio degli
anni '60. Di fede cattolica, morì probabilmente di peste nel 1563, assistito
dall'amico Montaigne. La sua lealtà al re non è dunque in discussione:
impossibile quindi mettere il "Discorso" sulla stessa linea dei pamphlets
protestanti che iniziano ad apparire contestualmente alle guerre di religione
in Francia. Alla fine ci si trova risospinti, nonostante alcune perplessità,
verso la posizione espressa da Montaigne.
2. Montaigne, La Boétie
e il Discorso sulla servitù volontaria: l'opera all'origine di un'amicizia.
Al di
là della rigida e sterile contrapposizione fra la tesi di coloro che vedono in
Montaigne il censore dell'amico e l'affermazione riduttiva di quanti giudicano
il "Discorso" una pura esercitazione retorica fuori dal tempo, si
impone il tentativo di una riconsiderazione dell'opera nel contesto
dell'amicizia fra i due personaggi in cui essa storicamente ci si presenta.
A
nostro avviso occorre rovesciare la prospettiva con la quale finora si è
guardato a questa amicizia: se infatti si assume come punto di riferimento
privilegiato la concezione, per altro stereotipata, di un Montaigne campione di
lealismo monarchico, non c'è via di scelta: la figura di La Boétie diventa complessivamente
omologa a questo atteggiamento oppure ne viene a costituire la perfetta
antitesi. Nel primo caso è fatta salva la coerenza del monarchico La Boétie, ma
il suo scritto perde ogni rilevanza; nel secondo il "Contr'un"
acquista una carica immediatamente politica ma bisogna poi saper spiegare la «doppiezza»
dell'autore e le presunte falsità della testimonianza di Montaigne.
Perché
invece non rileggere la storia di questa amicizia "a partire
dall'opera" di La Boétie, dalle prospettive che essa apre, dall'impatto
che ha generato in Montaigne, il quale afferma di aver conosciuto e stimato l'amico
tramite la lettura di questo libretto? (10). L'incontro con La Boétie dovette
costituire un avvenimento eccezionale per Montaigne: quel che a prima vista
poteva sembrare un semplice rapporto cordiale fra due magistrati e membri dello
stesso parlamento di Bordeaux divenne ben presto un'amicizia profonda che diede
una svolta alla vita di Montaigne, se nella lettera al padre, nella quale
racconta la morte dell'amico, parla con accento commosso del bene fraterno che
li univa, (11) e nel brano sulla "Amitié" a cui si è fatto già cenno
giunge ad affermare: «Da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente;
e perfino i piaceri che mi si offrono, invece di consolarmi, mi raddoppiano il
dolore della sua perdita... Se confronto la mia vita, tutta quanta, ai quattro
anni in cui mi è stato dato di godere della dolce compagnia e familiarità di
quell'uomo, essa non è che fumo, non è che una notte oscura e noiosa» (12), Fu probabilmente
proprio La Boétie a comunicare a Montaigne, attraverso la comune passione per
la classicità greca e romana, una viva sensibilità per i problemi morali che
formarono poi oggetto degli "Essais", scritti
in un
volontario esilio dal mondo alcuni anni dopo la morte dell'amico. E' stata
quindi la lettura del "Discorso" che ha spinto Montaigne a conoscere
l'autore, così come fu la stessa passione umanistica per l'antichità che li
legò in amicizia. In questo orizzonte allora si chiarisce l'intenzione di
Montaigne di mettere al centro del primo libro dei suoi "Essais"
l'opera dell'amico, che avrebbe dovuto costituire «il quadro ricco, infinito,
composto a regola d'arte a cui tutto il resto fa da contorno» (13). Per dirla
con le parole di uno dei più grandi commentatori di Montaigne: «il primo libro
degli "Essais" tra le altre cose doveva essere un monumento a La
Boétie» (14).
Vi è
infatti un legame molto stretto fra l'ispirazione a cui sono riconducibili gli
"Essais" e il significato globale del "Discorso sulla servitù
volontaria": in ambedue i casi l'oggetto d'indagine è la natura dell'uomo,
nel tentativo di mettere in chiaro la sua originaria condizione di libertà e
nello stesso tempo il suo decadimento e la sua corruzione a causa
dell'ambiente, delle abitudini, delle tradizioni che progressivamente
allontanano l'uomo da quel primo stato. Mentre negli "Essais" tutto
questo si svolge all'interno di una ricca serie di annotazioni particolari e di
riflessioni introspettive, nell'attenzione alla realtà individuale, nel
"Discorso" domina un interrogativo inquietante: perché gli uomini,
fatti per essere liberi, rinunciano con tanta naturalezza alla loro libertà?
Montaigne, ripromettendosi di inserire al centro del suo saggio lo scritto di
La Boétie, dimostra di averne riconosciuto il tratto essenziale: l'appassionata
ricerca della libertà «un bene la cui perdita rende insopportabile la vita e
desiderabile la morte» (15). E' lo stesso desiderio che anima Montaigne e che
si traduce nella comune ammirazione per gli esempi eroici lasciatici dagli
antichi e nell'identico spirito di rivolta contro una società ritenuta fonte di
corruzione morale e intellettuale. E se la mitizzazione del mondo antico,
soprattutto della Grecia delle polis e della Roma repubblicana, è una
caratteristica comune a molti autori del Rinascimento, il secondo aspetto
rappresenta una connotazione interessante su cui val la pena di soffermarsi.
Allorché
si tratta di indicare in modo sintetico la causa della corruzione morale e
intellettuale operata dalla società sull'individuo Montaigne usa spesso il
termine "coustume". Il suo significato, difficilmente traducibile con
una sola parola, oscilla fra quello di consuetudine storico-tradizionale e
quello di abitudine psicologica: esso sta ad indicare un processo di
adattamento alla forma di società in cui l'uomo si trova inserito e che finisce
per determinarlo in molta parte dei suoi comportamenti. Il ruolo della
"coustume" è sottolineato molte volte negli "Essais" e dà
il titolo ad un capitolo del primo libro. Lo stesso termine acquista un valore
centrale nell'opera di La Boétie: nel tentativo di rispondere alla questione
del perché gli uomini rinunciano alla libertà e perseverano in questo stato,
l'autore risponde che «la consuetudine (coustume), la quale ha un grande
influsso sulle nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto nell'insegnarci
a servire... La prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché
nascono servi e sono allevati come tali» (16). Quel che vien messo sotto accusa
è dunque tutto quel complesso di meccanismi psicologici, intellettuali e
sociali che conducono il singolo individuo all'assuefazione nei confronti della
struttura di dominio che caratterizza la società. Questa denuncia dell'effetto
alienante della "coustume" diventerà il leit-motiv del pensiero del
primo Seicento: basti ricordare per tutti Cartesio che pone in netta antitesi
la conquista di una propria autonomia di giudizio e il bagaglio di nozioni e di
credenze che dominano la vita sociale. La società viene respinta perché
l'integrazione in essa porterebbe solo ad una corruzione etica e ad un
ottundimento intellettuale. La creazione di circoli culturali e scientifici, l'incontro
riservato fra umanisti eruditi nel Cinquecento e il moltiplicarsi nel secolo
seguente di «cenacoli» dove poter realizzare la propria umanità trae origine
dalla convinzione che «bisogna saper resistere all'aria contagiosa che si
respira nella conversazione degli uomini del nostro tempo» (17) E' a partire da
questo che si può comprendere il pessimismo antropologico di Montaigne: esso
costituisce una forma di difesa nei confronti della vita sociale, nella
convinzione che un suo cambiamento sia del tutto impossibile. Il disprezzo per
il popolo non esprime tanto un distacco altezzoso da una classe sociale quanto
piuttosto un rifiuto filosofico di un atteggiamento conformista e irrazionale.
A
dispetto di quanti han voluto trasformare La Boétie in uno dei primi avvocati
del popolo, anche il "Discorso sulla servitù volontaria" non si
discosta da questa impostazione: in esso non vi sono appelli al popolo perché
si liberi dal tiranno ma la constatazione dell'assurdità della condizione dei
sudditi, che vale molto di più di tutti gli inviti alla rivolta fatti nella
storia dai vari tribuni del popolo. Solo una volta, all'inizio del
"Discorso", La Boétie si lascia andare ad una serie di invettive che
si chiudono con una specie di esortazione a riprendersi la libertà. Ma non
sembra che egli nutra eccessive speranze in un sollevamento popolare, perché
subito dopo si corregge: «I medici dicono che è inutile tentare di guarire le
piaghe incurabili e in questo senso ho forse torto a voler dare consigli al
popolo che da molto tempo ha perso del tutto conoscenza riguardo al male che
l'affligge e proprio perché non lo sente più dimostra ormai che la sua malattia
è mortale» (18), La Boétie non propone alcuna ricetta per il cambiamento del
potere, non si fa partigiano di alcuna fazione; ciò che gli sta a cuore è la
presentazione in tutta la sua ampiezza e profondità di una situazione
paradossale pressoché inspiegabile nella sua radice, che ha talmente impregnato
di sé la vita sociale tramite la "coustume" da renderla condizione
ormai ovvia e normale della vita di ogni uomo: l'accettazione del dominio.
Il
"Discorso sulla servitù volontaria" a ben vedere è dunque più una
condanna dei servi che dei tiranni; o per meglio dire è la condanna di quanto
ognuno dei due, servo e tiranno, fa per il mantenimento dell'altro.
Non
dunque un pamphlet usabile dai militanti, ma una riflessione sull'uomo che ne
svela l'intrinseca radice di contradditorietà; più adatta a turbare che a dare
certezze, più invito a raccogliersi su se stessi che a mobilitare, più fonte di
meditazione che di rivoluzione. Un'opera di questo tipo ha più a che fare con
la ricchezza e la profondità delle osservazioni dei grandi moralisti che con le
invettive politiche dei monarcomachi o dei regalisti (19). Perché allora
l'amico Montaigne l'ha voluta minimizzare riducendola a pura esercitazione
retorica, contraddicendo la sua intenzione di porla come quadro centrale
all'interno del suo scritto e quasi rinnegando quella tensione etica che si
sprigiona dalle pagine del "Discorso"? E' difficile a prima vista
dare una spiegazione plausibile di questo strano atteggiamento. Ma se si
considera il fatto che questo scritto, che stava tanto a cuore a Montaigne, è
risultato improvvisamente stravolto nelle sue intenzioni e nel suo significato
globale a causa della pubblicazione ugonotta, è comprensibile il gesto di stizza
e di sdegno con il quale «ha liquidato» l'opera in questione. Il grande
umanista, intimamente distaccato dalle polemiche e dai contrasti politici della
sua epoca, non volle probabilmente scendere al livello dei suoi interlocutori
contrapponendo la propria interpretazione del "Contr'un" a quella
ugonotta. Vi era solo un modo perché il testo venisse sottratto ad ogni
interpretazione di parte: collocarlo il più lontano possibile nel cielo delle
dissertazioni retoriche.
In
definitiva il gesto di Montaigne ci appare non già come un tradimento o una
censura nei confronti dell'amico, ma come il tentativo di mettere al riparo il
"Discorso" dalle letture militanti messe in atto dalle varie fazioni
politiche (20). A queste persone ben si adatta quanto dice La Boétie: le loro
imprese «non furono altro che congiure di gente ambiziosa, la quale non deve
certo essere compianta per gli inconvenienti cui andò incontro, essendo a tutti
evidente che desideravano semplicemente far cadere una corona, non togliere il
re, cacciare sì il despota, ma tenere in vita la tirannide. Riguardo a costoro
sarei dispiaciuto se fossero riusciti nel loro scopo. (21).
3. Tra Machiavelli e
Montaigne.
L'impossibilità
di ridurre il "Discorso" all'interno delle categorie
politico-partitiche usate per leggere i
violenti
contrasti di potere all'inizio delle guerre di religione (22) non significa
peraltro che lo scritto di La Boétie debba essere considerato completamente
estraneo al travaglio di quell'epoca storica. Al contrario l'opera ci appare
come una delle espressioni più significative di quel momento di trapasso dagli
ideali civili del Rinascimento, secondo i quali l'individuo realizza la sua
pienezza in un rapporto equilibrato e solidale con la società, alla completa
dissoluzione di ogni etica civile, sia quella tradizionale d'impronta
medievale, sia quella abbozzata a tinte entusiastiche dai filosofi-artisti
dell'umanesimo.
In
Francia la guerra civile infatti non sconvolge semplicemente i cardini del
sistema politico-istituzionale preparando così un potere rigidamente
centralizzato e assolutistico, ma produce a livello più profondo una contrapposizione
fra apparato statale e società civile, un frazionamento particolaristico di
interessi all'interno del corpo sociale, una dissociazione all'interno del
singolo individuo fra moralità interiore e vita pubblica. L'ordine di
connessione e di priorità che deve esser posto fra i vari elementi
sopraccennati è divenuto oggetto di un vivace dibattito storiografico (23); qui
ci interessa soltanto richiamare l'attenzione su quel processo parallelo di
perfezionamento politico-istituzionale e di involuzione individualistica che avviene
nella società francese a partire dalla fine del Cinquecento.
La
figura di Montaigne può essere considerata in un certo senso emblematica della
particolare configurazione che in quel periodo viene ad assumere il rapporto
fra ripiegamento individualistico e
accettazione
della logica dell'assolutismo. L'affermazione della necessaria soggezione allo
Stato, che ricorre molte volte negli "Essais", non ha niente a che
vedere né con la concezione sacrale del monarca assoluto, né con l'impostazione
machiavellica dell'azione politica. Montaigne rifiuta l'immagine tradizionale
del "Princeps imago Dei", così come mostra scetticismo nei confronti
del tentativo iniziato da Machiavelli di fare della politica una scienza. Egli
accetta il potere come una situazione di fatto. La distinzione tra politica e
morale non è un semplice espediente che tocca l'ordine della prassi, come per
il segretario fiorentino, ma molto più radicalmente risulta essere
un'affermazione di principio, in quanto lo Stato non è espressione di valori ma
una necessità di atto. La perfezione etica va ricercata in uno sforzo tutto
interiore, distaccato dalla collettività, alla quale invece si deve aderire
solo esteriormente. In definitiva emerge negli "Essais" «una tendenza
critica che pur accettando passivamente l'aspetto formale del potere, rivendica
al foro interiore l'autonomia di giudicarlo in base alla propria diretta
esperienza» (24).
Non
ancora toccato dai fenomeni di dissociazione acuta provocata dalle guerre di
religione, ma già lontano dalle illusioni di una perfetta costruzione politica
in cui possa realizzarsi quella raffinata immagine di equilibrio fra individuo,
natura e società, tipicamente rinascimentale, il giovane La Boétie, nel momento
in cui scrive il suo "Discorso", dà una sistemazione molto diversa a
quegli stessi elementi che sostengono la costruzione di Montaigne. Non gli
sfugge ad esempio la tendenza al rafforzamento del potere centrale e alla ristrutturazione
dell'apparato amministrativo che in Francia come in altri Stati caratterizza
l'evoluzione politica della prima metà del Cinquecento. Quando La Boétie parla
della concentrazione di potere sotto gli imperatori romani e descrive
«l'aumento di potere al senato, l'istituzione di nuove funzioni e la creazione dei
vari incarichi; a ben vedere non certo per riorganizzare la giustizia ma per
dare nuovi punti di appoggio alla tirannia» (25) come non pensare alla
irregolarità della vendita degli uffici, allo sviluppo di nuove funzioni
burocratiche, alle ordinanze prevaricatrici in tema di amministrazione della
giustizia di Francesco Primo, agli arbitri fiscali compiuti dallo stesso re e
dai suoi successori?
Così
pure sulla stessa linea di Montaigne, La Boétie sottrae al potere ogni
giustificazione di tipo ideologico o fideistico: non solo viene respinta la
concezione sacrale del monarca ma, con toni che non possono non suonare
fortemente irriverenti, deride la stessa figura del sovrano. E se Montaigne
giungerà a scrivere: «come gli attori delle commedie, li vedete sulla scena
assumere l'atteggiamento di duca e d'imperatore; ma subito dopo eccoli
diventati servi e facchini miserabili, che è la loro nativa e originaria condizione:
così l'imperatore, la cui pompa vi abbaglia in pubblico... guardato dietro la
tenda non è altro che un uomo comune, e forse più vile dell'ultimo dei suoi
sudditi» (26), La Boétie va oltre e parla «di un uomo che nella maggior parte
dei casi è il più molle ed effeminato di tutta una nazione, che non ha mai provato
la polvere delle battaglie e neppure quella di un torneo, incapace di imporsi
agli uomini e preoccupato solo di servire la più trascurabile donnicciola»
(27), Uno stesso sdegno e una stessa tensione etica emergono da queste pagine.
Ma mentre in Montaigne, e in generale nel pensiero francese del tardo Cinquecento
e Seicento, questa carica morale si riversa nella sfera interiore e «il
privato» fa per la prima volta la sua apparizione nella storia del pensiero
occidentale in netta antitesi con «il pubblico», in La Boétie al contrario
affiora la concezione, per molti versi d'ispirazione classica, di una integrità
morale che non può non trasferirsi immediatamente nella vita pubblica (28).
Questo ideale però non riesce a diventare felice progetto politico ma vive come
nostalgia nell'immagine di solidarietà originaria fra gli uomini o nel ricordo
della statura morale dei grandi uomini dell'antichità che non vollero piegarsi
di fronte alla tirannia.
Ci si
presenta qui un uomo segnato profondamente da un travaglio interiore, cosciente
delle violente lacerazioni sociali e politiche che mettono a dura prova le
virtù di moderazione e di equilibrio e gli ideali di pacificazione nella
Francia di quel momento, ma certamente non «dissociato».
Sia
Montaigne che La Boétie partono da un'evidenza di fatto. Il primo la trova
nell'esistenza del potere, il secondo constata il dato naturale della libertà.
Ambedue queste evidenze generano problemi e contraddizioni; ma non è certamente
discutibile il fatto che l'evidenza di cui parla La Boétie esplicita un desiderio
e lo trasforma in grido e domanda, mentre l'evidenza cui accenna Montaigne ha
il sapore dell'ovvietà e si chiude inevitabilmente in rassegnazione. Montaigne
tiene fermo alla libertà, ma per renderla praticabile la risolve nel foro
interiore. La Boétie non distingue fra libertà interiore e libertà politica:
«siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi!» (29) Come
Machiavelli La Boétie riconosce che l'autorità si fonda solo sull'accettazione
da parte dei sudditi: Machiavelli insegna al principe ad usare di questa
accettazione, La Boétie non insegna al popolo a ribellarsi ma lo invita
piuttosto a riflettere sul non-senso di questa sua condizione: «E' un fatto
davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che c'è più da
dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni di uomini asserviti come miserabili,
messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso» (30). Per questo non è
possibile affermare che La Boétie si pone in antitesi diretta con il pensatore
fiorentino. Anche se nel suo scritto è dato ritrovare un accenno indiretto al
"Principe" (31) e più in generale una vigorosa polemica contro coloro
che vogliono ingannare il popolo, La Boétie si colloca su un altro piano
rispetto al tentativo di Machiavelli (32).
La
Boétie non teorizza alcun contropotere; si potrebbe dire che tenta una critica
della politica, se questa espressione non facesse ormai parte di quel logoro
bagaglio ideologico che ha più a che fare con il machiavellismo che con un
autentico desiderio di libertà. Il gioco potere-contropotere, tipico dell'età borghese,
ha il suo riferimento necessario in Machiavelli. Il suo tentativo di svelare e
ricondurre a scientificità l'autonomia della ragion di Stato è a servizio del
principe, ma può benissimo essere rovesciato di segno e posto a servizio del
popolo. Non è un caso che nella storia Machiavelli sia stato visto a volte come
il teorico dell'assolutismo, altre volte come il pensatore che, scoperta la
logica della tirannia, ne rivela tutta la perfidia al popolo allo scopo di
smascherare il potere.
Montaigne
rifiuta questo gioco, ma nello stesso tempo ne riconosce la necessità di fatto.
Intellettuale disincantato, osserva indifferente il fluire delle forme di
potere nella storia, nella convinzione che la verità dell'uomo, la sua decisiva
vicenda esistenziale, si svolga altrove. La Boétie non rappresenta certo la
figura del rivoluzionario, almeno così come si è poi realizzata nella storia
moderna occidentale; in questo senso essa è già inscritta nel risvolto
machiavellico della conquista del potere. La Boétie non accetta di collocarsi all'interno
del dibattito politico, ne sconvolge le regole proprio nel momento storico in
cui venivano faticosamente messe a punto per la prima volta, e pone una equazione
provocatoria: desiderare la libertà è essere liberi. Non già nel senso di
quella libertà tutta interiore che, come dirà Hegel, rende lo schiavo in catene
simile al re sul trono, ma in senso immediatamente politico. Si parli pure di
soggettivismo esasperato se si vuole. Purché esso non sia inteso secondo i
canoni della tradizione idealistica, ma come domanda aperta: dove è possibile
ritrovare un simile soggetto, con una tale coerenza e consistenza?
Tra la
figura del politico borghese/rivoluzionario e quella dell'intellettuale che
cerca la verità nel suo
«privato»,
appare così la strana e straordinaria figura di chi afferma che la libertà
interiore non è slegata dai rapporti sociali, non è neppure condizione per un
corretto comportamento politico, ma è immediatamente verità politica, cioè
valore indiscusso riconoscibile da tutta la polis, dall'intera comunità. Prima
di entrare nel merito di questa posizione, cerchiamo di capire in che modo
questo "Discorso", così estemporaneo, antico e moderno insieme, si
inscriva nel contesto storico del suo tempo.
Da
dove parla La Boétie, qual è il luogo in cui ha potuto trovare se non il
motivo, almeno il pretesto per questa serie di affermazioni?
4. L'opera e il suo
tempo: il limite intrinseco alla ricerca di libertà.
Anche
ammettendo, sulla linea di Montaigne, che lo scritto originario del Discorso
sia da collocare verso il 1546 o 1548, la stesura definitiva, come si è già
avuto modo di notare, non può essere anteriore al 1552.
Sono
gli anni in cui La Boétie studia diritto ad Orléans. «E' noto quel che erano
allora gli studi di diritto: una disamina dotta e vivace dei problemi
essenziali impliciti nei testi antichi e nelle ordinanze del tempo, un
insegnamento filosofico nel pieno senso della parola, in cui venivano
contemporaneamente sottoposti a critica il fondamento delle leggi e il valore
dell'indagine razionale» (34). Inoltre La Boétie ebbe la fortuna di avere come
maestro Anne du Bourg, che doveva poi diventare ministro del regno di Francia,
il quale lo educò non solo al gusto dell'eloquenza erudita ma anche alla
profondità dell'analisi. Secondo la testimonianza di uno studente di quegli
stessi anni (35) i giovani costituirono una specie di cenacolo dove si
discuteva di diritto, ma anche di letteratura, di filosofia, e soprattutto di
teologia e di politica.
Riferimenti
e discussioni che possiamo ritrovare nel "Discorso", e che ne
spiegano quei che a prima vista sembrerebbero due aspetti contradditori: il
carattere accademico dello scritto e nello stesso tempo la passione irruente
con la quale vengono affrontate le questioni. Il manoscritto passò così di mano
in mano a giuristi e letterati, sia cattolici che protestanti, fino ad arrivare
anche ad un parlamentare di Bordeaux, Montaigne. La Boétie visse intensamente la
sua ricerca di verità e di libertà in un clima di grande apertura mentale e,
cosa rara in quei tempi, di grandissima tolleranza: Anne du Bourg diede
soluzione ai suoi problemi filosofici e teologici passando alla Riforma e così
pure alcuni suoi studenti. La Boétie rimase cattolico convinto, ma sulla linea
dei più grandi umanisti sognò sempre una riconciliazione universale fra gli
uomini. A questo proposito basterebbe leggere l'altro suo scritto che la storia
ci ha lasciato: il "Mémoire touchant l'Edit du Janvier 1562" (36). Si
tratta di un commento all'editto della reggente Caterina de' Medici in cui si
tentava di raggiungere un compromesso con gli ugonotti: veniva accordata ai
calvinisti francesi la libertà di assemblea fuori dalle mura cittadine e il
libero culto nelle case private. L'editto, che rifiutava l'autorizzazione agli
ugonotti per nuove chiese ma nello stesso tempo sospendeva tutte le misure penali
precedenti contro di loro, fu ben accolto dai riformati. Il commento di La
Boétie è molto favorevole e sottolinea a più riprese la necessità della
tolleranza. Ma mentre per Caterina de' Medici la tolleranza era un metodo
politico per poter meglio governare sfruttando le divisioni interne (secondo
l'antico motto «divide et impera»), La Boétie formula con passione il suo amore
per la libertà e ritenendo che sia i cattolici come i riformati desiderino
sinceramente ricercare la verità, si sforza di proporre una conciliazione delle
antinomie e dei punti divergenti, quasi come un nuovo Pico della Mirandola.
E'
noto come la posizione tollerante ma nello stesso tempo appassionata alla
verità, propria di La Boétie come di altri umanisti cattolici, sia stata
perdente. La Boétie sembra intuire che i contrasti fra cattolici e ugonotti,
nel caso di una loro degenerazione in guerra civile, come avverrà di fatto
pochi anni dopo la sua morte, conducono alla negazione della libertà per tutti.
Questo magistrato, così stimato dalla Corte per la sua moderazione e il suo
senso di equilibrio, sembra nutrire preoccupazione per l'involuzione della
struttura statale avviata ormai verso un sempre più rigido accentramento che
diverrà poi assolutismo. Di origine borghese, figlio di un funzionario,
magistrato e parlamentare a sua volta, La Boétie vive in prima persona il contrasto
sociale e le acute contraddizioni fra il proprio ceto sociale e la monarchia.
L'idea infatti di uno stretto connubio fra monarchia e borghesia parlamentare
nel Cinquecento esiste solo nelle semplificazioni dei testi scolastici: se da
un lato questi funzionari diventano quasi una nuova classe sociale (la
cosiddetta nobiltà di toga), non per questo va accreditata l'idea del
«tradimento della borghesia» che si sarebbe compromessa con la monarchia per
ottenere privilegi e titoli nobiliari. Se da un lato assistiamo al fenomeno di
funzionari che rincorrono posizioni di potere nel gioco complicato della
ristrutturazione amministrativa di quel tempo, dall'altro vi è pure una
opposizione di carattere «borghese» da parte di parlamentari che difendono le
tradizionali autonomie dei loro comuni e rifiutano l'accentramento politico e i
soprusi della monarchia.
Incontriamo
a questo punto un riferimento storico preciso che senza dubbio ha giocato un
ruolo importante nella stesura del "Discorso sulla servitù
volontaria". Secondo lo storico De Thou (37) il "Discorso"
sarebbe stato scritto come protesta coraggiosa contro le crudeltà compiute
nella repressione della rivolta della Guienna nel 1548. L'opinione autorevole
di questo storico s'incontra del resto con l'allusione di Montaigne alla
giovane età dell'autore del testo (38). Il legame affettivo di La Boétie con la
regione della Guienna, l'antica Aquitania, dove svolgeva le sue funzioni di
magistrato, è accertato e appare molte volte anche nello scritto già citato, il
"Mémoire". E' dunque probabile che la prima stesura del
"Discorso" sia da collegare con questa rivolta; in ogni caso la sua
posteriorità rispetto al 1548 è ormai fuori di dubbio.
La
rivolta contro i gabellieri da parte dei comuni della Guienna va vista tenendo
presente la riorganizzazione dello Stato rinascimentale costretto ad accentuare
la sua pressione fiscale per far fronte al vertiginoso aumento di spese dovute
alle continue guerre e alla creazione di nuove funzioni amministrative.
In
Francia è sotto il regno di Francesco Primo che questa trasformazione da una
struttura ancora feudale ad uno Stato «moderno» inizia il suo lungo cammino.
All'inizio degli anni '40 l'imposta sul sale, fino allora riscossa solo nelle
province settentrionali non produttrici, viene estesa anche in altre zone, fra
le quali la Guienna. Si viene a creare un vasto movimento di rivolta che parte
dalla campagna ma raggiunge ben presto la città: a Bordeaux, capitale della
regione, non ci si accontenta di mettere in fuga i gabellieri ma viene ucciso
il luogotenente generale. Enrico Secondo, da poco re di Francia, ordina una
terribile repressione in cui vengono condannati a morte centinaia di persone e
viene soppresso ogni antico diritto di autonomia della città.
E'
stato giustamente sottolineato che questa rivolta segna l'inizio di un ciclo
nuovo nelle sommosse
popolari,
che si ripeteranno in tutta Europa per il Cinque e Seicento: ci si rivolta
contro i soprusi di uno Stato che tende ad instaurare la sua sfera di dominio
in ambiti dove prima era naturale vivere in autonomia e libertà. «I gabellieri
non solo sono chiamati malvagi; si affibbia loro il nome di
"inventori". Enumerando gli abusi i ribelli iniziano ogni articolo
del loro elenco dicendo: altra invenzione... altra novità... I ribelli insomma
non rifiutano l'imposta ma solo le nuove imposte. Si vuole tornare all'ordine
antico e ci si rivolta contro le invenzioni, le novità introdotte dai
gabellieri malvagi» (39). Questa motivazione, insieme con l'incapacità di
queste masse popolari di trovare adeguata espressione politica, viene ritenuta
sufficiente perché queste rivolte siano dichiarate conservatrici. In effetti
non viene contestata la monarchia, anzi ci si appella al re nella convinzione
che siano i servitori della monarchia a compiere malvagità all'insaputa del monarca.
Troviamo un eco di tutto questo in un passo del "Discorso" laddove si
dice: «Solitamente il popolo non accusa il tiranno per il male che gli tocca
sopportare bensì coloro che sono messi a governare.
Di
costoro i popoli, le nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna eccezione, dai
contadini agli artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e su di loro riversano
un'infinità di oltraggi, villanie e maledizioni» (40). Il popolo non progetta
utopiche rivoluzioni: vuole semplicemente conservare le sue tradizioni di
autonomia contro uno Stato che da mitico e lontano quale era prima vuol far ora
sentire la sua presenza, mantenendo la sua sacralità tradizionale per meglio
opprimere con strumenti nuovi. Lo scritto di La Boétie si inserisce proprio in
questo momento di trapasso verso un'organizzazione statale che incomincia ad
avanzare la sua terribile pretesa di controllare la società civile. Non già che
prima Stato e società civile esistessero in una tranquilla coesistenza: proprio
per la fondamentale unità della vita sociale e individuale precedente è
impossibile applicare quelle categorie. E' invece la nascita dello Stato
moderno che, costituendosi come apparato-macchina, separa da sé l'altro termine
per meglio dominarlo e possederlo. Come a voler sfuggire il destino inscritto
in questo processo, La Boétie si mette dalla parte di quell'autentico anelito
di libertà che si esprime nella rivolta popolare. Non per questo è da
confondere con una sorta di teorico della rivolta popolare e contadina: egli
infatti non ne trae alcuna strategia, non esalta quel momento di lotta. Al contrario
pone come oggetto di riflessione il limite intrinseco ad una ricerca della
libertà, che pure aveva radici autentiche. Diversamente da molti teorici della
rivoluzione dei nostri giorni che liquidano quelle esperienze perché
fondamentalmente conservatrici, ma lontano pure da quegli storici che esaltano
come irripetibili esperienze di liberazione, La Boétie assume una sua posizione
originalissima: condivide l'ansia di libertà sottesa alla rivolta popolare, ma
nello stesso tempo osserva senza illusioni l'incapacità delle masse ribelli di
produrre quella solidarietà dalle origini antiche che dicono di volere. Non si
tratta semplicemente di debolezza, di impotenza o di rassegnazione alla
servitù: quando La Boétie parla di servitù volontaria vuole prima di tutto
mettere in rilievo quello «strano accidente» per cui gli uomini, volendo la libertà,
riescono a porla come oggetto concreto del loro desiderio solo nei termini di
un nuovo (o vecchio) potere.
All'inizio
dell'età borghese troviamo così un pensatore che rifiuta di entrare nel
dibattito infinito sul ruolo del servo e del padrone, sul come il potere possa
essere posto al servizio della libertà ed oppone ai filosofi della
conservazione, ai teorici della trasformazione graduale e ai fautori della
distruzione, la semplice domanda: perché il potere? In altri termini: perché la
libertà non può essere pensata e vissuta se non in riferimento al dominio?
5. Desiderio di libertà
e servitù volontaria: i termini del paradosso.
Fin
dall'inizio del "Discorso" La Boétie opera un'auto-esclusione
esplicita dal dibattito politico: «Non
voglio
addentrarmi nella questione così spesso dibattuta se gli altri modi di governare
la cosa pubblica siano migliori della monarchia» (41) Vien subito alla mente,
per contrasto, l'inizio dell'opera politica più importante di quel periodo, che
enumera i vari tipi e sottotipi di forme di governo: «Tutti li stati, tutti e' dominii
che hanno avuto e hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o
repubbliche o principati. E' principati sono o ereditarii... o e' sono nuovi»
(42) Il riferimento positivo di La Boétie sembra essere invece l'autore della
"Politica", Aristotele, il quale, prendendo in esame le varie forme
di governo cita il verso di Omero con il quale si apre il "Discorso sulla
servitù volontaria". Ma anziché introdurre ad una distinzione fra governo
d'uno e governo di molti La Boétie se ne serve per affermare che «quanti più padroni
si hanno tanto più sventurati ci si trova». Ma vi è di più. Ponendosi fuori da
ogni schema precostituito il "Discorso" compie un'ultima esclusione,
senza dubbio la più sconcertante per quell'epoca: si rifiuta la distinzione fra
monarchia e tirannia, fra buon uso e cattivo uso della sovranità (43). Tutto
questo potrebbe bastare a qualcuno per considerare il giovane autore poco
provvisto di rigore logico, se incorre fin dall'inizio in una simile confusione
(44). In realtà La Boétie, contro ogni consuetudine, ci annuncia il suo giudizio
di illegittimità di "ogni" potere: «In tutta coscienza va considerata
una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai dire
con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio,
secondo il proprio arbitrio» (45). Come già per Machiavelli anche per La Boétie
non vi è differenza fra la posizione privata del sovrano che esercita il potere
e l'organizzazione statale in quanto tale.
La
ragion di stato qui è ancora legata al «farsi stato» nel senso etimologico,
cioè il farsi una posizione di potere: il fatto che La Boétie insista
sull'arbitrio del sovrano ci riporta appunto all'inizio dell'età moderna allorché
l'intreccio fra i due elementi impediva la distinzione a noi ormai chiara fra
la struttura del potere e la persona che l'assume.
Dopo
questo breve prologo La Boétie ci mette subito di fronte al nucleo centrale del
problema: come mai milioni di uomini sopportano uno solo, un tiranno che li
sottomette ad ogni suo volere derubandoli di tutto? Non è certo a causa della
forza del tiranno, poiché uno solo non può competere con più persone; e non può
essere per viltà dei sudditi, perché non lo si può essere fino a questo punto.
Infatti «colui che spadroneggia non ha che due occhi, due mani, un corpo» come
tutti. Perché allora gli uomini rinunciano alla libertà?
Diciamo
subito che La Boétie non sembra riuscire a formulare in modo chiaro una
risposta. Anzi a un certo punto del "Discorso" questa domanda è come
lasciata in sospeso e prende avvio quella che potremmo definire una seconda
parte del "Discorso", dove l'autore traccia una specie di
fenomenologia delle varie forme di potere e della struttura psicologica che le
sostiene. Si ha l'impressione che il "Discorso" riprenda da capo ad un
livello più accessibile e tradizionale che è quello descrittivo: per essere
assoggettati «è necessario una delle due: esservi costretti o ingannati.
Costretti dalle armi straniere... o dalle fazioni in gioco... Per inganno gli
uomini perdono sovente la loro libertà; in questo un poco sono sedotti da
altri, spesso però accade che siano loro stessi ad ingannarsi» (46) La Boétie
non approfondisce il senso di questo auto-inganno da parte del popolo; tutte
queste osservazioni gli servono per arrivare a porre una distinzione tra il
fatto che «all'inizio l'uomo serve a malincuore» e il fatto che «quelli che
vengono dopo... servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i
loro padri han fatto per forza» (47). La domanda iniziale: perché gli uomini rinunciano
alla libertà, acquista una formulazione diversa: perché gli uomini perseverano
nella rinuncia della libertà? Questione più agevole da risolvere: ed infatti in
questa seconda parte La Boétie si diffonde in esempi tratti dall'antichità per
dimostrare come la forza dell'abitudine da parte dei sudditi e gli inganni e le
seduzioni del tiranno formino una stretta rete in cui il naturale desiderio di libertà
viene impigliato fino ad essere soffocato. Procedendo in questa descrizione La
Boétie si rende conto che è la stessa monarchia di Francia ad essere messa in
discussione; con un classico procedimento retorico egli la esclude dalla
derisione che ha mostrato nei confronti delle «belle favole» dove i sovrani
vengono rappresentati come persone sovrumane, protette in modo particolare
dalla divinità e dotate di poteri miracolosi. Ma il procedimento retorico è qui
così apertamente forzato che la difesa delle tradizioni della casa reale di
Francia si trasforma agli occhi del lettore in una vera e propria satira dei
re-taumaturghi e dei poeti di corte che ne cantano le imprese. Nei poeti della
Pléiade del suo tempo La Boétie sembra intravedere il destino di quella Francia
cortigiana e frivola che costituirà il sostegno dell'assolutismo nel Seicento.
Ed è soprattutto nell'ultima parte, allorché La Boétie avverte che l'origine
nascosta della tirannia, il suo fondamento, sta nella catena di favori e di
protezioni particolari che si prolunga pressoché all'infinito, che il
"Discorso" si arricchisce di osservazioni analitiche molto
interessanti. Il desiderio di sicurezza e di protezione che spinge molti ad
essere tra i più fedeli al tiranno si rovescia in una vita insicura e ansiosa:
«Essere occupato giorno e notte a compiacere uno e tuttavia aver più timore di
lui che non di qualsiasi altro uomo... denunciare chi sta per tradire,
sorridere a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici
sinceri, col sorriso sulle labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad essere
lieto e non poter mostrarsi scontento» (48), Ponendo a tema questo
rovesciamento La Boétie non solo si dimostra acuto interprete della psicologia
umana ma anche lucido osservatore di quelle tendenze della società borghese
allora timidamente emergenti, ma che sarebbero poi diventate oggetto di analisi
approfondite da parte di molti teorici politici seguenti, da Tocqueville ai
pensatori della scuola di Francoforte: il tramutarsi della ricerca di sicurezza
e di protezione in schiavitù, tanto più terribile quanto più voluta, in una
società incapace di pensare la propria felicità se non in riferimento
all'argomento del dominio. Oggi, come ai tempi di La Boétie, in definitiva
«quanti traggono profitto dalla tirannia sono quasi pari a coloro che
preferiscono la libertà» (49). E tuttavia, nonostante queste osservazioni molto
acute e attuali che vengono formulate nella seconda parte, non è in questa
ricchezza di notazioni che si esaurisce l'importanza dell'opera: è piuttosto
nello sforzo di chiarificazione della prima questione che appare il significato
del "Discorso" in uno sconvolgimento vero e proprio dei presupposti
classici e moderni del potere. Abbiamo visto che La Boétie non ammette che la
radice del potere stia nella forza di costrizione o nella viltà. In altri
termini: la logica del dominio non è riconducibile ad una specie di passività
delle masse che ubbidiscono. La radice del potere sta in chi lo subisce e non
in una supremazia di chi lo esercita. Non c'è bisogno di combattere questo
tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo, basta che il popolo
non accetti più di servirlo; non si tratta di sottrargli qualcosa ma di non
attribuirgli niente. E quasi come in un grido disperato alla fine La Boétie
esplode: «Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono;
basta che non lo sosteniate più e allora lo vedrete crollare a terra per il
peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento»
(50).
Il
potere non ha fondamento oggettivo: né diritto divino (secondo la dottrina
tradizionale), né diritto naturale (come affermano i primi teorici moderni
dello Stato). Il potere è un rapporto immaginato e creato, a partire da chi lo
subisce. A prima vista sembrerebbe che questa serie di affermazioni rappresenti
l'antecedente storico di quel «desiderio di sottomissione» teorizzato da
Deleuze e Guattari: la soluzione consisterebbe a questo punto in una astensione
dal desiderio, così come l'invito di La Boétie è di non fare nulla ma
semplicemente di ritirare il sostegno che viene dato al potere. In realtà, nonostante
alcune assonanze superficiali, è molto difficile porre l'autore del
"Discorso" sulla stessa linea dei teorici della «economia
libidinale». Non si trova nello scritto di La Boétie alcun accenno alla gioia
nell'essere oppressi, a quelle «intensità servili» che costituirebbero il
fondamento dell'esperienza del dominio. La Boétie descrivendo gli effetti di
questa ostinata volontà di servire ci offre il quadro classico di popoli
depredati, saccheggiati, privati delle persone e delle cose più care, e sottolinea
esplicitamente il fatto che «il tiranno non è amato e non può essere amato».
Piuttosto egli preferisce parlare di complicità che lega tiranno e oppresso, di
un loro reciproco stare al gioco. Ma è appunto questa strana solidarietà fra
vittima e oppressore il motivo dello stupore che nasce in La Boétie: allorché
scopre questa sottomissione volontaria egli non raggiunge la soluzione del
problema, bensì l'aspetto più assurdo e inspiegabile del problema stesso. Se infatti
non è necessario fare qualcosa di eroico, o comunque compiere un gesto positivo
per scuotere il gioco della schiavitù, ma basta rifiutare il proprio assenso,
perché questa cosa semplice e ovvia non succede? Come mai l'assurdo è la nostra
condizione normale e il desiderio normale e naturale di essere liberi è
diventato agli occhi degli uomini atto eroico e pressoché impossibile? «Se gli
costasse qualcosa riacquistare la libertà non continuerei a sollecitarlo... ma
se per avere la libertà è sufficiente desiderarla con un semplice atto di volontà
si troverà ancora al mondo un popolo che la ritenga troppo cara?» (51). Per ottenere
la libertà basta desiderarla: libertà e desiderio di libertà sono la stessa
cosa. Ponendo questa equazione La Boétie fa intendere chiaramente che la
libertà non è un oggetto. Sa benissimo che la volontà fattiva di raggiungere
ciò che dà soddisfazione e felicità è diversa dal semplice desiderio. Mentre la
prima è solo degli uomini coraggiosi e intraprendenti, il secondo «è insito
nella natura umana. Questa aspirazione è comune ai saggi e agli ignoranti, ai
coraggiosi e ai pusillanimi» (52).
Desiderare
il bene non è ovviamente la stessa cosa che compierlo e possederlo. Se al
contrario nel caso della libertà questa coincidenza è possibile è perché
l'essere liberi non è una cosa tra le altre da raggiungere, ma "una
condizione", anzi, come dice La Boétie, la condizione naturale dell'uomo.
Ma è
proprio a questo punto che appare la contraddizione più grave. «In una sola
cosa, non so come mai, sembra che la natura venga meno così che gli uomini non
hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà... E' così che gli
uomini tutto desiderano eccetto la libertà, perché forse la otterrebbero semplicemente
desiderandola» (53). Eccoci al paradosso: proprio ciò che caratterizza la
natura dell'uomo nella sua specificità, cioè la libertà, sembra non rispettare
la legge naturale espressa sopra: saggi e ignoranti, coraggiosi e pusillanimi,
tutti mantengono la capacità di desiderare.
Ma
cosa significa l'affermazione che la libertà è naturale? La Boétie ne svolge la
dimostrazione secondo i canoni ormai fissati della tradizione classica
(probabilmente l'autore che gli è più presente è Cicerone), in base alla quale
risulta che la libertà è un diritto naturale inalienabile dell'uomo. E' interessante
osservare che la dimostrazione avviene in tre momenti: «Se vivessimo secondo i
diritti che la natura ci ha dato saremmo senz'altro obbedienti verso i
genitori, soggetti alla ragione, servi di nessuno» (54). Sulle prime due asserzioni
La Boétie non si sofferma molto: ognuno sente dentro di sé il dovere
dell'obbedienza ai genitori (che appunto si chiama naturale), così come può
riconoscere in sé un seme di razionalità. Invece il fatto che la libertà sia un
diritto naturale viene dedotto da una serie di constatazioni indubbiamente
cariche di novità: la natura, dice La Boétie, ci ha fatti tutti fratelli, non
perché tutti uguali, ma proprio perché «dando agli uni di più, agli altri di
meno, ha voluto porre le condizioni per un affetto fraterno che tutti potessero
esercitare, avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di
riceverne» (55). Per questo ognuno può riconoscersi nell'altro come in uno
specchio, per questo possediamo il dono del linguaggio. Insomma la natura ha
mostrato chiaramente di aver voluto che gli uomini fossero non solo uniti ma
una cosa sola, «un "uno"». Ritroviamo qui il termine su cui si fonda
tutto il "Discorso": si è partiti constatando l'uno, il tiranno, che
tiene sottomessi gli uomini e si è arrivati ad un altro principio di unità, non
più storico ma naturale. Ma come intendere il passaggio dalla forma naturale
alla forma storica dell'unità?
E'
stato fatto notare (56) che seguendo fino in fondo il ragionamento di La Boétie
egli risulta aver torto nel considerare ingiustificato il potere, proprio
perché "è il desiderio stesso della libertà che ha creato la monarchia",
è l'unità originaria naturale che trapassa in un principio ordinatore della
convivenza. Ora, si dice, non c'è via di mezzo: o La Boétie riesce ad indicarci
un altro principio storico che sappia incarnare l'originario stato di unità
oppure va rispettato questo Uno tanto deprecato. E' chiaro che La Boétie non si
sia posto questa alternativa, poiché ha davanti a sé l'immagine dell'assenza
del potere. Ma l'osservazione coglie il passaggio fondamentale su cui si regge
il "Discorso": la libertà, nel tentativo di dare spessore storico
alla solidarietà originaria, "produce" il dominio. Gli uomini
avrebbero usato del linguaggio per costituirsi in un'unità che li sapesse
esprimere: come dice La Boétie «sono affascinati e stregati dal solo nome di
uno» (57). L'unicità del potere è nello stesso tempo la forza dell'unità che
riesce a generare attorno a sé. Verso la fine del "Discorso" ci viene
ricordato che anche il sovrano infatti genera unità: essa è la traduzione
rovesciata della unità originaria fra gli uomini. Questa unità fondata dal
tiranno non si può chiamare amicizia: «Non ci può essere amicizia dove si
trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra
loro non vi è compagnia ma complotto, non sono amici ma complici» (58), Dall'unità
come amicizia all'unità come complotto. Dovremmo dunque pensare che la tensione
al riconoscimento reciproco fra gli uomini genera inevitabilmente un meccanismo
di sopraffazione, che il desiderio di unità fa scattare necessariamente
quell'Uno che affascina e ipnotizza, che la libertà assume inesorabilmente la
figura del potere? Ma se questo fosse vero in senso assoluto, se cioè non fosse
possibile immaginare che avvenga diversamente, allora dovremmo concludere che
la libertà, per rimanere tale, "non deve trovare espressione" ma
restare sempre nel vago. Come dice Claude Lefort «il desiderio di libertà esige
che la natura del soggetto non sia determinata» (59). Appena tenta la sua
dicibilità, essa si contraddice.
Perché
non pensare invece che la libertà esige una soggettività determinata, ma non
riesce a trovare un soggetto "storico" adeguato? Perché la libertà
deve essere pensata nei termini di una indeterminatezza e non in quelli di una
identità assente, di un Altro che viene continuamente sostituito e contraffatto
dal nome d'Uno, dalla figura del potere? L'immagine di solidarietà originaria
che La Boétie ci presenta non è infatti una pura finzione di una libertà che
sarebbe indicibile, bensì il tentativo di dare espressione e contenuto determinato
a quel desiderio di libertà che continuamente ricerca nella storia una sua
realizzazione, ma che un male oscuro rovescia nella non-libertà, nel potere.
Se il
desiderio di libertà fosse possibile solo a partire da una soggettività
assolutamente indeterminata il passaggio dalla libertà al potere acquisterebbe
i caratteri della necessità: esplicitare il desiderio, tentare una sua
espressione, significherebbe perderlo per sempre. A nostro avviso invece il
passaggio va pensato nei termini dell'accidente storico, di un malcapitato
caso, o come dice La Boétie, del «mal-encontre». Alla fine di questa prima
parte del "Discorso" egli non riesce a chiudere in una soluzione la questione
affrontata, ma ripropone la domanda iniziale. Ora però la formulazione ha
acquistato in chiarezza e precisione: «Quale oscuro male (mal-encontre) ha
potuto snaturare a tal punto l'uomo, l'unico ad essere nato propriamente per vivere
libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di
riacquistarlo?» (60) Qui sta il cuore dell'intero "Discorso". Il
termine «mal-encontre» sta ad indicare appunto la casualità della caduta, del
venir meno di quella memoria; caduta che rimane però inspiegabile. In questa
domanda sta il paradigma di ogni pensiero che voglia tentare l'affronto della
origine della società: La Boétie si rivela come il vero precursore di Rousseau
e in generale di tutto quel pensiero borghese che invece di accontentarsi della
questione del potere si è sforzato di pensare la radice della sua
contradditorietà. Il tema dello stato di natura, il mito del buon selvaggio
(che inizia ad apparire già in La Boétie, almeno in un accenno fugace a «un
tipo di gente del tutto nuovo») tentano di esprimere la situazione originaria
ma non riescono comunque a rendere comprensibile il passaggio allo stato
sociale. La grandezza di La Boétie si mostra tra l'altro nel riconoscere questa
difficoltà: la nostra società non riesce a pensare la sua origine, a spiegare
il passaggio dall'unità naturale all'unità sotto il segno del potere (61). Non
solo: La Boétie si rende conto che questo passaggio non è avvenuto nella forma
della necessità, ma per caso, per il sopraggiungere di un male oscuro che ha
reso possibile quella contraddizione che ricordavamo all'inizio: ciò che è
proprio della natura dell'uomo, la libertà, non rispetta la legge naturale.
Desiderare la libertà è assente, è Altro dalla storia. Il potere è il risultato
soggetto. La nostalgia per un'identità piena e realizzata, per una comunità di
uomini liberi e felici muove la storia, ma questa identità, questa comunità è
assente, è Altro dalla storia. Il potere è il risultato di questa dialettica
fra presenza e assenza: esso appare non come violenza al desiderio di libertà ma
come sua espressione. A questo punto la memoria della libertà e dell'unità
originaria scompare, la pretesa di riacquistare quello stato felice viene
cancellata: il potere è l'espressione, qui ed ora, del desiderio di essere
liberi. Una volta costituito questo orizzonte di discorso ogni richiesta di
libertà si trasforma in un dibattito sull'uso del potere o sulla sua
sostituzione con un contro-potere. La Boétie rompe questo incantesimo e
ripropone i termini primordiali della questione. Il "Discorso" appare
come l'inizio di un pensiero «negativo» sul potere che emerge nei momenti
critici della nostra storia e rappresenta un modello teoretico di pensiero
lontano da ogni piatta sociologia delle forme di potere come pure da ogni «rifondazione
del politico» (62).
Collocandosi
fra due epoche storiche La Boétie ci risulta contemporaneo e nello stesso tempo
molto distante. L'attualità delle questioni che egli apre si costituisce
infatti all'interno di un orizzonte di pensiero che risente ancora molto della
concezione cristiana: l'oscuro male dell'uomo come l'accidente storico non è forse
la traduzione umanistico-borghese della caduta originale affermata dalla
tradizione cristiana? In questa vicinanza-lontananza dalla concezione religiosa
si costituisce storicamente lo spazio per la domanda sul soggetto adeguato al
desiderio di libertà. Dove trovare una simile consistenza? Dove rinvenire una soggettività
capace di riprendere quella memoria di libertà e solidarietà?
Nella
miseria del dominio questa domanda mette in crisi il discorso sui fondamenti
del potere e chiama in causa la nostra servitù volontaria: «Questo sarebbe un
vivere felice? Si può chiamare vita codesta?» (63)
Non
c'è distruzione pratica delle forme di dominio, per quanto negatrice essa sia,
non c'è teoria in grado di criticare la logica del dominio che ha penetrato il
cervello sociale del nostro tempo, per quanto lucida e acuta essa sia, se viene
evitata la questione della servitù volontaria. E tuttavia, sciogliere l'intreccio
fra libertà e potere non può essere compito della rivoluzione. Riprendendo le
parole di Landauer, per questo è necessario «qualcosa di radicalmente diverso
dalla rivoluzione o addirittura qualcosa d'altro. Noi ora sappiamo in che modo
seguire la parola d'ordine: non attraverso il potere ma attraverso lo spirito;
non molto tuttavia è stato ancora fatto perché noi ci appellassimo allo
spirito; è necessario che venga sopra di noi... E' questa attesa che ci fa
perseverare nella nostra traversata e nella nostra progressione; è questo non sapere
che ci ordina di seguire l'Idea. Che valore avrebbero in effetti le idee per
noi se avessimo una vita?» (64)
NOTE
ALL'INTRODUZIONE.
NOTA
1: L'ipotesi che il "Contr'un" fosse stato scritto da Montaigne sotto
il nome di La Boétie è stata sostenuta nel 1906 da Armaingaud in "La
Boétie, Montaigne et le Contr'un", Revue politique et parlamentaire, ma si
è rivelata del tutto infondata.
NOTA
2: Cfr. in proposito quanto scrive Boris Porchnev nel testo, ormai divenuto un
classico in materia, sulle rivolte popolari in Francia: B. Porchnev, "Les
soulèvements populaires en France au dixhuitième siècle", Flammarion,
Paris 1972, cap. 1 pagine 49-55 (tr. it. "Lotte contadine e urbane nel
grand siècle" Jaca Book, Milano 1976.
NOTA
3: Questo giudizio si può ritrovare letteralmente nella prefazione al
"Contr'un" scritta da Auguste Vermorel per l'edizione del 1863, ed.
Dubuisson, Paris.
NOTA
4: Cfr. E. De La Boétie, "De la servitude volontaire", Paris 1835,
prefazione pagine 41 ss.
NOTA
5: G. Landauer. "Die Revolution", Francoforte 1907; la traduzione
italiana è apparsa recentemente in "L'umana avventura", N. 6, aprile
1979, Jaca Book, pagine 32-36.
NOTA
6: M. De Montaigne, "Essais", 1, 1, cap. 28; tr. it.
"Saggi", Adelphi, Milano 1966, pag. 243.
NOTA
7: M. De Montaigne, op. cit, pag. 259.
NOTA
8: C.A. De Sainte-Beuve, "Causeries du Lundi", Paris 1857, vol. 9,
pag. 112.
NOTA
9: A. Vermorel, op. cit., La prefazione di Vermorel al "Contr'un" è
stata ripubblicata in E. De La Boetie, "Le discours de la servitude
volontaire", Payot. Paris 1976, pag. 68.
NOTA
10: M. De Montaigne, op. cit., pag. 244.
NOTA
11: Lettera di Montaigne al padre, riportata in appendice a E. De la Boétie
"Il Contr'uno", G. Daelli e C.. Milano 1864.
NOTA
12: M. De Montaigne, op. cit., pag. 257.
NOTA
13 M. De Montaigne, op. cit., pag. 243.
NOTA 14: M. Butor, "Essais
sur les Essais", Gallimard, Paris 1968 pag. 33.
NOTA
15: Cfr. il testo del "Discorso sulla servitù volontaria", pag. 67.
NOTA
16: Vedi pagina 87. In un passo degli "Essais" Montaigne ripropone la
stessa riflessione dell'amico La Boétie, appena citata «I popoli allevati nella
libertà e nell'autogoverno considerano ogni altra forma di governo mostruosa e
contro natura. Quelli che sono abituati alla monarchia fanno lo stesso. E
qualsiasi possibilità di cambiamento la fortuna offra loro, perfino quando si
siano liberati con gran difficoltà dal fastidio d'un padrone, si precipitano a
ristabilirne uno nuovo con altrettante difficoltà, perché non possono risolversi
a prendere in odio l'autorità» (M. De Montaigne, op. cit. pagine 150-151).
NOTA
17: L'osservazione è di La Mothe Le Vayer, uno dei pensatori della corrente
libertina nella Francia del seicento
NOTA
18: Vedi pagina 70.
NOTA
19: In un certo senso La Boétie può essere considerato uno dei primi «spiriti
liberi» del Cinquecento, per la radicalità delle questioni che riesce a porre e
per il desiderio di libertà da cui è animato. A differenza però dei libertini
La Boétie è alieno da ogni forma di indifferentismo e relativismo.
NOTA
20: A questa conclusione giunge pure l'introduzione al "Discorso sulla
servitù volontaria" di Miguel Abensour e Marcel Gauchet; cfr. E. De La
Boétie, "Discours...", op. cit., Payot 1976, p. 11.
NOTA
21: Vedi pagina 87.
NOTA
22: In questo senso il "Contr'un" si colloca su tutt'altro piano
rispetto ai famosi pamphlets di quel periodo come la "Franco-Gallia"
di Hotman, le "Vindiciae contra tyrannos" e il già citato
"Réveille-Matin, tutti composti sotto l'impressione dei fatti violenti
iniziati con la strage della notte di S. Bartolomeo nel 1572.
NOTA
23: I termini del dibattito fra le varie ipotesi storiografiche sono esposti
chiaramente in A. M. Battista, "Appunti sulla crisi della morale
comunitaria nel Seicento francese", Olschki ed., Firenze 1969.
NOTA
24: A. M. Battista, "Alle origini del pensiero politico libertino.
Montaigne e Charron", Giuffrè, Milano 1966, pag. 18; il testo mette in
luce l'autonoma posizione di Montaigne e in generale del pensiero libertino
dalla costruzione politica di Machiavelli.
NOTA
25: Vedi pagina 100.
NOTA
26: M. De Montaigne, Op. Cit., pagine 339-340.
NOTA
27: Vedi pagina 63.
NOTA
28: L'ispirazione classica del "Discorso" è stata affrontata in
dettaglio da L. Delaurelle, "Sur l'inspiration antique dans le Discours de
la servitude volontaire", in «Revue d'histoire littéraire de la France», 1910.
NOTA
29: Vedi pagine 69-70.
NOTA
30: Vedi pagina 61.
NOTA
31: Parlando dei vari stratagemmi che il tiranno mette in atto a danno dei
sudditi La Boétie afferma: «E tu sai bene, mio caro Longa, il vasto
"formulario" (corsivo nostro) di cui potrebbero in molti casi fare
uso». Che il termine si riferisca all'opera machiavellica pare molto probabile,
soprattutto se si pensa all'interpretazione del "Principe" diffusa
anche in Francia nel sedicesimo secolo come una raccolta di precetti politici e
di abili stratagemmi.
NOTA
32: In uno scritto su Machiavelli e La Boétie Jean Barrère ha tentato di
dimostrare che il "Discorso" sarebbe stato scritto in risposta al "Principe"
di Machiavelli, con un'analisi linguistica comparata dei due testi. Ma, al di
là di alcuni possibili richiami di carattere stilistico, per altro abbastanza
rari, non ci sembra possibile intendere il "Discorso" come una
risposta in chiave politica al Principe. Se si vuole parlare di antitesi fra le
due opere, il contrasto va ricercato non fra due testi all'interno del discorso
politico del momento, ma fra due concezioni radicalmente diverse della libertà
e del potere.
NOTA
33: Quest'ultima interpretazione di Machiavelli ebbe particolare fortuna nel
nostro Risorgimento, che privilegiò l'invocazione alla patria contenuta
nell'ultimo capitolo del "Principe" come invito all'indipendenza
nazionale. Esempio di questa interpretazione sono i famosi versi dei
"Sepolcri" foscoliani, in cui si inneggia al Grande che ha svelato
alle genti i retroscena del potere.
NOTA
34: P. Mesnard in «La Boétie critico della tirannide» in "L'essor de la
philosophie politique au seizième siècle", J. Vrin, Paris 1951; tr. it. "Il
pensiero politico rinascimentale", Laterza, Bari, 1963, vol. 2, pagine
4-5.
NOTA
35: L. Daneau, "De iurisdictione iudicum", citato da Mesnard, ibidem.
NOTA
36: Riportato nella «Collection des chefs-d'oeuvre méconnus», Bossard, Paris
1922.
NOTA
37: A. Thuani "Historiarum sui temporis pars Ia", Paris 1604.
NOTA
38: E' solo nella seconda edizione degli "Essais" che Montaigne
retrodata la composizione del "Discorso" al 1546, mentre prima aveva
affermato che l'opera era stata scritta nel 1548. Ma questa tendenza di
Montaigne ad allontanare il più possibile la data di composizione del
"Contr'un" è già stata spiegata: è probabile che nella seconda
edizione abbia ulteriormente retrodatato lo scritto proprio perché l'anno 1548 portava
con sé il riferimento immediato alla rivolta della Guienna.
NOTA
39: Y. M. Bercé, Croquants et Nu-pieds. Les soulèvements paysans en France du 16 au 19 siècle, Gallimard/Julliard,
Paris 1974, pagine 40-41.
NOTA
40: Vedi pagina 110.
NOTA
41: Vedi pagine 60-61.
NOTA
42: N. Machiavelli, "Il Principe", a cura di L. Firpo, Einaudi,
Torino 1961, cap. 1, pag. 5.
NOTA
43: Questa distinzione era uno dei fondamenti di tutta la libellistica
anti-monarchica nella Francia del Cinquecento: cfr. ad esempio le
"Vindiciae contra tyrannos", dove si afferma che «i tiranni e i re, i
principi giusti e quelli ingiusti sono in perfetta antitesi», in "Grande
antologia filosofica", Milano 1964, vol. 10.
NOTA
44: Questo è il parere per esempio di Bonnefon, in Introduzione a E. De La
Boétie, "Oeuvres complètes", Paris 1892, p. 43.
NOTA
45: Vedi pagina 60.
NOTA
46: Vedi pagine 76-77.
NOTA
47: Ibidem.
NOTA
48: Vedi pagina 109.
NOTA
49: Vedi pagina 100.
NOTA
50: Vedi pagina 70.
NOTA
51: Vedi pagina 66.
NOTA
52: Vedi pagina 67.
NOTA
53: Vedi pagina 68.
NOTA
54: Vedi pagina 70.
NOTA
55: Vedi pagina 71.
NOTA
56: Si tratta di Pierre Leroux, autore di un commento all'opera di La Boétie,
in "Revue Sociale", agosto-sett. 1847, pagine 169-172; «Le Contr'un
d'Etienne La Boétie» riportato in "Discours de la servitude volontaire",
op. cit. Payot 1976, pagine 41-56.
NOTA
57: Vedi pagina 61.
NOTA
58: Vedi pagina 107.
NOTA
59: C. Lefort «Le nom d'Un», commento al "Discorso", op. cit. Payot
1976, pag. 273.
NOTA
60: Vedi pagina 74.
NOTA
61: Su questo confronta G.F. Dalmasso, "La politica dell'immaginario.
Rousseau/Sade", Jaca Book, Milano 1977.
NOTA
62: Sulla impossibilità di una «rifondazione del potere» e sulla contraddizione
intrinseca all'idea di libertà confronta M. Cacciari, "Dialettica e
critica del politico. Saggio su Hegel", Feltrinelli, Milano 1978. La
differenza delle tesi esposte da Cacciari con quanto abbiamo finora detto è
però radicale: per Cacciari la soluzione starebbe nella rinuncia definitiva
alla soggettività.
NOTA
63: Vedi pagina 103.
NOTA
64: Landauer, op. cit. pag. 63.
NOTA
DEL TRADUTTORE.
La
presente traduzione del "Discorso sulla servitù volontaria" è stata
condotta sul cosiddetto manoscritto "De Mesmes", ritrovato solo nel
secolo scorso e pubblicato nel 1853 da Payen; recentemente è stato riproposto
al pubblico francese dall'editore Payot di Parigi.
Questo
manoscritto, destinato ad una ristretta cerchia di amici di Montaigne, può
essere considerato verosimilmente la copia del testo originale andato perduto o
quantomeno la stesura più fedele, a differenza delle edizioni successive,
parziali o comunque largamente rimaneggiate.
Nella
traduzione ho cercato di mantenermi aderente al testo "De Mesmes",
rispettandone il più possibile l'intonazione retorica e l'andamento sintattico;
mi sono permesso di allontanarmi dal testo solo in quei pochi casi nei quali è
evidente la trascrizione errata di uno o più termini e più in generale nella punteggiatura
che nel manoscritto risulta essere molto disordinata.
L.G.
DISCORSO
SULLA SERVITU' VOLONTARIA.
«No,
non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno il re» (1)
così
Ulisse, secondo il racconto di Omero, si rivolse all'assemblea dei Greci. Se si
fosse fermato alla frase «non è un bene il comando di molti» non avrebbe potuto
dire cosa migliore. Ma mentre, a voler essere ancora più ragionevoli, bisognava
aggiungere che il dominio di molti non può essere conveniente dato che il
potere di uno solo, appena questi assuma il titolo di signore, è terribile e
contro ragione, al contrario il nostro eroe conclude dicendo: «uno sia il capo,
uno il re».
E
tuttavia dobbiamo perdonare a Ulisse di aver tenuto un simile discorso che in
quel momento gli servì per calmare la ribellione dell'esercito adattando,
penso, il suo discorso più alla circostanza che alla verità. Ma in tutta
coscienza va considerata una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di
cui non si può mai dire con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo
potere essere malvagio secondo il proprio arbitrio; e quanto più padroni si
hanno tanto più sventurati ci si trova. Ma non voglio ora addentrarmi nella
questione così spesso dibattuta se gli altri modi di governare la cosa pubblica
siano migliori della monarchia. Se dovessi entrare in merito a tale questione,
prima di discutere a quale livello si debba collocare la monarchia tra i
diversi tipi di governo, porrei il problema se essa si possa dir tale, dato che
mi sembra difficile credere che ci sia qualcosa di pubblico in un governo dove
tutto è di uno solo. Ma riserviamo ad un altro momento la discussione di questo
problema che richiederebbe di essere trattato a parte e si trascinerebbe dietro
ogni sorta di disputa politica.
Per
ora vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e
città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se
non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene
tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel caso che si preferisca sopportarlo
anziché contraddirlo. E' un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo
comune, tanto che c'è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e
milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa sotto ad un
giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano
affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non
dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta appunto di una persona sola,
né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro in modo del tutto inumano
e selvaggio. Noi uomini siamo così deboli che sovente dobbiamo ubbidire alla forza;
in questo caso è necessario prender tempo, non potendo sempre essere tra i più
forti. Dunque se una nazione è costretta dalla forza delle armi a sottomettersi
ad uno, come la città d'Atene ai trenta tiranni, non bisogna stupirsi della sua
servitù ma compiangerla, o meglio ancora né stupirsi né lamentarsi ma sopportare
la disgrazia con rassegnazione e prepararsi per un'occasione migliore nel
futuro.
La
natura umana è fatta in modo tale che i doveri dell'amicizia assorbono buona
parte della nostra vita. E' del tutto ragionevole amare la virtù, avere stima
delle buone azioni, essere riconoscenti del bene ricevuto e a volte anche
mettere un limite al nostro benessere per aumentare l'onore e i vantaggi di
coloro che amiamo e che meritano di esserlo. Orbene, ammettiamo che gli
abitanti di un paese riescano a trovare uno di quei grandi personaggi che ha
saputo dar loro prova di grande preveggenza su cui fare affidamento, di grande coraggio
a loro difesa, di cura premurosa da poterli governare. Se ad un certo punto si
trovano a loro agio nell'obbedirgli e gli danno fiducia fino a riconoscergli
una certa supremazia, non saprei proprio dire se è agire con saggezza toglierlo
da dove faceva bene per metterlo in una posizione dove potrebbe fare male; in ogni
caso ci risulta naturale volergli bene senza temere di riceverne del male.
Ma,
buon Dio, che faccenda è mai questa? Come spiegarla? Quale disgrazia, quale
vizio, quale disgraziato vizio fa sì che dobbiamo vedere un'infinità di uomini
non solo ubbidire ma servire, non essere governati ma tiranneggiati a tal punto
che non possiedono più né beni, né figli, né genitori e neppure la propria
vita?
Vederli
soffrire rapine, brigantaggi, crudeltà, non da parte di un'armata o di un'orda
di barbari contro cui si dovrebbe difendere la vita a prezzo del proprio
sangue, ma a causa di uno solo, e non già di un Ercole o di un Sansone ma di un
uomo che nella maggior parte dei casi è il più molle ed effeminato di tutta una
nazione, che non ha mai provato la polvere delle battaglie e neppure quella di
un torneo; non solo incapace di imporsi agli uomini ma preoccupato di servire
la più trascurabile donnicciola. Ebbene, è forse debolezza tutto questo? Chiameremo
vili e codardi tutti coloro che gli si sono assoggettati? Che due, tre o
quattro persone si lascino sopraffare da uno è strano, tuttavia può accadere;
in questo caso si potrà ben dire che è mancanza di coraggio. Ma se cento, se
mille persone si lasciano opprimere da uno solo chi oserà ancora parlare di
viltà, di timore di scontrarsi con lui, anziché affermare che si tratta di
mancanza di volontà e di grande abiezione? E se vediamo non cento o mille
persone, ma cento villaggi, mille città, milioni di uomini che non fanno nulla
per attaccare e schiacciare uno solo che li tratta nel migliore dei casi come
servi e schiavi, come potremo qualificare un simile fatto? Si tratta ancora di
viltà? Ma in tutti i vizi ci sono dei limiti oltre i quali non si può andare;
due uomini, ammettiamo anche dieci, possono aver paura di uno. Ma se mille
persone, che dico, mille città non si difendono da uno solo questa non è viltà,
non si può essere vigliacchi fino a questo punto, così come aver coraggio non
significa che un uomo si debba metter da solo a scalare una fortezza, attaccare
un'armata, conquistare un regno! Che razza di vizio è allora questo se non merita
neppure il nome di viltà, se non si riesce a qualificarlo con termini
sufficientemente spregevoli, se la natura stessa lo disapprova e il linguaggio
rifiuta di nominarlo?
Si
mettano cinquantamila uomini armati da una parte e dall'altra; si schierino per
la battaglia e combattano tra loro, gli uni per la propria libertà, gli altri
per toglierla ai primi. A chi presumibilmente toccherà la vittoria? Saranno più
coraggiosi in battaglia quelli che sperano di ottenere in premio il
mantenimento della loro libertà o coloro che come ricompensa delle percosse
date e subite non avranno se non la servitù altrui?
I
primi hanno sempre davanti agli occhi la felicità del tempo passato e l'attesa
di una vita altrettanto lieta per l'avvenire; non si preoccupano delle
sofferenze che durano il tempo di una battaglia ma piuttosto pensano a tutte
quelle che dovranno sopportare per sempre loro stessi, i figli e tutti i
discendenti. Gli altri invece non hanno nulla che possa dar loro slancio se non
una punta di cupidigia che subito svanisce di fronte al pericolo; in ogni caso
il loro coraggio si ferma alla vista della più piccola goccia di sangue appena inizia
ad uscire da una ferita. Ripensiamo alle famose battaglie di Milziade, di
Leonida, di Temistocle, avvenute duemila anni fa ma ancor oggi così vive nel
ricordo dei libri e degli uomini come se fossero successe l'altro giorno, combattute
in Grecia per il bene dei greci ma anche come esempi per il mondo intero.
Ebbene domandiamoci: da dove venne a così pochi uomini, come a quel tempo i
greci, non dico la forza ma il coraggio di respingere flotte talmente potenti e
numerose da coprire il mare, e di sconfiggere così tante nazioni i cui eserciti
avevano più capitani di quanto non fossero tutti i soldati greci messi assieme?
A mio avviso solo dal fatto che in quelle gloriose giornate non ci fu
semplicemente una battaglia di greci contro persiani, bensì avvenne la vittoria
della libertà contro la tirannia, della liberazione contro l'oppressione.
E' una
cosa davvero straordinaria osservare il coraggio che la libertà mette in animo
a coloro che la difendono; ma quel che avviene in tutti i paesi, fra tutti gli
uomini, tutti i giorni, e cioè che uno solo opprime cento, mille persone e le
priva della loro libertà, chi potrebbe mai crederlo se fosse semplicemente una
notizia che ci giunge alle orecchie e non capitasse invece davanti ai nostri
occhi? E se questo accadesse in paesi lontani e qualcuno venisse a
raccontarcelo, chi di noi non penserebbe che si tratta di una pura invenzione?
Va aggiunto inoltre che non c'è bisogno di combattere questo tiranno, di
toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo, basta che il popolo non acconsenta
più a servirlo. Non si tratta di sottrargli qualcosa, ma di non attribuirgli
niente; non c'è bisogno che il paese si sforzi di fare qualcosa per il proprio bene,
è sufficiente che non faccia nulla a proprio danno. Sono dunque i popoli stessi
che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di
sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta,
si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà
rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio
male, anzi se lo procura. Se gli costasse qualcosa riacquistare la libertà non
continuerei a sollecitarlo; anche se riprendersi i propri diritti di natura e per
così dire da bestia ridiventare uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore.
Tuttavia non voglio esigere da lui un tale coraggio; gli concedo pure di
preferire una vita a suo modo sicura anche se miserabile ad una incerta
speranza in una condizione migliore. Ma se per avere la libertà è sufficiente
desiderarla con un semplice atto di volontà si troverà ancora al mondo un
popolo che la ritenga troppo cara, potendola ottenere con un desiderio? Può
esistere un popolo che non se la senta di riavere un bene che si dovrebbe riscattare
a prezzo del proprio sangue, un bene la cui perdita rende insopportabile la
vita e desiderabile la morte, almeno per chi ha un minimo di dignità? Come il
fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre più grande e più trova legna
più ne brucia, ma si consuma da solo, anche senza gettarvi sopra dell'acqua, semplicemente
non alimentandolo, così i tiranni più saccheggiano e più esigono, più
distruggono e più ottengono mano libera, più li si serve e più diventano
potenti, forti e disposti a distruggere tutto; ma se non si cede al loro
volere, se non si presta loro obbedienza allora, senza alcuna lotta, senza
colpo ferire, rimangono nudi e impotenti, ridotti a un niente proprio come un
albero che non ricevendo più la linfa vitale dalle radici subito rinsecchisce e
muore.
Gli
uomini coraggiosi per conquistare il bene che desiderano non temono di
affrontare il pericolo; la gente intraprendente non rifiuta la fatica. Invece
gli uomini deboli e pressoché storditi non sanno né sopportare il male, né
ricercare il bene, limitandosi a desiderarlo. La debolezza del loro animo
toglie loro l'energia per arrivare al bene; mantengono solo quel desiderio che
è insito nella natura umana. Questa aspirazione è comune ai saggi e agli
ignoranti, ai coraggiosi ed ai pusillanimi e fa sì che essi continuino ad avere
il desiderio di tutte quelle cose che li potrebbero rendere felici. In una sola
cosa, non so come mai, sembra che la natura venga meno così che gli uomini non
hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà, un bene così grande e
dolce che una volta perduto vengono dietro tutti i mali, mentre tutti i beni
che solitamente l'accompagnano, corrotti dalla servitù, non hanno più né gusto
né sapore. E' così che gli uomini tutto desiderano eccetto la libertà forse
perché l'otterrebbero semplicemente desiderandola; è come se si rifiutassero di
fare questa conquista perché troppo facile.
Povera
gente insensata, popoli ostinati nel male e ciechi nei confronti del vostro
bene! Vi lasciate portar via sotto gli occhi tutti i vostri migliori guadagni,
permettete che saccheggino i vostri campi, rubino nelle vostre case
spogliandole dei vecchi mobili paterni. Vivete in condizione da non poter più
vantarvi di tenere una cosa che sia vostra; e vi sembrerebbe addirittura di
ricevere un gran favore se vi si lasciasse la metà dei vostri beni, delle
vostre famiglie, della vostra stessa vita. E tutti questi danni, queste
sventure, questa rovina vi vengono non da molti nemici ma da uno solo, da colui
che voi stessi avete reso tanto potente; è per suo amore che andate così
coraggiosamente in guerra, è per la sua vanità che non esitate ad affrontare la
morte. Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due mani, un
corpo e niente di più di quanto possiede l'ultimo abitante di tutte le vostre
città. Ciò che ha in più è la libertà di mano che gli lasciate nel fare
oppressione su di voi fino ad annientarvi. Da dove ha potuto prendere tanti
occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani
per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? E i piedi coi quali calpesta
le vostre città non sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di voi
senza che voi stessi vi prestiate al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se
non fosse già d'accordo con voi? Che male potrebbe farvi se non foste complici
del brigante che vi deruba, dell'assassino che vi uccide, se insomma non foste
traditori di voi stessi? Voi seminate i campi per farvi distruggere il
raccolto; riempite di mobili e di vari oggetti le vostre case per lasciarveli
derubare; allevate le vostre figlie per soddisfare le sue voglie e i vostri
figli perché il meglio che loro possa capitare è di essere trascinati in guerra,
condotti al macello, trasformati in servi dei suoi desideri e in esecutori delle
sue vendette; vi ammazzate di fatica perché possa godersi le gioie della vita e
darsi ai piaceri più turpi; vi indebolite per renderlo più forte e più duro nel
tenervi corta la briglia. Eppure da tutte queste infamie che le bestie stesse non
riuscirebbero ad apprendere e che comunque non sopporterebbero, potreste
liberarvi se provaste, non dico a scuotervele di dosso, ma semplicemente a
desiderare di farlo. Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi.
Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non
lo sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in
frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento.
Certo,
i medici dicono che è inutile tentare di guarire le piaghe incurabili e in questo
senso ho forse torto a voler dare consigli al popolo che da molto tempo ha
perso del tutto conoscenza riguardo al male che l'affligge e proprio perché non
lo sente più dimostra ormai che la sua malattia è mortale. Cerchiamo allora di
scoprire per tentativi come questa ostinata volontà di servire ha potuto
radicarsi a tal punto che lo stesso amore per la libertà non sembra più essere
tanto naturale.
Prima
di tutto credo sia fuori di dubbio che se vivessimo con quei diritti che la
natura ci ha dato e secondo quegli insegnamenti che essa ci ha impartito
saremmo senz'altro obbedienti verso i genitori, soggetti alla ragione e servi
di nessuno. Si tratta di un'obbedienza che ciascuno, senza altra spinta che non
sia quella della natura, rende a suo padre e sua madre; di questo tutti gli
uomini possono essere testimoni di fronte a se stessi. Quanto invece al
problema se la ragione sia innata o no (questione dibattuta a fondo nelle accademie
e affrontata da tutte le scuole filosofiche) penso di non sbagliarmi dicendo
che c'è nella nostra anima un seme naturale di ragione il quale, una volta che
sia mantenuto da buoni consigli e abitudini, fiorisce in virtù, mentre a volte
non potendo resistere ai vizi che sopraggiungono col tempo, muore soffocato. Ma
certamente, se c'è una cosa chiara ed evidente così che nessuno può permettersi
di non vedere è che la natura stabilita da Dio a governare gli uomini ci ha
fatti tutti allo stesso modo, vale a dire dallo stesso stampo, così che
potessimo riconoscerci l'un l'altro come compagni o piuttosto come fratelli. E
se nel distribuire i doni sia del corpo che dello spirito ha largheggiato più
con alcuni che con altri, tuttavia non per questo ha voluto metterci al mondo
come in una sorta di recinto da combattimento, e non ha certo creato i più
forti e i più furbi perché si comportassero come i briganti nella foresta che
danno addosso ai più deboli. Piuttosto bisogna credere che la natura, dando
agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto porre le condizioni per un
affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di
recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque questa buona madre ha
dato a tutti noi la terra da abitare, mettendoci in certo modo in un'unica
grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno potesse
riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi
ha fatto il grande dono della parola per comunicare, diventare sempre più
fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre idee ad una
comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di stringere sempre più
saldamente il vincolo che ci lega in un patto di convivenza sociale; se insomma
sotto ogni punto di vista ha mostrato chiaramente di averci voluti non solo
uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c'è dubbio che tutti siamo
liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e a nessuno può venire in mente
che la natura, dopo averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia
potuto porre qualcuno nella condizione di servo.
Ma
forse non vale la pena discutere se la libertà sia naturale, dato che è
impossibile tenere qualcuno in schiavitù senza fargli un grande torto e nessuna
cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è razionale, della
ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo
padroni della nostra libertà ma anche dotati della volontà di difenderla. Ora
se per caso qualcuno nutrisse ancora dei dubbi su questo e si fosse talmente
depravato da non riconoscere più neppure i beni della propria natura umana e
gli affetti che gli sono originari, è necessario rendergli l'onore che si
merita e mettergli in cattedra per così dire le bestie prive di ragione che gli
possano insegnare quale sia la sua natura e la sua condizione.
Sì le
bestie stesse, per Dio, a meno che gli uomini vogliano fare i sordi,
continuamente gridano: viva la libertà! Infatti la maggior parte degli animali
muore appena catturata. Come il pesce muore appena lo si toglie dall'acqua così
tutti gli animali chiudono gli occhi alla luce del mondo piuttosto che
continuare a vivere dopo aver perso la loro naturale condizione di libertà. E
se gli animali avessero tra loro diversi gradi d'importanza penso che l'esser
liberi costituirebbe la loro massima nobiltà. Altri animali, dal più grande fino
al più piccolo, quando li si vuol prendere oppongono una tale resistenza con le
unghie, le corna, il becco o i piedi, che dimostrano in modo evidente quanto
sia loro caro ciò che stanno per perdere. Poi, una volta catturati, danno
chiari segni di malessere e si può benissimo notare che dal momento della
cattura il loro non è un vivere ma un languire, e stanno in vita più per
lamentarsi della libertà perduta che per rassegnazione alla prigionia. E quando
l'elefante, dopo essersi difeso fino all'estremo delle forze, non avendo più
via di scampo ed essendo oramai sul punto di essere preso, si avventa con le
mascelle contro gli alberi e si spezza le zanne, non dimostra forse il suo
grande desiderio di restare libero com'è per natura, cercando di venire a patti
con i cacciatori e di lasciar loro i suoi denti pur di riuscire ad andarsene e
in cambio dell'avorio riacquistare la libertà? E così il cavallo; appena nato
lo addestriamo a servire, ma nonostante tutte le nostre attenzioni e carezze,
quando lo vogliamo domare dobbiamo ricorrere ai colpi di sperone per fargli
mordere il freno, quasi volesse far vedere alla natura che se deve servire non
lo fa di suo istinto ma per costrizione altrui. Che dire ancora?
«Il
bue stesso sotto il giogo si lamenta
e geme
l'uccellin rinchiuso in gabbia»
come
ho scritto una volta quando per passatempo mi divertivo a comporre poesie; e
scrivendo a te, Longa (2), non dubito affatto che mi riterrai un vanitoso se mi
permetto di inserire la citazione delle mie rime, che non leggerei mai se tu
non riuscissi a darmi da intendere che ti piace ascoltarle. Così dunque se ogni
essere che ha sentimento della propria esistenza vive l'infelicità della
soggezione e corre dietro la libertà, se gli animali, che pur sono fatti per
servire l'uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo un
istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l'uomo,
l'unico ad essere nato propriamente per vivere libero, da fargli perdere la
memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo?
Vi
sono tre tipi di tiranni: alcuni ottengono il potere in base alla scelta del
popolo; altri con la forza delle armi; gli ultimi infine per successione
dinastica. Coloro che l'hanno avuto per diritto di guerra si comportano nel
modo che tutti ben conoscono, trovandosi, come si usa dire, in terra di
conquista. Chi invece nasce re non è certo migliore, anzi essendo nato e
cresciuto in seno alla tirannia la natura di despota l'ha succhiata con il
latte: considera infatti i popoli che gli sono sottomessi alla stregua di servi
avuti in eredità e, secondo l'inclinazione che si ritrova, tratta il regno da
avaro o da scialacquatore come fosse cosa sua propria. Infine per quanto
riguarda colui che ha ricevuto il potere dal popolo, mi sembra che dovrebbe essere
più sopportabile e credo lo sarebbe se non fosse per il fatto che una volta
vistosi innalzato sopra tutti gli altri, gonfiato da un sentimento che non
saprei definire ma che tutti chiamano senso di grandezza, decide di non
scenderne più. Di solito poi costui fa conto di lasciare ai figli il potere che
il popolo gli ha affidato; e dal momento che essi si mettono in testa questa
idea è uno spettacolo tremendo osservare come sanno superare in ogni tipo di
vizi e perfino in crudeltà gli altri tiranni, non trovando altro metodo per rafforzare
la nuova tirannia se non quello di accrescere la schiavitù e di sradicare la
libertà dall'animo dei loro sudditi a tal punto che, per quanto l'abbiano ben
presente nella memoria, riescono a fargliela perdere.
Così,
a dir la verità, vedo che tra i vari tipi di tirannide vi è qualche differenza
ma non noto che vi sia la possibilità di una scelta, poiché pur essendo diverse
le vie per arrivare al potere il modo di regnare è sempre più o meno lo stesso.
Coloro che sono eletti dal popolo lo trattano come un toro da domare; chi ha conquistato
il regno pensa di avere su di lui il diritto di preda; chi infine lo ha
ereditato considera i sudditi come suoi schiavi naturali.
A
questo proposito però vorrei chiedere: ammettiamo per caso che oggi nasca un
tipo di gente del tutto nuovo, non abituata alla servitù né allettata dalla
libertà, che non sappia assolutamente nulla dell'una e dell'altra cosa se non a
malapena i nomi; se a costoro venisse presentata l'alternativa tra l'esser
servi o il vivere liberi secondo quelle leggi che stabiliranno fra loro di
comune accordo, che cosa sceglierebbero? Non c'è dubbio che avrebbero più caro
ubbidire soltanto alla ragione piuttosto che servire ad un uomo, a meno che
siano come quei d'Israele che senza alcuna costrizione o necessità si crearono
un tiranno (3). E devo confessare che non riesco mai a leggere la storia di
questo popolo senza provare una stizza tale da diventare quasi inumano nei suoi
confronti, arrivando al punto di rallegrarmi per tutte le disgrazie che gli
sono poi capitate. Certamente perché tutti gli uomini (fin quando almeno hanno
qualcosa di umano) si lascino assoggettare è necessario una delle due: esservi
costretti o ingannati.
Costretti
dalle armi straniere, come Sparta e Atene dall'esercito di Alessandro, o dalle
fazioni in gioco, come il governo di Atene prima di cadere nelle mani di
Pisistrato. Per inganno gli uomini perdono sovente la loro libertà; in questo
un poco sono sedotti da altri, più spesso però accade che siano loro stessi ad ingannarsi.
Così gli abitanti di Siracusa, la principale città della Sicilia, assaliti da
ogni parte e preoccupati solo di salvarsi dal pericolo imminente, chiamarono
Dionigi Primo e gli diedero l'incarico di guidare l'esercito contro il nemico,
senza badare al fatto di averlo reso così potente che una volta tornato
vittorioso questo furfante, come se avesse sconfitto non dei nemici ma i suoi
stessi concittadini, da capitano si fece promuovere re e da re tiranno. E
nessuno crederebbe come un popolo, dopo essere stato sottomesso, sprofondi
subito in una tale dimenticanza della libertà che non gli è più possibile
risvegliarsene per riacquistarla, ma serve così di buon grado il tiranno che a
vederlo si direbbe non già che ha perso la sua libertà ma che si è guadagnato
la sua servitù. E' pur vero che all'inizio l'uomo serve a malincuore, costretto
da forza maggiore; ma quelli che vengono dopo, non avendo mai visto la libertà
e non sapendo neppure cosa sia, servono senza alcun rincrescimento e fanno
volentieri ciò che i loro padri hanno fatto per forza. E così gli uomini che
nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, senza
sollevare lo sguardo un poco in avanti si accontentano di vivere come sono
nati, e non riuscendo a immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si
sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati. E
tuttavia non c'è erede tanto spensierato e incurante che qualche volta non dia
un'occhiata ai registri di famiglia per vedere se gode di tutti i diritti di
successione o se invece non sia avvenuta qualche macchinazione contro di lui o
contro i suoi predecessori. Ma è anche vero che la consuetudine, la quale ha un
grande influsso su tutte le nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto
nell'insegnarci a servire, e come Mitridate che si abituò a bere il veleno, ci
rende alla fine assuefatti a trangugiare normalmente il veleno della servitù
senza sentirne l'amaro. Certamente nel tendere verso il bene o verso il male
gioca in gran parte la natura che ci spinge dove vuole; ma bisogna ammettere
che essa ha meno potere su di noi di quanto non l'abbia la consuetudine, perché
la nostra indole, per quanto possa essere buona, va persa se non si cerca di mantenerla.
L'educazione
insomma lascia sempre la sua impronta malgrado le tendenze naturali. I semi del
bene che la natura mette dentro di noi sono così piccoli e fragili che non
possono resistere al benché minimo impatto con un'educazione di segno contrario.
Inoltre non è semplice conservarli poiché con molta facilità si chiudono in sé,
degenerano e finiscono in niente, né più né meno degli alberi da frutta che
hanno ognuno la loro particolarità e la mantengono se li si lascia crescere in
modo naturale, ma perdono ben presto le loro caratteristiche e producono frutti
estranei se si operano degli innesti. Perfino ogni erba ha le sue proprietà naturali;
tuttavia il gelo, il tempo, il terreno e la mano del giardiniere influiscono
molto sulla loro qualità, sia nel peggiorarla che nel migliorarla: una pianta
vista in un dato luogo, in un altro si riconosce a fatica.
Chi
vedesse i veneziani, questo piccolo popolo, vivere una vita così libera che il
più meschino tra loro non si sognerebbe di diventare re, nati e allevati in
modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare ognuno miglior prova
dell'altro nel conservare gelosamente la libertà; educati fin dalla culla in
questo senso così che non cederebbero neppure un'oncia della loro libertà in
cambio di tutte le altre felicità della terra; ebbene dicevo, chi vedesse
questa gente e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo gran
signore trovandovi un popolo nato per servire e votato per tutta la vita a
mantenere il suo potere, riuscirebbe mai a pensare che gli uni e gli altri sono
della stessa natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una città di
uomini per entrare in un parco di animali?
Si
dice che Licurgo, il legislatore di Sparta, avesse allevato due cani, tutti e
due fratelli e allattati dalla stessa cagna, tenendone uno a ingrassare in
cucina e abituando l'altro a correre nei campi al suono della tromba e del
corno. Volendo far vedere agli spartani che gli uomini sono come li fa
l'educazione, portò i cani in piazza e mise loro vicino una minestra e una
lepre: il primo si buttò sulla scodella, l'altro corse dietro alla lepre.
Eppure - concluse Licurgo - sono fratelli! Così questo grand'uomo con le sue
leggi seppe dare una tale educazione agli spartani che ciascuno di loro avrebbe
avuto più caro morire mille volte piuttosto che riconoscere altro signore
all'infuori della legge e della ragione.
A
questo proposito vorrei ricordare la conversazione che si tenne tra uno dei più
alti rappresentanti di Serse, il grande re dei persiani, e due spartani.
Durante i preparativi per la conquista della Grecia, Serse mandò i suoi
ambasciatori nelle città di quella regione a chiedere l'acqua e la terra
(formula con la quale i persiani erano soliti intimare alle città di
sottomettersi). Ma ad Atene e Sparta non ne inviò ricordandosi che quando Dario
suo padre li aveva voluti mandare, furono buttati dagli ateniesi in un fosso e
dagli spartani in un pozzo e si sentirono rivolgere: «Prendete pure da qui
tutta l'acqua e la terra che volete e portatela al vostro re». A tal punto
giungeva la loro insofferenza anche per la più piccola parola che suonasse
offesa alla loro libertà. Tuttavia per aver agito in questo modo gli spartani
si accorsero di aver provocato l'ira degli dei, soprattutto di Taltibio, dio
dei messaggeri. Allora per rabbonire Serse pensarono di mandargli due cittadini
perché li trattasse a suo arbitrio e potesse così vendicarsi degli ambasciatori
che erano stati uccisi a suo padre. Due spartani, l'uno chiamato Sperto l'altro
Buli, si offrirono volentieri per andare a pagare di persona questo debito.
Giunsero così al palazzo di un persiano chiamato Gidarno, luogotenente del re
per tutte le città della costa asiatica. Costui fece loro grandi onori e
conversando su vari argomenti con i suoi ospiti ad un certo punto chiese per
quale motivo rifiutassero così decisamente l'amicizia del suo grande re.
E
aggiunse: «Guardate me per esempio e noterete allora come il re sa ricompensare
coloro che se ne rendono degni; credetemi, se vi metteste al suo servizio si comporterebbe
allo stesso modo anche verso di voi. Son sicuro che se vi conoscesse ognuno di
voi diventerebbe signore di una città della Grecia». «In queste cose Gidarno
non puoi darci alcun consiglio - risposero gli spartani - perché tu hai gustato
il bene che ci prometti ma non conosci quello che godiamo noi. Tu hai provato i
favori del re, ma non sai che sapore abbia la libertà e quanto essa sia dolce.
Se l'avessi anche solo sfiorata tu stesso ci consiglieresti di difenderla non
soltanto con la lancia e lo scudo ma con le unghie e i denti». Solo gli
spartani erano nel giusto; ma è certo che gli uni e gli altri parlavano come
erano stati educati. Era infatti impossibile al funzionario persiano
rimpiangere la libertà non avendola mai provata, così come gli spartani non
potevano sottomettersi al giogo avendola gustata appieno.
Catone
l'Uticense, quando era ancora fanciullo e sotto la guida del precettore, si
trovava spesso a casa di Silla il dittatore alla quale aveva libero ingresso
sia per il rango della famiglia cui apparteneva sia per la stretta parentela.
Ci andava sempre in compagnia del suo precettore com'era abitudine dei figli di
nobile famiglia e frequentando questa casa si accorse che in presenza di Silla
oppure su suo ordine c'era chi veniva messo in prigione, un altro che veniva
condannato, uno che veniva esiliato, un altro strangolato, e vi erano poi
coloro che facevano richiesta di confisca ai danni di un cittadino o
addirittura ne chiedevano la testa. In poche parole sembrava di essere non a
casa di un rappresentante della città ma a palazzo di un tiranno del popolo,
non a un tribunale di giustizia ma in una spelonca di tiranni.
Allora
questo giovanetto rivolgendosi al precettore disse: «Perché non mi date un
pugnale che possa nascondere sotto il vestito? Io entro spesso in camera di
Silla prima che si alzi e ho il braccio abbastanza forte per liberarne la
città». Ecco un discorso davvero da Catone, l'inizio di una vita in nulla
inferiore alla dignità della sua morte.
Lasciamo
pur perdere il nome e l'origine di questo personaggio. Si presenti l'episodio
per quello che è; il fatto parla da solo e senza pensarci su molto si potrà
arrivare a dire che quel ragazzo era romano, nato nel cuore della vera Roma
quando essa era libera. Perché dico questo? Non certo perché ritenga che il
luogo o il clima possano giovare a qualcosa, dato che in ogni paese e sotto
qualsiasi latitudine è amara la servitù e dolce la libertà, ma perché sono del
parere che si debba aver pietà di coloro che fin dalla nascita si sono trovati
il giogo sul collo, che li si scusi o comunque li si perdoni se non avendo mai
visto neppure l'ombra della libertà e non avendone mai avuto sentore non si
accorgono di quel grave danno che è l'essere servi. Se ci fossero veramente dei
paesi (come racconta Omero a proposito dei Cimmeri) dove il sole si mostra in modo
tutto diverso da come appare a noi, illuminandoli per sei mesi di seguito e per
gli altri sei lasciandoli completamente al buio senza farsi rivedere, ci si
potrebbe meravigliare se coloro che nascono durante questa lunga notte si
abituassero a vivere nelle tenebre dove sono nati senza desiderare la luce del giorno,
non avendone mai sentito parlare e non avendola mai vista? Non si può
rimpiangere quello che non si ha mai avuto e il rammarico vien solo dopo il
piacere; e sempre la conoscenza del male fa nascere il ricordo della felicità
del tempo passato. Per natura l'uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua
natura è fatta in modo tale da prendere la piega che gli dà l'educazione.
Diciamo
dunque che tutto ciò cui l'uomo si abitua fin da bambino gli diventa naturale;
ma in lui di propriamente naturale e originario vi è solo quello a cui lo
sollecita la natura semplice e schietta. Così la prima ragione della servitù
volontaria risulta essere la consuetudine.
Proprio
come quei destrieri cortaldi (4) che all'inizio mordono il freno ma poi ci
piglian gusto, e mentre nei primi giorni si mostrano recalcitranti appena si
mette loro sopra la sella, in seguito imparano a sfilare nelle loro ricche bardature
e se ne vanno tutti fieri e orgogliosi dei loro finimenti.
A
volte si sente affermare tranquillamente di essere stati sempre sottomessi e
che già i padri hanno vissuto in queste condizioni; costoro pensano di essere
obbligati a sopportare questo danno, si persuadono l'un l'altro con degli
esempi, e sono loro stessi col trascorrere del tempo a legittimare il potere di
coloro che li tiranneggiano. Ma il passare degli anni, a ben vedere, non dà
certo diritto a comportarsi male, anzi aggrava l'ingiustizia. E' ben vero che
si trova sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non
può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla servitù. Costui,
come Ulisse che per mare e per terra cercava continuamente di rivedere il fumo
della sua casa, non riesce a dimenticare i suoi naturali diritti, a non pensare
a coloro che l'hanno preceduto e alla condizione in cui vivevano. Sono proprio persone
di questo tipo che avendo chiari intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano
come la plebaglia di guardare a ciò che sta loro immediatamente dinnanzi, ma
hanno l'occhio attento al passato e a ciò che potrà accadere nel futuro; si
rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere dell'avvenire.
Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l'hanno saputo anche educare
con lo studio e la scienza; e quand'anche la libertà fosse andata completamente
perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola nel proprio
spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro
gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi.
Il
Gran Turco si è ben accorto che sono i libri e l'insegnamento molto più di ogni
altra cosa a mettere nel cuore degli uomini il sentimento di sé, il riconoscimento
della propria dignità e l'odio per il tiranno: per questo sento dire che nelle
sue terre non vi sono molte persone di scienza e neppure le richiede. Comunque lo
zelo di tutti coloro che malgrado i tempi sono rimasti attaccati alla libertà,
per quanto numerosi essi siano, rimane senza effetto perché non si conoscono
tra loro. Sotto la tirannia ogni libertà di fare, di parlare, e quasi di
pensare viene loro tolta: così rimangono tutti soli e isolati nei loro
desideri. Va dunque riconosciuto che Momo, il dio burlone, non scherzava poi
tanto quando trovava da ridire sull'uomo che aveva creato Vulcano, perché non
gli era stata messa una piccola finestra sul cuore così da poterne leggere i pensieri.
Si
dice che quando Bruto e Cassio si misero all'impresa di liberare Roma o per
meglio dire il mondo intero, non vollero che Cicerone, questo grande uomo pieno
di zelo per il bene comune come mai ve ne fu, si schierasse dalla loro parte,
perché ritenevano che avesse il cuore troppo debole per partecipare ad un evento
così decisivo; credevano nella sua buona volontà ma non facevano affidamento
sul suo coraggio. E tuttavia chi vorrà tornare a riflettere sui fatti del
passato e consultare antichi annali, passando in rassegna tutti coloro che
vedendo il proprio paese alla deriva e in cattive mani si misero all'opera per
liberarlo con intenzione sincera e dedizione totale, ne troverà ben pochi che
non abbiano raggiunto lo scopo, perché la libertà si fa largo per conto suo.
Armodio, Aristogitone, Trasibulo, Bruto il vecchio, Valerio e Diones, tutti
quanti concepirono questo giusto progetto e lo realizzarono felicemente; in
questi casi alla buona volontà non manca quasi mai la fortuna. Anche Bruto il
giovane e Cassio riuscirono ad eliminare la causa della schiavitù; fu invece
nel tentativo di riportare la libertà a Roma che essi morirono, non miseramente
(sarebbe veramente una infamia cercare nella vita o nella morte di questi eroi
indegnità e miserie), ma certo con grave danno, sventura perenne e definitiva
rovina della repubblica che, mi sembra, fu sotterrata con loro. Le imprese
successive compiute contro gli imperatori romani non furono altro che congiure
di gente ambiziosa, la quale non deve certo essere compianta per gli
inconvenienti cui andò incontro, essendo a tutti evidente che desideravano
semplicemente far cadere una corona, non togliere il re, cacciare sì il
despota, ma tenere in vita la tirannide. Riguardo a costoro sarei dispiaciuto
se fossero riusciti nel loro scopo, e sono ben contento che oggi possano essere
portati a dimostrazione del fatto che non bisogna abusare del santo nome della
libertà per compiere imprese malvagie.
Ma per
tornare al nostro argomento che avevo quasi perso di vista, la prima ragione
per cui gli uomini servono di buon animo è perché nascono servi e sono allevati
come tali. Da qui deriva quest'altro fatto: molto facilmente sotto la tirannia
ci si rammollisce e si diventa effeminati. Fu Ippocrate, il padre della medicina,
ad accorgersi di questo e a scriverlo in uno dei suoi libri dal titolo "Le
malattie" (6), e di questa sua intuizione dobbiamo essergli assolutamente
grati. Questo personaggio aveva senza dubbio un cuore generoso e lo dimostrò in
un'occasione. Poiché il grande sovrano (7)lo voleva presso di sé e lo
sollecitava continuamente con varie profferte e con grandi donativi, Ippocrate
un giorno gli rispose in tutta franchezza che avrebbe avuto dei problemi di
coscienza nel mettersi a curare dei barbari che volevano uccidere il suo popolo
e nel rendersi condiscendente al loro re che si stava preparando ad
assoggettare la Grecia. La lettera che Ippocrate inviò al re contenente queste
affermazioni si può leggere ancora oggi nelle sue opere e rimarrà per sempre
una testimonianza del suo coraggio e del suo nobile carattere.
E'
ormai certo che con la libertà si perde allo stesso tempo anche il coraggio.
Gli uomini sottomessi vanno in battaglia senza alcuna baldanza e ardimento,
affrontano il pericolo l'uno appiccicato all'altro, intorpiditi, tanto per
adempiere ad un obbligo e non si sentono bollire il sangue nelle vene per
l'ardore della libertà che sola fa disprezzare il pericolo e nascere il
desiderio di acquistare l'onore della gloria fra tutti i compagni con un bel
morire. Al contrario fra gente libera si fa a gara per vedere chi è il
migliore, combattendo per sé e per il bene comune, aspettando tutti di avere la
propria parte di bene in caso di vittoria o la parte di male nella sconfitta;
invece la gente asservita non ha più questo coraggio da guerrieri, anzi non
riesce neppure ad essere vivace nelle altre cose, poiché possiede un animo
ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande.
I
tiranni sanno bene tutto questo e vedendo i loro sudditi prendere una simile
piega li spingono in questa direzione così da renderli ancor più fiacchi e
indolenti.
Senofonte,
storico insigne tra i più grandi della Grecia, scrisse un libretto (8) dove si
può trovare il dialogo di Simonide con Ierone, re di Siracusa, sulle miserie
del tiranno. E' un libro pieno di gravi ma giusti rimproveri, esposti a mio
parere nel tono più adatto possibile. Avesse voluto Iddio che tutti i tiranni, quanti
vi sono stati sulla terra, se lo fossero tenuto davanti agli occhi così da
farsene specchio! Sono sicuro che in questo modo avrebbero potuto riconoscere
sulla propria faccia i segni del vizio e provarne grande vergogna. In questo trattato viene descritta
la vita penosa che trascorrono i tiranni, i quali facendo del male a tutti sono
costretti a temere continuamente di riceverlo da ciascuno. Fra tante cose vien
fatto anche notare che i re malvagi si servono di stranieri presi come
mercenari per fare le guerre, non fidandosi di mettere le armi in mano alla
loro gente cui hanno fatto ogni specie di torto. (Ci sono stati a dire il vero
dei buoni sovrani che hanno assoldato stranieri, alcuni tra gli stessi re di
Francia, anche se più in passato che non oggi; ma con l'unica intenzione di
mantenere in vita il proprio popolo, non preoccupandosi di spendere denaro pur
di risparmiare uomini. Come diceva, se ben mi ricordo, Scipione l'Africano:
preferirei salvare la vita ad un cittadino piuttosto che uccidere cento
nemici.) Ma è certo che i tiranni non sono mai tranquilli e sicuri di avere in
mano tutto il potere fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto
di sé alcun uomo di coraggio. Dunque a buon diritto si potrà dir loro quel che
Trasone in una commedia di Terenzio si vanta di aver rinfacciato al domatore
degli elefanti:
«Tu ti
reputi molto abile
Avendo
a che fare con delle bestie» (9).
Questa
astuzia dei tiranni nell'abbrutire i propri sudditi più che in ogni altro caso
si è manifestata in modo evidente nel trattamento che Ciro riservò agli
abitanti della Lidia, dopo essersi impadronito di Sardi, capitale di quella
regione, e dopo aver fatto schiavo il ricchissimo re Creso che si era rimesso
nelle sue mani. Giunse notizia a Ciro che gli abitanti di Sardi erano scesi in
rivolta. Avrebbe potuto ridurli in un attimo ai suoi voleri; ma non volendo
distruggere una così bella città e neppure essere obbligato a tenervi di
guardia un esercito, per garantirsene la sottomissione, ricorse a questo
espediente: vi fece collocare bordelli, taverne e giochi pubblici e bandì
un'ordinanza con cui i cittadini erano autorizzati a farne uso come volevano. E
questa specie di guarnigione gli rese così buon servizio che da allora non ci
fu più bisogno neppure di un solo colpo di spada contro gli abitanti della
Lidia. Questi poveracci si divertivano a inventare ogni tipo di gioco a tal
punto che i latini, per indicare ciò che noi chiamiamo passatempi, trassero dal
loro nome il termine "ludi". Non tutti i tiranni hanno mostrato così
apertamente di voler effeminare i loro sudditi; ma di fatto quanto Ciro ordinò
formalmente gli altri per la maggior parte sono riusciti ad ottenerlo di nascosto.
In effetti questa è la tendenza naturale della plebaglia che solitamente si ritrova
più numerosa nelle città: è sospettosa nei riguardi di chi le vuol bene mentre
è ingenua e pronta a tutto verso chi l'inganna. Non vi è uccello che si lasci
prendere così agevolmente nella pania o pesce che abbocchi in fretta all'amo
quanto facilmente si facciano allettare dalla schiavitù tutti i popoli appena
ne avvertono il più leggero profumo sotto il naso. Ed è veramente una cosa
fuori dal comune vedere come cedano sull'istante alla minima lusinga: teatri,
giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, animali esotici, esposizioni di
medaglie e di vari dipinti, e altre droghe di questo tipo costituivano per i
popoli antichi l'esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli
strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato dagli antichi
tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e incantati
da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano
fatti passare davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in questo modo del
tutto sciocco, peggio ancora dei bambini che imparano a leggere per via delle
immagini colorate e delle miniature che si trovano sui libri. A tutti questi
stratagemmi i tiranni romani aggiunsero l'usanza di festeggiare spesso le
decurie pubbliche (10) prendendo per la gola questa gente abbrutita che non
aspettava altro; il più accorto e intelligente fra tutti costoro non avrebbe
dato il suo piatto di minestra per scoprire la libertà della repubblica di
Platone. In queste occasioni i tiranni facevano i generosi distribuendo quarti
di grano, qualche sestario (11) di vino e un po' di sesterzi; ed allora era
davvero uno spettacolo penoso sentir gridare viva il re! Quegli sciocchi non si
accorgevano che stavano semplicemente recuperando una parte dei propri beni e
che anche quel poco che stavano ricevendo poteva essere donato dal tiranno solo
perché prima li aveva derubati. In tal modo nel giorno di festa la gente
raccoglieva sesterzi e gozzovigliava ringraziando Tiberio o Nerone per la loro generosità
per poi essere costretti il giorno dopo a consegnare i propri beni, i figli, la
vita stessa all'avidità, alla lussuria e alla crudeltà di questi magnifici
imperatori, senza osar dire una parola, muti come un sasso, e senza fare il
minimo movimento, immobili come piante. La plebaglia si è sempre comportata in
questo modo: subito disposta a perdersi nei piaceri che onestamente non
potrebbe accettare, insensibile al torto e alle sofferenze che non dovrebbe
ulteriormente sopportare.
Attualmente
non c'è nessuno che sentendo parlare di Nerone non tremi al solo nome di quel
mostro tremendo, di quell'orribile e turpe flagello del mondo; e tuttavia
allorché questo incendiario, questo boia, questa bestia selvaggia morì, in modo
disonesto come tutta la sua vita, il famoso popolo romano, ricordando i suoi
giochi e i suoi festini, rimase talmente dispiaciuto che fu sul punto di
portarne il lutto.
Così
almeno ci ha lasciato scritto Tacito, storico tra i più attendibili e
straordinariamente serio. Tutto questo non deve sembrar strano visto che il
popolo romano aveva fatto altrettanto qualche tempo prima in occasione della
morte di Giulio Cesare che aveva messo completamente da parte leggi e libertà, personaggio
in cui non mi sembra si sia potuto trovare qualcosa di valido, dato che la sua
stessa umanità solitamente tanto esaltata è stata più dannosa che non le
crudeltà del tiranno più sanguinario che sia mai vissuto: infatti fu proprio
questa sua velenosa dolcezza che indorò la pillola della servitù al popolo
romano.
E così
dopo la sua morte questo popolo che aveva ancora la bocca piena dei suoi
banchetti e il ricordo vivo delle sue prodigalità, per rendergli onore e avere
le sue ceneri, fece a gara nell'ammucchiare i banchi del foro per formarne un
rogo; poi eressero una colonna a colui che vollero considerare padre della
patria (così stava scritto sul capitello), e gli fecero più onore da morto di
quanto se ne sarebbe dovuto fare di diritto ad un eroe vivo, se non addirittura
a quegli stessi che l'avevano ammazzato.
Gli
imperatori romani non dimenticavano neppure di assumere comunemente il titolo
di tribuno del popolo, sia perché questo incarico era considerato sacrosanto,
sia per il fatto che era finalizzato alla difesa e alla protezione del popolo.
In questo modo, con il favore dello stato, si garantivano la fiducia del popolo
come se quest'ultimo dovesse accontentarsi del nome, senza sentire gli effetti
concreti della tirannia. E oggi non si comportano molto meglio coloro che ogni
qualvolta compiono un crimine, anche molto grave, lo ammantano di qualche bel
discorso sul bene comune e sull'utilità pubblica. E tu sai bene mio caro Longa
il vasto formulario di cui potrebbero in molti casi fare elegante uso, ma la
stragrande maggioranza dei tiranni non si affida a troppe sottigliezze
sostenendosi piuttosto sulla più grande impudenza. I re dell'Assiria e dopo di
loro anche quelli della Media usavano presentarsi in pubblico il più raramente
possibile per far nascere il dubbio al popolo che essi fossero qualcosa più che
uomini e lasciarlo così in queste immaginazioni, dato che la gente lavora
volentieri di fantasia su quelle cose che non può giudicare e vedere di
persona. Creata così quest'aura di mistero attorno al sovrano tante nazioni che
rimasero a lungo sotto l'impero assiro si abituarono a servire tanto più
volentieri quanto più non sapevano che padrone avessero, anzi se l'avessero
davvero o no, nutrendo timore in base alla credenza in un essere che nessuno
era mai riuscito a vedere. I primi re d'Egitto non si mostravano quasi mai in
pubblico senza portare ora un ramo d'albero, ora perfino del fuoco sulla testa;
e mascherandosi in questo modo e comportandosi come dei ciarlatani ispiravano
con queste stranezze rispetto e ammirazione ai loro sudditi che se non fossero
stati troppo sciocchi o troppo servili avrebbero dovuto assistere a quella
squallida buffonata solo per riderci sopra. E' davvero pietoso ricordare quanti
stratagemmi abbiano messo in atto i sovrani di un tempo per impiantare la loro
tirannia, di quali mezzucci si siano serviti trovandosi davanti una plebaglia
fatta apposta per loro, incapace di evitare qualsiasi trabocchetto che le
venisse teso, ingannata con estrema facilità e tanto più sottomessa quanto più
il tiranno si prendeva gioco di lei.
E che
dire di un'altra bella favola che i popoli antichi prendevano per oro colato?
Essi credevano fermamente che l'alluce di Pirro re dell'Epiro facesse miracoli
e guarisse le malattie della milza; anzi, quasi a voler rincarare la dose,
erano convinti che quel dito, quando alla morte di Pirro ne venne bruciato il corpo,
fosse sfuggito al fuoco e si fosse ritrovato integro in mezzo alle ceneri. Così
il popolo si è sempre fabbricato da solo le più sciocche fandonie per poi
poterci credere. E molte di queste sono state anche scritte ma in uno stile
tale che se ne può facilmente scorgere l'origine nelle chiacchiere del popolino
raccolte agli angoli delle strade. Così si dice che Vespasiano nel suo viaggio
dall'Assiria a Roma dove si recava per impadronirsi dell'impero abbia fatto
sosta ad Alessandria dove compì ogni sorta di miracoli: raddrizzò gli zoppi,
ridiede la vista ai ciechi e fece tante altre cose meravigliose che potevano
essere credute a mio avviso solo da gente più cieca di quelli che sarebbe
riuscito a guarire. E i tiranni stessi trovavano del tutto strano il fatto che
la gente potesse sopportare un uomo che continuamente la maltrattava; per
questo decisero di mettersi davanti la religione come scudo e, nella misura del
possibile, assumere una qualche sembianza di divinità per non dover rendere
conto della propria vita malvagia. Per questo Salmoneo, se crediamo alla Sibilla
di Virgilio, sconta ora in fondo all'inferno le sue pene per aver ingannato il
popolo e aver fatto credere d'essere Giove:
«Vidi
anche i crudeli tormenti di Salmoneo:
Imitava
costui le fiamme di Giove e i fragori d'Olimpo;
Passava
costui trasportato da quattro cavalli
Agitando
una fiaccola per mezzo alle genti dei Greci
Cercando
al regno dell'Elide onori divini:
Folle!
pensava imitare il bagliore dei lampi
E i
nembi col carro di bronzo e il fragor dei cavalli.
Ma un
fulmine Giove scagliò dal torbido cielo,
Chè
Giove non torce fumose lanciava,
E
precipite giù lo travolse con turbine immane» (12).
Ora se
costui, che in fondo non era che un povero sciocco, viene trattato così bene
laggiù, credo proprio che tutti coloro i quali hanno abusato della religione
per fare del male saranno trattati ancora meglio.
Anche
i nostri sovrani sparsero per la Francia una quantità di cose tra le più
disparate e indefinibili: rospi, fiordalisi, orifiamma (13). In ogni modo per
quel che mi riguarda non voglio passare per miscredente nei confronti di tutte
queste cose poiché né noi né i nostri antenati abbiamo avuto finora ragione
d'esserlo, essendoci sempre toccati sovrani tanto buoni in pace e così prodi in
guerra che pur essendo re dalla nascita non sembrano fatti dalla natura come
gli altri bensì, ancor prima di venire al mondo, scelti da Dio onnipotente per
governare e conservare questo regno. Comunque, anche se ciò non fosse, non ho
certo l'intenzione di mettermi a discutere la verità delle nostre tradizioni e
neppure di esaminarle in modo minuzioso, non volendo privare di questi bei temi
la nostra poesia francese che senz'altro saprà trovare in essi il soggetto per
tante esercitazioni e già ora viene migliorata, anzi rimessa a nuovo dai nostri
Ronsard, Baif, Du Bellay; questi grandi poeti stanno facendo progredire la
nostra lingua a tal punto da poter sperare che ben presto i greci e i latini ci
saranno superiori solo per il fatto di essere stati i primi. E certo farei un gran
torto alle nostre rime (uso volentieri questo termine che a me non dispiace
perché, anche se molti l'hanno reso un fatto puramente meccanico, tuttavia vedo
altrettante persone che si sono messe a rinobilitarlo e a restituirlo agli
antichi onori), farei un gran torto, dicevo, a sottrarre ai poeti i bei
racconti di re Clodoveo sui quali già si esercitò, mi sembra con grande maestria
e sicurezza, la vena vivace del nostro Ronsard nella sua "Franciade".
Intendo la sua portata, conosco il suo spirito acuto e il suo garbo nello
scrivere: saprà cavarsela in modo eccellente con l'orifiamma come già i romani
con i sacri scudi «caduti giù dal cielo» di cui parla Virgilio e riuscirà a
trarre buon profitto dalla nostra ampolla così come gli ateniesi dal canestro
di Erisittone (14); farà in modo che tutti parlino delle nostre armi come del
loro ulivo che tengono ancora nella torre di Minerva. Sarei dunque temerario a
voler smentire i testi della nostra tradizione e cancellare così tutte le
tracce che vengon seguite dai nostri poeti.
Ma per
tornare all'argomento da cui non so come mi sono lasciato deviare, non s'è mai
dato il caso che i tiranni, in vista della propria tranquillità, non abbiano
fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo all'obbedienza e alla servitù
ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette finora
su quel che occorre per abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate
dai tiranni solo per il popolo più grossolano e ignorante.
Ma ora
arrivo al punto che a mio avviso costituisce l'origine nascosta del dominio, il
sostegno e il fondamento della tirannia. Chi pensa che le alabarde, le
sentinelle, le squadre di ronda proteggano il tiranno secondo me si sbaglia di
grosso. Credo che gli siano d'aiuto più come cerimoniale o come spauracchio che
non per la fiducia che dovrebbe avere in tutto questo apparato di difesa. Gli
arcieri impediscono di entrare a palazzo agli sprovveduti senza mezzi, non a
chi è ben armato e agli uomini d'azione. Tra gli imperatori romani è facile
contare quei pochi che sono riusciti a salvarsi da qualche pericolo per l'aiuto
dei loro soldati più fedeli, al contrario di tutti coloro, e sono la maggior
parte, che sono stati uccisi dalle loro stesse guardie del corpo. Non sono gli
squadroni a cavallo, non sono le schiere di fanti, non sono insomma le armi a
difendere il tiranno; capisco che al primo momento è difficile crederlo ma è
così. Sono sempre cinque o sei persone che lo mantengono al potere e gli
tengono tutto il paese in schiavitù. E' sempre stato così: questi cinque o sei
hanno avuto la fiducia del tiranno e, sia perché si son fatti avanti da soli sia
perché il tiranno stesso li ha chiamati, sono diventati complici delle sue
crudeltà, compagni dei suoi divertimenti, ruffiani dei suoi piaceri, soci nello
spartirsi il frutto delle ruberie. Questi sei personaggi inoltre tengono vicino
a sé seicento uomini dei quali approfittano facendo di loro quel che han fatto
del tiranno. I seicento a loro volta ne hanno seimila sotto di sé ai quali
conferiscono onori e cariche, fanno assegnare loro il governo delle province
oppure l'amministrazione del denaro pubblico così da ottenerne valido sostegno
alla propria avarizia e crudeltà, una volta che costoro abbiano imparato a
mettere in atto le varie malefatte al momento opportuno; d'altra parte
facendone di ogni sorta questi seimila possono mantenersi solo sotto la protezione
dei primi e sfuggire così alle leggi e alla forca. E dopo tutti questi la fila
prosegue senza fine: chi volesse divertirsi a dipanare questa matassa si
accorgerebbe che non seimila ma centomila, anzi milioni formano questa trafila
e stanno attaccati al tiranno, proprio come afferma Giove che nel racconto di
Omero si vanta di poter tirare a sé tutti gli dei dando uno strattone alla
catena. Da qui venne l'aumento di potere al senato sotto Giulio Cesare,
l'istituzione di nuove funzioni e la creazione dei vari incarichi; a ben vedere
non certo per riorganizzare la giustizia ma per dare nuovi punti di appoggio
alla tirannia. Insomma tra favori e protezioni, guadagni e colpi messi a segno,
quanti traggono profitto dalla tirannia son quasi pari a coloro che
preferirebbero la libertà. E' come quando, dicono i medici, in una parte del
nostro corpo c'è qualcosa di infetto: se in un altro punto si manifesta un
piccolo male subito si congiunge alla parte malata. Così appena il re diventa
tiranno tutta la feccia del regno, e non intendo con questa un branco di
ladruncoli conosciuti da tutti che in una repubblica possono fare ben poco, sia
in bene che in male, bensì tutti coloro che sono posseduti da un'ambizione
senza limiti e da un'avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo sostengono
in tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli
tiranni sotto quello grande. Allo stesso modo si comportano i grandi ladri e i
famosi corsari: gli uni fanno scorribande per il territorio, gli altri pedinano
i viaggiatori; i primi tendono imboscate, i secondi stanno in agguato; questi trucidano
e quelli spogliano; e pur essendoci tra loro vari ranghi in ordine
d'importanza, i primi semplici esecutori, gli altri capi della banda, alla fine
però non c'è nessuno di loro che non abbia avuto la sua parte, se non proprio
al bottino principale, almeno a qualche frutto delle rapine. Si racconta che i
pirati della Cilicia si raccolsero una volta in così gran numero che si rese
necessario mandare contro di loro Pompeo il grande; non solo, ma riuscirono
perfino a trascinare nella loro alleanza molte città tra le più belle e popolose;
nei loro porti trovavano rifugio dopo le varie scorribande e come ricompensa vi
lasciavano una parte del bottino che quelle città si erano impegnate a
custodire.
Così
il tiranno opprime i suoi sudditi, gli uni per mezzo degli altri, e viene
difeso proprio da chi, se non fosse un buono a nulla, dovrebbe temere di essere
attaccato; secondo il detto che per spaccare la legna ci vogliono dei cunei
dello stesso legno. Ed ecco i suoi arcieri, le sue guardie, i suoi alabardieri;
certo qualche volta anch'essi sono trattati male dal tiranno, ma questi
miserabili abbandonati da Dio e dagli uomini sono contenti di sopportare dei
danni pur di rifarsi non già su colui che ne è la causa ma su tutti quelli che
come loro sopportano senza poter far nulla. Eppure vedendo questa gente che
striscia ai piedi del despota per trarre profitto dalla sua tirannia e dalla
servitù del popolo, spesso mi stupisce la loro malvagità, altre volte invece è
la loro stupidità che mi fa pena. Perché, diciamo la verità, che altro può
significare avvicinarsi al tiranno se non allontanarsi dalla propria libertà e
abbracciare anzi, per meglio dire, tenersi stretta la servitù?
Mettano
un momento da parte la loro ambizione, lascino perdere un poco la loro
avarizia, poi guardino e considerino attentamente se stessi: vedranno
chiaramente che questi contadini e paesani che essi mettono sotto i piedi
appena possono e trattano peggio dei galeotti e degli schiavi, benché
maltrattati in questo modo, al loro confronto sono tuttavia più felici e in un
certo senso più liberi. Il contadino e l'artigiano, per quanto siano asserviti,
una volta fatto quanto è stato loro ordinato sono a posto; ma quelli che il
tiranno vede vicino a sé, veri e propri birbanti sempre a mendicare i suoi
favori, sono obbligati non solo a fare quello che dice ma anche a pensare come
lui vuole e spesso per accontentarlo devono sforzarsi di indovinare i suoi desideri.
Non è sufficiente che gli obbediscano: devono compiacerlo in tutto faticando e distruggendosi
fino alla morte nel curare i suoi interessi; inoltre devono godere dei suoi
piaceri, abbandonare i propri gusti per i suoi, andar contro il proprio temperamento
fino a spogliarsene del tutto.
Sono
obbligati a misurare le parole, la voce, i gesti, gli sguardi; devono avere
occhi, piedi, mani sempre all'erta a spiare ogni suo desiderio e scoprire ogni
suo pensiero.
E
questo sarebbe un vivere felice? Si può chiamare vita codesta? C'è al mondo
qualcosa che risulti essere più insopportabile di una simile situazione non
dico per una persona di nobili origini ma semplicemente per chiunque abbia un
po' di buon senso o quantomeno un'ombra di umanità?
Quale
condizione è più miserabile di questa, in cui non si ha niente di proprio ma
tutto, benessere, libertà, perfino, la vita stessa, viene ricevuto da altri?
Costoro
vogliono servire per accumulare dei beni come se quello che guadagnano fosse
loro, mentre non possono dire di possedere neppure se stessi. E come se
qualcuno potesse avere qualcosa di suo sotto un tiranno vorrebbero dirsi
proprietari di quanto hanno ammassato, dimenticando che sono loro stessi a
dargli la forza di togliere tutto a tutti e di non lasciare nulla a nessuno.
Essi sanno che è l'avidità dei beni il motivo per cui gli uomini vengono
assoggettati alla sua crudeltà, che al suo cospetto non vi è delitto più grande
del possedere qualcosa; sanno che il tiranno ama solo la ricchezza e spoglia di
preferenza i ricchi, eppure si presentano davanti a lui come montoni al
macellaio per mostrarsi ben pieni e pasciuti ed eccitare le sue voglie. Questi
favoriti dovrebbero ricordarsi non solo di quei cortigiani che hanno messo da
parte molti beni stando vicini al tiranno ma anche di tutti coloro che, dopo
aver accumulato per un certo periodo, alla fine hanno perso i beni e la vita
stessa; dovrebbero aver presente non solo i tanti che hanno guadagnato ricchezze
ma anche i pochi che sono riusciti a mantenersele. Si facciano scorrere tutte
le storie antiche, si ripensi al tempo passato di cui possiamo avere memoria;
si vedrà chiaramente quanto è grande il numero di coloro che dopo essersi
conquistati con ogni mezzo indegno la fiducia dei principi, o per aver troppo favorito
la loro malvagità, oppure per aver abusato della loro ingenuità, alla fine sono
stati annientati da quegli stessi principi che tanto facilmente li avevano
prima innalzati quanto poi improvvisamente decisero di abbatterli. E veramente
nel gran numero di persone che hanno circondato cattivi re ve ne sono state ben
poche, per non dire nessuna, che non abbiano provato su se stesse una volta o
l'altra la crudeltà del tiranno che in precedenza avevano aizzato contro gli
altri; e spesso dopo essersi arricchiti delle spoglie altrui all'ombra del
trono sono finiti ad arricchire altri delle proprie spoglie.
Anche
le persone per bene, se mai sia dato trovarne qualcuna benvoluta da un tiranno,
per quanto siano tra i suoi più favoriti e sappiano brillare di virtù e di
integrità morale così da ispirare un certo rispetto perfino ai più malvagi
quando vi si trovano vicini, ebbene dico che anche queste persone non
riuscirebbero a sopportarlo a lungo ed è necessario che anch'esse soffrano
questo male comune e imparino a loro spese cosa vuol dire la tirannia.
Consideriamo ad esempio un Seneca, un Burro, un Trasea (15), tre persone per
bene, due dei quali per mala sorte furono messi vicini al tiranno per curarne
gli affari, tutti e due stimati e ben voluti da lui; per di più uno di questi
gli aveva fatto da maestro e considerava pegno di amicizia il fatto di averlo
educato nell'infanzia. Ebbene questi tre personaggi con la loro morte crudele
testimoniano a sufficienza quanto poco ci sia da fidarsi del benvolere di
padroni malvagi. E in verità che amicizia ci si può aspettare da uno che ha il
cuore così duro da odiare il proprio regno, il quale dal canto suo non fa altro
che obbedirgli? Cosa ci si può attendere da un essere che non sapendo amare
impoverisce se stesso e distrugge il proprio impero?
Se poi
qualcuno volesse dire che costoro sono caduti in disgrazia perché si sono
comportati da persone oneste, osservi con attenzione tutti quelli che stavano
intorno a questo tiranno: vedrà che quanti entrarono nei suoi favori compiendo
ogni sorta di malvagità non durarono più a lungo. Chi ha mai sentito parlare di
un amore così sfrenato, di un attaccamento così ostinato e morboso da parte di
un uomo verso una donna quanto quello di Nerone nei confronti di Poppea? Eppure
in seguito fu lui stesso ad avvelenarla. La madre Agrippina aveva ucciso
Claudio, il proprio marito per mettere il figlio sul trono dell'impero e non si
era sottratta a difficoltà e disagi pur di accontentarlo. E proprio questo suo
figlio, la sua creatura, il suo imperatore costruito con le sue stesse mani,
dopo molti tentativi andati a vuoto riuscì a toglierle la vita. E non vi fu
allora nessuno che non ritenesse fin troppo giusta una simile punizione, se
solo fosse stato un altro a compierla. E chi mai si è lasciato più manipolare,
chi si è comportato più da sempliciotto e da sciocco dell'imperatore Claudio?
Chi più invaghito di una donna se non lui di Messaline? E alla fine la consegnò
nelle mani del boia. L'ottusità è sempre stata caratteristica dei tiranni
quando si tratta di non fare il bene; ma non so come, alla fine, quel poco
d'ingegno che hanno si desta in loro allorché si tratta di usare crudeltà verso
quelle persone che gli sono più vicine. E' abbastanza nota la battuta atroce di
quell'altro tiranno (16) che osservando il collo scoperto della donna da lui
amata perdutamente fino al punto da sembrare che non riuscisse a vivere senza
la sua compagnia, glielo accarezzava sussurrando dolcemente: «Questo bel collo
sarebbe ben presto mozzato sol che io lo volessi». Ecco perché gli antichi
tiranni, per la maggior parte, venivano di solito ammazzati proprio dai loro
favoriti che avendo conosciuto la natura della tirannia più che tentare di
assicurarsi il benvolere del tiranno preferivano diffidare della sua potenza.
Così Domiziano fu ucciso da Stefano, Commodo da una delle sue amanti, Antonino
Caracalla da Macrino e così quasi tutti gli altri.
E'
certamente per questo che il tiranno non è mai amato e non ama: l'amicizia è un
nome sacro, una cosa santa; essa avviene solo tra uomini per bene, non si
ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si mantiene con dei favori
ma con l'onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida dell'altro è la
conoscenza che ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon
carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. Non ci può essere amicizia dove si
trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra
loro non vi è compagnia ma complotto: non si vogliono bene ma si sospettano
reciprocamente, non sono amici ma complici.
Ma
anche se non ci fossero questi ostacoli sarebbe comunque difficile ritrovare in
un tiranno un amore fedele poiché stando sopra a tutti e non avendo alcun
compagno pari a lui è già fuori dai confini dell'amicizia che può fiorire solo
sul terreno dell'eguaglianza e non procede mai zoppicando ma si tiene sempre in
perfetto equilibrio. Ecco perché si può ben dire che tra i ladri c'è una specie
di fiducia reciproca nello spartirsi il bottino, dato che sono tutti uguali tra
loro e pur non volendosi bene si tengono d'occhio l'uno con l'altro non
volendo, separandosi, diminuire la loro forza. Ma quelli che sono favoriti dal
tiranno non possono in alcun modo far conto su di lui poiché sono stati loro
stessi ad insegnargli che tutto è in suo potere e che per lui non vi è diritto
o dovere che tenga, posto ormai nella condizione di far passare il proprio
arbitrio come ragione, di non avere alcun compagno pari a lui ma di essere
padrone di tutti.
Davanti
ad esempi tanto evidenti e ad un pericolo così incombente è dunque davvero
pietoso che nessuno voglia diventare saggio a spese altrui, che tanta gente si
dia da fare per star vicina al tiranno e che non ce ne sia neppure uno che
abbia l'avvedutezza e il coraggio di dir loro ciò che in un apologo famoso la
volpe rinfaccia al leone che si finge ammalato: «Verrei volentieri a farti
visita nella tua tana; purtroppo vedo molte tracce di animali che vanno verso
di te, ma non ne scorgo neppure una nella direzione contraria».
Questi
miserabili vedendo luccicare i tesori del tiranno rimangono abbagliati dalla
sua magnificenza e attratti da questo splendore si avvicinano, senza accorgersi
che si stanno buttando in una fiamma che non mancherà di divorarli, allo stesso
modo di quel satiro curioso che secondo un'antica favola vedendo brillare il
fuoco trovato da Prometeo ne fu talmente impressionato che si accostò per
baciarlo e si bruciò. O come la farfalla, di cui ci parla il poeta toscano
(17), che credendo di trarre chissà quale piacere si avvicina troppo alla fiamma,
attratta dal suo chiarore, e ne prova invece l'altra qualità, quella del
bruciore. Ma anche supponendo che questi adulatori riescano a sfuggire alle
mani del loro padrone, in ogni caso non si salvano mai dal re che viene dopo:
se è un buon sovrano devono rendergli conto di tutto e comportarsi secondo ragione;
se invece è malvagio come il precedente avrà anch'egli i suoi favoriti che
solitamente non si accontentano di prendere a loro volta il posto degli altri
ma vogliono anche ottenerne i beni e in molti casi la vita stessa. Com'è dunque
possibile che ci sia qualcuno che in mezzo a tanti rischi e con ben poche garanzie
voglia prendere questo sciagurato posto e servire un padrone così pericoloso?
Che
tormento, che martirio è mai questo, buon Dio? Essere occupato giorno e notte a
compiacere uno e tuttavia avere più timore di lui che non di qualsiasi altro
uomo, stare sempre all'erta con l'occhio e l'orecchio tesi a spiare da dove
verrà l'attacco, a scoprire gli agguati, leggere nel cuore dei compagni, denunciare
chi sta per tradire, sorridere a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né
nemici dichiarati né amici sinceri, col sorriso sulle labbra e il gelo nel
cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi scontento.
Ma è
ancor più interessante considerare quel che ricavano da questo grande tormento
e quale bene possano aspettarsi da tutti questi loro affanni e dalla loro vita
miserabile. Solitamente il popolo non accusa il tiranno per il male che gli
tocca sopportare bensì coloro che sono messi a governare. Di costoro i popoli,
le nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna eccezione, dai contadini agli
artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e su di loro riversano un'infinità di
oltraggi, villanie e maledizioni: tutti i discorsi e le imprecazioni della gente
sono contro di loro, ritenuti colpevoli di ogni sventura, della peste come
della carestia; e se qualche volta per salvare le apparenze questo stesso
popolo li onora, dentro di sé li maledice dal profondo del cuore e li ha in
orrore più che le bestie feroci. Ecco la gloria e l'onore che ricevono per i
servizi che compiono verso la gente, la quale anche se potesse ridurre il loro
corpo a brandelli probabilmente sarebbe ancora insoddisfatta e ben poco
alleggerita delle proprie sofferenze. E anche quando sono scomparsi dalla
faccia della terra moltissimi scrittori negli anni seguenti non mancano certo
di denigrare la memoria di questi mangiapopoli; la loro fama viene
completamente distrutta in migliaia di libri e le loro stesse ossa vengono per
così dire trascinate e disperse dai posteri come punizione per la loro vita
malvagia, anche dopo morte.
Impariamo
dunque finalmente a comportarci bene; ad onore nostro o per l'amore che
portiamo alla virtù, o meglio ancora per l'amore e l'onore di Dio onnipotente che
è testimone sicuro delle nostre azioni e giudice delle nostre mancanze, teniamo
lo sguardo rivolto al cielo.
Per
parte mia penso, e non credo di sbagliarmi, che non ci sia niente di più
contrario a Dio, infinita bontà e libertà, della tirannia e che Egli riservi
laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici.
NOTE AL TESTO.
NOTA
1: Omero, "Iliade", 1. secondo, vv. 204-205a, trad. it. di Rosa
Calzecchi Onesti, a cura di Cesare Pavese, Einaudi, Torino 1950.
NOTA
2: Con tutta probabilità si tratta del predecessore di La Boétie nel parlamento
di Bordeaux. L'invocazione all'amico Longa che si trova nel manoscritto
"De Mesmes" è stata soppressa in quasi tutte le versioni successive.
NOTA
3: L'autore si riferisce al momento del trapasso nella storia ebraica dalla
fase dei giudici a quella dei re: il popolo ebreo chiede insistentemente a
Samuele di consacrargli un re (che sarà poi Saul). La Bibbia fa notare che
questa richiesta spiacque a Samuele ed a Jahwè: cfr. 1 Sam. 8,4 ss.
NOTA
4: Cavalli ai quali sono state tagliate le orecchie e la coda.
NOTA
5: Armodio e Aristogitone sono i due giovani che uccisero Ipparco, figlio di
Pisistrato; Trasibulo cacciò i trenta Tiranni da Atene; Bruto il Vecchio e
Valerio riuscirono ad allontanare per sempre i Tarquini da Roma e ad
instaurarvi la repubblica; Dione infine rovesciò dal trono di Siracusa il
tiranno Dionigi.
NOTA
6: In realtà il passo di Ippocrate a cui si riferisce La Boétie si trova
nell'opera "Arie, acque, luoghi".
NOTA
7: Si tratta del re Artaserse di Persia.
NOTA
8: Il libretto di Senofonte è appunto intitolato "Ierone o della
condizione dei sovrani".
NOTA
9: Terenzio, "Eunuco", atto terzo, scena prima, v. 25.
NOTA
10: Le decurie pubbliche consistevano in elargizioni fatte dagli imperatori
romani alla plebe dell'urbe; il nome deriva dal fatto che questa distribuzione
di viveri a spese del denaro pubblico avveniva a gruppi di dieci.
NOTA
11: Misura romana che corrispondeva a poco più di mezzo litro.
NOTA
12: Virgilio, "Eneide", 1. quarto, vv. 585-594; tr. it. a cura di
Enzo Cetrangolo in Publio Virgilio Marone, "Tutte le opere", Sansoni,
Firenze 1966.
NOTA
13: La Boétie si riferisce ai vari episodi fantastici legati ai primi re di
Francia. L'orifiamma è lo stendardo di Francia in cui è dipinta una fiamma in
campo dorato; il fiordaliso o i tre gigli è lo stemma della casa reale
francese, secondo la leggenda introdotto da re Clodoveo, che lo sostituì
all'insegna precedente in cui campeggiavano invece tre rettili o rospi.
NOTA
14: I sacri scudi caduti dal cielo fanno parte di uno dei miti legati ai primi
re di Roma: si dice che sotto Numa Pompilio fosse caduto dal cielo uno scudo
portatore di salvezza e benessere al popolo romano. Lo stesso significato
doveva rivestire il canestro sceso dal cielo, di cui fa cenno il poeta
Callimaco nel suo inno a Cerere; il re Erisittone fu colui che ne istituì la
festa detta delle Panatenaiche.
NOTA
15: Seneca, come è noto, fu il precettore di Nerone durante la sua giovinezza e
in pratica il reggitore del regno per i primi anni; Afranio Burro fu il
prefetto del pretorio, cioè il comandante del palazzo imperiale; Trasea un
senatore, consigliere dell'imperatore.
NOTA
16: Si tratta dell'imperatore Caligola.
NOTA
17: L'accenno è ad un sonetto di Francesco Petrarca.