mercoledì 29 maggio 2019

IL ROVESCIAMENTO DEL PLATONISMO IN NIETZSCHE





Anche per N., bellezza e verità, per entrare in discrepanza, devono prima coappartenersi nel riferimento all’essere. Ma per N. l’essere è volontà di potenza; quindi, dall’essenza della volontà di potenza deve risultare una originaria coappartenenza di bellezza e verità che diventa una discrepanza.

Ora, N. non si limita a capovolgere il platonismo, nel senso di mantenere la struttura di quest’ultimo invertendone gli spazi – il mondo sensibile al posto del soprasensibile-, ma effettua uno svincolamento (Herausdrehung), che comporta una profonda trasformazione filosofica.

Termini quali “mondo vero” e “mondo apparente”, propri del platonismo, vengono aboliti.

Si prenda il brano intitolato “Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola. Storia di un errore”, che si trova nel Crepuscolo degli idoli. In esso N. articola in sei capitoletti una storia del pensiero occidentale che arriva alle soglie della sua filosofia. Tale storia è scandita dal progressivo venire meno dell’idea centrale del platonismo, quella del mondo soprasensibile.

Nella prima fase, che corrisponde alla dottrina di Platone (N. distingue tra Platone e platonismo), fra mondo sensibile e mondo vero c’è una sostanziale continuità: il mondo vero è raggiungibile dal virtuoso, che è in grado di distogliersi dal mondo sensibile; l’ idea è esperita come visione, che conferisce a ogni ente il potere di essere se stesso. Ma già nella seconda fase – che si configura come un platonismo distinto dal pensiero di Platone – viene operata una rottura con il sensibile, e il mondo vero, non più presente nell’ambito dell’esistenza umana, diviene irraggiungibile per il tempo di quest’ultima.

Il terzo periodo designa quella forma di platonismo raggiunta dalla filosofia di Kant. Il soprasensibile, assolutamente irraggiungibile per la conoscenza, è ora un postulato della ragione pratica. Nel quarto, conseguente agli sviluppi del kantismo, vi è un superamento del platonismo, che avviene però senza esiti creativi. Nel quinto, il mondo vero viene abolito. Nondimeno rimane ancora il mondo sensibile e il posto vuoto del mondo superiore. In tale fase, N. designa già il tratto del proprio cammino filosofico che corrisponde alle opere aforistiche, da Umano, troppo umano alla Gaia scienza. Occorre un nuovo passaggio, che si compie nel sesto periodo, in cui anche il mondo apparente viene tolto. Questo è il compito che N. si propone nell’ultima fase della sua filosofia, quella dello Zarathustra.

Abolire il mondo apparente non significa abolire il sensibile, poiché il mondo apparente è il mondo sensibile nello schema del platonismo. La sua abolizione, al contrario, significa valorizzare il sensibile ed eliminare l’eccedenza del soprasensibile. Compiendo questo passo, N. dunque trasforma lo schema gerarchico del platonismo, non si limita a capovolgerlo.

In tutti e sei i capitoli, la storia del platonismo è messa in relazione con un tipo d’uomo che si rapporta al mondo vero. Di conseguenza, il rovesciamento del platonismo diventa una metamorfosi dell’uomo: alla fine del platonismo c’è il superuomo, l’uomo che va oltre (ueber) l’uomo che c’è stato finora.

martedì 28 maggio 2019

Casa Base Jack



Tendo la corda del mio Arco e scendo per strada
Si apre la caccia, questa è la Notte del Giudizio 
Dipingo il volto di Nero e mi preparo per la Battaglia
IO contro Tutti e Tutti contro di me 
La Terra è piatta e l'Universo non esiste
Mi odiano come Berneri odiava Martucci
Perchè i miei sono sproloqui di uno stronzo insensibile
Scendo negli Inferi scalzo su di un letto di carboni ardenti
Mentre Ipazia si sbatte a sangue Teofilo
Non mi importa se muoio, Tutto ha un prezzo
Ridi mentre ti busso alla porta
Ma sono troppo Sbronzo per accettare la tua Torta
Tu attendi un radioso divenire che mai sarà
Altri attendono un futuro post atomico o post apocalittico
Io voglio che muoiano tutti presi a morsi dagli zombi
Le stragi di piazza non si fanno se hai Belzebu in squadra
E' come benedire il tritolo con l'acqua santa
Chiuditi in casa o vai in fondo e basta
Altrimenti sei uno stronzo E non ho bisogno di spiegarla
Sul libretto è appeso il Curriculum
Manco fosse carta per pulirsi il Culo
Sono in lista d'attesa
La mia testa è vuota come il Cylum
Sputo bombe sulla Terra piatta fatta a Fette
Per ogni scemo che nasce un Utero si squarcia
Come vedi sono peggio di ciò che pensavi
Mi lego e mi slego dagli hashashish
Non m'importa se muoio o se vivo
Mentre ti parlo vogliono impiccare Jack
I seguaci di Necaev ritengono che la Causa sia più importante 
Questo mi fa girare il cazzo come un contorsionista 
Che si lega alla corda la memoria che si scorda
Sono Vegeta, ma di eroi ne ho quanti ne vuoi
Salgo nell'esosfera e osservo il pianeta
Un mondo di schiavi appare ai miei occhi
Siamo messi male manomessi da quattro fessi
Gli Spettri si specchiano negli specchi 
Nell'armadio cerco le lame degli assassini 
In testa il tarlo mi divora assetato di sangue
Mi è entrato nella testa ed ora si è perso
Un killer lo attende sotto casa
Vuole iniettarli del veleno alieno
La pietà si eclissa sino ad oscurare la luna Rossa
Esco dalla città camminando sui corpi morti
Mentre il buio della notte mi avvolge per sempre

Chiù Pac

martedì 21 maggio 2019

41C


La mia causa non sara mai la nostra causa

    Un punto per l'affinità!

Ma le convergenze non sono durevoli

 in fondo sono dei dati momenti

Tutto si attira

  ma tutto si respinge

Gioire per una data cosa

 Ma il solitario rimane solitario

anche se sa riconoscere la forza che brilla di luce propria

Tutto è un gioco

 un girotondo per capire se il mondo sia piatto

                                                                                         Chiù Pac

mercoledì 15 maggio 2019

«Max Stirner», il monologo visionario di Emil Cioran


Il testo qui proposto fa parte di quei manoscritti (provenienti dall’archivio del fratello di Emil Cioran, Aurel Cioran) che sono saliti alle cronache (per lo meno in Romania e in Francia) anche a causa delle travagliate vicende legate ai diritti di proprietà e alle rocambolesche vendite all’asta. Fortunatamente, questi documenti unici nel loro genere sono attualmente conservati nel fondo della Biblioteca dell’Accademia della Romania di Bucarest - «Manuscrise şi documente personale Emil Cioran» - e sono stati pubblicati parzialmente da Ion Dur, nel suo libro, Hîrtia de turnesol (Sibiu 2000) e in Emil Cioran, Opere, II vol. (Academia Română, Fundaţia Naţională pentru Ştiinţă și Artă, edizione a cura di Marin Diaconu, Introduzione di Eugen Simion, Bucarest 2012).
Sulla prima pagina del manoscritto, oltre alla firma dell’autore, compare anche la scritta «II anno di Filosofia – Seminario di sociologia». Cioran aveva dunque 18 anni quando scriveva questo riassunto e commento a Der Einzige und sein Eigentum di Max Stirner. .
Gli appunti su Max Stirner Stirner qui tradotti per la prima volta in italiano, ci restituiscono il volto di un giovane studente di filosofia impegnato nella preparazione dei corsi e dei seminari universitari. Non stiamo parlando però di uno studente qualsiasi, bensì di Emil Cioran, il quale, in quel periodo aveva l’abitudine di divorare letteralmente i libri durante le sessioni di lettura indette «ad oltranza» presso la Biblioteca della Fondazione Universitaria Carlo I, a Bucarest. L’amico di sempre, il filosofo romeno Constantin Noica, si ricorderà ancora molto bene a distanza di anni quel viso allucinato che, con immensa difficoltà si staccava dalle pile dei libri, ma solo dopo l’echeggiare del fatidico tintinnio del campanello di chiusura. Infatti, Cioran aveva il suo posto fisso in Biblioteca dove, completamente isolato dall’ambiente circostante, s’immergeva nella lettura esibendo un viso sul quale si era impresso il disgusto - a detta dell’altro suo amico di gioventù, lo scrittore Arșavir Acterian [1]. D’inverno poi, aveva un motivo in più per non abbandonare la Biblioteca la quale, a differenza della sua camera, era ben riscaldata. In quelle sale silenziose Cioran si dedicherà soprattutto all’approfondimento della filosofia tedesca.
In seguito, comparso come una cometa al liceo Andrei Şaguna di Brașov, dove farà parte del corpo docenti durante un unico anno di studi (1936-1937), il professore ventiseienne Emil Cioran, lascerà tuttavia una traccia indelebile nei cuori e nelle menti dei suoi alunni. Un ex studente, Ştefan Baciu, si ricorderà ancora nitidamente il nome di Max Stirner come uno dei filosofi menzionati incessantemente da Cioran durante le sue lezioni - o monologhi visionari, come sarebbe più adeguato definirli - ma anche durante gli indimenticabili Stammtisch presso il caffè Coroana. [2] E molto probabile comunque che Cioran non se ne sia mai completamente separato, nonostante l’addio all’Unico proclamato più tardi.

Amelia Natalia Bulboaca
[1] Titus Lates, «Emil Cioran: lecturi din tinereţe (1926-1947)», in Studii de Istorie a Filosofiei Românești, vol. II, Institutul de Filosofie și Psihologie “Constantin Rădulescu-Motru”, Editura Academiei Române, București 2011, pp. 88-99.
[2] Ştefan Baciu, «Emil Cioran, profesor la Brașov», in Emil Cioran în conștiinţa contemporanilor săi din exil, Criterion publishing, București 2007, p. 16.

Emil Cioran: «Max Stirner» (Seminario di Sociologia, 1929-1930)

La reazione individualista della seconda metà del secolo scorso, reazione diretta contro il realismo sociale di sorgente hegeliana e contro il sociologismo, che negavano qualsiasi valore all’individuo, contestando le possibilità di un’autonomia morale personale al di là del rigido determinismo del meccanismo sociale – ha finito per porre in ombra il suo precursore più eminente, ovvero Max Stirner. Sarà John Henry MacKay, con un certo ritardo, a occuparsi di Stirner e, nella sua opera, Stirner, sein Leben, sein Werk (Berlino, 1898), e a cimentarsi nella ricostruzione dei dati biografici di Stirner, raccogliendo i suoi scritti minori, saggi pubblicati su varie riviste. Il movimento individualista avrebbe riconosciuto proprio in lui il suo precursore più illustre. Stirner può stare accanto ai grandi individualisti come Carlyle, Emerson, Kierkegaard, Nietzsche, Ibsen ecc. Eduard von Hartmann pensa che Stirner sia superiore a Nietzsche, in quanto che, come filosofo, possedeva qualità molto più eminenti di quest’ultimo; oltre a ciò, egli ha tentato anche una fondazione filosofica dell’individualismo, che la verve poetica e lo slancio lirico di Nietzsche non realizzarono.
Affinché Stirner possa essere compreso, sarà anzitutto necessario stabilire il momento storico nel quale egli si colloca, l’atteggiamento nei confronti delle correnti dell’epoca e, successivamente, passare al vaglio le sue idee generali sull’individuo, così come sono esposte nella sua opera principale, L’Unico e la sua proprietà (1845).
Questo inquadramento è reso necessario a maggior ragione dato che l’importanza di Stirner nella riflessione moderna è collegata a un preciso momento storico. Questo momento storico è caratterizzato da una rivoluzione totale dei costumi, da un eroico tentativo di rompere i pregiudizi esistenti, attaccando in primo luogo il concetto logoro dell’etica consolidata su basi teologiche, opposte allo spirito moderno incentrato più sui fatti concreti della vita che sulle speculazioni arbitrarie e convenzionali. Di conseguenza, l’epoca nella quale Stirner iniziò a sviluppare la sua attività, si stava incanalando verso una valorizzazione più comprensiva del fatto della vita, della dinamica vitale concreta e, al tempo stesso, verso un nominalismo sociale che assomigliava di più all’individualismo solipsistico dei romantici che all’individualismo atomista del XVIII secolo, poggiato sul pluralismo monadistico.
Il nominalismo di Stirner sarà diretto contro Hegel, il rappresentante più brillante del realismo, sia metafisico sia socio-politico.
Benché prenda in prestito da Hegel molti elementi, Stirner respinge tuttavia le sue idee principali, in nome di un nominalismo, o meglio, in nome di un individualismo con tendenze solipsistiche.
La concezione dello Stato nella filosofia politica di Hegel, è attaccata da Stirner con la massima irruenza. Che cos’era lo Stato per Hegel? Esso non è una realtà politica o giuridica sottoposta alle fluttuazioni effimere e all’arbitrarietà . Lo Stato è un’entità che appartiene alla struttura ontologica della realtà; è inquadrato nel percorso evolutivo dello spirito universale del graduale dispiegarsi dei valori spirituali universali.
Nella sua evoluzione storica fino a diventare spirito assoluto, lo spirito universale passa attraverso la prima fase, quella dello spirito soggettivo, la seconda fase, quella dello spirito oggettivo, sino ad arrivare alla terza fase, quella dello spirito assoluto. Lo spirito oggettivo raggiunge la sua massima espressione nello Stato. Esso è un’entità a parte, indipendente, con una propria struttura. In una simile forma organica, l’individuo non ricopre alcun significato particolare; la sua volontà privata deve essere concorde con quella dello Stato, che punisce la minima deviazione dai suoi princìpi. L’individuo, coordinando la propria attività in base al senso generale della vita particolare dello Stato, è in grado di giungere a un’armonia e a una solidarietà sociale. Ogni velleità di indipendenza è contro lo Stato e contro la morale. Attraverso questi princìpi, Hegel distruggeva ogni valore di realtà indipendente dell’individuo, assimilandolo a una realtà superiore.
Veniva stabilito il concetto dello Stato come forza coercitiva, in opposizione all’individuo.
«La volontà personale e lo Stato – afferma Stirner – sono nemici mortali fra i quali non è possibile che ci sia mai pace eterna» (L’Unique et sa propriété, trad. Lasvigues, 1900, p. 244). [1]
La coscienza individuale e indipendente – ecco il fine ultimo dell’evoluzione storica. Non la coercizione obiettiva dello Stato, bensì la libertà dell’individuo come valore personale, soggettivo. Lo stesso passaggio dall’infanzia all’età adulta assume questo significato. Nell’infanzia, l’individuo è completamente assimilato alle cose; egli vive in una sorta di comunicazione ingenua con esse; la sua coscienza non afferma la propria indipendenza nei confronti delle cose, ma è totalmente assimilata a esse. Nell’età adulta, l’individuo si separa dalle cose, acquisisce un’indipendenza da esse, impone la sua volontà personale. Questo processo di liberazione dell’individuo dai vari determinismi esteriori, questo processo di separazione della coscienza soggettiva dalla realtà oggettiva delle cose esteriori, si compie nello stesso vissuto storico. È questo il senso del vissuto storico, superare la pressione oggettiva delle cose attraverso la libertà personale.
L’hegelismo, al contrario, per lo meno nella sua componente politica e nel suo affermare l’onnipotenza della forza brutale dello Stato, distrugge la stessa tendenza di autonomia nell’individuo. Il processo storico è invece tendenza di autonomizzazione.
I popoli antichi, nella fase giovanile dell’umanità, erano completamente subordinati alle cose; l’armonia tra la loro vita spirituale e quella della natura in generale, non era turbata da alcuna disarmonia; più tardi, con l’avvento del cristianesimo e delle moderne concezioni di vita, l’uomo sconfigge il determinismo, affermando la libertà della propria coscienza dalle cose che lo circondavano.
Gli antichi erano sottomessi alle cose; i moderni hanno provato a superarle; gli uomini liberi sono gli uomini del futuro, svincolati da ogni pregiudizio, liberati da tutte le pressioni di una tradizione secolare.
Gli uomini del futuro sono uomini liberi, indipendenti. Il loro carattere è l’egoismo, il desiderio dell’ego che cresce in conformità alla sua spontaneità priva di costrizioni. La civiltà ha distrutto l’egoismo dell’uomo, la sua tendenza a essere ciò che è.
È con tono profetico che Stirner si erge a difesa del risveglio degli egoisti. Carico di lirismo, egli cerca di condurre l’individuo alla coscientizzazione della sua libertà essenziale, non intaccata dalle relazioni sociali. Il suo intento è quello di provocare nell’uomo una rinascita tramite la recrudescenza della sua qualità originaria, che è l’egoismo, l’unica inclinazione conforme alle esigenze generali della vita e della libertà.
Ecco il modo in cui Stirner si rivolge agli egoisti di domani: «Millenni di civiltà hanno oscurato ai vostri occhi ciò che voi siete, vi hanno fatto credere di non essere egoisti, ma di essere invece chiamati a diventare idealisti (“uomini dabbene”). Scrollatevi di dosso queste idee! Non cercate la libertà che vi deruba di voi stessi con l’”abnegazione”, ma cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente! O più chiaramente: tornate finalmente a riconoscere voi stessi, riconoscete infine ciò che siete veramente e lasciate correre le vostre aspirazioni ipocrite, la vostra stolta mania di essere qualcos’altro da ciò che siete. Parlo d’ipocrisia perché, nonostante tutto, voi siete rimasti, per tutti questi millenni, egoisti, ma egoisti addormentati, ingannatori di sé stessi, alienati da sé stessi, eautontimorùmenoi, fustigatori di sé stessi (p. 205)». [2]
L’egoista non deve avere riguardo per alcunché, deve calpestare e sopprimere tutto ciò che non gli appartiene. L’egoista non deve sacrificare nulla alla società, egli non deve immolarsi in nome di nulla purché ciò non gli risulti in qualche modo utile; non aggiunge niente alla società; al contrario, egli la sfrutta, la rende sua proprietà, sua creazione. La società deve essere distrutta e sostituita da un’associazione di egoisti.
Di conseguenza, l’egoista deve distruggere lo Stato, perché questi riconosce solo l’uomo generale, l’uomo astratto, non l’individuo con la sua esistenza in concreto, con il suo egoismo istintivo, con la sua forza vulcanica e imperialistica.
L’uomo è soltanto un ideale, la specie esiste solo nel pensiero. Essere uomo vuol dire manifestare un carattere individuale e specifico, e non la realizzazione dell’ideale umano. Per il nominalismo stirneriano, l’individuo non ha alcuna relazione con il concetto generale di uomo, ma l’unico suo obbligo è di conformarsi alla sua struttura soggettiva. L’egoista non ha legge, né norma né specie né genere. Anche se l’egoista non può realizzare molto senza il concorso di queste circostanze, egli deve essere sicuro di sé, senza nessun appoggio.
L’io dell’egoista non ha alcun giudice all’infuori di sé stesso, i giudizi degli altri lo lasciano totalmente indifferente. Tutto ciò che gli altri possono fare è di essere d’accordo con lui, senza poter intervenire per apportare delle modifiche alle considerazioni personali dell’egoista.
È un bene o un male se l’egoista ragiona in questo modo?! Egli è causa di sé stesso, non c’è nulla che possa deviarlo dalla linea della sua condotta personale.
«Il divino è la causa di Dio, l’umano la causa “dell’uomo”. La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero ecc., bensì solo ciò che è mio, e non è una causa generale, ma – unica, così come io stesso sono unico. Non c’è nulla che m’importi più di me stesso» (p. 4). [3]
È solo nell’egoista, nel suo io, che si trova qualcosa di giusto; e quel qualcosa non esiste all’infuori di sé. Se qualcosa è giusto per lui, allora quel qualcosa sarà giusto. Se c’è qualcosa che per il mondo è ingiusto, mentre per l’egoista è giusto, ne consegue che solamente lui avrà ragione; egli decide quello che vuole, perché lui è quello forte, perché è a buona ragione che la forza primeggi sulla giustizia.
I comunisti, afferma Stirner, pensano che la terra appartenga di diritto a chi la coltiva e che i suoi frutti spettino a chi li raccoglie. Essi appartengono però al più forte, a colui che li possiede. Al più forte appartiene anche il diritto, non solo la terra. In base al diritto egoistico, il diritto spetta a chi è più forte e più caparbio.
Se l’egoista possiede la forza, non si cura se ne abbia o meno il diritto. Non gli serve alcuna sorta di autorizzazione in nessuna azione, perché non dipende da niente e da nessuno.
Nulla deve limitare l’Unico. Tutto ciò che è sacro rappresenta una catena, una limitazione della sua libertà, la quale si deve manifestare distruggendo qualsiasi ostacolo che ne potrebbe sbarrare la libera espansione.
Che cos’è la proprietà per l’Unico? Tutto ciò che il suo desiderio illimitato di possesso vuole abbracciare. Egli non deve avere alcun rispetto per la proprietà altrui; considererebbe sua qualsiasi proprietà estranea che troverebbe dinanzi a sé.
«Ma proprietario non è né Dio né l’uomo (la “società umana”), bensì il singolo (p. 316)». [4]
L’individualismo anarchico di Stirner non si solo accontenta di questo, arrivando al parossismo, all’ultima espressione del suo impeto.
«Quando il mondo mi incrocia sul cammino (e lo fa in ogni momento), io lo consumo per calmare la fame del mio egoismo. Tu non sei per me nient’altro che il mio alimento (p. 378)». [5]
Qual è il legame che l’Unico stabilisce con il mondo attorno a sé e con gli altri individui? Egli utilizza il mondo circostante esclusivamente per sua soddisfazione personale. Non si può nemmeno parlare di un legame vero e proprio, ma di una personale soddisfazione estetica.
Cos’è la verità per il soggettivismo radicale di Stirner?
«Tutte le verità sotto di me mi sono care; una verità sopra di me, una verità in base alla quale io dovrei orientarmi è cosa che non conosco. Per me non c’è nessuna verità, perché non c’è niente al di sopra di me (p. 455)». [6]
Visto che Stirner insiste più volte sulla concezione dell’io in Fichte, quale differenza ci sarà secondo lui tra la sua concezione personale e quella di Fichte?
Quando Fichte dice «l’io è tutto», questo potrebbe far pensare che ci sia quasi un’identità tra l’io di Fichte e quello di Stirner.
Per Stirner, l’io non è propriamente tutto, ma esso distrugge tutto. In più, Fichte parla dell’io assoluto, mentre Stirner parla dell’io finito, individuale, dell’io concreto, dell’io deperibile.
L’io di Stirner non è l’io di Kant, un io generale e astratto, costituito da vari gradini (l’io sensibile, l’io intelligibile), ma è un’unità concreta, che si differenzia dagli altri attraverso delle particolarità specifiche. Per Stirner, non vi è una parte inferiore e una parte superiore dell’io, ma un’unità. I valori spirituali hanno la loro origine sia in quello che l’io possiede come puro intelletto sia in quello che esso ha di sensibile. È merito di Stirner aver reagito contro le tendenze che concepivano astrattamente l’io, non considerandolo nella sua particolarità concreta e specifica.
Questi sono alcuni dei tratti generali dell’individualismo anarchico di Stirner. È facile osservare quanto siano presenti le reminiscenze di una concezione aristocratico-romantica. Il difetto fondamentale dell’individualismo stirneriano – e, in generale, di qualsiasi individualismo aristocratico – è quello di prendere le mosse da una premessa aprioristicamente accettata, quella cioè di una differenza qualitativa tra gli individui. Questa premessa rende impossibile sin da subito ogni possibilità di abbozzo, per quanto schematico, di un sistema sociale.
Una simile premessa – che considera assoluta la differenziazione tra gli individui – è illusoria. Essa è il prodotto del profondo scuotimento psichico del teorico individualista. Tralasceremo il fatto che tutti gli individualisti radicali, isolandosi nella propria vita interiore, sono morti di alienazione mentale, e considereremo solo l’aspetto della vita interiore rapportata alla realtà. Il vivere soggettivo del mondo distrugge ogni possibilità di comprensione del mondo esteriore. Che Stirner appartenga alla schiera di coloro la cui analisi interiore ha distrutto la percezione della realtà è del tutto evidente. Ciò non è tuttavia un difetto, lo è semmai un altro: il carattere estetico dei concetti politici stirneriani, il fatto di considerare il mondo come un semplice spettacolo per l’intrattenimento di un io affetto dalla sua stessa sufficienza fino al parossismo, tutto questo costituisce un’immoralità. Rispetto a Stirner, Nietzsche è molto più umano.
Non è accettabile una concezione estetica della vita sociale; una concezione nella quale l’individuo si diverte dinanzi allo spettacolo doloroso del mondo contiene molto del soggettivismo romantico e, in special modo, di quella “ironia romantica” di Friedrich Schlegel.
Che questo sia il caso, è dimostrato dal fatto che l’io di Stirner è un animale, come afferma V. Basch (L’individualisme anarchiste. Max Stirner, p. 152), apolitico, non adatto alla vita sociale.
Così come viene concepita da Stirner, la società sarebbe un aggregato di egoisti, ognuno con i suoi moti personali, conformanti ai dati originari del proprio essere, che si sottraggono al dominio di un qualsiasi principio di vita etica. Ma questo aggregato non apre alcuna possibilità di sviluppo della vita sociale.
L’individualismo di Stirner rappresenta, in realtà, una distruzione dell’individuo, poiché non gli dà alcuna possibilità di manifestarsi. Conseguentemente, qualsiasi individualismo anarchico è una formula intimamente antinomica, perché, se da un lato esalta l’individuo, dall’altro non gli offre la possibilità di manifestarsi. Liberandolo dall’impero limitante di qualsiasi inquadramento, gli sottrae la possibilità di valorizzare le proprie energie rapportandole ad altre.
È qui che risiede il tragico paradosso della vita individuale, che Stirner aveva vagamente intravisto: nella società, l’individuo è oppresso e non può manifestarsi liberamente; al di fuori della società, egli non può ugualmente manifestare sé stesso poiché, non disponendo di un inquadramento necessario, non è in grado di agire.

[1] M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 2009, p. 216.
[2] Ivi, p. 182.
[3] Ivi, p. 11.
[4] Ivi, p. 276.
[5] Ivi, p. 327.
[6] Ivi, p. 390.

mercoledì 8 maggio 2019

Per la storia naturale della morale



186.
Il sentimento morale é presentemente in Europa altrettanto fine, tardo, molteplice, irritabile, raffinato, quanto la "scienza della morale" é ancor giovane, principiante, goffa e grossolana; -- un contrasto attraente, il quale alle volte si manifesta anche nella persona dello stesso moralista.
Già il titolo "scienza della morale" è per riguardo a ciò che vuole significare troppo presuntuoso e contrario al buon gusto ; il quale ha una preferenza per le espressioni più modeste.
Si dovrebbe avere il coraggio di confessare che cosa ci abbisognerà ancora per molto tempo, quella sola cosa che provvisoriamente ha un diritto d'essere; vale a dire, raccogliere il materiale, riunire i concetti, coordinare tutto un mondo sterminato di sentimenti delicati, di differenziazioni di valore, i quali vivono, crescono, generano, e periscono, - e, forse, tentare di rendere intelligibili le forme rinnovantisi e più frequenti di questa cristallizzazione vivente, - quale preparazione ad una dottrina dei tipi della morale. È ben vero, che finora non si fu tanto modesti.
I filosofi senza eccezione pretesero sempre da se stessi con una gravità che muove al riso, alcunché di molto più elevato, di più solenne, non appena dovevano occuparsi della morale quale scienza; essi volevano stabilire le fondamenta della morale, e tutti ritennero per fermo d'esserci riusciti; ma la morale per sé si riguardava come cosa « data ». Quanto era lontano dal loro goffo orgoglio il compito, in apparenza insignificante e inconcludente, di una semplice descrizione, per quanto già un tale compito richiedesse delle mani e dei sensi ineffabilmente delicati! Appunto 
perciò che i filosofi della morale non conoscevano i « facta » morali che solo grossolanamente in un compendio arbitrario oppure quale un'abbreviazione casuale, per esempio, quale moralità del loro ambiente, della loro classe, della loro chiesa, dello spirito dei tempi in cui vissero, dei loro clima e dei loro paese - precisamente per ciò ch'erano male informati e poco loro importava d'esser bene informati sul conto delle nazioni, delle epoche, della storia dei tempi passati, essi non ebbero mai occasione di trovarsi faccia a faccia con i veri problemi della morale; i quali sorgono unicamente dal raffronto di molte morali. Nella cosiddetta « scienza della morale » mancava precisamente, per quanto ciò possa sembrare strano, il problema stesso della morale; e non ci aveva nemmeno il sospetto dell'esistenza d'alcunché di problematico.
Ciò che i filosofi chiamano « fondamento della morale » e ciò che pretendevano da sé stessi, non era, visto nella sua vera luce, che una forma sapiente della buona fede nella morale dominante, un nuovo mezzo di esprimere questa morale, dunque uno stato di fatti nei limiti d'una moralità determinata od anche, in ultima analisi, una specie di negazione, che una tale morale potesse venir concepita quale problema; - ed in ogni caso il contrario di una disamina, di un'analisi, di una contestazione, di una vivisezione di codesta buona fede! Si senta un po' con quale ingenuità quasi degna d'ammirazione lo stesso Schopenhauer ci presenta il proprio compito, e si traggano conclusioni sui metodi scientifici di una « scienza » i cui più recenti maestri parlano ancora il linguaggio dei bambini e delle donnicciole: « il principio » ; egli dice (pag. 137 dei Problemi fondamentali dell'etica) : il « principio » intorno al quale tutti gli etici sono veramente d'accordo, suona: neminem laede, immo omnes, quantum potes juva ». « Questa é propriamente la tesi, che tutti i moralisti si affaticano a dimostrare... il vero fondamento dell'etica, che, come la pietra filosofale, da secoli si ricerca ».
La difficoltà di dimostrare questa tesi é certamente grande. - Come si sa nemmeno Schopenhauer ci é riuscito; e chi ha sentito profondamente ed intimamente quanto é assurdamente falsa e sentimentale una simile tesi in un mondo, la cui essenza è la volontà della dominazione - e bene si tenga presente, che Schopenhauer, benché pessimista, era anzitutto suonatore di flauto... Lo suonava tutti i giorni, dopo il pranzo: si consulti in proposito il suo biografo. E tanto per domandare: un pessimista, uno che rinnega Dio ed il mondo, che si arresta dinanzi alla morale, che afferma l'esistenza della morale e suona il flauto alla morale laede neminem é costui proprio un pessimista?


187.
Anche lasciando in disparte il valore di certe affermazioni, come per es. «esiste in noi un imperativo categorico », é lecito ancor sempre di chiedere che cosa una tale affermazione possa farci ritenere della persona che afferma?
Vi sono delle morali che hanno il compito di giustificare il loro autore agli occhi degli altri; altre morali hanno il compito di tranquillizzarlo e renderlo soddisfatto; in altre l'autore tende a crocifiggere sé stesso, ad umiliarsi; altre servono a scopi di vendetta, altre per nascondersi, altre ancora per esaltare se stessi, per elevarsi al disopra degli altri.
Talvolta la morale serve al suo autore per dimenticare, talaltra per far dimenticare sé stesso od una parte di sé stesso; alcuni moralisti vorrebbero sfogare sull'umanità il loro desiderio di dominazione, i propri capricci creatori ; altri, tra i quali forse anche Kant, danno ad intendere con la loro morale « ciò che in me é rispettabile, si é che io so obbedire, e voi dovete fare altrettanto! » - in breve, anche le morali non sono altro che il linguaggio figurato delle passioni.


188.
Ogni, morale é in opposizione al laisser aller, una specie di tirannia contro la « natura » ed anche contro la « ragione » ; ma ciò non può servire ancora d'obiezione contro la medesima, se tutt'al più non si dovesse inventare un'altra morale che decretasse ogni tirannia e irragionevolezza essere illecita.
Il pregio essenziale di ogni morale è di esercitare una lunga costrizione: per comprendere lo stoicismo, il Port-Royal od il puritanesimo, basta rammentare la costrizione che ha reso possibile alle lingue di diventar forti e libere, -- la costrizione del 
metro, le tirannia delle rime e del ritmo. Quanto hanno dovuto sudare i poeti e gli oratori di tutti i popoli! - non eccettuando alcuni scrittori di prose dei giorni nostri, dell'orecchio coscienzioso, - e tutto ciò per « una sciocchezza » come dicono alcuni imbecilli utilitari, che con ciò vogliono farsi credere persone di senno - « per soggezione e leggi arbitrarie » come dicono gli anarchici, che con ciò vogliono dimostrare le loro « libertà di spirito ».
Ma il fatto curioso sta in ciò che tutto quello che vi è sulla terra di libero, di fine, d'ardito, la danza, la maestria sicura tanto nel pensare, che nell'arte del governatore, del perorare o del persuadere, sia nell'arte che nei costumi si é sviluppato precisamente in forza della « tirannia » di simili « leggi arbitrarie » e, detto sul serio, c'è molte probabilità di ritenere, che proprio in ciò consiste la « natura » ed il « naturale », anziché nel « laisser aller ». Ogni artista sa che il suo stato « naturale » si trova ben lungi dal sentimento di laisser aller: questo naturale che consiste nell'ordinare, nel porre, nel disporre, nel formare liberamente, nei momenti di « ispirazione », - ed é allora ch'egli obbedisce severamente e finemente a leggi multiple che respingono qualsiasi riduzione in formule, con nozione, in causa delle loro stesse durezze e precisione (anche il concetto il più determinato di fronte ed esse diventa alcunché confuso, di molteplice, di interpretabile in veri sensi).
L'essenziale « in cielo e sulla terra» é, a quanto pare, diciamolo ancora una volta, che si obbedisca a lungo e nello stesso senso: ne risulta a lungo andare sempre qualche cosa per cui vale la pena di vivere, per esempio le virtù, l'arte, la musica, la danza, la regione, le spiritualità qualche cose insomma di trasfigurante, di raffinato, di folle e di divino. Il lungo esservimento dello spirito, le coazione delle diffidenze nel comunicare i propri pensieri, il freno impostosi del pensatore di formulare i propri pensieri - tre le pastoie delle Chiese e delle corti o di adattarli elle premesse aristoteliche, le lunga volontà dello spirito d'interpretare tutto ciò che avviene secondo uno schema cristiano e di scoprirvi le meno di Dio, di giustificare le sue presenze in ogni avvenimento casuale, quanto vi è in ciò di violento, d'arbitrario, di duro, di orribile, di irragionevole si è dimostrato essere il mezzo per cui allo spirito europeo fu innestata le sue forze le sue curiosità senza riguardi, le sue fine mobilità, quantunque con ciò sia andata perdute une quantità irreparabile di forze e di spirito (giacché pur qui come dovunque e sempre la natura si manifesta per quello che é, vale a dire di una grandiosità prodiga e indifferente, la quale muove a sdegno, me é une prerogativa aristocratica). Se per millenni interi i pensatori europei non s'industriarono che e provare -- oggi, all'incontro, é sospetto ogni pensatore che volesse provare qualcosa una cosa che di già ritenevano per sicure, e che doveva figurare d'essere il resultato delle loro serie meditazioni come in altri tempi si usava nell'astrologia asiatica e nello stesso modo che ancor oggidì si suol dare un'interpretazione cristiano-morale « in onore di Dio » e per le « salute dell'anima » ai più comuni avvenimenti personali: quelle tirannia, quell'arbitrio, quelle stoltezze rigorose e grandiosa hanno educato lo spirito; la schiavitù, e quanto pare, tentò agli intelletti grossolani quanto ai più delicati, serve necessariamente quale mezzo di disciplina spirituale. Da questo punto di vista bisogna considerare ogni morale: la natura è quella che in lei rende odioso il laisser aller, la sorvechia libertà, e crea il bisogno di orizzonti angusti, di compiti alla mano - che restringe la prospettiva ed in certo quel modo insegna essere l'ignoranza una condizione necessaria della vita del suo sviluppo.
« Tu devi obbedire a chicchessia, ed a lungo: altrimenti tu perirai e perderai ogni stime di te stesso » questo mi sembra essere l'imperativo morale della natura, il quale e vero dire non é né categorico come pretendeva il vecchio Kant (onde l' « altrimenti ») né è diretto al singolo, individuo (che importa mai alla natura dell'individuo singolo!), bensì ai popoli, alle razze, alle classi, ma anzitutto all'animale nominato « uomo », all'umanità.

189.
Le razze lavoratrici durano molte pena e rimaner oziose: fu un colpo da maestro quello dell'istinto inglese che rese la domenica talmente sacra al riposo e noiose, da invogliare l'inglese, senza che sappia rendersene ragione, e desiderare il ritorno delle giornate di lavoro: une specie di digiuno saggiamente escogitato e interpolato, come di simili esempi se ne trova ab
bondantemente anche nel mondo antico (seppure, come e ben giusto, nei popoli meridionali un tale digiuno non abbia soltanto attinenza al lavoro). È necessario ci siano digiuni di varie specie; e dovunque predominano stimoli ed abitudini potenti, i legislatori devono provvedere perché siano interpolate certe giornate, nelle quali cotali impulsi si mettono alla catena ed imparano a conoscere la fame.
Da un punto di vista più elevato, intere generazioni ed epoche, allorquando si presentano affette da un qualche fanatismo morale, rassomigliano a delle quaresime forzate ed interpolate, durante le quali un singolo impulso apprende a rannicchiarsi e ad assoggettarsi. Ma in pari tempo si purifica e si acuisce. Anche alcune sette filosofiche (per es. la Stoa in mezzo alla civiltà ellenica e la sua atmosfera esuberantemente impregnata di effluvi lascivi) permettono d'essere similmente interpretate. - In ciò si trova anche un principio di spiegazione del paradosso, che precisamente nel periodo maggiormente cristiano dell'Europa ed in generale sotto l'oppressione delle valutazioni cristiane solamente, l'istinto sessuale s'è sublimato sino a diventar, l'amore (Amour-passion).

190.
Vi è qualche cosa nella morale di Platone, che non può dirsi appartenga a Platone, ma vi si trova soltanto, per così dire, quasi suo malgrado, vale a dire il Socratismo, per il quale egli era in fondo troppo aristocratico. "Nessuno intende recar danno a se stesso, perciò tutto il male avviene involontariamente. Il cattivo reca danno a se stesso, egli non farebbe ciò se sapesse che il cattivo é cattivo. Di conseguenza il malvagio non e malvagio che per errore ; toglietegli codesto errore, ed egli necessariamente diverrà - buono ».
Un tale modo di concludere puzza di plebe, la quale nel male che si commette altro non vede che le conseguenze che ne derivano, ed in fondo giudica « che è cosa da sciocchi l'operar male » mentre il bene, per lei, s'identifica senz'altro con l' « utile » e col « dilettevole ». Ogni utilitarismo nella morale ha la stessa origine; si prenda ciò per massima e di rado si sbaglierà. - Platone ha fatto quanto stava in lui per rendere possibile una interpretazione delicata ed aristocratica della tesi del suo maestro e ci si è messo con tutto l'impegno, - lui, il più audace di tutti gli interpreti, il quale ha raccolto, per così dire, Socrate dalla pubblica via, come si raccoglie un animale curioso o una canzone popolare, per variarla all'infinito ed all'impossibile: vale a dire sotto tutti i propri punti di vista ed in tutta la propria molteplicità.

191.
L'antico problema teologico della « fede » e della « scienza - oppure, per esprimerci più chiaramente, dell'istinto e della ragione - dunque la questione se nel giudicare il valore delle cose l'istinto meriti maggiore autorità della ragione, la quale esige che si valuti e si agisca secondo motivi, secondo un perché, dunque secondo l'opportunità e l'utilità, - é sempre ancora lo stesso antico problema morale che s'impersonò per la prima volta in Socrate, e molto tempo prima il Cristianesimo ha diviso gli spiriti. Socrate, a vero dire, assecondando il gusto del proprio ingegno - che era quello di un dialettico superiore -- si era schierato dal lato della ragione ; e, difatti, che cosa ha egli mai fatto in tutta la sua vita senonché beffarsi della goffa incapacità dei suoi aristocratici ateniesi, i quali erano uomini d'istinto al pari di tutti gli individui aristocratici e non si trovavano mai in caso di dare una spiegazione soddisfacente circa ai motivi delle loro azioni?
Da ultimo però, segretamente , rideva anche di se stesso : trovava in se, nel tu a tu colla propria coscienza, le medesime difficoltà, la stessa incapacità. Che bisogno c'è mai, così tentava di persuadere, sé stesso, svincolarsi per questo dagli istinti! Essi devono avere i propri diritti, ed anche la ragione i suoi - bisogna obbedire agli istinti, ma persuadere la ragione ad appoggiarli coi buoni argomenti. In ciò consisteva la vera doppiezza di quel grande ironico misterioso: egli ridusse la propria coscienza ad assuefarsi ad una specie di volontario inganno di se stessa; in fondo egli aveva intraveduto quanto vi era d'irrazionale del giudizio morale. -- Platone, in simili cose più ingenuo e privo dell'astuzia dei plebeo, volle dimostrare a sé stesso col più potente 
sforzo di cui era capace - il massimo, di cui sinora possa vantarsi un filosofo - che la ragione e l'istinto tendevano spontaneamente al medesimo scopo, al bene, a «Dio » e dopo Platone tutti i teologi e tutti i filosofi battono la stessa strada: cioè, nelle cose della morale l'istinto, o, come l'appellano i Cristiani, la « fede », o, come dico io, il « gregge » ha trionfato fino ad oggi. Bisognerebbe fare un'eccezione per Cartesio, il padre del razionalismo (e per conseguenza l'avo della rivoluzione), il quale non riconobbe altra autorità che dalla ragione; ma la ragione non é che uno strumento, e Cartesio era superficiale.

192.
Chi ha tenuto dietro alla storia d'una singola scienza, troverà nello sviluppo della medesima il filo conduttore per comprendere i procedimenti più antichi e più comuni di una « scienza » e « conoscenza » : là e qui si sviluppano dapprima le ipotesi azzardate, le finzioni, la volontà scioccamente cieca di « credere », la mancanza di diffidenza e di pazienza; i nostri sensi troppo tardi e forse mai completamente apprendono ad essere degli organi fini, fedeli e circospetti della conoscenza. Torna più comodo all'occhio nostro di riprodurre, non appena se ne presenti il motivo, un'immagine più volte riprodotta, anziché ritenere una nuova impressione: ciò esige una forza, una « moralità » maggiore.
Udire qualche cosa di nuovo riesce penoso e difficile all'orecchio; difficilmente riteniamo una musica nuova. Involontariamente quando sentiamo parlare in un linguaggio a noi nuovo, ci proviamo a rivestire i suoni uditi di parole a noi note; così per esempio, in altri tempi in tedesco dalla parola « arcubalista » da lui udita, formò la parola « Armbrust » (Arm = braccio - Brust = petto). II nuovo trova anche i nostri sensi renitenti ed avversi; ed oltre ciò predominano anche nei più semplici procedimenti sensuali gli effetti, come la paura, l'amore, l'odio, compresivi quelli passivi dell'inerzia. Chi é che oggidì legga tutte le singole parole o (meglio ancora le sillabe) d'un foglio stampato? - Su venti parole ne ritiene a caso forse cinque ed indovina il loro nesso con le altre nello stesso modo che noi mai vediamo esattamente e completamente un albero tutto intero, con le sue foglie, i suoi rami, il suo colore, la sua forma; ci riesce tanto più facile ad immaginarci un albero così all'incirca!
Persino nelle avventure più strane che ci occorrono noi procediamo similmente; noi inventiamo in massima parte l'avventura, ed è cosa ben difficile l'obbligarci a non assistere in qualità d'inventori ad un dato avvenimento. Tutto ciò significa: noi siamo in fondo avvezzi, sin dai tempi più remoti a mentire. Oppure per esprimerci più virtuosamente o gesuiticamente, insomma più amabilmente, siamo più artisti di quanto possa sembrare. Talvolta, conversando con una persona, la fisionomia di questa assume un'espressione così precisa e determinata a seconda del pensiero ch'essa esprime o che io credo d'averle suggerito, che codesta espressione sorpassa di gran lunga la mia forza visiva: -- la finezza delle contrazioni muscolari e della espressione dell'occhio devono essere quindi una mia immaginazione. Probabilmente in questi momenti la fisionomia di quella data persona esprimeva tutt'altra cosa e forse anche nulla affatto.

193.
Quidquid luce fuit, tenebris agit; ma anche viceversa. Ciò che noi proviamo nel sogno, ammesso che lo proviamo di frequente, finisce coll'appartenere all'economia della nostra anima allo stesso modo, come le cose che abbiamo « realmente » provate: il nostro sogno ci arricchisce o ci rende più poveri, ci procura un bisogno di più o di meno e finiamo con l'essere un poco lo zimbello dei nostri sogni anche nei momenti più sereni della nostra mente completamente desta.
Supposto che uno sogni molto spesso di volare e che quando sogna si prevalga della sua forza e della sua abilità nel volare come d'una prerogativa sua propria, ed anche d'una sua fortuna speciale degna d'invidia; che creda poter descrivere, mercé un leggerissimo impulso, ogni specie di circoli e di angoli, e conosca la sensazione di una leggerezza quasi divina, un potersi innalzare senza tensione di muscoli, senza sforzi, un calarsi dall'alto 
senza provare un'oppressione avvilente - sfidando la legge della gravità - come mai colui, che nei suoi sogni ha fatto tali esperienze, contratto simili abitudini, non dovrebbe, anche quant'è ben testo, attribuire un colorito, un significato ben diverso alla parola « felicità », come mai non dovrebbe desiderare una felicità - differente? Persino l'« elevarsi» dei poeti in confronto al suo « volare » deve sembrargli qualche cosa ti troppo terrestre, di troppo muscolare, violento, di troppo pesante ».

194.
La diversità degli uomini si dimostra non solamente nella diversità delle loro categorie dei beni desiderabili o nell'essere discordi a proposito del maggior o minor valore, della classificazione dei beni comunemente riconosciuti come tali ; essa si dimostra ancor maggiormente per il valore che essi attribuiscono al possesso di un bene. Riguardo alla donna, per esempio, un uomo modesto sarà soddisfatto col possesso del suo corpo e col godimento sessuale, come segni sufficienti ch'egli ne è il vero proprietario : un altro nel suo desiderio più sospettoso e più esigente vede l' incertezza et il lato illusorio di una tal proprietà e vuol delle prove più convincenti; egli vuol sapere innanzi tutto, non solo se la donna si dà a lui, ma anche se essa rinuncia in suo favore a ciò che ha o a ciò che vorrebbe avere : solo allora essa sembrerà « posseduta ».
Ma un terzo anche con questo non è ancora giunto all'estremo limite della sua diffidenza e del suo desiderio di possesso, e domanda a sé stesso, se la donna, abbandonando ogni cosa per lui, non lo faccia forse per un dato concetto, che essa di lui si è formata: egli vuole anzitutto farsi conoscer bene nel suo interno, per poter essere amato, egli osa lasciarsi indovinare. - Allora soltanto sente il completo possesso della donna amata, quando questa non può più ingannarsi sul di lui conto, quanto essa lo ama, per i suoi istinti diabolici, per la sua nascosta insaziabilità, come lo avrebbe amato per la sua bontà, per la sua virtù, per la sua intelligenza. Taluno vorrebbe possedere un popolo; et a tal uopo ricorre a tutte le arti di Cagliostro e di Catilina. Un altro in cui la sete di possesso é più raffinata, dice a sé stesso « non è lecito ingannare quando si vuole possedere » - egli si sente indispettito et impaziente all'idea che una maschera di lui imperi nel cuore del suo popolo: « dunque è necessario che io mi 
faccia conoscere et anzitutto conosca me stesso! »
Negli uomini soccorrevoli e benevoli si riscontra quasi sempre la goffa astuzia di adattare ai propri desideri l'individuo che si deve soccorrere; col chiedersi, per esempio, se egli « meriti il loro soccorso, se proprio da loro debba attendersi un soccorso, se, per il soccorso ottenuto saprà mostrarsi riconoscente, affezionato, sottomesso ». -- Con simili fantasie essi predispongono di chi ha bisogno come di una cosa che si possiede, come in fondo appunto la brama del possesso li rende soccorrevoli e benefici. Si mostrano gelosi, quanto nel fare il bene temono di esser prevenuti da un altro. I genitori involontariamente tendono a formare i figli a loro immagine e chiamano ciò « educazione » ; - nessuna madre dubita in fondo al suo cuore, che l'essere da lei partorito non le appartenga, nessun padre si lascia togliere il diritto di assoggettarlo ai suoiconcetti et alle sue valutazioni. Si, ci fu persino un tempo, in cui ai genitori sembrava più che giusto di disporre a loro beneplacito della vita e della morte dei neonati (come presso gli antichi Germani). E come il padre, anche il maestro, la casta, il prete, il principe scorgono in ogni uomo che sorge una nuova occasione di naturale possesso. Di conseguenza....

195.
I Giudei - popolo « nato ad essere schiavo », come afferma Tacito e con lui il monto antico, « il popolo eletto tra i popoli », come dicono e credono essi stessi - i Giudei hanno reso possibile l'opera miracolosa dell' invertimento dei valori, mercé la quale la vita sulla terra ha acquistato per un paio di millenni una nuova attrattiva pericolosa: i loro profeti hanno fuso in un unico significato gli attributi « ricco », « empio », « cattivo », « violento » , « sensuale », e alla parola « mondo » hanno attribuito per i primi un significato obbrobrioso.
In tale invertimento dei valori (mercè il quale la parola « povero » diventa sinonimo di « santo » o di « amico ») consiste l'importanza del popolo giudeo: con lui s'inizia l' « insurrezione degli schiavi nella morale ».

196.
Dobbiamo credere che vicino al sole esistano degli innumerevoli corpi oscuri, - dei corpi che noi mai vedremo. Questa è, sia detto tra noi, una similitudine: e per il psicologo-moralista il linguaggio degli astri non rappresenta che un linguaggio simbolico e geroglifico che permette di sottintendere molte cose.

197.
Ci s'inganna profondamente sull'animale da preda e sull'uomo da preda (per esempio su Cesare Borgia), ci s'inganna sulla « natura » fino a tanto che si cerca un'inclinazione morbosa od anche un inferno innato nel fondo di tutte queste manifestazioni mostruose e tropicali, le più sane che esistano: come hanno fatto fino ad ora i moralisti.
A quanto sembra i moralisti provano un odio potente contro le foreste vergini e contro i tropici! E ritengono per fermo che l'« uomo dei tropici » debba essere screditato ad ogni costo, sia additandolo quale fenomeno morboso, sia quale tipo dell'uomo degenerato, sia quale demonio, tormentatore di se stesso ! E perchè ciò? in favore delle « zone temperate »? In favore degli uomini moderati? degli uomini morali? dei mediocri? - Un contributo al capitolo: La morale sotto la forma della paura.

198.
Tutte codeste morali, che s'indirizzano al singolo individuo, allo scopo - affermano - di procurare la sua « felicità », in fondo che cosa sono se non dei consigli sul modo di contenersi secondo il grado della pericolosità dei rapporti dell' individuo con sé stesso? Ricette contro le sue passioni, contro le sue inclinazioni buone e cattive, quando queste abbiano la volontà di dominare e di far da padrone; giudici più o meno assennati, artifici che sentono l'odore di stantio dei vecchi rimedi casalinghi e della sapienza delle donnicciole : tutti insieme barocchi ed irragionevoli nella forma - perché vogliono indirizzarsi all' « università », - perché vogliono generalizzare dove non é lecito generalizzare -, tutti insieme parlando incondizionatamente, atteggiandosi od incondizionati, tutti conditi non di un solo grano di sale, ma appena sopportabili e talvolta anche allettanti quando contengono droghe piccanti in quantità e mandano un odore pericoloso, specialmente del « mondo di là tutto ciò misurato con l'intelletto vale ben poca cosa, e non può chiamarsi peranco « scienza », ancor meno « sapienza », bensì diciamolo e ripetiamolo, giudiziosità, giudiziosità, giudiziosità congiunta ad imbecillità, imbecillità, imbecillità, -- si tratti dell'indifferenza o della freddezza marmorea della statua contro l'ardente follia delle passioni, che gli stoici consigliarono quale mezzo di guarigione; oppure nel non ridere e non piangere di Spinoza che propugnava la distruzione delle passioni mediante l'analisi e la vivisezione delle medesime; si tratti infine dell'abbassamento delle passioni ad un livello innocuo che permetta di soddisfarle, l'aristotelismo della morale; oppure della morale quale soddisfacimento delle passioni col diluirle e renderle spirituali per mezzo del simbolismo dell'arte, per esempio della musica, oppure per mezzo dell'amore di Dio o dell'amore dell'uomo per amor di Dio - giacché anche nella religione le passioni hanno il diritto di cittadinanza, purché.... o si tratti persino di darci facilmente e capricciosamente in braccio alle passioni, come hanno insegnato Hafiz e Goethe, dell'ardito rallentamento delle redini, della "licentia morum" corporale e spirituale in certi casi eccezionali di vecchi originali di buon senso o di ubriaconi nei quali il « pericolo é minimo ».
Anche ciò quale contributo alla « morale sotto forma della paura ».

199.
Siccome in ogni tempo, da quando gli uomini esistono, ci sono stati anche branchi di uomini (relazioni sessuali, comunità, stirpi, popoli, stati, chiese) e c'è sempre stato un numero stragrande di obbedienti in proporzione ai pochi che comandano, siccome l'obbedienza é stata esercitata più facilmente e più a lungo tra gli uomini, si può ammettere a buon diritto che in media presentemente in ognuno é per così dire innato il bisogno dell'obbedienza, quasi fosse una specie di coscienza formale, la 
quale impone: tu devi fare qualche cosa incondizionatamente, devi tralasciare di fare qualche cosa incondizionatamente, in breve « tu devi ». L'uomo cerca di soddisfare un tal bisogno e di dargli una materia. Per giungere a ciò egli assorbe la misura della sua forza, della sua impazienza, della sua tensione, senza alcuna scelta, con appetito grossolano, tutto ciò che gli viene suggerito da chicchessia comandi - dai genitori, dai maestri, dalle leggi, dai pregiudizi di classe, dalla pubblica opinione. La strana limitatezza dello sviluppo dell'uomo, l'esitazione, le lungaggini, il retrocedere, lo aggirarsi entro un circolo vizioso che accompagnano un tale sviluppo, tutto ciò trova la sua spiegazione nel fatto che l'istinto dell'obbedienza si trasmette ereditariamente, meglio di ogni altro e a tutte spese dell'arte di comandare. Si immagini questo istinto progredente sino alle sue ultime conseguenze, e si comprenderà che alla fine mancheranno gli individui dominatori ed indipendenti; oppure questi ultimi saranno travagliati internamente dalla coscienza malsicura e sentiranno il bisogno di farsi certe illusioni, per poter comandare dimodoché anch'essi non faranno che obbedire a quelle tali illusioni. Questo statu di cose sussiste oggi di fatto in Europa: io lo chiamo l'ipocrisia murale dei dominanti. Essi non sanno altrimenti scagionarsi dinanzi alla propria cattiva coscienza che spacciandosi per esecutori di ordini antichi e provenienti dall'alto (dagli antenati, dalla costituzione, dal diritto delle leggi e persino da Dio), oppure prendono a prestito dal modo di pensare delle gregge le loro massime, vantandosi per esempio d'essere i « primi servi del loro popolo » oppure gli « strumenti del benessere pubblico ». D'altra parte l'uomo aggregato oggi si dà l'apparenza d'essere l'unica specie d'uomo che sia permessa e glorifica le proprie qualità, mercé le quali egli è sottomesso, socievole e utile al suo branco come se queste fossero le uniche virtù veramente umane: sicché socievolezza, benevolenza, riguardo, diligenza, sobrietà, modestia, indulgenza, compassione. In certi casi però, nei quali non si crede di poter far a meno di un montone che serva di guida, oggidì si fanno tentativi su tentativi per sostituire i veri dominatori sommando insieme un certo numero di uomini aggregati dei più assennati: tale origine hanno per esempio tutte le costituzioni rappresentative.
Quale beneficio, quale redenzione da un'oppressione divenuta insopportabile sia malgrado tutto ciò per le gregge umane europee l'apparizione di un individuo che comandi incondizionatamente, lo prova l'effetto prodotto dalla comparsa di Napoleone, l'ultima grande testimonianza del mio asserto: -- la storia dell'influenza di Napoleone é, potrebbe dirsi, la storia della maggior fortuna, che abbia raggiunto il nostro secolo nei suoi uomini e nei suoi momenti più preziosi.

200.
L'uomo d' un'epoca di dissoluzione, la quale confonde tra di loro razze, portando in sé l'eredità di molteplici origini, vale a dire impulsi e giudizi di valori contrari, e talvolta contraddittori, i quali sono in continua lotta tra di loro e di rado si dànno tregua - un simile uomo delle civiltà più tarde e di riflesso sarà in media un uomo debole: il suo desiderio - più intenso sarà che la guerra che é in lui, possa una buona volta cessare; la sua felicità consisterà (d'accordo in ciò con una medicina e con un modo di pensare tranquillante come, ad esempio, l'epicureo ed il cristiano) principalmente nel riposare, nel non essere disturbato, nella sazietà dell'unità finale, che sarebbe il « sabato dei sabati » per parlare con santo retore Agostino, che era lui pure uno di codesti uomini. - Ma quando il contrasto e la guerra in una tale indole agiscono come un'attrattiva della vita, ed una spinta di più, - e d'altra parte ai suoi impulsi potenti ed inesorabili è collegata per eredità anche la vera maestria, la vera finezza dell'arte del guerreggiare, allora sorgono quegli uomini enigmatici inafferrabili, ed incomprensibili, predestinati alla vittoria ed alla seduzione, dei quali Alcibiade e Cesare- sono la più bella espressione (per mio gusto propenderei d'aggiungervi il grande Federico), tra gli artisti forse Leonardo da Vinci. Essi fanno la loro apparizione precisamente nelle epoche in cui il proscenio é occupato dal tipo debole da noi più sopra descritto, col suo desiderio di riposo: i due tipi si completano e sono originati dalle medesime cause.

201.
Fino a che l'utilità dominante nell'apprezzamento dei valori morali, non é che l'utilità degli uomini aggregati e tende unicamente alla conservazione della comunità, fino a che l'immorale si identifica esclusivamente con tutto ciò che alla comunità riesce , dannoso, non può esistere una morale dell'« amore del prossimo ».
Ammesso pure che sussista già allora una certa qual misura di riguardi, di compassione d'equità, di bontà di reciprocità nell'aiutarsi : che di già in quello stato della società si trovino in attività tutti quelli impulsi, che più tardi si collocheranno al posto d'onore col nome di « virtù », e i quali coincidono quasi col concetto « moralità » : in quell'epoca essi non appartengono ancora al regno delle valutazioni morali sono ancora extra-morali. Così, ad esempio, un atto di pietà nei migliori tempi di Roma non viene detto né buono né cattivo, né morale né immorale: e seppure é lodato, a questa lode s'aggiunge anche una specie di sdegnoso disprezzo tutte le volte che lo si raffronti ad un atto che serve a favorire la cosa comune, la res publica. In ultima analisi l'« amore del prossimo » é sempre alcunché d'accessorio, in parte anche convenzionale ed apparentemente arbitrario in proporzione della paura del prossimo.
Allorquando la compagine della società nel suo complesso é salda ed assicurata contro i pericoli esterni, si é codesta paura del prossimo che crea nuove prospettive di apprezzamenti di valori morali. Certi impulsi potenti e pericolosi come lo spirito d'intraprendenza, la temerarietà, la sete di vendetta, l'astuzia, la rapacità, la sete di dominazione, impulsi che sino allora in quanto erano utili al bene pubblico, non soltanto si onoravano sotto nomi differenti, ben inteso, da quelli da noi accennati ma necessariamente si incoraggiavano e si favorivano (perché nel pericolo comune si abbisognava di loro costantemente contro i comuni nemici) più tardi si riconoscono doppiamente pericolosi - poiché mancano i canali di sfogo - passo passo si segnano col marchio dell'immoralità e si danno in preda alla calunnia. Allora gli impulsi e le inclinazioni contrarie vengono assunti agli onori morali; l' istinto del branco trae passo passo le sue conclusioni. Quando più o meno vi sia di dannoso al benessere comune, di pericoloso all'uguaglianza di tutti, in un'opinione, in uno stato di spirito, in una passione, in una volontà, in un ingegno, ecco quale é adesso la prospettiva morale: anche qui la paura diviene la madre della morale. Gli impulsi più elevati e potenti, allorquando, erompendo con tutta la forza della passione, innalzando un singolo individuo al disopra e lo spingono ben fuori della media e della bassezza della coscienza dell'uomo aggregato, tolgono alla comunità il sentimento della propria indipendenza, la fede in sé stessa, la sua colonna vertebrale, per così dire, si spezza: sicché si vuole macchiar d'infamia e di calunnia precisamente simili impulsi. Di già in un'altra spiritualità indipendente, nella volontà di stare da per sé, in una intelligenza elevata si subodora un pericolo: tutto ciò che innalza il singolo al disopra del branco, e fa paura al prossimo, si chiamerà d'ora innanzi col nome di « male » ; i sentimenti dell'equità, della modestia, dell'ordine, dell' uguaglianza, la mediocrità delle brame ottengono nomi ed onori morali. Alla fine, in condizioni molto pacifiche cessano l'occasione ed il bisogno d'educare i propri sentimenti al rigore ed all'asprezza; ed allora qualsiasi rigore, anche della giustizia, incomincia a turbare gli animi: un'asprezza aristocratica ed indipendente offende quasi e genera la diffidenza, l'« agnello », anzi la « pecora », guadagnano nella stima. Nella storia della società, il rilassamento e la mollezza possono giungere al punto, che la società prende le parti di chi tende a recare danno, del delinquente, e le prenda seriamente ed onestamente. Punire -- ciò le sembra non equo sotto qualche rapporto, - certo si é che l'idea di punire e di dover punire le fa male, le fa paura. « Non basta renderla incapace a far dei male? Perché punire per giunta? II punire non é per sé- stesso una cosa terribile?? - Con queste interrogazioni la morale del branco, la morale della paura trae la sua ultima conclusione. Supposto che si potesse eliminare il pericolo per sé stesso, la causa della paura, con ciò solo si sarebbe eliminata anche codesta morale, essa non sarebbe più necessaria, non si sentirebbe più la sua necessità.
Chi esamina la coscienza dell'europeo odierno si vedrà costretto a nicchiare dalle pieghe, dai nascondigli della morale, sempre lo stesso imperativo, l'imperativo della paura del branco « Noi vogliamo che da un momento dato non ci sia più nulla 
da temere ! - Ad un momento dato ! - la volontà e il cammino per arrivarci chiamasi oggidì dovunque in Europa il « progresso ».

202.
Diciamolo subito ancora una volta, quello che cento volte abbiamo ripetuto : le orecchie sono oggidì restie a certe verità - alle nostre verità. Noi sappiamo molto bene quanto suoni offensivo il permettersi di metter l'uomo francamente, e non solo per similitudine, tra gli animali: ma a noi s'imputerà quasi a colpa, l'aver adoperato costantemente a proposito degli uomini dalle « idee moderne » l'espressione « branco », « istinti da gregge », eccetera. Che importa! Non possiamo fare altrimenti giacché precisamente in ciò sta il nostro nuovo modo di vedere le cose. Noi troviamo l'Europa concorde in tutti i giudizi morali essenziali, ed all'Europa dobbiamo ancora aggiungere i paesi dove predomina l'influenza europea; in Europa si sa evidentemente ciò che Socrate diceva di ignorare e ciò che il famoso serpente aveva promesso di rivelare, si sa oggi quello che é bene e quello che é male. E perciò deve riuscire duro agli orecchi il nostro insistere: che quella cosa in noi che crede di sapere, ed esalta sé stessa colle lodi e col biasimo, che da per sé stessa si dichiara buona, non é che l'istinto dell'uomo da gregge ; il quale istinto si è fatto strada attraverso a tutti gli altri, istinti, ha preso su tutti il sopravvento e lo prende sempre più in forza del crescente riavvicinamento e assimilamento fisiologico, dei quali egli é un sintomo. « La morale odierna in Europa è una morale da animali aggregati » - vale a dire, al modo che noi vediamo le cose, una singola specie di morale umana, vicino alla quale esistono, e prima della quale furono e dopo la quale dovrebbero essere possibili tante altre morali, anzitutto più elevate. Contro una tale « possibilità », contro un tale « dovrebbero essere » la morale odierna si impenna con tutte le sue forze; essa dice e ripete ostinatamente ed inesorabilmente; « io sono la vera morale e nulla all'infuori di mé è morale - ; sì coll'aiuto di una religione che fece abbandono di sé stessa alle brame più sublimi dell'animale da gregge, che le adulò, le cose sono giunte al punto che persino nelle istituzioni politiche e sociali noi scorgiamo una espressione sempre più latente di quella morale: il movimento democratico va assumendo l'eredità del movimento cristiano. Ma che il tempo sembri troppo lento e noioso agli impazienti, agli esseri morbosi, avidi, lo dimostrano gli ululati sempre più furibondi, il digrignare di denti sempre più sfacciato dei cani anarchici, che scorazzano per le vie della civiltà europea: in contraddizione apparente coi democratici, che predicano pace e lavoro, con gli ideologi della rivoluzione, con i goffi filosofastri sentimentali della fratellanza universale che si appellano socialisti e vogliono la « società libera », in realtà però di completo accordo con loro nell'odio radicato ed istintivo contro ogni altra forma sociale che non sia il branco autonomo (sino nel volere l'abolizione dei concetti « padrone » e « servo - ni Dieu ni maître suona una formula socialista), d'accordo nella opposizione tenace contro ogni diritto, ogni privilegio del singolo individuo (ciò che in fondo equivale ad una opposizione contro qualsiasi diritto, giacché quando tutti fossero eguali, diverrebbero inutili tutti i « diritti »);
di completo accordo nella diffidenza contro la giustizia punitrice (come se rappresentasse una violenza del debole, un torto verso ciò che é una conseguenza necessaria delle società precedenti);
ma così pure di completo accordo nella religione della compassione per tutto ciò che sente, vive, soffre (in basso sino al bruto in alto sino a « Dio » - l'esagerazione della « pietà di Dio » appartiene ad una epoca democratica);
di completo accordo nel grido di protesta, nell'impazienza della compassione, nell'odio mortale per ogni sofferenza in generale, nell'incapacità quasi femminea di sopportare la vista di una sofferenza e di permettere che si soffra;
d'accordo nell' involontario oscuramento e nell'effeminamento, per i quali all'Europa sembra incomba minaccioso un nuovo Buddismo;
d'accordo nella fede in una morale della compassione reciproca, come se questa fosse la morale per eccellenza, la sommità, il culmine raggiunto dall'uomo, l'unica speranza dell'avvenire, la consolazione del presente la grande redenzione dalle colpe del passato;
d'accordo nella fede in una in una comunità redentrice, nel branco, dunque in sé stessi....

203.
Noi che abbiamo una fede diversa; noi, per i quali il movimento democratico rappresenta non solamente una forma di decadenza dell'organizzazione politica, ma benanco una forma di decadenza, cioè il rimpicciolimento dell'uomo, un mediocrizzamento, un abbassamento del suo valore: verso qual punto dobbiamo dirizzare le nostre speranze? Verso nuovi filosofi, non c'è altra scelta; verso spiriti forti e sufficientemente indipendenti, tanto da poter dare un' impulso a giudizi di valore opposti, riformare, invertire i valori eterni : verso precursori, verso uomini dell'avvenire, i quali nel presente devono formare il nodo che costringerà la volontà dei millenni ad aprirci nuovi sentieri; insegnare all' uomo che il suo avvenire é la... volontà, che dalla volontà d'un uomo dipende il preparare grandi ardimenti e tentativi complessi dall'allevamento e di miglioramento per poter mettere un termine all'orribile dominazione dei controsenso e del caso che finora si chiamò la « storia » - il controsenso dei « numero massimo » non è che l'ultima forma; e per giungere a tutto ciò un giorno si manifesterà il bisogno d'una nuova specie di filosofi e di governanti, in confronto dei quali tutto ciò che finora ci fu nel mondo di spiriti misteriosi, terribili ed umanitari, non sarà che una pallida ed intristita immagine.
La visione di simili condottieri splende dinanzi ai nostri occhi: - posso dirlo francamente a voi, spiriti liberi?
Le circostanze che bisognerebbe in parte creare, in parte sfruttare perché essi possano sorgere: le vie e le prove presumibili, mercé le quali un'anima possa elevarsi ad una tale altezza, ad una tale potenza da poter sentire il bisogno di un consimile compito; un rimpasto di valori, sotto la cui nuova pressione la coscienza si ritemprerebbe, il cuore si muterebbe in bronzo, per poter sopportare il peso d'una simile responsabilità: e d'altra parte la necessità di simili condottieri, il terribile pericolo che possano mancarci, oppure abortire o degenerare -- ecco la nostra principale preoccupazione, ecco quello che ci turba - lo sapete voi o spiriti liberi? Sono questi i gravi pensieri, le tempeste che attraversano il cielo dellanostra esistenza. Pochi dolori uguagliano quello d'aver dovuto, indovinato, presentito talvolta un uomo straordinario deviare dal suo cammino e degenerare: ma chi ha, cosa ben rara, gli occhi aperti al pericolo comune che « l'uomo » stesso degeneri: chi al par di noi, ha riconosciuto la mostruosa casualità che sinora ha deciso dell'avvenire dell'uomo - nel quale non la mano, ma nemmeno un dito di Dio si è giammai immischiato! - chi ha compresa la fatalità che si cela nell'ingenuità infantile, nell'esuberanza di fiducia delle « idee moderne », ma più ancora in tutta la morale cristiano-europea: colui proverà un'ineffabile stretta al cuore, - abbraccerà di uno sguardo ciò che si potrebbe fare dell'uomo col mezzo d'un favorevole accumulamento, d'un aumento di forze e di compiti; egli si dirà, con tutta la convinzione della sua coscienza, come l'uomo sia molto lontano dall'essere esaurito per le maggiori eventualità, come già altre volte il tipo uomo si sia trovato di fronte a nuove decisioni, a nuovi sentieri : - sapendo molto bene per propria dolorosa rimembranza contro quali ridicoli scogli tanti esseri, destinati alle supreme cose dal loro nascere, naufragarono, si spezzarono, sprofondarono, intristirono.
La degenerazione universale dell'uomo verso ciò, che agli imbecilli socialisti ed alle zucche vuote si presenta come l'« uomo dell'avvenire » -- come il loro ideale! questa degenerazione, questo rimpicciolimento dell'uomo sino a renderlo un uomo da gregge perfetto (ovvero, come dicono, l'uomo della « società libera »), un abbrutimento dell'uomo sotto il livello degli uguali diritti e doveri é possibile, non vi è dubbio! Chi ha meditato sino alla fine su questa possibilità, ha imparato a conoscere una nuova specie di nausea e forse anche un nuovo compito !

martedì 7 maggio 2019

ALLORA, COME DIVENTARE SELVAGGI?



Wolfi Landstreicher

Note incompiute da discutere e mettere in pratica

NOTA INTRODUTTIVA – Quando ho scritto il saggio Feral Revolution verso la fine degli anni ’80, una parte delle mie intenzioni era di separarmi da una tendenza primitivista che allora ritenevo assumesse troppa importanza nella piccola parte dell’ambiente anarchico che stava sviluppando una critica alla civilizzazione. Il primitivismo, in particolare quello espresso sulle pagine di Fifth Estate, sembrava portare avanti una tendenza verso modelli preconfezionati e risposte prestabilite, e io ho visto in questo il primo passo per buttarsi in politica, per fare delle nostre idee un’ennesima ideologia concorrente con le miriadi di altre favorevoli a dei sistemi politici radicali. Non era verso un modello che dovevamo fare avanzare il nostro progetto, ma piuttosto verso una coraggiosa volontà di affrontare l’ignoto della rivolta reale e di sollevare le questioni che sfidano per davvero la nostra esistenza attuale nella sua totalità. Sentivo che il concetto di selvaggio era sufficientemente indefinito per ispirare una tale messa in discussione, in particolare se il suo oggetto era l’intera esistenza civilizzata. Ma Feral Revolution era ambiguo abbastanza da permettere al primitivismo di inghiottirselo – questo può spiegare il motivo per cui è il più ristampato dei pezzi che ho scritto. Basta equiparare il primitivismo (idealizzato) con il selvaggio, e il selvaggio non è più uno sconosciuto da dover scoprire ed esplorare, ma un modello noto a cui tornare. Non voglio arrivare alla reificazione delle culture non-civilizzate implicita in una tale costruzione. Pochi anni orsono scrissi “Allora, come diventare selvaggi?” per riaffermare l’aspetto più importante della mia idea di “selvaggio” come incognita all’interno della discussione. Come sarà chiaro da questo scritto, la mia critica della civilizzazione non è nata dal pensiero primitivista né dall’ambientalismo, ma dall’esame dell’alienazione, del dominio e dello sfruttamento imposto a quasi tutti gli umani nella società presente. Perciò il mio interesse non è mai stato il ritorno della terra a un qualche immaginario stato edenico e originario – il che sarebbe solo un programma politico come gli altri, in cerca di adesioni – ma la creazione di un progetto con lo scopo di una rottura insurrezionale con il mondo presente e l’apertura di una miriade di possibilità da esplorare e sperimentare. Per me la critica della civilizzazione è anzitutto uno strumento teorico per lo sviluppo di tale progetto, un progetto inteso a portare a quella rivoluzione che può giustamente essere chiamata un “momento collettivo per la realizzazione individuale”. Questa è una versione leggermente modificata del pezzo.

La distruzione della civilizzazione – quella rete di istituzioni, sistemi e strutture comprendente lo Stato, l’economia, la tecnologia, la religione, la famiglia e ogni forma di dominio e di controllo – e il rovesciamento dell’addomesticamento per me sono degli obiettivi rivoluzionari, linee guida verso un modo di vivere insurrezionale contro il presente. Pur essendo espresse negativamente, c’è una visione positiva dietro la negazione. Questa visione positiva può essere espressa in termini di “wildness” (stato selvaggio). Ma lo stato selvaggio – specialmente come meta da raggiungere da parte degli individui in rivolta contro addomesticamento e civilizzazione – è una qualità incognita. Come anarchico ne sono contento. Non ci possono essere degli esperti in selvatichezza umana, nessun leader che ci possa condurre là, nemmeno il compagno che ha vissuto nella foresta per gli ultimi 15 anni e l’ha guardata attraverso delle lenti civilizzate quali “Natura”, “Madre Terra”, “Il cerchio della vita”, considerandosi come il giudice di chi conosce o meno lo “stato selvaggio”. Per chiunque possa leggere questo scritto, e quindi evidentemente è civilizzato, lo stato selvaggio è un concetto, un’idea, che può ispirare la rivolta; ma questo potenziale ispirare la rivolta non nasce da ogni risposta che questa idea sembra dare (come ogni idea liberatoria che non è diventata ideologia non fornisce nessuna risposta) ma dalle questioni che solleva, dai problemi che pone. Il nostro esame della questione dello stato selvaggio umano può, naturalmente, includere l’esame di ciò che sappiamo delle persone non civilizzate e di come vivevano, ma questo è utile solo se abbiamo l’integrità di riconoscere che tutta questa conoscenza è stata filtrata dalle lenti civilizzate di scienze come l’antropologia, l’archeologia, la paleontologia. Dobbiamo evitare l’illusione di poter imitare o “ritornare” ai modi di vita di queste persone. Anche se scegliessimo di tentare questa imitazione, sarebbe l’imitazione di un’immagine statica di questa gente come ci viene presentata attraverso le nostre lenti civilizzate, piuttosto che il rivivere la dinamica dei rapporti reali tra la natura e la loro società. La cosa più importante da apprendere dall’esame degli studi antropologici dei popoli noncivilizzati è che costoro sono stati capaci di vivere, e vivere bene, in una varietà di modi diversi senza tutti i presunti vantaggi forniti dall’insieme dei sistemi sociali e tecnologici compresi in ciò che noi chiamiamo civilizzazione. Ma ancora, una realizzazione simile, libera da ogni struttura ideologica, non fornisce delle risposte. Piuttosto, solleva delle questioni che richiedono la sperimentazione e la coraggiosa esplorazione di possibilità. Io lo enfatizzo di continuo, poiché troppo spesso la retorica degli anarchici anticivilizzazione è farcita di ascetismo e di una morale del sacrificio, mentre io considero la rivolta contro la civilizzazione precisamente una rivolta contro l’ascetismo imposto dalle istituzioni della civilizzazione, una rivolta contro l’incanalamento del desiderio nella produzione, nel consumo e nella riproduzione sociale. Nel nostro ambiente ci sono già state tante buone esplorazioni di ciò che le culture non civilizzate possono significare per noi. Io esplorerei piuttosto che cosa possa significare “diventare selvaggi” come pratica insurrezionale nel presente.
Una cosa da apprendere dall’esame dell’antropologia, della storia e da un esame accurato del nostro presente è che gli esseri umani sono creature estremamente varie e adattabili. Sembra assurdo parlare di “natura umana” alla luce di ciò che conosciamo delle relazioni che gli esseri umani hanno tra di loro e con il mondo circostante. Gli esseri umani sembrano possedere pochi – se non nessuno – istinti, e questi pochi, se mai esistono, sembrano implicare la via della minor resistenza. Così, “diventare selvaggi” potrebbe benissimo richiedere la repressione dei nostri istinti. Ma il livello di variabilità e di adattabilità degli esseri umani indica che gli individui sono capaci di questa repressione. L’apparente mancanza di una natura specificamente umana è ciò che ha permesso agli esseri umani di essere addomesticati, di diventare degli esseri civilizzati, ma apre anche la possibilità di rivolta contro tale condizione, una rivolta che potrebbe distruggere questa condizione e trasformarci in qualcosa di nuovo – poiché le esperienze che abbiamo avuto come esseri civilizzati non spariranno semplicemente, ma influiranno su ciò che diventiamo. Perciò uno “stato selvaggio” post-civilizzazione non sarebbe un ritorno ad una condizione precivilizzata, ma un’esplorazione di nuovi modi di relazione con il mondo attorno a noi libero dai limiti imposti dalle istituzioni comprese nella civilizzazione. Il suo pieno significato sarebbe compreso solo nel momento della sua creazione e cambierebbe da momento a momento come è ricreato nella dinamica fluttuante di interazioni, qual è il mondo, specialmente nel suo stato selvaggio.
Tutto questo può sembrare astratto. Dopotutto per l’individuo civilizzato lo stato selvaggio è un concetto astratto. E rimarrà tale finché non si trae ispirazione da questa idea – non come ideale che scende dall’alto, ma come concezione della vita che si desidera creare qui e ora – per insorgere nella ribellione attiva contro il proprio addomesticamento e contro tutte le istituzioni della civilizzazione che lo impongono. Gli individui che sono stati ispirati in questo modo sviluppano una ferocia comparabile a quella che si trova in molte creature selvagge – animali una volta addomesticati che sono diventati selvaggi – ma l’individuo umano può dirigere questa ferocia verso degli obiettivi precisi in un’insorgenza volontaria contro le fonti dell’addomesticamento riconosciute come tali.
Il punto che sto facendo è che per l’insorgenza contro la totalità della civilizzazione lo stato selvaggio non è una risposta, non è una soluzione definitiva alla quale un giorno arriveremo, ma piuttosto una questione, una tensione con cui lottare ogni giorno. Perciò per noi la pratica dello stato selvaggio deve essere una sperimentazione perpetua che incorpora la creazione volontaria di ogni momento della propria vita per sé stessa e il rifiuto volontario, attraverso l’azione distruttiva, del dominio in ogni sua forma – e cioè dell’addomesticamento e della civilizzazione come la conosciamo noi. Tale sperimentazione ci trasformerà e trasformerà i nostri modi di interagire con il mondo. Nel contesto della civilizzazione, questa può essere la migliore comprensione pratica di ciò che lo stato selvaggio può essere per noi.
Non ci sono risposte qui, solo domande. Ed è l’imposizione di risposte che in primo luogo porta al nostro addomesticamento, e solo ponendo questioni nel modo più crudele e intenso saremo mai capaci di superare tutto questo e diventare unicamente noi stessi.