Una ricerca anarchica sul primitivo in effetti coinvolge molteplici questioni. Il problema è davvero la civilizzazione stessa? La sua sconfitta è una possibilità realistica? Si deve abbattere o abbandonare?
L’antropologia radicale che di recente gode dell’interesse di molti anarchici ha il merito di dimostrare che l’umanità ha vissuto sulla terra per la maggior parte del suo tempo in bande di cacciatori/raccoglitori prive della gerarchia di classe, della divisione alienata del lavoro, della diseguaglianza sessuale e del devastante stato di guerra tecnologica. Alla luce di tutte le rivoluzioni fallite della storia moderna ci fa intravedere le uniche comunità umane che realmente sono state quello che si potrebbe chiamare anarchiche o comuniste in modo sostenibile e con successo. Ciò di per sé contrasta con l’ideologia hobbesiana e le altre che sostengono che la natura della bestia umana richieda un controllo autoritario. Ma è difficile trarre una politica da questa antropologia. La civilizzazione potrebbe essere stata un errore fin dal principio, ma potrebbe anche essere qualcosa dentro cui siamo più o meno incastrati. L’idea del primitivismo implica, nella sua forma più radicale, un ritorno all’età dell’oro della caccia/raccolta, tuttavia pochi, se non addirittura nessuno, anche tra i più fervidi critici della civilizzazione sostengono questa direzione. Un primitivismo assolutista può arrivare alla conclusione che il problema sia la specie umana stessa, col risultato di una misantropia nichilista. Anche se voglio ammettere che la civilizzazione ha profondamente alienato l’umanità dal resto della natura, e che oggi ha assunto l’impatto di un lunghissimo treno colossale lanciato verso il disastro, non credo che tutti i suoi prodotti (come libri, scacchi, vini, tanto per citarne alcuni dei miei preferiti) siano cattivi; alcuni aspetti della civilizzazione sono degni di essere preservati, così come quelli più oppressivi e dannosi sono da abolire. È certo che dobbiamo liberarci da una tossica sovra-civilizzazione e riconciliarci con la natura, ma sono scettico se sia fattibile o addirittura desiderabile la sua distruzione o abbandono assoluto. Prima di ritornare su questi punti voglio esaminare in breve le origini del primitivismo contemporaneo (se lo vogliamo davvero chiamare così) e la sua disputa con il marxismo e con la sinistra.
Gli anni recenti hanno visto l’emergere di un anarchismo verde, ma dovremmo ricordare che il primitivismo contemporaneo e affini (tranne l’ecologia profonda) hanno forti radici nel marxismo europeo di estrema sinistra, o piuttosto nei tentativi di superarlo dopo la grande quasi rivoluzione del 1968 in Francia e i momenti collettivi accaduti fino ai giorni nostri. Jacques Camatte, in precedenza membro del partito bordighista, è una delle figure chiave e ha avuto un’influenza importante su Fredy Perlman e Fifth Estate. Negli anni ’60 lo stalinismo era ancora molto dominante come opposizione al capitalismo, anche in alcuni paesi occidentali come la Francia e l’Italia. Tuttavia il rifiuto del marxismo non riguardava solo lo stalinismo e le varie ideologie nazionaliste (ri)emergenti dal loro declino, ma si è esteso alla messa in discussione anche degli elementi del marxismo occidentale meno autoritari/ideologici e più critici, quali il comunismo consiliare e l’Internazionale Situazionista e i suoi emuli, che si sono tutti esauriti in modo simile o sono falliti nell’irrilevanza dopo il 1970. I vari teorici oggi associati all’idea generale e all’ambiente del “primitivismo” provengono da una di queste direzioni, soprattutto attraverso un impegno critico con un anarchismo che iniziava a riemergere dopo una lunga eclissi. Tra costoro, Camatte resta quello che è più in debito con Marx.
Lo schema storico marxista ha lasciato uno spazio, anche se piuttosto esiguo, alla preistoria nella categoria del “comunalismo primitivo”, che secondo questa teoria tornerebbe a un livello più “alto” con la dialettica storica della lotta di classe. Camatte, e altri come Perlman e Zerzan, sono giunti alla conclusione che la classe operaia non può più essere considerata il soggetto rivoluzionario, e hanno messo in dubbio la presunta necessità della lunga deviazione avvenuta nel corso della civilizzazione (la “peregrinazione dell’umanità” o “His-story” cioè la Sua-storia) con le sue diverse tappe organizzate attorno a dei modi di produzione. Marx, in contrasto con pressoché tutti i tipi di marxisti che possiate immaginare, di per sé aveva alcune tendenze “primitiviste”, visibili ad esempio negli Ethnological Notebooks e nei primi scritti di Parigi sull’alienazione, in cui ha indicato il comunismo come l’emergere di una comunità umana dell’uomo e della donna naturali che abbia come scopo la libera creatività e non lo sviluppo delle forze economiche di produzione. Nel suo momento migliore Marx ha offerto la prospettiva della soggettività radicale piuttosto che della fede in un processo oggettivo operante tramite la rigida teologia e il determinismo economico. Per sfortuna quello che il mondo conoscerà fin troppo bene è l’ultimo risvolto del marxismo, e in parte sia Engels sia Marx stesso ne sono i responsabili.
Un altro pensatore radicale che vale la pena di citare in proposito è Dwight Macdonald, anche lui un rifugiato della sinistra marxista (nel suo caso il trotzkismo); i suoi principali scritti sono degli anni ’40 e ’50, periodo in cui lo stalinismo era ancora più radicato e all’apice del suo potere. Macdonald non disprezzava la civilizzazione in quanto tale (infatti era un grande appassionato degli antichi greci che erano, notava con approvazione, “tecnologicamente primitivi quanto esteticamente civilizzati”), ma la sua critica ben ragionata del marxismo lo collocava fermamente nel contesto del progetto occidentale illuminista della fede illimitata nella scienza, nel progresso e nel dominio della natura. Macdonald auspicava un rinnovamento dell’anarchismo sia individualista sia comunitario, libero dal feticcio del “socialismo scientifico” partorito tanto dall’anarchismo classico e dagli utopisti quanto da Marx. Il riemergere dell’anarchismo a partire dagli anni ’60 ha assunto una posizione molto più critica nei confronti della scienza e della tecnologia rispetto ai profeti barbuti dell’800. Dal momento che anche grazie agli scritti di Macdonald si sono poste le basi per questa riemersione, può essere considerato un precursore del primitivismo, anche se ho l’impressione che non ne avrebbe approvato interamente le sue manifestazioni attuali.
Qualsiasi qualità le persone associno alla civilizzazione (ad esempio le conquiste culturali, spirituali o etiche) di solito non riguardano altro che il fare soldi, che è precisamente l’alfa e l’omega di questa società. La civiltà del Capitale – ammettendo poi che abbia una sua propria civiltà al di là della cultura di massa guidata dal mercato e dalla tecnologia – è una patina parassita sovrapposta alla cultura delle precedenti forme sociali, che continuamente decompone, ricompone e impacchetta come se fosse un’immensa collezione di merci da vendere e consumare. Camatte ha descritto in termini tetri la società presente come una “comunità materiale del capitale” in cui le classi sociali della classica polarità marxiana, borghesia e proletariato, sono state soppresse o soppiantate da una schiavitù umana generalizzata del lavoro salariato e delle merci, dove la vita stessa assume sempre più l’aspetto della “realtà virtuale”. In questa società, in analogia con il “modo di produzione asiatico”, ci possono essere delle rivolte ma non esiste via d’uscita attraverso la dialettica della storia.
Ma se nella società moderna il proletariato (che sia definito classicamente come quelli che non possiedono i mezzi di produzione, oppure, come più in generale da Castoriadis e dai situazionisti, come quelli senza potere o controllo sulle proprie vite) non servirà da soggetto rivoluzionario e forza di negazione, allora chi o che cosa? Chi è contro la guerra, i verdi, le femministe, i gay e i “nuovi movimenti sociali” (a questo punto neanche più tanto nuovi) per i diritti civili nati negli anni ’60, hanno i loro comprensibili motivi di rifiutare il marxismo e l’antico movimento operaio, ma questi movimenti hanno avuto la tendenza a diventare completamente integrati nella società capitalista tramite l’accademia postmoderna o i partiti politici liberali e socialdemocratici. Una prospettiva di ecologia profonda può anche avere poco bisogno di un soggetto umano per realizzare dei cambiamenti rivoluzionari, ma la maggior parte delle anarchiche e degli anarchici, “primitivisti” inclusi, hanno una visione della rivoluzione sociale. Anche se la società del capitale sembra notevolmente silenziosa, c’è (o c’era, almeno fino a poco fa) un qualche motivo per essere ottimisti. La resistenza contro i vari pilastri ideologici, tecnologici e istituzionali di questa società sembra essere in drammatico aumento, ed è una questione importante il che cosa accadrà in questa deriva verso una guerra sempre più totale.
La teoria del proletariato enunciata nel XIX secolo ha perso la sua credibilità, tuttavia possiede ancora una mezza vita che continua a farsi sentire. Bob Black, che di per sé non è primitivista ma condivide molti elementi della critica primitivista della società tecnologica, ha detto: «Il nocciolo sovra-razionale della fede nella struttura mistica marxista è questo: la “classe operaia” è il leggendario “agente rivoluzionario”, ma solo se, non lavorando, abolisce le classi.» Il lavoro zero considera il rifiuto o l’abbandono del lavoro come punto di partenza di ogni sforzo inteso a cambiare o evadere da questo mondo, solo che rifiuta gli sforzi di sinistra di organizzare tale rifiuto tramite partiti e sindacati. È necessariamente ambivalente (agnostico?) sulla questione della civiltà e della tecnologia. Nella ricerca di strade per liberare l’umanità dal lavoro sono diverse le direzioni cui rivolgersi. Paul La Fargue ha sostenuto l’automazione sotto il controllo operaio, come anche i situazionisti. In questo scenario la tecnologia può essere vista come un aiuto potenziale e non necessariamente come una forza di oppressione insopportabile. L’altra faccia della medaglia è che potenzialmente implica una dipendenza continua dalla tecnologia. Poi c’è l’esempio dei popoli cacciatori/raccoglitori, che in pratica non lavorano e non hanno bisogno dell’automazione perché la natura rende disponibile ogni cosa di cui hanno bisogno. Oltre a essere in pratica impossibile ricreare questi modi di vita nelle loro forme originarie del paleolitico, questo modello ha dei limiti pratici come progetto di trasformazionedelle nostre esistenze.
In considerazione dell’importanza (o meno) della classe operaia è bene osservare che la maggior parte degli abitanti del pianeta non consiste di operai (post)industriali, bensì di contadini. Il rapporto con la terra è molto importante e le categorie del discorso associate a Marx e ad altri radicali del XIX secolo sono tuttora rilevanti, specialmente l’enfasi sulle origini del capitalismo come rivoluzione agricola. Camatte, che è favorevole a movimenti basati sulla comunità piuttosto che sulla classe, ha scritto molto in merito. Il concetto di comunità è vago in modo frustrante quando applicato alle società occidentali contemporanee, ma è più facile da considerare in rapporto alla parte più grande del mondo dove il capitalismo non è ancora completamente penetrato nelle società tradizionali, e le formazioni sociali le cui radici sono predate dal capitalismo sono tuttora la norma. Nel suo saggio sulla rivoluzione russa, Camatte enfatizza la dimensione populista, radicata nelle campagne, piuttosto che la dialettica di classe borghesia contro proletariato. Ha portato come esempio i consigli operai che in un certo senso sono stati delle estensioni della comune contadina, poiché molti degli operai insurrezionali nella Russia del rapido processo di industrializzazione erano emigrati in tempi molto recenti dalle campagne, dove predominavano le forme sociali comunali. Oggi nelle società non occidentali l’urbanizzazione e l’industrializzazione continuano a crescere e il capitale continua a farsi strada con gli stessi mezzi con cui si è stabilito in occidente: con le recinzioni e sradicando le persone dai loro mezzi di sussistenza e dalla loro terra. Ma almeno una traccia della dimensione comunitaria è ancora presente nell’esistenza dei lavoratori. Persone di molte zone di Africa e Asia, ad esempio, che hanno iniziato a lavorare nelle città hanno ancora le loro famiglie, il cibo e altre risorse disponibili nei loro villaggi natii delle campagne. Queste regioni sono povere in confronto al Nord America, all’Europa occidentale e al Giappone, ma nell’eventualità di un collasso industriale di vasta portata è presumibile che, basandosi sulla sopravvivenza data dalle campagne, in effetti se la caverebbero meglio.
Se si stabilisse su vasta scala un socialismo basato sull’agricoltura, molte aree del mondo potrebbero essere proiettate fuori dal mercato globale. Ma finché il capitale rimane saldamente al potere nei suoi santuari metropolitani, questo scenario probabilmente non funziona. Infatti si può dire che questo tentativo è stato fatto di recente. Lo stalinismo del Terzo Mondo rappresentava già questo tentativo in molte regioni dove, in parte a causa del colonialismo, non si era mai sviluppata una borghesia nativa. I contadini sono serviti come fanteria per molte rivoluzioni, ma queste erano tutte dei progetti di capitalismo di Stato diretti da marxisti o da burocrati piccoloborghesi. Quando nel 1917 la rivoluzione russa è rimasta isolata e combatteva il Terrore Bianco con il Terrore Rosso, il partito di Stato bolscevico dirigeva l’imposizione della società industriale nel paese. Questo è diventato un modello ripetuto disastrosamente molte volte nel corso del XX secolo, allorché molte nazioni povere hanno tentato di imitare il modello totalitario dello stalinismo sovietico o cinese. Il mondo è ancora sconvolto da questo processo, anche se ora sembra esaurito.
Varrebbe la pena sostenere un comunalismo contadino libero dalla mediazione burocratica dello Stato, per l’ostacolo che potrebbe rappresentare contro la diffusione del dominio reale del capitale in ogni angolo del mondo e in ogni aspetto dell’esistente. Si baserebbe ancora, ovviamente, sull’agricoltura e così non sarebbe una vera alternativa alla civilizzazione in quanto tale. Dal punto di vista di Zerzan l’agricoltura è «il fondamento indispensabile della civilizzazione», e «la liberazione è impossibile senza la sua dissoluzione». Nelle nazioni capitaliste più sviluppate, le città sono la sede della maggioranza della popolazione, la separazione delle persone dalle campagne è pressoché totale e l’agricoltura viene portata avanti come un processo altamente industrializzato. Ma in pratica nessuno, Zerzan incluso, si immagina che sia le città sia l’agricoltura possano essere abbandonate dal giorno alla notte. Certamente dovrebbe esserci una transizione, si dovrebbe intraprendere un processo prolungato, se la storia è un indicatore, a dispetto di determinati sforzi controrivoluzionari miranti a restaurare il vecchio ordine sociale (a meno che le attuali elites dominanti non gettino pacificamente la spugna – uno scenario in apparenza improbabile ma non impossibile). Dovremmo quindi accelerare la dissoluzione dell’agricoltura, per rimpiazzare la “dissoluzione dello stato” marxista? L’abolizione del lavoro è un’idea più flessibile e probabilmente più comprensibile alla moltitudine, piuttosto degli appelli ad abolire la civilizzazione e la tecnologia. Ma anche in questo c’è un certo massimalismo utopico. Queste idee potrebbero servire meglio come stelle con cui navigare, mentre solchiamo i mari di limonata di Fourier, in cerca del nostro passaggio a Nordovest, piuttosto che come reali destinazioni. Il lavoro può essere radicalmente ridotto al minimo: è difficile che potrà essere eliminato del tutto. Dal momento che oggi non stiamo vivendo come cacciatori/raccoglitori ci deve essere un certo livello di produzione. Certamente deve esserci un modo per farlo senza dominio e coercizione di noi umani o insultando il resto della natura. È intrigante l’idea “piccolo è bello”. Tecnologie “appropriate”, giardini cittadini (orticoltura) e, quando possibile, la riaffermazione dell’artigianato al posto della produzione industriale: questo è possibile. Il picco del numero della popolazione umana sulla terra forse rende difficile l’implemento di queste soluzioni in ogni circostanza. Perché anche se la società industriale venisse abbattuta qui e ora, la rigenerazione della natura potrebbe durare un tempo considerevole. Nel caso di un’altra devastante guerra totale – in questo momento ahimè probabile – che porterà alla distruzione di quasi tutta la società umana, i sopravvissuti potrebbero essere costretti a vivere davvero come primitivisti.
Alex Trotter
Anarchy: A Journal of Desire Armed, n° 52 (2001).
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