Nel panorama degli studi stirneriani vi sono non pochi silenzi – silenzi che, come accade molto spesso, comunicano tanto quanto le parole. Uno di questi silenzi è quello che avvolge la riflessione di Stirner sulla tematica dei rapporti interpersonali, riflessione che rappresenta una vera e propria teoria della convivenza. Come è noto, le sue considerazioni sulla relazionalità sono contenute in quella sezione de L'unico e la sua proprietà che porta il titolo I miei rapporti. Stirner attribuiva molta importanza alla descrizione delle relazioni che l'unico intrattiene con gli altri, come testimonia la mole dello spazio che egli dedica all'argomento (si tratta infatti della sezione più ampia del libro). Ciononostante, I miei rapporti è stata ed è forse la parte meno indagata dell'opera stirneriana. In ogni caso è sicuramente la meno capita; una malcomprensione che già lo stesso Stirner, nella risposta alle critiche che Szeliga, Feuerbach ed Hess avevano mosso a L'unico, sottolineava.
Approfondire la problematica relazionale in Stirner significa, secondo me, non solo studiare quella che forse è la parte più importante del suo pensiero, ma anche affrontare le tematiche stirneriane più significative da un punto di vista anarchico (punto di vista che ovviamente non ne esaurisce la complessità). Infatti, ne I miei rapporti sono contenute la definizione della proprietà (quindi le critiche allo Stato, a Proudhon e ai comunisti), la proposta associativa dell'unione degli egoisti (quindi il giudizio sul partito, sulla società e, più in generale, sull'ordine gerarchico) e la distinzione tra ribellione e rivoluzione (quindi la differenza tra demolizione e riforma del sussistente).
Per lo stesso ordine di ragioni non è inutile soffermarsi su alcune delle maggiori e più ricorrenti critiche che sono state mosse alla relazionalità stirneriana. Infatti, pur essendo il pensiero di Stirner l'oggetto di tali critiche, buona parte del loro contenuto può essere riferita, più in generale, ad ogni concezione che radicalmente affermi la centralità dell'individuo.
In Stirner è chiara la consapevolezza che un'oltranzistica difesa dell'individualità propria è, prima che un modo di vivere, un modo di capire. Quando Stirner, riprendendo il motto protagoreo, sostiene che «il singolo è misura di tutte le cose», intende esattamente questo. Non si può comprendere il suo modo di pensare i rapporti tra gli unici se prima non si è compreso il suo modo di concepire il mondo dell'unico. Allo stesso modo, non si può capire l'insieme degli individui proprietari – l'unione degli egoisti – se prima non si è capito ciò che Stirner intende per individuo proprietario. «Ciascuno è il centro del suo mondo. Mondo è soltanto ciò che non è egli stesso, ma che però gli appartiene, che è in rapporto con lui, che esiste per lui.
Tutto gira intorno a te; tu sei il centro del mondo esterno e il centro del mondo del pensiero. Il tuo mondo arriva fin dove arriva la tua capacità di capire; e ciò che tu abbracci, è tuo per il solo fatto che lo comprendi.Tu unicamente sei unico soltanto insieme alla tua proprietà».
Questo passo sintetizza, a mio avviso, tutto L'unico e la sua proprietà. Il modo stirneriano di intendere i rapporti interindividuali, vale a dire la nozione dell'utilizzabilità reciproca, ne rappresenta soltanto la logica e necessaria conseguenza. Affermare che ciascuno è il centro del suo mondo, significa negare qualsiasi forma di autorità e di gerarchia, in quanto esse pretendono di imporre le loro centralità e, imponendo un prospettivismo diverso e contrapposto a quello del singolo, lo spogliano della sua proprietà.
Sottolineando l'universalità dell'unicità (nel senso che ognuno è unico), Stirner non si pone come il centro, ma come un centro. Quindi l'unicità è strettamente collegata alla reciprocità.
Quando Stirner parla di mondo, intende quel complesso di relazioni che l'unico intrattiene con l'altro da sé, sia esso cosa o persona. La centralità rispetto al mondo è dunque centralità rispetto ai propri rapporti, ed essendo questi ultimi «espressione di reciprocità, azione, commercium tra i singoli», vediamo ancora come centralità e reciprocità si presuppongano a vicenda.
Se ognuno è «unico» soltanto insieme alla sua «proprietà», ognuno è «unico» soltanto insieme ai suoi rapporti (al suo mondo). Il termine unicità esclude quindi quello di assolutezza, in quanto assoluto – absolutum – significa proprio privo di rapporti, relazioni. Cade necessariamente la critica mossa a Stirner di aver trasformato l'io di Fichte in un individuo altrettanto assoluto. Infatti l'io fichtiano è, come l'Uomo di Feuerbach, un'essenza al di fuori del singolo, non l'individuo in carne ed ossa, «caduco e mortale». Si tratta sempre di un'entità trascendente che presuppone la perfetta comunanza tra gli uomini, laddove Stirner parla di un unico la cui comunanza con gli altri è solo pensabile, non reale. Nella realtà noi, in quanto unici, siamo irriducibilmente diversi. Risultiamo uguali solo se poniamo un «terzo», esterno e trascendente – come l'Uomo, Dio o lo Stato – che media il rapporto tra noi. Ed è proprio in questo «terzo» che consiste la gerarchia; io non valuto più l'altro per quello che è il mio rapporto con lui, vale a dire quello che è per me, bensì in relazione ad una entità di mediazione che contenga e colleghi entrambi .
Se ognuno, in quanto unico, è «esclusivo e esclusivista», la sua esistenza non può tendere alla comunità, bensì all'unilateralità.
Non avendo più nulla che ci accomuni, non abbiamo più nulla che ci separi o ci renda nemici. Infatti, «il contrasto scompare nell'essere perfettamente divisi gli uni dagli altri, cioè nell'unicità degli individui». È proprio la consapevolezza della nostra unilateralità (del nostro prospettivismo) che ci permette di sollevarci contro la gerarchia, contro l'ordine della dipendenza su cui si basa ogni Stato, e di porre le basi per una nuova forma associativa – l'unione – fondata su presupposti radicalmente diversi. «Non cerchiamo la comunità più comprensiva possibile, la ‘società umana’, ma cerchiamo negli altri soltanto mezzi e organi che possiamo usare come una nostra proprietà!».
Nella “riduzione” dell'altro a mezzo, si è voluto vedere un'apologia dello sfruttamento, la negazione di ogni forma di relazione non conflittuale, la legittimazione di una guerra che apre la via al «suicidio collettivo» . Se invece la si inserisce nella concezione stirneriana del mondo ci si accorge che essa rappresenta la sola forma di relazione che non neghi la centralità dell'individuo e che si basi su una reale reciprocità.
La tipica forma dell'estraneazione religiosa consiste nell'attribuire valore ad una cosa o ad una persona in senso assoluto, vale a dire indipendentemente dal nostro rapporto con essa. La credenza in un ente che ha valore in sé e per sé, quindi, in quanto degno del nostro “entusiasmo”, assolutamente interessante (cioè un oggetto interessante senza un soggetto interessato), presuppone la «fissazione» ideologica di un ordine gerarchico. Infatti, io posso ritenere una persona assolutamente degna di amore, di rispetto ecc., solo se non la considero per se stessa, ma la pongo in relazione (e quindi la subordino) a un essere superiore – poniamo Dio, lo Stato o la Società – di cui la ritengo “parte”. Quindi non è il singolo nella sua irripetibile unicità quello con cui entro in relazione, bensì il cristiano, il cittadino, il membro della società.
Al contrario, cercando dentro e non fuori di me il valore di ogni cosa e di ogni persona affermo la mia centralità rispetto al mondo, al mio mondo. In questo modo, «se io mi prendo cura di te, perché ti voglio bene, perché il mio cuore trova alimento e le mie esigenze un soddisfacimento in te, ciò non accade in virtù di un essere superiore [...], ma invece per piacere egoistico: tu stesso col tuo modo di essere, hai per me valore, infatti il tuo essere non è un essere superiore, non è superiore a te, non è più generale di te, è unico come te stesso, perché è te stesso».
La consapevolezza del proprio egoismo, quindi dell'uso dell'altro, viene ad essere il solo modo per riconoscere ed apprezzare il suo valore, quelle sue proprietà che, pur non esaurendo la sua unicità, mi comunicano qualcosa – anche se qualcosa di inessenziale – intorno a lui. Ed essendo l'uso, come detto, reciproco, ogni individuo, ogni unico, è principio e fine della sua azione relazionale.
Proprio perché, anche da un punto di vista biologico, non posso prendere come riferimento qualcosa di diverso da me stesso, l'altro da me lo posso solo pensare (e il pensiero per Stirner non può cogliere, nella sua universalità, la peculiarità dell'io corporeo e istantaneo) come soggetto, ma, nel momento stesso in cui «mi attraversa il cammino», egli esiste per me e tutto quello che sembro dovere a lui, in realtà, lo devo solo a me stesso. Dire quindi che «tu sei il mio alimento, così come anche tu, d'altronde, mi usi e mi consumi», non è l'espressione di una paranoica volontà di sopraffazione (un rapporto tra «ruminanti» lo definiva Kuno Fischer), bensì la tranquilla affermazione della nostra centralità e della nostra unilateralità.
È importante notare come Stirner, quando afferma che «noi abbiamo l'un l'altro un solo rapporto, quello dell'utilizzabilità, dell'utilità, dell'uso», sottolinei a più riprese la reciprocità insita in tale relazione (al contrario del rapporto gerarchico che, ponendo valori assoluti, la nega).
Se considero l'altro come «un oggetto per il quale posso provare qualcosa o anche niente, un soggetto utilizzabile o inutilizzabile», con cui intendermi e accordarmi «per accrescere la mia potenza con questa alleanza e per poter riuscire, riunendo le nostre forze, dove uno solo fallirebbe», mi accorgo che non si tratta solo di una utilizzazione reciproca, ma anche di una reciprocità utilizzabile.Il fatto che Stirner calchi volutamente le tinte sull'utilitarietà delle relazioni che l'unico intrattiene con l'altro ha solo lo scopo di sottolineare come nel rapporto tra individui proprietari ci sia un vicendevole interesse alla persona e non, come pretendono la morale e la religione, una reciproca rinuncia. L'amore reale, non quello idealizzato, è un sentimento interessato e non un atto di abnegazione. Infatti, «noi vogliamo amare perché sentiamo amore, perché l'amore è gradito al nostro cuore e ai nostri sensi e nell'amore per l'altra persona noi proviamo un più alto godimento di noi stessi». È lo stesso amore per l'altro che mi porta a «sacrificargli con gioia innumerevoli piaceri miei», a «rinunciare a innumerevoli cose pur di veder rifiorire il suo sorriso» e «mettere a repentaglio per lui quella che, se lui non ci fosse, sarebbe per me la cosa più cara al mondo: la mia vita o il mio benessere o la mia libertà. Anzi il mio piacere e la mia felicità consistono per l'appunto nel godere della sua felicità e del suo piacere». «Ma – sottolinea Stirner – c'è qualcosa che io non gli sacrifico: me stesso; io rimango egoista e godo di lui».
Significativa è l'accusa che Stirner muove a tutti quei «miglioratori dell'umanità» che predicano – come il barone von Stein– il principio dell'amore: «Voi amate l'uomo, perciò torturate l'uomo singolo, l'egoista: il vostro amore per gli uomini vi porta a torturarli».
Se «ogni religione è un culto della società, di questo principio da cui l'uomo sociale (civilizzato) viene dominato», la consapevolezza dell'egoismo e il rifiuto del rinnegamento di sé non possono che portare Stirner alla enunciazione di una nuova forma di relazione associativa, l'unione degli egoisti.
Una volta negati lo Stato e la società in quanto forme storiche di convivenza mediata, transingolarizzante e dunque alienata, i rapporti associativi devono avere caratteri completamente diversi.
L'elemento principale è che il singolo si associa per il suo interesse individuale e non per un gerarchico e ricattatorio «bene comune». Per Stirner, la società stessa non è che un prodotto addizionale di individui i cui interessi sono unici. Pensare, come fa lo stesso Proudhon, alla società come ad un soggetto collettivo, ad una «persona morale», significa condannare, in nome di un religioso interesse generale, il singolo individuo ad una delle peggiori forme di dispotismo. L'unico non vuole esser fatto oggetto della realizzazione di fini collettivi, diventare uno strumento della Società, ma considera la società un suo mezzo. Infatti, come sosteneva giustamente B. R. Tucker, «la società non è né una persona né una cosa: è una relazione; e una relazione non può accampare dei diritti» né tantomeno – aggiungo io – imporre dei doveri. Ma poiché, per Stirner, la società affermatasi storicamente non può non ostacolare l'autovalorizzazione del singolo, né possono le società future promesse dai socialisti e dai comunisti non espropriarlo della sua proprietà, la separazione dall'ordine sociale deve essere tanto completa e decisiva da «risultare la fine delle separazioni stesse» e ribaltarsi nella federazione, nell'unione. Infatti, «come unico puoi affermarti solo nell'unione, perché l'unione non ti possiede: sei tu che la possiedi o che ne fai uso». In essa soltanto viene riconosciuta la proprietà, «perché ciò che è mio non mi viene dato in feudo da un essere superiore» , ma sono io stesso ad esserne fonte ed autogarante. La «proprietà» privata, invece, non è che una concessione statale, un feudo che trasforma il singolo «proprietario» in un vassallo: essa è la forma politica del pauperismo e del vassallaggio. Solo una volta dichiarata la «guerra di tutti contro tutti», che non è una forma di dominio «allargato», ma la serena accettazione dello scontro di interessi, l'unione potrà nascere come «moltiplicatore» delle potenzialità individuali, come strumento, come «spada» per accrescere le proprie capacità e dunque, poiché ognuno è unico solo insieme alla sua proprietà, rafforzare il sentimento della propria unicità.
La scelta dell'associazione deve essere volontaria, così come libera e volontaria deve essere la scissione dell'accordo associativo. Associandosi, il singolo individuo non rinuncia alla sua individualità propria, come avviene nella società, ma, al contrario, l'afferma in tutta la sua pienezza.
Dal momento che per raggiungere determinati obbiettivi ha bisogno di unirsi agli altri (bisogno che non è per nulla contraddittorio, o meglio, aporetico rispetto al suo essere unico) , quello che potrebbe apparire un sacrificio – in quanto sembrerebbe una limitazione della sua libertà – è solo il dispiegamento delle sue potenzialità. Infatti non essendo in potere di soddisfare da solo tutti i suoi bisogni, associandosi sacrifica solo ciò che non possiede, cioè «non sacrifica un bel niente». Detto in altri termini: non avendola, la libertà di «far da solo», non è possibile sostenere che egli la sacrifichi unendosi (ed ovviamente accordandosi) con gli altri. In ogni caso, se proprio di limitazione si vuole parlare, ciò che nell'unione viene ridotta è la libertà (si tratta comunque di restrizioni reciproche e non determinate – come nello Stato e nella chiesa – dall'autorità e dal sacro), non l'individualità propria. Per Stirner «l'ideale della ‘libertà assoluta’ ripresenta le stesse assurdità di ogni assoluto». Solo chi pensa – religiosamente – alla libertà assoluta può non scorgere le differenze tra una forma di relazionalità che garantisca a ciascuno l'espressione della propria esclusività (e non limiti la sua libertà se non con quelle regole che sono insite nel rapporto stesso) e un ordine comunitario che si basa – in quanto sacro – sulla sudditanza e sulla mancanza di autovalorizzazione dei singoli.
Poiché l'unione, a differenza della società, dello Stato o della chiesa, non ha un'esistenza autonoma rispetto ai singoli individui che la compongono, la sua durata è determinata dagli interessi dei «partecipanti». Si tratta quindi di un «riunirsi incessante» contrapposto all'«esser-già-riuniti» tipico di (e fondante) ogni relazione gerarchica; un prender-parte ad un gioco di cui si contribuisce a stabilire le regole, contrapposto ad un esser-parte di un ordine sociale che si presenta come autorità e impone le proprie leggi.
L'unione non è solo un'alternativa alla società, ma anche uno strumento per insorgere, rivoltarsi contro la gerarchia, l'autorità, lo Stato (termine, questo, con cui Stirner indica spesso tutto ciò che sussiste). Sia che la si consideri come forma relazionale alternativa, sia che la si consideri come associazione-contro, l'unione è strettamente connessa alla ribellione.
Se «il mio egoismo ha interesse a liberare il mondo affinché esso diventi - mia proprietà», la demolizione del sussistente, il rovesciamento delle condizioni date, pur essendo conseguenze inevitabili della ribellione, non esauriscono la mia spinta alla sollevazione, la quale è il solo modo per affermare la mia centralità rispetto al mondo, quindi ai miei rapporti. Senza sollevazione non posso creare delle relazioni non mediate, da Dio o dallo Stato, dei «rapporti reciproci tali che ognuno [...] possa essere veramente, in questi rapporti, quello che è» Ugualmente, senza la mia egoistica volontà di insorgere, l'unione contro l'autorità e la gerarchia, da mio strumento finirà per diventare – «così come da un pensiero nasce un'idea fissa» – un'entità superiore, un partito. Infatti, solo una forma di relazione che affermi l'unicità del singolo può non riprodurre al suo interno l'ordine della dipendenza. Alla gerarchia l'unico non può opporsi attraverso un mezzo – il partito – che non è che «uno Stato nello Stato», una «società già pronta» per i cui fini egli deve rinunciare alla sua propria individualità.
La lotta può avvenire anche da parte di «milioni di persone assieme», ciò che importa è che la moltitudine non si trasformi in soggetto, in quel «tutti» che conserva i tratti della trascendenza, quindi della mediazione. Ciò che contrappone la reciprocità – quel rapporto Mann gegen Mann che, solo, può affermare l'unicità – alla gerarchia, non è il numero, né in positivo né in negativo. Infatti, e questo a mio avviso è molto importante, può crearsi una dimensione “collettiva” (nel senso di io + io ...) a carattere individualistico, così come una dimensione individuale a carattere collettivistico ed estraniante. Ciò che differenzia la difesa dell'autonomia individuale dalla formazione del dominio è il metodo associativo. Ma Stirner, quando parla del rapporto, dell'unione tra gli unici, si riferisce solo alla «forma» di tali relazioni: una forma che sia in grado di garantire la centralità di ognuno. «Oltrepassare il momento ‘formale’ significa per Stirner tornare a creare fantasmi, legittimare dominio, dare spazio al cerchio magico», vale a dire a quel momento di estraneazione che si viene a creare nella dicotomia tra essere e dover-essere, tra esistenza ed essenza. Proprio per non creare un nuovo cielo, una nuova missione, Stirner ritiene che i contenuti dell'unione, le regole del gioco, saranno esclusiva proprietà degli unici. Se la dimensione “politica” stirneriana può sembrare un'utopia, essa, in quanto mondo relazionale dell'unico, quindi di un «chi» che non può essere definito, rimane un'utopia «vuota».
L'unilateralità, la separatezza proprie di ogni unico rimangono anche (anzi diventano complete solo) nell'unione. Quindi non si può far coincidere l'unicità con l'isolamento. Il singolo che si associa non è meno egoista di chi preferisce “star solo”: ciò che cambia è solo l'oggetto del suo egoismo. Se uno si unisce ad altri è perché trova nella loro compagnia motivo di interesse, di gioia. Se preferisce isolarsi significa che gli uomini non hanno più nulla da offrirgli. «Il restare non è meno egoistico del separarsene». La contrapposizione non è dunque tra egoismo e non-egoismo, ma, se si vuole, tra un egoismo “povero” e uno “ricco”. «Chi ama un uomo – dice Stirner – per questo stesso amore è più ricco di un altro che non ama nessuno», in quanto ha una «proprietà» in più. L'egoismo stirneriano è quindi piena partecipazione alla vita, alla relazione con gli altri.
Oltre all'accusa di voler “atomizzare” gli individui, dimostra tutta la sua inconsistenza anche quella secondo la quale Stirner si limiterebbe a proporre, attraverso l'unione degli egoisti, soltanto una variante terminologica della società capitalistica, un'immagine speculare, ancorché “estrema”, dell'ordine borghese .
Stirner, dopo aver dimostrato come il “collante” ideologico della società capitalistica sia la morale umanistica (un «prete bigotto» e interiore che predica il sacrificio), sostiene che se si avesse un egoismo più consapevole ci si renderebbe conto che «la cooperazione è più utile del far da soli» e che l'abbandono della «concorrenza» – quel conflitto dissimulato, in quanto mediato dallo Stato – non è altro che la risposta ad un più alto sentimento della nostra unicità.
Nell'unione degli egoisti è eliminato lo sfruttamento («l'affermazione ai danni degli altri»), dal momento che i co-associati, altrettanto consapevolmente egoisti, «non vogliono più essere così stupidi da voler lasciare vivere il singolo egoista a loro spese».
Ad una lettura attenta del pensiero stirneriano, appare – a mio avviso – altresì evidente come non si possa associare l'interesse dell'unico all'utilitarismo liberale. L'aritmetica dei piaceri di Bentham consiste ancora nella credenza in una cosa interessante in senso assoluto, vale a dire in una cosa «sacra». E si sa come per Stirner ogni comportamento verso qualcosa di interessante in sé e per sé sia sempre un comportamento religioso. L'interesse stirneriano non è un principio, esso «è un puro nome, un concetto senza contenuto e privo di sviluppo concettuale». Allo sguardo del nostro filosofo, «il sistema morale dell'interesse condanna l'interesse reale dei singoli, non diversamente da come la pretesa universalità della ragione costringe la ‘ragione privata’ a sottomettersi».
Da questo mio, ovviamente incompleto, quadro della relazionalità e dell'associazionismo stirneriani si può, penso, capire come non sia possibile trasformare l'unione degli egoisti in un bellum omnium contra omnes che non fa che riproporre il dominio dell'uomo sull'uomo come unica forma di convivenza.
L'unico di cui parla Stirner non è, per quanto riguarda il rapporto con gli altri, mosso dal «piacere di offendere» che caratterizza il dostoevskjiano personaggio del sottosuolo. Ciò che lo spinge non è nemmeno il bisogno di impossibile o quell'inesauribile appétit d'être che porta il Caligola camusiano ad affermare che «si è sempre liberi a spese di qualcuno». Estranea all'egoismo stirneriano è pure quella paura della morte per sconfiggere la quale il sultano di Delhi decide, come racconta Canetti, di radere al suolo la città per godersi un istante di quella «unicità solitaria» che proviene dalla «sensazione di essere sopravvissuto a tutti gli uomini».
Stirner «non difende il potere dell'individuo di dominare gli altri», in quanto dimostra in modo estremamente significativo come l'esercizio del dominio sia una pratica fortemente disindividualizzante. E poiché «chi, per sussistere, deve contare sulla mancanza di volontà degli altri, è un prodotto mal fatto di questi altri, come il padrone è un prodotto malfatto dello schiavo», il dominio viene ad essere una forma di depotenziamento individuale. A questo depotenziamento si accompagna anche un processo di estraneazione, in quanto la forza del singolo viene subordinata alla prova dell'inferiorità altrui. Il desiderio di dominio consiste nel piacere di prevalere sugli altri, vale a dire nello sforzo di fuggire una condizione che si percepisce come uguaglianza. Se, invece, si è consapevoli della propria esclusività, del proprio essere irriducibilmente differenti da ciascun altro, non si può che rifiutare la smania di “superiorità” come principio uniformante. La potenza di cui parla Stirner è la capacità di porsi di fronte all'altro come individuo, senza ricorrere al «comodo baluardo dell'autorità». Infatti, si è molto deboli (ed incompleti) se si deve chiamare in causa (o si ha bisogno di essere) un'autorità. Solo nella negazione di quest'ultima il singolo può rifiutare la vita alienata del docile, utilizzabile cittadino, del suddito che conduce un'esistenza scandita dai ritmi della prestazione .
Superfluo è sottolineare quanti siano i punti di contatto tra l'unione stirneriana e l'associazionismo antiautoritario. Non è un caso che i pensatori anarchici che con più costanza si sono richiamati a Stirner siano quelli che, forse, hanno contribuito maggiormente alla definizione dei caratteri del contrattualismo acratico. La nozione – per fare un esempio – del «metodo dell'eguale libertà» ricorda, a mio avviso, molto da vicino la tesi stirneriana dell'uguale disuguaglianza nei rapporti tra gli unici.
Riprendendo un tema – quello della servitù volontaria – già sviluppato da E. De La Boétie, Stirner afferma che «se cessasse la soggezione, per il dominio sarebbe finita!» e, dopo aver prospettato l'insurrezione come unica soluzione alla «questione sociale», apostrofa che «se ci sono i ricchi, la colpa è dei poveri». Qualche anno dopo, scriverà l'anarchico Anselme Bellagarigue: «Avete creduto fino ad oggi che ci fossero dei tiranni? Ebbene, vi siete sempre sbagliati, perché non ci sono che schiavi: laddove nessuno ubbidisce, nessuno comanda».
Stirner nota come il dominio e la gerarchia siano oltre (e forse prima) che la strutturazione del Potere interindividuale, una forma di alienazione intraindividuale, un processo di interiorizzazione del «sacro». È nelle abitudini sociali, viste come forme di «coazione a ripetere», che egli individua il riprodursi continuo dell'estraneazione.
Quindi, tra individui proprietari che rifiutano le subordinazioni nei confronti di qualsiasi ordine sociale – con le sue abitudini, i suoi modelli comportamentali – sono possibili solamente delle relazioni che si basano sull'equilibrio – artificiale, precario e sempre mutevole – tra gli egoismi dei singoli. I rapporti associativi non possono essere fondati sull'imposizione di una fittizia uguaglianza, né può crearsi alcuna superiore sintesi tra le potenze individuali. Stirner nega radicalmente qualsiasi ipotesi di identificazione del singolo con la collettività, di superamento dell'individuale nel sociale. Ogni singolo cosciente della propria unicità sarà sempre pronto a insorgere contro ogni tentativo di risolvere, attraverso qualsiasi forma di fissazione autoritaria, l'antagonismo interindividuale. La rivolta non è allora solo una fase di transizione dalla società del dominio all'unione, bensì un atteggiamento di sollevazione costante contro ogni potenza, contro ogni nuovo cielo che svilisca la propria irrinunciabile esclusività. Senza una continua, oltranzistica affermazione della propria autonomia, ci potrà sicuramente essere una rivoluzione, ma essa sarà pur sempre una riforma del sussistente.
Alla base della relazionalità stirneriana c'è la chiara consapevolezza dell'inconciliabilità tra la concezione di quanti ritengono che solo l'instaurazione dell'ordine può garantire la libertà e quella di chi invece afferma che dalla libertà soltanto può nascere l'ordine.
Si tratta, se si vuole, dell'eterno conflitto tra equilibrio e sintesi, tra autorità e libertà. E su dove “collocare” Stirner non dovrebbero, penso, esserci più dubbi.
Massimo Passamani