domenica 24 marzo 2019

VOLONTÀ DI POTENZA DELLA CONCEZIONE ‘STATICA’ DELL’ESSERE





Per molto tempo la dottrina della volontà di potenza è stata considerata come il nocciolo della filosofia di Nietzsche, anche grazie all’edizione del libro Volontà di potenza apprestata dalla sorella Elisabeth Foerster e dall’amico Peter Gast. In quest’opera si è voluto vedere il tentativo di Nietzsche di compiere una sistematizzazione del proprio pensiero. La dottrina esposta in essa doveva essere considerata per lungo tempo l’ultima e definitiva parola di Nietzsche, e non solo da interpreti come Baeumler, che videro in questa dottrina il valore più alto della filosofia di Nietzsche, bensì anche da coloro che la considerarono in modo negativo, come una ricaduta nella metafisica (per esempio Jaspers). Sulla base di quest’opera, considerata come «l’opera sistematica fondamentale» di Nietzsche, «si è orientata di fatto la storia della ricezione della sua filosofia per quasi quarant’anni».

Questo vale anche per l’interpretazione heideggeriana, sebbene essa consideri la dottrina della volontà di potenza strettamente collegata al pensiero dell’eterno ritorno e rivendichi la maggiore importanza di quest’ultimo sulla prima. Heidegger ritiene che «Nietzsche dà due risposte riguardo all’ente nel suo insieme: l’ente nel suo insieme è volontà di potenza (…) riguardo alla sua costituzione» e «l’ente nel suo insieme è eterno ritorno dell’uguale (…) riguardo al suo modo di essere».

Per Heidegger, insomma, tanto la dottrina della volontà di potenza quanto il pensiero dell’eterno ritorno costituiscono un insegnamento metafisico, cioè un insegnamento sull’ente nel suo insieme. Si tratta dell’ultima forma della metafisica occidentale. Si deve tener presente che Heidegger ascrive inizialmente alla dottrina della volontà di potenza carattere metafisico (precisamente nelle lezioni del 1936/37: “La volontà di potenza come arte”), e successivamente lo riferisce anche al pensiero dell’eterno ritorno (lezioni del 1937: “L’eterno ritorno dell’uguale”.

Per l’interpretazione che fa Jaspers del pensiero nietzschiano il discorso è diverso. Essa mette al centro la critica svolta da Nietzsche contro la metafisica, e in particolare contro il concetto di verità. Qui la dottrina della volontà di potenza appare come una ricaduta nella «modalità della precedente metafisica dogmatica». Una ricaduta considerata da Jaspers «contraddittoria», perché si tratta di una «interpretazione del mondo» generale e assoluta che si sa, però, come interpretazione e quindi non può rivendicare di essere assoluta.

La dottrina della volontà di potenza, ad ogni modo, sia che venga considerata come momento della sistematizzazione del pensiero di Nietzsche (come nell’interpretazione di Baeumler, di Heidegger, ma anche di Löwith) che come elemento contraddittorio della sua filosofia ) ha svolto un ruolo determinante nella comprensione del pensiero nietzschiano, pur essendo una teoria contenuta quasi esclusivamente negli scritti inediti. Questo fino a che la nuova edizione critica di Colli e Montinari (citata KGW) ha mostrato come, se non il pensiero della volontà di potenza, come voleva Schlechta, almeno l’opera edita con questo titolo sia niente più che una “leggenda”, che non trova reale riscontro nell’analisi filologica degli appunti nietzschiani pervenutici. Alla luce di questo lavoro filologico si è ridotta l’importanza della teoria della volontà di potenza e si sono aperte nuove possibilità interpretative sulla scorta di altre rilevanti riflessioni presenti negli scritti nietzschiani dell’ultimo periodo.

In generale, però, c’è da dire che tra le interpretazioni sopra citate quella che ha avuto più fortuna nei recenti studi nietzschiani è senz’altro quella di Jaspers, che ha posto l’accento soprattutto sulla dimensione asistematica della filosofia di Nietzsche. Alle posizioni di Jaspers si richiamano coloro che vedono nella volontà di potenza l’espressione di un processo infinito di interpretazione, capace di innumerevoli prospettive e che, nello stesso tempo, operano una rilettura filologicamente più attenta degli scritti inediti.

Anche Heidegger, per la verità, aveva inteso la volontà di potenza come un prospettivismo, soprattutto nelle lezioni del 1939 che portano il titolo: “Volontà di potenza come conoscenza”. Un capitolo di questo testo è intitolato: “Il bisogno pratico come bisogno di schemi. Formazione di orizzonte e prospettiva”. In esso la produzione di prospettive da parte di colui che conosce, espressione della sua volontà di potenza, viene collegata ad un “bisogno pratico”. Questo “bisogno pratico” mira a fornire al “caos della vita” qualcosa di “stabile” (Beständiges).

Questa assicurazione di stabilità viene fornita dalla determinazione di un certo punto di vista che viene assunto e subito assolutizzato dal soggetto. Tali punti di vista sono le prospettive: «La prospettiva è la traiettoria di uno scorcio, preventivamente tracciata, sulla quale si forma di volta in volta un orizzonte». In questo modo il prospettivismo viene posto da Heidegger in relazione con il primato del soggetto, che costituisce il “destino della metafisica”. D’altra parte, il prospettivismo di Nietzsche mostrerebbe il carattere eminentemente pratico del pensare, almeno nella sua manifestazione in Occidente, della quale la filosofia nietzschiana costituisce l’ultimo, insuperabile stadio. Per la verità qui si tratta di un concetto particolare di prassi, che Heidegger riassume in questo modo: «la prassi è in sé – in quanto assicurazione della sussistenza – un bisogno di schemi». E più sotto: «Il bisogno di schemi è già un mirare (Ausblick) a qualcosa che fissi e quindi delimiti.

Ciò che delimita si dice in greco το οριζον. Dell’essenza del vivente nella sua vitalità, della assicurazione della sussistenza nel mondo del bisogno di schemi, fa parte un orizzonte. Questo non è quindi un confine che capita al vivente dall’esterno e contro il quale l’attività della vita va a sbattere e si sciupa». Prassi, quindi, per Heidegger è il conoscere in sé, il pensiero metafisico quale costruzione del “vero” sulla base della prospettiva del soggetto. Questo concetto di prassi ha a che fare con il tradimento della verità quale αλεθεια, svelamento. Esso è alla fin fine un concetto eminentemente teoretico, che non lascia spazio per una dimensione propria e differenziata del “pratico”. Il primato della “prassi” nella filosofia occidentale, che sarebbe rivelato in modo eclatante dalla teoria della volontà di potenza, è in realtà un primato della teoria.

Il carattere teoretico della dottrina nietzschiana è stato intuito e mostrato anche da Jaspers alla fine del suo libro su Nietzsche, là dove egli parla della formazione della teoria della volontà di potenza. Secondo Jaspers, Nietzsche ha derivato la sua dottrina della volontà di potenza da determinati ambiti scientifici (l’ambito psicologico, sociologico, politico). Alla base della sua formulazione, quindi, sta una considerazione fenomenologica, eminentemente teoretica, che egli poi ha volto in una pretesa metafisica, nel momento in cui ha esteso il carattere fenomenico osservato all’intero essere vivente e anche al non vivente. Il carattere imperativo, poi, che egli attribuisce alla dottrina della volontà di potenza, non si differenzierebbe da quello della morale tradizionale, che, come Nietzsche stesso ha evidenziato, costituisce una forma di orientamento della prassi basato su una visione metafisica del mondo. Il primato della teoria sulla prassi, quindi, riappare, secondo Jaspers, nell’ultimo Nietzsche, nonostante le sue esplicite dichiarazioni in senso contrario delle fasi precedenti.

La permanenza del primato della teoria sulla prassi in Nietzsche, soprattutto nell’ultimo Nietzsche, è riscontrata da Jaspers anche sulla base di altre osservazioni. Innanzitutto, la volontà di potenza è, come già detto, un infinito interpretare, quindi un’operazione teoretica, benché priva di un referente ontoveritativo.

La volontà di potenza, infatti, si pone come il risultato della messa in questione e della soppressione del concetto di verità. Dopo aver criticato radicalmente il concetto di verità e averlo eliminato quale referente del pensiero, Nietzsche non poteva far altro che proporre una interpretazione della realtà del mondo e della vita priva di referenza veritativa. Ma “senza referenza veritativa” significa senza riferimento a qualcosa di determinato, che possa fungere da misura per qualsivoglia asserzione. Da ciò deriva che l’interpretazione stessa non può essere nient’altro che un infinito interpretare. Solo così, infatti, il riferimento ad una verità, che necessariamente è contenuto in ogni interpretazione, può venire prolungato e dissolto in un processo infinito. Tale interpretazione viene poi ulteriormente infinitizzata col fatto che essa interpreta il mondo stesso come “interpretazione” e “interpretare”. Si tratta di un gioco di specchi che fa perdere il punto di riferimento originario.

La volontà di potenza sta ad indicare l’essenza di un divenire infinito di carattere teoretico, che è strettamente collegato con il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale. Entrambi, infatti, propongono la dissoluzione della concezione ‘statica’ dell’essere, ritenuto dalla metafisica occidentale, debitrice dell’eleatismo, come ciò che è massimamente sussistente e inalienabile. Entrambi aboliscono il collegamento, anch’esso inaugurato dall’eleatismo, tra essere e pensiero, approdando all’inconcepibile. Entrambi, tuttavia, proprio nel momento in cui portano il pensiero ai suoi limiti, riaffermano il primato del ‘teoretico’, anche se il pensiero dell’eterno ritorno contiene il tentativo di superare questo primato, come vedremo meglio nel prossimo capitolo. Infine, entrambi, secondo Jaspers, non vengono a capo dell’esistenza nella sua autenticità.

La grossa mancanza della filosofia nietzschiana, secondo Jaspers, è stata quella di non vedere un aspetto essenziale dell’esistenza: il suo essere “davanti alla trascendenza”. «Ciò che nell’esistenza si sa davanti alla trascendenza, non può riconoscersi apparentato con questa metafisica».

La radicale rinuncia alla trascendenza in nome della critica alla “teoria dei due mondi” conduce a non poter comprendere autenticamente la finitezza dell’esistenza. Questa finitezza, infatti, esige un essere -di-fronte-alla-trascendenza, carattere che sfugge alla comprensione della vita di Nietzsche. La vita è per Nietzsche la vita nell’al di qua, la vita dell’esistente, che si definisce in contrapposizione con tutto ciò che è «fisso, solo pensato, astratto» e «contro la deviazione nel niente di un essere-altro che sta nell’al di là». Si tratta, insomma, di un «concetto della vita come pura immanenza». Ma con questo concetto non si può «cogliere in modo inequivocabile l’esistenza», perché l’esistenza abbisogna di un orizzonte trascendente.

Stabilire in che misura le considerazioni di Jaspers siano valide, anche a fronte delle nuove conoscenze dei testi nietzschiani, fornite dall’edizione critica Colli- Montinari, non è cosa di poca importanza, se si vuole arrivare a fondo del problema della “fedeltà alla terra”. Da quanto abbiamo visto finora, infatti, possiamo affermare che l’imperativo “restare fedeli alla terra” mira a liberare l’esistenza dalla sottomissione ad un «mondo dietro al mondo», che è costruito sull’essere fisso e invariabile della tradizione metafisica. Resta, però, incerto se esso sia in grado di indicare una via per esistere nel mondo dell’al di qua, ovvero se esso sia in grado di comprendere autenticamente l’esistenza, che è determinata in modo essenziale dalla finitezza. Infatti, l’essere dell’esistenza, la vita, alla luce della dottrina della volontà di potenza (e dell’eterno ritorno), viene vista piuttosto come un eterno, infinito divenire. La finitezza dell’esistenza è certamente tema insistente della fase illuministica, ma essa appare qui più come un motivo polemico, un elemento di differenziazione da Schopenhauer e da Wagner, che il nocciolo di una filosofia che si confronti con questo problema. Tant’è che questa accentuazione della finitezza scompare nello Zarathustra, dove con il pensiero dell’eterno ritorno si propone una nuova e radicale enfatizzazione dell’infinitezza dell’esistenza. Dietro questo afflato per gli “infiniti orizzonti”, tuttavia, permane il pungolo di un interrogativo. Esso appare in un motivo non tematizzato, eppure essenziale nell’opera di Nietzsche: quello della temporalità.

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