Contributo alla storia dell’individualismo
 
  
 Anselm Ruest (pseudonimo e anagramma di Ernst Samuel, 1878-1943) è 
stato uno dei maggiori studiosi tedeschi di Max Stirner, di cui ha 
curato un breviario e a cui ha dedicato un saggio. Assieme a Salomo 
Friedlaender, fu il fondatore del giornale individualista anarchico Der 
Einzige (L’Unico) che apparve in Germania dal 1919 al 1925. Il suo 
pensiero ruotava attorno al contrasto 
fra l’individuo consapevole in possesso della propria personalità e la 
persona priva di consapevolezza e come tale dipendente dalla società, e 
ha profondamente influenzato sia gli ambienti espressionisti che quelli 
dada. A nostra conoscenza, quello che segue è l’unico testo di Ruest 
tradotto in italiano.
  
 Anselm Ruest
 
  
 
 
«Allorché si conosce a fondo e si approfondisce la nozione 
dell’Individualità e delle conseguenze che ne derivano dal principio che
 è la base, vale a dire che ogni uomo non è solamente specialmente 
relativo al mondo, ma ancora ad ogni oggetto nel mondo e ad ogni idea 
che quest’oggetto risveglia, si è meravigliati che tanta discordia 
naturale sia possibile a fianco di tanta concordia storica»
 
  
 
 Questa meditazione di Hebbel — essa si trova nel suo Giornale— ci dà 
un’idea esatta del concetto individualista. Infatti, se l’individualismo
 non costruisce, non può costruire dei sistemi in serie, pare che si 
sviluppi senza urti negli “Io” presi separatamente, come se agisse in 
virtù d’un contratto tacito, d’una convenzione occulta. Non solamente 
l’Individuo, preso nel senso più ordinario, non sfugge, ma ogni artista,
 ogni filosofo, ogni creatore intellettuale, quand’anche si presentasse 
dotato d’idee impersonali, disinteressate, anche sociali, apparirebbe 
allo psicologo osservatore e intelligente come un fenomeno individuale 
perfettamente isolabile. Questo «Individualismo immanente» non può non 
essere percettibile o afferrato, l’individuo stesso può non trovarsi 
arricchito del fatto della sua esistenza, e può non svilupparsi più 
magnificamente. Ma dopo tre o quattro secoli, si sente crescere la 
conoscenza dell’individuo in tanto che esistenza a parte, si notano i 
segni distintivi della meraviglia che risveglia la percezione dell’io. 
Gli antichi che insegnarono tutte le storie della filosofia, percepirono
 appena l’io; bisogna venire fino alle biografie come Sant’Agostino, 
Petrarca, Junius perché la via si schiuda, ma è presso Pascal (verso il 
1650) che l’individualismo moderno si differenzia da tutto ciò che 
l’aveva preceduto.
 
 Dopo la sua gioventù, Pascal si era 
ingaggiato con una sicurezza senza limiti sulle vie soleggiate delle 
scoperte e della rinomanza; giovane ancora, egli aveva già raggiunto una
 grande celebrità. Di repentino egli credette di percepire che il suo io
 — il suo “immortale”, il suo “distintivo” — se n’andasse alla 
perdizione. La potenza, l’onore, la gloria non gli parvero più che la 
caccia volgare dei risultati cui mira l’istinto della specie “uomo”; gli
 parve che solo la fede — il cristianesimo solo potendo isolare l’io — 
potesse illuminare ogni io sul suo vero destino. Che si comprenda bene: 
il cristianesimo pascaliano era una creazione particolare, unicamente 
personale per Pascal; in ciò e in nessuna altra parte egli poteva 
riconoscere e distinguere il suo io. Che questo cervello sì lucido e 
brillante, che questo scettico scientifico, che questo matematico e 
fisico così chiaroveggente potesse credere—era la sua facoltà, il suo 
dono individualista personale. Si sarebbe ben meravigliato, d’altronde, 
se avesse dovuto comparare la sua fede con quella delle masse. Egli 
dunque attribuisce al cristianesimo tutta la conoscenza: solo poteva 
convincere l’uomo della sua infinita grandezza e della sua miseria 
tragica — quella miseria tragica della quale Pascal s’era trovato in 
preda allorché la sua perspicacia l’aveva lasciato tranquillo davanti a 
certi problemi impossibili a risolvere. La fede gli era semplicemente un
 mezzo di autoesaltazione, d’innalzare il suo io…
 
 D’allora 
l’Individuo si ritira talmente a parte e isolatamente che ne sognerà 
completare il suo isolamento morale con un isolamento fisico, metodo 
d’altronde erroneo: ma ogni individualismo apparentemente fisico sarà 
ormai l’espressione d’una sensibilità culturale, intellettualmente 
effeminata. Ecco Daniel Defoe, il creatore della “Robinsonata”, 
inaugurare un secolo dove non si uscirà dalle robinsonate.
 
 Che 
un uomo d’altronde ordinario, che non si accontenti più del suo focolare
 né del suo ambiente sociale, che il gusto delle avventure lo spinga ad 
andare a cercare fortuna nei paesi lontani, ciò non presenta niente di 
particolarmente differenziato; ma che venga gettato su un’isola deserta,
 separato dalla società degli uomini, obbligato d’aggiustarsi di suo 
rischio e pericolo e che il suo io si comporti irriflessivamente, 
istintivamente, incoscientemente nelle circostanze quotidiane della vita
 e che si comporti tanto a riguardo delle cose e delle persone 
sopravvenute inopinatamente che faccia a faccia delle concezioni 
tradizionali senza ricreare servilmente — individualmente e 
intellettualmente — l’ambiente lasciato — ecco ciò che denota presso il 
poeta creatore di Robinson un’esperienza dell’Io rara e originale. 
Perché Robinson è forzato di rifare passo passo tutto il cammino 
percorso dalla civilizzazione, questo europeo leggero, che reagisce, 
dotato di tutto l’acquisito intellettuale e scientifico della sua epoca,
 alla soglia del meccanismo, si trasforma in un uomo serio, riflessivo, 
dai profondi pensieri, che stabilisce il suo proprio calendario, scrive 
un giornale e si fabbrica una religione adeguata alla sua situazione. 
Che si compari questa religione con quella della madre patria e si vedrà
 subito che ciò che sembra rivoluzionario non è, tutto sommato, tanto 
lontano dalle convenzioni e dei costumi tradizionali. Del pari, l’autore
 non ha voluto ciò — egli ha concepito un grazioso romanzo fantastico ed
 ha fatto in modo che il mondo delle scoperte compiute dal suo io 
isolato in Europa ed altrove — sia comprensibile.
 
 Trasportate 
Robinson dal dominio della sperimentazione all’aria libera in quello 
della sensibilità, dalla finzione nella didattica e voi avrete uno dei 
più autentici antenati dell’Individualismo — Rousseau.
 
 Vedete 
come Emile, subito dopo la sua nascita, si trova trasportato alla 
campagna — la sua isola di Robinson. Ciò è che il primo giorno passato 
nell’ambiente sociale malsano potrebbe nuocergli, corrompere il suo 
individualismo. E là, alla campagna, Emile si sviluppa realmente — 
benché non si cessi d’essere ansiosi sui risultati del suo sviluppo; che
 ne sarà di lui: un umano, un sopraumano, un dio, un animale?
 
 
Solamente, ci si persuade troppo presto che Rousseau, molto prima di 
Emile, aveva concepito il suo programma d’educazione — dove l’aveva 
preso? Nell’osservazione, nella esperienza, nella riunione delle più 
ricche conoscenze umane — nell’umano considerato in generale. Spesse 
volte anche egli non è così: giocava troppo facilmente con le difficoltà
 ed il suo Emile arriva a possedere un’anima che tiene la natura come 
assolutamente incapace di bene e di male. A dispetto del suo sistema 
d’educazione abile, manifestamente ammesso come individualista, la 
Rivoluzione Francese, che sacrifica ai manidi Rousseau, ebbe 
assolutamente ragione di dare un significato sociale alla divisa: 
«Libertà, Uguaglianza, Fratellanza». Essa si manteneva nello spirito di 
Rousseau di cui l’individualismo non concepiva l’uomo isolato, definito 
separatamente, ma l’umano in generale. Non più che come lo concepirono 
altrimenti tutto il diciottesimo secolo e, più tardi, Kant e Fichte. 
Come avrebbero potuto mantenersi così da parte? E non è forse dal seno 
della società che Emile era stato trasportato alla campagna?
 
 È 
qui che noi condividiamo lo stupore di Hebbel: «Quando si approfondisce 
la nozione dell’Individualità… le conseguenze che ne derivano… si è 
stupefatti che tanta discordia naturale sia possibile a fianco di tanta 
concordia storica». Emile non aveva giammai obliato il suo governatore, 
il diciottesimo secolo; il diciannovesimo secolo s’è onestamente 
sforzato di congedarlo. Ma il tutto è di sapere se il governatore così 
messo in giubilo non sia rientrato dalla porta di dietro, se il divorzio
 stesso secondo la concezione roussoniana non abbia costretto i fatti 
reali ad una semplificazione inevitabile. L’uomo personale, determinato,
 individuale, ha voluto una volta per tutte sgomberare, svestire, 
raggiungere il diciannovesimo secolo. Ma che non si dimentichi: in fin 
dei conti, l’Individualismo, il più conseguente concerne… degli uomini; 
non ha nulla a che fare con degli dèi, delle grandezze che si possono 
assolutamente comparare.
 
 Rousseau non aveva approfondito «tutte
 le conseguenze derivanti dalla nozione dell’Individualità». 
Schleiermacher, Stirner e Nietzsche lo fecero da veri filosofi come 
erano. Nei Monologhidi Schleiermacher, noi troviamo dipinta, per la 
prima volta, la felicità che è l’appannaggio dell’uomo che osa 
considerarsi come un essere “voluto a parte”. L’universo può, nella sua 
grandezza, sembrare di voler schiacciarmi, ma non mi compenetra, io, che
 sono una parte costitutiva e indispensabile e più lontano l’Unico si 
sforza di stendere e il suo fine e le sue gesta, più profondamente egli 
comprende la sua situazione e la sua necessità del Cosmo.
 
 
Goethe ha parlato in qualche luogo della felicità superiore dei 
fanciulli della Terra. Personalità! Schleiermacher e Goethe erano dei 
metafisici: si vede subito, secondo loro, da dove proviene la concordia 
«a fianco di tanta discordia naturale»: l’Unico è una tale potenza! Io 
posso obiettare e dire che ciò è la concatenazione delle apparenze che 
reggono, in qualche modo, il Cosmo — che vuole che le misure di 
precauzione necessarie siano prese. Nietzsche stesso — nel quale si 
tendono le mani il principio e la fine dell’ultimo secolo — era un 
metafisico in fondo al cuore, malgrado che si sia così aspramente 
difeso; ed è per ciò, col suo «eterno ritorno», egli ha edulcorato di 
nuovo l’Individualista assoluto, irrazionale, che ha concepito uno 
sviluppo meccanico dell’evoluzione universale, che ha creduto ad una 
costanza dei “greggi”. E perché ciò? — non sono, essi pure, composti di 
“Io”? E, intanto, qualcuno deteneva, nel medesimo secolo, la chiave 
dello «stupore» che tormenta Hebbel: «a fianco di tanta discordia 
naturale», e questo qualcuno era Max Stirner.
 
 La storia della 
Filosofia è grandemente debitrice a Stirner, tanto quanto a Berkeley che
 turba così molto la coscienza mutabile in lui parlando per la prima 
volta del «mondo come nostra rappresentazione». Abituiamoci, dunque, una
 volta per sempre, a guardare in faccia l’oceano dei pensieri 
eternamente in movimento, a ritenere come trascurabili le deduzioni 
preconcette che si possono dedurre da idoli dogmatici come “la verità” e
 “la menzogna”. Consideriamo, una volta per sempre, le cose ed i 
pensieri come un eterno e magnifico gioco di colori cambianti che si 
succedono sulla cappa dell’infinito, che non ci sarebbe concepibile che 
all’infuori dei nostri sensi, in uno stato di fusione, di deliquescenza 
interiore, forse solamente nella morte. In tutti i casi, ecco cos’è 
sicuro: Cioè che, viventi, noi abbiamo raramente coscienza del nostro 
legame intimo con il Cosmo — che i medesimi nostri eccessi di coscienza 
più affermati sembrano evolversi nei limiti d’una rottura voluta, d’una 
separazione intenzionale con l’Universo, di sorte che noi ci 
abbandoniamo tanto più ciecamente e confidenti ai nostri istinti che ci 
rivelano il nostro io come una cosa di un’estrema importanza.
 
 
Se il legame eterno di ogni io con il Cosmo sembra fuor di dubbio, noi 
non lo sentiamo; il mio vicino può essere infinitamente triste ed 
angosciato, allorché il miocuore palpita di gioia e d’ebbrezza; al 
medesimo momento l’occhio di A… vede altre immagini che l’occhio di B… 
(quantunque certamente una sfera di sentimenti e di sensazioni saturi 
tutto l’universo e si esteriorizzi in molto “entusiasmo”, non ho io 
allora il diritto di fare riposare la mia coscienza individuale su se 
stessa e di lasciare ogni io, preso separatamente, farsi valere da se 
stesso? Vi sono due metodi: uno considera l’io come parte d’un tutto che
 non conosce — l’altro considera ogni io come un tutto che conosce, 
particolarmente per le manifestazioni della sua coscienza. È questo 
secondo metodo che ha seguito Max Stirner; è perciò che ha 
“approfondito” la nozione dell’Individualità e delle sue conseguenze, 
che chiama l’Io «il mortale e passeggero creatore del suo Unico». Non 
perché è così, ma perché noi lo… sappiamo. Dunque, se c’indirizziamo a 
Stirner per altre supposizioni, se si vuole ottenere qualche 
informazione sull’Armonia universale, il Creatore di tutte le cose, non 
s’impara nulla. Ma se si sa che Stirner parla di ogni io come d’un Unico
 nell’insieme delle apparenze, si apprendono cose preziose. Hebbel 
s’interessa dell’universale e finì di meravigliarsi perché a fianco di 
una tale differenziazione può esistere «altrettanta concordia storica». 
Stirner, egli, non conoscendo che la gioia della logica, spinse un 
pensiero fino alle sue estreme conseguenze teoriche, poco importandogli 
come sarebbe finita.
 
 Io vorrei ben sapere quali supposizioni 
sono più solidamente appoggiate che quelle! Una gran parte di gente ci 
offrono — e noi ci siamo talmente abituati! — le prospettive “le più 
grandi”, le concezioni “le più sublimi”, i punti di vista “i più scevri 
di pregiudizi”: su che cosa fondano tutto ciò? È certo che, se Stirner 
non avesse considerato l’ateismo di Feuerbach come dimostrato, egli non 
avrebbe esplicato l’Individualismo come ha fatto. Ma il Teismo non è un 
fatto provato? Se lo fosse stato, Stirner avrebbe cercato altri motivi, 
li avrebbe trovati e sarebbe ugualmente pervenuto all’individualismo 
estremo. Egli procede dunque da Feuerbach che aveva definito la 
Religione come «una rottura dell’uomo con se stesso»; egli non si 
domanda se la definizione di Feuerbach fosse esatta o no in sé, ma si 
domanda come poter guarire la rottura, riparare lo squarcio; in 
Feuerbach, gli attributi divini erano divenuti manifestamente umani e, 
per realizzare l’ideale “dell’Uomo”, l’Unico doveva lottare 
instancabilmente per conquistarli. Era ancora l’uomo “in generale” del 
XVIII secolo. — No, grida Stirner, io non sono quell’uomo là: io sono 
l’uomo personale, individuale, determinato; l’ideale teologico mi è 
costato migliaia di anni di lotte sterili, l’ideale “uomo” non me li 
richiederà. Io stesso (e ogni Unico come me) sono in ogni momento tanto 
la apparenza dell’uomo quanto il suo essere, come la sua essenza più 
profonda. Non ho invidia di spaccarmi in due, di correre dietro un 
fantasma.
 
 Egli si è così liberato di tutti gli altri ideali 
fantasmi, ed è in questa maniera che arriva alle sue negazioni col fine 
di liberare l’Io da tutti i determinismi “in generale” — notatelo bene: 
universale, in generale allegemein. Ciò non ha nulla a che fare con 
l’individuo considerato nelle sue manifestazioni tipiche. Stirner, in 
effetti, lui, l’infaticabile e intrepido lottatore per le idee si è 
messo “al servizio” di ciò che concordava più potentemente e più 
sublimemente con lui — al servizio del suo Io. Ora se tu (e X e Y) trovi
 che il tuo Io si compie e si “consuma” di più in un mondo di idee più 
prossime all’idealismo — alla Schiller, per esempio, libero a te: 
Stirner, l’Insorto, l’Anarchico non te lo proibisce — più ancora, egli 
t’approva. Ti dice solamente d’essere… te stesso.
 
 Così Stirner 
ha definitivamente dissipato lo stupore hebbeliano. Per aprire gli occhi
 degli uomini sulla loro dipendenza, la loro fede nell’autorità, la loro
 sensibilità suggerita dal mondo esterno, il principio individualista 
incomincia con una ribellione folgorante, con la discordia, con un 
appello energico alla tua “Unicità”. Ma colui che ti scuote, che ti 
muove così, ti rimette il tuo Io nelle tue proprie mani, è un uomo come 
te, che parla la tua lingua, con le medesime passioni e le medesime 
sensazioni che le tue. È perciò che «a fianco di tanta discordia 
naturale, tanta concordia storica è possibile».
 
 
 [L’Adunata dei Refrattari, anno VI, n. 16, 16 aprile 1927]

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