La nostra ricerca è volta alla ricostruzione della genesi del nichilismo europeo alla luce
del pensiero leopardiano. Quella che ne emerge non è solo l’immagine di un Leopardi
anticipatore del “nichilismo europeo”, ma anche la figura di un impensato genealogista
di un fenomeno epocale sul quale sono state spesso accampate origini straniere
(tedesche, russe o francesi). In questa ottica inedita, la stessa ‘svolta nichilistica del
pensiero leopardiano può essere riguardata come una pagina spartiacque nella storia del
nichilismo.
Il nostro lavoro si articola essenzialmente in due parti: la prima ricostruisce il
dibattito sorto intorno al nichilismo leopardiano, dopo aver rievocato i termini della
questione del nichilismo in generale, tenendo sullo sfondo le maggiori interpretazioni di
tale fenomeno (Nietzsche, Löwith, ecc.). La seconda sezione rintraccia e analizza gli “a
priori storici” del nichilismo europeo a partire dall’opera di Leopardi, in costante
contrappunto con la diagnosi nietzscheana. Se si libera la Volontà di potenza dal mito
della “volontà di potenza”, ciò che resta è una sorprendente analisi genealogica,
apparentemente senza precedenti, del fenomeno del “nichilismo europeo”. Diciamo
‘apparentemente’, perché qui vorremmo mostrare, appunto, come il precedente sia
rappresentato proprio dall’opera di Leopardi a maggiore densità filosofica.
Com’è noto, si parla di “nichilismo europeo” da due secoli a questa parte, da
quando Nietzsche vide quell’orizzonte che era rimasto latente nel “movimento di
Pascal” e che avrebbe dovuto attendere ancora altri “due secoli” per apparire
limpidamente come l’orizzonte di un mondo senza Dio e senza perché. Lo stesso
Pascal riconosceva che un mondo senza Dio si sarebbe rivelato un “mostro” e un
“caos”: tale ipotesi assurda sarebbe riemersa come un incubo filosofico nell’opera di
Jean Paul, per trovare soluzioni diverse in Leopardi e in Nietzsche.
Storicamente il termine “nichilismo” comincia a circolare nel dibattito filosofico
tedesco a cavallo fra Sette e Ottocento. Al timore verso il nichilismo mostrato da Jacobi
avrebbe risposto Fichte con il suo rassicurante nichilismo metodico, mentre Hegel
avrebbe superato a sua volta anche la posizione fichtiana col suo peculiare nichilismo
dialettico espresso in Fede e sapere. Il timore del nichilismo espresso da Jacobi e Jean
Paul veniva così ben presto riassorbito da quello stesso idealismo tedesco che sembrava
averlo suscitato.
Se Leopardi rimane sostanzialmente estraneo tutto questo dibattito, non si può
tuttavia affermare che non ne venga minimamente toccato. Leopardi attingerà anzi
direttamente alla fonte il problema del nichilismo, prospettato per la prima volta da
Pascal in termini non tanto dissimili da quelli che verranno approfonditi dal pascaliano
Jacobi, nei termini dell’alternativa: aut Deus aut nihil. Inoltre, l’incubo di un mondo in
cui Dio è morto annunciato da Jean Paul non doveva essergli ignoto. La curvatura
esistenziale-assiologica del problema del nichilismo appena accennata in Jacobi e Jean
Paul diviene anzi preponderante in Leopardi, che tra i primi pensatori europei a porsi in
modo radicale il problema del senso dell’esistenza, trasformandolo nella domanda
fondamentale del nichilismo.
Ora chiediamoci: in che senso si può parlare di nichilismo a proposito di
Leopardi? La prima lettura di Leopardi in chiave decisamente nichilistica risale a
Nietzsche, il quale intravide nel poeta-pensatore il prototipo del “nichilista”, e tuttavia
un “nichilista” ancora troppo “passivo” e lamentevole, per potersi definire “il più
perfetto tipo del nichilista”. Il dibattito sul nichilismo in Leopardi viene inaugurato da
Cesare Luporini soprattutto alla fine degli anni Ottanta. Luporini corresse la sentenza
di Nietzsche su Leopardi, a costo di forzare i termini nietzscheani, considerando
Leopardi un “nichilista attivo”, un disincantato mai compiaciuto o rassegnato, anzi
intimamente animato da un’“assiologia vitalistica”. Avendo ricostruito e discusso
criticamente l’intera storia della ricezione del nichilismo leopardiano (da Luporini a
Caracciolo, a Sciacca, a Severino, a Givone, Garaventa, ecc.) abbiamo avuto modo di
chiarificare i termini della problematica in questione. Anzitutto, Leopardi può essere
considerato un puro nichilista? Posto, poi, che quella di Leopardi sia una “filosofia del
nulla”, di che specie dovrà essere considerato tale nulla? E come intendere la
sconcertante affermazione che “il principio di tutte le cose e di Dio stesso è il nulla”?
Negli anni Novanta si è delineato, in particolare, un conflitto ermeneutico fra l’“ontologia del nulla” difesa da Givone e il nichilismo al suo culminante punto di
catastrofe che Severino ha visto emergere in modo inaudito dal pensiero leopardiano.
Dall’esame delle numerose voci che hanno animato il dibattito ci è parso che il nulla
leopardiano non avesse una valenza esclusivamente nichilistica, ma anche un significato
positivamente aperto al mistero o alla creatività, avvalorando in definitiva quella
struttura endiadica e dialettica che Caracciolo aveva così bene messo in luce.
Il presunto dilemma sul Leopardi nichilista o non nichilista è destinato a rivelarsi
uno pseudoproblema al pari della vecchia questione: filosofo o poeta? L’angustia
dell’aut aut deve lasciare posto al respiro dell’et et. Solo così potremo accostarci alla
ben più radicale questione della nostra indagine, che porta in primo piano l’immagine di
un Leopardi genealogista del nichilismo europeo, oltre che anticipatore di quel
fenomeno che vedrà in Nietzsche il maggiore profeta, e che desterà in Heidegger la più
alta attenzione esegetica.
Come Nietzsche, Leopardi vedeva il futuro alle proprie spalle, e poteva
interpretare il nichilismo proprio grazie a questa sua capacità di cogliere dietro di sé
quel “movimento di Pascal” che, su un’onda più lunga, avrebbe portato al “quesito di
Schopenhauer” sul senso dell’esistenza.
Pur rimanendone in parte contaminato, Leopardi mette allo scoperto e denuncia il
nichilismo platonico-cristiano, così come critica la montante insignificanza imposta
dall’“impero della ragione” e della “Verità”, cioè dal disincanto mitico prodotto via
via dalla ragione teologica, filosofica, scientifica e tecnica. Di qui la polemica condotta
contro il ‘nichilismo’ cristiano, il ‘nichilismo’ della ragione (una ragione, non per caso,
definita “madre e cagione del nulla”), come pure contro il ‘nichilismo’ tecnoscientifico che si manifesta attraverso la riduzione a nulla della grandezza e del valore
delle cose. Non va poi trascurata, nel quadro della critica del nichilismo etico-politico,
la polemica leopardiana contro il ‘nichilismo di bassa lega’ degli italiani (Discorso sullo
stato presente dei costumi degl’Italiani), che con il loro cinismo che contrasta con il
resto della civiltà europea, oscurano il più filosofico e paradossale nichilismo del genio
italico, ben consapevole della necessità di coprire con un velo d’illusione la vanità del
tutto.
Leopardi ha individuato un altro tratto della genealogia del nichilismo, che verrà
evidenziato da Löwith, e in base al quale il mondo contingente è leggibile come un
retaggio, ma anche come una conquista, della teologia creazionista cristiana. Leopardi,
infatti, sostiene in alcune pagine dello Zibaldone del 1821 che la teologia cristiana ha
surrogato la caduta delle idee platoniche con un Dio inteso quale nuovo fondamento del mondo, mondo che perciò si rivelava contingente, per effetto della volontà del suo
creatore (Z 1712-14; 1645).
Sempre da buon genealogista, Leopardi è quindi riuscito a rintracciare il grafico
di tale destino d’autosoppressione della religione ebraico-cristiana, paradossale “fonte
dell’ateismo” (Z 1061-62), come rivela “quasi un albero genealogico” (ivi, 1061), in cui
si vede l’originaria religione ebraica dissolversi attraverso le successive mutazioni via
via registrate. Quello dell’autodissoluzione della verità e dei valori ideali è un altro dei
nuclei nichilistici che possono essere illustrati e verificati attraverso l’esame delle prose
leopardiane.
Con Leopardi si impone la grande questione che riguarda la storicità o meno del
fenomeno nichilismo. Egli, infatti, vide come pochi che il ‘nichilismo’ antico
(“Salomone e Omero”), per quanto sintomo di una “filosofia dolorosa, ma vera”, non
basta a chiarire la condizione moderna e che quest’ultima è caratterizzata da
un’inquietudine metafisica del tutto inedita, da un radicarsi dell’ipotesi pascaliana di un
mondo senza fini e senza Dio e dell’interrogazione intorno ai destini umani e intorno
all’enigma dell’essere che prelude al grande “quesito di Schopenhauer”. La presenza in
Leopardi di tracce del ‘nichilismo’ ebraico-cristiano, come quelle del ‘nichilismo’
silenico dei Greci, non è ancora sufficiente, a nostro avviso, a legittimare un discorso
sul nichilismo inteso in senso contemporaneo come radicale problematizzazione del
senso. Come dice Nietzsche, “il nichilismo appare ora (…) perché si trova diffidenza a
vedere un ‘senso’ nel male e nella stessa esistenza” (FP, 5 [71], 4). Il nichilismo appare
nelle crepe del senso infranto, mentre per converso la domanda sul senso aquista
significato a sua volta quando il nichilismo appare.
Per evitare confusioni, quando non parliamo della nostra epoca, preferiamo
adottare la parola ‘nichilismo’ inserita fra due apici. La vanità del tutto predicata
nell’Ecclesiaste o il me phynai (“meglio non essere nati”) dei Greci non basta ancora a
definire un orizzonte veramente nichilista. L’autentica svolta nel pensiero di Leopardi, la vera crisi del “sistema della natura”
(di una natura ancora “provvidente”) non è dunque da ricercare tanto nella riscoperta di
quel pessimismo antico che già con “Salomone e Omero”, e con le figure di Teofrasto e
Bruto (nella Comparazione), avevano apportato una “incrinatura nichilistica”
(Damiani). Tale incrinatura registrava la delusione della fede nel valore, la caduta della
fiducia nella morale, insomma un primo preludio del nichilismo assiologico. Il
‘nichilismo’ antico, o meglio il nullismo accompagnato dal pessimismo sul valore della
vita e della virtù non rappresenta ancora un nichilismo degno di questo nome. Perché?
Semplicemente perché gli antichi non si erano mai posti in modo esplicito il problema
del senso dell’esistenza, né potevano farlo, visto che per loro le cose erano “cose e non
ombre” (OM 530), in ciò sorretti dalla persuasione dell’esistenza di un’altra vita (Z
412), una persuasione che dava sostanza e significato anche a questa. Si potrebbe
pensare, ancora una volta, al ‘nichilismo’ platonico-cristiano, ma non si tratta solo di questo. Gli antichi non poterono veramente mai accedere all’idea dell’assurdo poiché
“giudicavano tanto importanti le cose del mondo”.
L’idea di “assurdo”, intesa come ciò che nel mondo resiste ad ogni umana
domanda di senso, si è rivelata, alla luce della nostra indagine, la conquista più propria e
originale del pensiero di Leopardi troppo a lungo rimasta inavvertita. Basti citare qui
almeno due esempi: “l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare”
(Z 1470). “Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa
essere altro che il bene…” (Z 4174). L’assurdo è urto e dissonanza, come diranno anche
Rensi sull’onda di Leopardi e Camus sull’onda di Rensi.
Il pensatore italiano non fu solo (come si è spesso sentito ripetere) un precursore
del “nichilismo europeo”, ma soprattutto un genealogista critico di tale fenomeno. Nel
suo modo di rivisitarlo, egli rimase in parte contagiato dal ‘protonihilismo’ degli antichi
(quello La satira corrosiva di Leopardi contro il della Bibbia come quello silenico dei
Greci). Analogamente, postosi sulle tracce del ‘nichilismo’ platonico-cristiano, non
mancò di polemizzare contro la ragione moderna, criticando il ‘nichilismo’ metodico
della scienza e della tecnica. Infine, come inauguratore del nichilismo europeo, a
dispetto di tutte le pretese fonti straniere, Leopardi rimane uno dei suoi maggiori e più
rimossi protagonisti.
La nostra ricerca contempla: 1) un’ermeneutica del nichilismo leopardiano, volta
a sondare in via preliminare la comprensione del problema così come esso è stato
recepito dalla “storia degli effetti”: da Luporini ai più recenti apporti della critica; 2)
una genealogia del nichilismo dagli antichi ai moderni nell’interpretazione stessa di
Leopardi, ma tenendo sullo sfondo le maggiori ricostruzioni a lui posteriori. Queste due
fasi distinte sottendono una decifrazione del sistema incompiuto del pensiero
leopardiano che delinea i contorni di una singolare prospettiva di scetticismo
possibilista aperto al mistero, in definitiva una forma di “nichilismo positivo” (nel senso
di Giorgio Penzo) o di “nichilismo aperto” (nel senso di Weischedel).
Ma perché sarebbe più appropriato parlare di nichilismo anziché di
“scetticismo”, visto che questo è il termine che, in fin dei conti, lo stesso Leopardi
adotta per definire il suo sistema di “scetticismo ragionato” (Z 1655), spinto fino alle
estreme “verità” con cui si chiude lo Zibaldone? Sta di fatto che lo scetticismo, a
differenza del nichilismo, non si è mai posto la questione esistenziale del senso. Ora,
quella del senso è una questione che ha avuto una gestazione più lunga e faticosa di
quanto non si creda. Basti pensare alle domande gnostiche che riecheggiano nel
“discorso del libertino” di Pascal o alla “destinazione” di cui parla Fichte nella Missione
dell’uomo. Il “quesito di Schopenhauer” o l’interrogazione del “pastore errante” o
dell’“Islandese” leopardiani si collocano su un’onda più lunga del domandare. Hanno
già una curvatura inconfondibile, testimoniando una chiara precomprensione
esistenziale del problema del senso.
Ma prima di conquistare quella nozione prettamente contemporanea dell’assurdo
che si accompagna alla “rivolta metafisica” (nel senso di Camus), abbiamo dovuto
riattraversare i punti di deflagrazione e di svolta del leopardiano “sistema della natura”.
Si tratta di alcuni “a priori storici” che si manifestano nel processo di chiarificazione dell’orizzonte che segna l’epoca contemporanea del nichilismo, e che sono state da noi
individuati in quattro momenti successivi. I primi segni che annunciano in Leopardi
l’imbocco di una prospettiva di tipo nichilistico derivano quasi tutti dalla crisi del
“sistema della natura”, di una natura concepita ancora come provvidente e benevola. Gli
elementi che illuminano parallelamente lo sgretolamento di tale sistema e la nascita del
nichilismo sono dati da alcuni momenti decisivi della storia delle idee. Tolti tali eventi
cruciali, resterebbe vano il tentativo di chiarificare la svolta nichilistica leopardiana. Di
più: senza seguire lo svolgersi di tali snodi non si riuscirebbe ad illuminare il
movimento epocale del nichilismo europeo né a rendere luminoso quell’orizzonte che
Nietzsche vedeva appunto due secoli alle proprie spalle nel profetico “movimento di
Pascal” e davanti a lui come una sorta di coazione a ripetere il “quesito di
Schopenhauer” e dei “teorici del fine dell’esistenza”:
a) il “grandissimo rivolgimento” apportato dalla rivoluzione copernicana, con la conseguente messa in crisi del finalismo antropocentrico;
b) il crollo del platonismo e dell’innatismo nell’ambito della filosofia moderna;
c) il “movimento di Pascal”, ossia l’ipotesi, rivelatasi profetica dopo Nietzsche, di un mondo “sdivinizzato” e insensato;
d) il disastro di Lisbona con cui si registra soprattutto la catastrofe simbolica della teodicea leibniziana e del fondamento metafisico del mondo e della ragione;
e) il “quesito di Schopenhauer”, la riformulazione della “domanda fondamentale della metafisica” in termini esistenziali e nichilistici.
Proviamo ad osservare più da vicino la portata di alcuni di questi punti.
Leopardi ha previsto lucidamente le “conseguenze nichilistiche” della rivoluzione
copernicana di cui avrebbe parlato Nietzsche: “da Copernico in poi l’uomo scivola
verso una x”. Il fatto che si tratti soprattutto di una crisi simbolica o metaforica (come
ha chiarito Blumenberg), non diminuisce la portata o gli effetti del fenomeno, che anche
via Pascal (col suo senso di spaesatezza metafisica) vengono consegnati al nuovo
paradigma della modernità. La rivoluzione copernicana appare, da Leopardi a
Nietzsche, come una metafora dell’inarrestabile processo di “deteleologizzazione” del
mondo innescato dalla ragione scientifica. La satira corrosiva di Leopardi contro il
finalismo antropocentrico si inserisce in tale quadro di consunzione del concetto
metafisico di “fine” che verrà diagnosticato da Nietzsche come uno dei sintomi più
tipici del “nichilismo europeo”.
Un passo decisivo in direzione della cognizione nichilistica dell’assurdo – come
abbiamo potuto verificare specie attraverso il Poema sul disastro di Lisbona – lo
compie Voltaire con la sua radicale messa in questione della teodicea leibniziana che
con Schopenhauer e Leopardi giunge ad un completo ribaltamento. Ma, per quanto ne
prefiguri la possibilità, con Voltaire non viene ancora in piena luce la “rivolta metafisica” dell’Islandese alle prese con la figura sfingea e pietrificata dell’enigma
cosmico.
Si tratta di un progressivo processo di disincantamento del mondo prodotto
dall’“impero della ragione” (Z 37). Il nichilismo europeo, in questo senso, rivela un
carattere in qualche modo ‘destinale’, poiché la ragione non può fare a meno di far
“strage delle illusioni”. Abbiamo visto come questo procedimento negativo della
filosofia (si pensi ad un Bayle) e della scienza moderna sia analizzato con acutezza e
lucidità assoluti da Leopardi. Non a caso Leopardi ha valorizzato al massimo il versante
negativo del pensiero moderno: filosofi come Locke, Cartesio, Newton, è stato
osservato, “contano esclusivamente in quanto pensatori negativi”. Ma lo stesso
potrebbe certo dirsi per Bacone, Bayle, Montesquieu, d’Holbach, Voltaire, ecc.
È però con il “quesito di Schopenhauer”, già intravisto da Leopardi, che
l’orizzonte del nichilismo diventa, forse per la prima volta, trasparente a se stesso.
Messo da parte lo stereotipo del pessimismo, si tratta di vedere in che senso con questi
due “teorici dell’esistenza” si possa fare ingresso nell’epoca nichilistica. In tutta la sua
vita Leopardi non cessò di arrovellarsi intorno ai quesiti dell’esistenza. Basti pensare a
quell’“arcano mirabile e spaventoso”, o quella “cosa arcana e stupenda” evocati in tutta
la loro numinosa potenza nel Cantico del gallo silvestre come nel Coro dei morti del
Dialogo di Federico Ruysch.
Un capitolo a parte riserviamo al rapporto fra idealismo tedesco e nichilismo
romantico. Siamo qui in presenza di un passaggio cruciale per cogliere la genesi storicofilosofica del nichilismo, che coinvolge tutta una serie di personaggi che hanno
variamente a che fare con i problemi lasciati aperti dal kantismo: da Jacobi e Jean Paul a
Hegel. Ma il dibattito sul nichilismo viene ufficialmente inaugurato, com’è orami noto,
nel volgere del secolo decimottavo (1799) dalla Lettera a Fichte. Il nichilismo moderno
nasce su una base prettamente gnoseologico-ontologica, sullo sfondo della problematica
della rappresentazione e della cosa in sé, ma a partire da questo retroterra comincia
furtivamente ad avanzare, già in Jacobi, quella dimensione squisitamente assiologica
che anche in Leopardi e Nietzsche diventerà predominante.
Abbiamo affrontato il fenomeno del nichilismo romantico tedesco attraverso
alcuni testi emblematici di Goethe, Hölderlin, Jean Paul, Klingemann, Büchner, onde
saggiare eventuali consonanze con il pensiero di Leopardi. In tutti questi autori, come in
Leopardi, la questione gnoseologica è accantonata, per lasciar spazio ad un nullismo
metafisico vagamente aperto all’assurdismo.
Solo a partire da Leopardi la cifra del nulla diventa la spia dell’assurdo, oltre che
la trascrizione rigorizzata del dogma moderno del divenire universale (da e nel nulla).
Tenendo presente l’isolamento culturale di Leopardi rispetto alla filosofia tedesca a lui
coeva, potrebbe sembrare assai problematico il tentativo di accostare la sua posizione a
quella del nichilismo romantico tedesco. Eppure, non mancano certo dei validi appigli.
A parte l’indubbio influsso del nullismo di Goethe su Leopardi, nell’opera di Mme de
Stäel De l’Allemagne, spesso citata da Leopardi, compare il famoso Discorso di Jean
Paul sul “Cristo morto” in cui si proclama esplicitamente la morte di Dio. Si tratta di un incubo che può ricordare l’atmosfera evocata da Leopardi in una sua operetta: il
Dialogo di Federico Ruysch, dove pure i morti si destano dalle loro tombe allo scoccare
della mezzanotte per contemplare l’arcano dell’esistenza.
Al fine di rintracciare la posizione di Leopardi sulla linea del nichilismo europeo
non può essere eluso il tema del nulla, che rimane al centro del pensiero leopardiano.
Quest’ultimo, per quanto frammentario e incompiuto, non è tuttavia privo di una certa
tensione sistematica, che non rende per questo meno inquieto il movimento di
oscillazione del nulla da un valore negativo ad un valore positivo. Di qui l’aporia del
nulla. Da un lato il nulla si mostra, infatti, come “principio di tutte le cose, e di Dio
stesso” (Z 1341), dunque con una misteriosa connotazione da teologia negativa (siamo
nel 1821), per ricomparire nella fase più pessimista, nel 1826, come solo “bene” (Z
4174), prospettando questa volta una sorta di estetica negativa (le “cose che non son
cose”, il “paese delle chimere”). Dall’altro la vanità del mondo, dei piaceri e la
morte dell’universo (Cantico del gallo silvestre; Frammento apocrifo) fanno invece
pensare ad un niente inequivocabilmente distruttivo. La soluzione di tale apparente
contraddizione andrà ricercata nell’ambivalenza del nulla leopardiano, riconoscendo un
valore positivo al nulla creativo, non a caso riferibile alle due figure paradigmatiche
della creatività: Dio e il poeta. Il niente inteso come male è invece relegato da Leopardi
all’ontologia negativa di questo mondo: alla beffa metafisica della felicità: “le cose
esistenti, e niuna opera della natura nè dell’uomo non sono atte alla felicità dell’uomo”
(Z 2936) come al “male” cosmico (Z 4174). La delucidazione di un simile sistema
promette di offrire una preziosa chiave retrospettiva per rileggere da un’angolazione
nuova la genealogia della nostra epoca.
Luigi Capitano
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