mercoledì 7 agosto 2019

Gerarchia, ironia, rivolta. Da Stirner a Camus


Mais Sisyphe enseigne la fidélité supérieure 
qui nie les dieux et soulève les rochers. 
 Albert Camus


Dispetto

«Potesse prenderselo il rimorso!», sussurra impotente Sganarello alla fine del primo atto del Don Giovanni. Al padrone, immoralista e scandalosamente ironico, rimprovera il rifiuto della costanza – che «n’est bonne que pour des ridicules» – e la mancanza di fede – tranne nel fatto che «deux et deux sont quattre». Don Giovanni si fa beffe del cielo: quello stesso cielo cui Sganarello di continuo si appella a sostegno della moralità. Un sospetto: che Sganarello provi dispetto per il suo padrone? Di certo, non è geloso né invidioso in senso stretto: perché lo fosse, si dovrebbe supporre che Don Giovanni lo derubi di qualcosa che gli appartiene o che, comunque, gli sottragga qualcosa che egli stesso vorrebbe per sé. Ma Don Giovanni deruba altri, non lui. Del resto, se volesse, Sganarello potrebbe imitarlo, passando anch’egli d’avventura in avventura. 
Sganarello non sopporta che il suo padrone abbia: non che (lo) abbia (derubato di) questa donna – si tratterebbe di gelosia –; né che abbia una donna che perciò lui stesso non può più avere – si tratterebbe di invidia –; ma proprio solo che il suo padrone abbia una donna qualsiasi o più donne qualsiasi. Ecco il dispetto: «l’invidioso desiderio di un oggetto non perché sia di per sé particolarmente desiderabile per il soggetto, ma soltanto perché l’altro lo possiede». È il libero desiderio di Don Giovanni quello che Sganarello desidera. Se si preferisce: è la libertà, è l’occhio disincantato di Don Giovanni al cospetto del cielo, quel che scatena il suo dispetto. 
Cerca di placarsi, il dispetto del servo, con una speranza: che il padrone, di vittoria in vittoria, giunga all’estrema sconfitta, alla rinuncia della sua scandalosa libertà, al rimorso appunto. È questa una speranza che non costa nulla e che trova la solidarietà dei più, timorosi di seguire Don Giovanni nel suo cammino incostante, senza fede. 
Non c’è da stupirsi se, in Molière, Don Giovanni è visto con gli occhi morali, troppo morali di Sganarello: sono gli stessi del pubblico che, alla fine della «commedia», giungerà a scambiare per sconfitta e per punizione la più grande vittoria dell’ironico immoralista: la vittoria contro la troppo facile prepotenza del cielo, contro la volgare teatralità delle sue folgori e delle sue fiamme.

Il cielo sopra di noi

Quello che Sganarello chiama cielo, il linguaggio più esangue e mediato dei filosofi chiama assoluto. Entrambi, il cielo e l’assoluto, esercitano un dominio sui più che – avverte Max Stirner – viene dal sacro timore (heilige Scheu), dal timoroso rispetto per il sacro. Ossia: per quello che all’io è stato sottratto – la sua dignità, la sua autonomia –, e che poi all’io viene imposto di nuovo come superiore ed estraneo (unheimisch, unheimlich). Immoralista e ironico è chi non prenda troppo sul serio il cielo di questa estraneazione, chi passi inaffidabile e irridente da una verità all’altra, attratto da ognuna, amante di tutte. 
Il sofista – dice Platone – è un imitatore eironikòs (spesso tradotto con «insincero») . Non riconoscendo distinzioni tra vero e falso, confonde ad arte realtà e apparenza. Con il discorso – con le belle parole, direbbe invece Friedrich Nietzsche – crea «immagini parlate di tutto». È un «mago prestigiatore, imitatore delle cose»: appartiene alla dimensione «dello scherzo e del gioco». La sua è «un’arte degli inganni», e se vi è inganno, «dove esso è, per necessità tutto è per ciò stesso pieno di immagini». 
Il sofista – il filosofo ironico – crea immagini che pretendono d’essere reali, di valere come verità. La sua arte è quella «di creare apparenze, e questa a sua volta dipende da quella di fare immagini». Perciò, è assimilabile alla pittura, «che operando imitazioni omonime delle cose che sono [può] ingannare i giovani fanciulli ignari [...]». 
Il filosofo che non si subordini al cielo, starebbe dunque sulla superficie delle cose, come il pittore che, nella sua presunzione, ricrea il mondo. Chiunque – si legge nella Repubblica – può tessere questo inganno: «Basta che tu voglia prendere uno specchio e farlo girare da ogni lato. Rapidamente farai il sole e gli astri celesti, rapidamente la terra e poi te stesso e gli altri esseri viventi, i mobili, le piante e tutti gli oggetti [...]». 
La verità non sarebbe dunque da lasciare agli imitatori ironici, agli "artisti"? Apparterrà forse a più gravi chierici, che conoscano il sentiero stretto che dalla superficie delle apparenze conduce giù giù, nelle profondità delle essenze, o magari su su, fino al cielo? Che sia il convitato di pietra il suo custode? 
L’ironia eventuale di costoro – si sa – non è nulla più che espediente retorico, strumento di conversione alla verità. Non più leggerezza, non più gioia e belle parole, non più creazione del mondo: quando il chierico si impone, l’ironia diventa pedante, intollerante macchina didattica. Il suo fine – argomentiamo da Hans Kelsen – è la volontà di potenza. Essa diventa socratica, direbbe Nietzsche. 
Questa ironia è fondata dall’autorità del chierico nei confronti del laico, e insieme la fonda, ne è prodotta e la riproduce. Da un lato, presuppone una consolidata gerarchia – nel senso stirneriano di dominio del sacro (ma si potrebbe anche dire «dei colti») –; dall’altro la conferma. Essa rafforza quello stesso cielo che la legittima. 
In ogni altra forma, per l’ironia non c’è spazio sotto il cielo che ci sovrasta, sotto il dominio del sacro. Se solo tende a manifestarsi nella sua autonomia creatrice, subito i chierici provvedono a bollarla come soggettività infinita, «autocoscienza soltanto formale, che si sa in sé assolutamente [...] che sa ridurre a niente, a qualcosa di vano, ogni contenuto oggettivo [...] e [...] ricade nell’arbitrio vuoto». 
«Non la cosa è superiore – si direbbe dunque quest’ironico "soggettivista" –, ma son io superiore [...] e in questa coscienza ironica, nella quale io lascio perire il Sommo, godo soltanto di me». Questa coscienza sarebbe addirittura «il male, cioè il male del tutto universale in sé». Con essa, l’anima bella, cioè la sua «coscienziosità è del tutto libera da ogni contenuto in genere; essa si assolve da ogni contenuto determinato che debba valere come legge; nella forza della certezza di se stessa [...] ha la maestà dell’assoluta autarchia, la maestà del legare e dello sciogliere». L’ironia, dunque, sarebbe autodeterminazione che, come tale, «sa di dominare qualsiasi contenuto; essa non prende nulla sul serio, scherza con tutte le forme». 
Godere di sé, non prendere nulla sul serio, autodeterminarsi: eccoli, alla fine, i peccati capitali, i peccati mortali di Don Giovanni.


La fedeltà di Don Giovanni

A lui la sentenza del cielo – di inappellabile condanna, essendo egli colpevole del male del tutto universale in sé – è comunicata dal Convitato di Pietra: «l’insistere nel peccato porta con sé una morte funesta, e la grazia del Cielo che si rifiuta apre la strada alla sua folgore». 
Se si trattasse di Sganarello – o di uno dei moralistici spettatori che con lui danno sfogo alla indignazione morale –, il rimorso sarebbe immediato. Se il cielo scomoda lampi e saette, la prudenza suggerisce di sacrificare l’ironia e di evitare la collera divina. 
Ma Don Giovanni non è Sganarello. Non ha costanza, non ha fede. Il suo servo è sicuro che non abbia morale. Tuttavia, almeno un valore egli tiene fermo: quello del senso di se stesso, della sua soggettività. Per questo valore non assoluto – transeunte, direbbe Stirner –, e dunque a lui tanto più caro, ritiene che valga la pena di affrontare l’ira del cielo. 
In questo, l’ironia mostra la propria grandezza: non conosce fedi, ma certo pratica la fedeltà a se stessa, alla propria dimensione precaria, nonostante e contro qualsiasi gerarchia (ancora una volta: dominio del sacro), nonostante e contro qualsiasi prepotenza di chierici. 
Don Giovanni è in senso stretto ateo, negatore di Dio. La sua ironia può affermare la propria dimensione solo contrapponendola a quella del cielo. Come ribelle e spregiatore, ha alcuni tratti aristocratici, che permangono intatti nel suo mito attraverso tutti i mutamenti e tutte le versioni che sembrano addirittura risalire alla Grecia e alla Roma classiche. D’altra parte, in lui permangono anche tratti popolari. «Nella struttura della leggenda – osserva Giovanni Macchia – c’è una separazione inesorabile tra il cielo e la terra, e [...] questo è di marca popolare. Don Giovanni rappresenta la terra senza il cielo». In questo «senza» sta la verità di Don Giovanni, che ha bisogno del suo cielo: è questo che dà senso alla sua rivolta. Gli Sganarello e i Tartuffe, sempre, aggiustano i loro rapporti con il cielo secondo la massima per cui: 

«Le ciel défend, de vrai, certains contentements; 
Mais on trouve avec lui des accommodements». 

Don Giovanni, invece, unisce al senso popolare della terra un bisogno tutto aristocratico d’affrontare direttamente il cielo, di contrapporglisi. È un moralista di segno negativo, un immoralista. 
In lui, nella sua ironia, si fa valere una soggettività eroica e negatrice dell’oggettività e dell’assoluto morale, del sussistente direbbe Stirner. Tale soggettività è astratta: l’uomo in rivolta si distacca dal proprio mondo, ne "astrae", e così può rivolgersi contro di esso. Egli però non nega solo: negando, afferma pur sempre. Lo comprese Camus: «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». Questo fa Don Giovanni: la sua ironia e la sua incostanza sono insieme un no e un sì: negano la gerarchia e il dominio estraneo dell’heilige Scheu, affermano la dignità propria.
Qualcuno, preoccupato di edificare sistemi e di consacrare visioni del mondo, potrà anche osservare che essa è "sterile". Tuttavia, vi sono epoche in cui la prima tensione verso il nuovo si esprime proprio in questa ironia aristocratica e "negatrice"; nelle quali, ancora, gli uomini possono ritrovare se stessi solo contrapponendosi al cielo.


Lo stato 

«Qui n’a point de loi vit en bête brute», dice di Don Giovanni il suo servo. Agli occhi dell’osservante Sganarello – e soprattutto a quelli del pubblico che nei suoi vede riflesso il mondo – Don Giovanni, ironico e incostante, è un bruto. L’Uomo – come genere, come Gattungswesen, come essenza generica – è costituito e fondato dalla legge: così suona la filosofia politica à la Sganarello. L’uomo è Uomo in quanto sopra di lui vi sia il potere, la gerarchia, il cielo del dover essere. 
«Lo Stato – scrive Hegel – è la realtà dell’idea etica [...] Nell’ethos [...] ha la sua esistenza immediata, e nell’autocoscienza del singolo, nella conoscenza e attività del medesimo, ha la sua esistenza mediata, così come questa [l’autocoscienza] [...] ha in esso, in quanto sua essenza, fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale». Dunque: l’autocoscienza del singolo, "elevata" al cielo dell’universalità vive la libertà sostanziale. In tal modo l’uomo diventa Uomo. E – come ben sa Stirner – l’Uomo produce anche la propria ombra, la propria immagine riflessa, rovesciata, mostruosa: il Non– Uomo. Il Mensch produce l’Un–Mensch, in esso si specchia necessariamente, come il Tipo nell’Anti–Tipo. C’è in questo una strana aria di Lager. È proprio solo un caso che in tedesco Unmensch significhi mostro? 
Tutto questo – con le sue terribili conseguenze starebbe dunque nella filosofia spicciola di Sganarello? E perché mai non potrebbe? Forse, quello che ci impedisce di crederlo è che, in noi, c’è sempre uno Sganarello o magari un Tartuffe che si sentono rassicurati dalla sacralità normativa del cielo, che se ne sentono strutturati e sorretti. 
Sganarello e Tartuffe, appunto, non sanno, non possono pensare a una legge che non sia sacra, che non venga dal cielo (magari per venire poi con essa «ad accomodamenti»). La sua doverosità appare loro garantita e fondata proprio da folgori e lampi: ancora una volta, dalla teatralità kitsch con cui Molière mette in scena il Commendatore. 
Per loro, dominati e insieme rassicurati dal sacro timore, chi neghi questa dimensione di estraneità sacra della morale e del diritto, semplicemente nega moralità e diritto. Dunque, immediatamente, deve essere un bruto pericoloso, un bestemmiatore: un mostro, appunto. 
Per loro, ancora, l’Uomo è più affidabile dell’uomo proprio perché in esso non hanno più parte gli uomini. Sganarello e Tartuffe si mostrano per quel che sono: perfetti animali del gregge, incapaci di pensarsi se non in riferimento subordinato all’animale capo, magari sublimato in un sistema filosofico o in un cielo. 
A proposito del capo: Elias Canetti ci ha insegnato che il suo potere, meglio che il suo dominio si fonda sulla morte: è una sua lotta contro la propria morte a mezzo della morte degli altri. Potente è chi accumula morti e a essi sopravvive. In tale sopravvivenza, egli trova conferma del proprio essere-ancora-invita, mentre i suoi vi scorgono la legittimazione fascinosa del suo comando. Per chi sia sensibile a quel fascino, niente è più dolce che morire per il capo.


Il tordo beffeggiatore 

Ma come può accadere che la paura della propria morte venga superata, annientata? Come può accadere che si obbedisca in lieta coscienza, accettando così di incorporare la morte che – ancora secondo Canetti – sta in ogni singolo atto d’obbedienza e che si fissa dentro l’osservante come «spina del comando»? Non accade forse che, chi muore contento di morire per il capo – o per il cielo –, s’immagini di non morire davvero? Anzi: di conquistarsi l’immortalità, la vita vera? «"Quel che sono non è che ombra e fumo; quel che sarò è il mio vero io". Dar la caccia a questo io – scrive Stirner – [...] costituisce il difficile compito dei mortali, che muoiono solo per resuscitare, che vivono solo per morire, che vivono solo per trovare la vita vera». 
Riconosciamolo, è questo un calcolo tipico di Sganarello, del suo utilitarismo spicciolo. Don Giovanni ama questa vita, che si brucia mentre la viviamo. Per questo affronta la morte con coraggio, con orgoglio e con ironia. Sganarello invece rinuncia a vivere perché vuole vivere in eterno, in cielo. 
Ma se questa ipotesi è attendibile, allora dobbiamo concluderne che la differenza tra l’animale capo e l’animale del gregge è minima, per quel che riguarda la morte. Non sta, questa differenza, nel fatto che uno voglia sopravvivere e l’altro no; sta piuttosto nel modo in cui, entrambi, mirano allo stesso fine. L’ipotesi, allora, sarà che la morte, il sacro timore che essa suscita, fondi tutta la dimensione del dominio, del suo lato attivo e del suo lato passivo. 
Obbedire significa «differire il bene», rinunciare a vivere ora – in questo istante in cui si brucia lo stirneriano io che-mai-è, l’iomai-ente – per essere-ancora-in-vita poi, ossia per sopravvivere. «Si vive una sola volta – scrive Epicuro –, rinascere è impossibile, e dovremo non essere in eterno. Tu invece, pur non essendo padrone del domani, differisci il bene e così la vita va perduta nell’indugio, e ciascuno di noi muore senza conoscer quiete». 
L’ironia può vincere la morte? Può liberarci dalla speranza della sopravvivenza, della vita postuma, e dunque dall’entusiasmo per l’obbedienza?
Leggiamo l’ironico Charles Bukowski: 

il tordo beffeggiatore aveva seguito il gatto 
per tutta l’estate 
burlandosi di lui 
dispettoso e sicuro di sé 
il gatto strisciava su verande sotto sedie a dondolo 
la coda ritta 
e dava al tordo beffeggiatore 
risposte stizzite che non capivo. 
ieri il gatto calmo calmo è venuto su per il viale 
col tordo vivo in bocca, 
le ali a ventaglio, un ventaglio leggiadro e cascante, 
le penne aperte come gambe di donna, 
e l’uccello non motteggiava più, 
chiedeva, implorava 
ma il gatto scavalcando i secoli 
non ascoltava. 
l’ho visto strisciare sotto una macchina gialla 
con l’uccello 
prima di portarlo in un altro posto. 
l’estate era finita. 

Vivendo, finché ha vissuto, il tordo ironico e incostante ha fatto come se fosse possibile motteggiare la morte. Poi, scavalcando i secoli, la morte è arrivata. Non più ironia, non più estate: definitivamente, un altro posto. «Contro tutte le altre cose è possibile procacciarsi sicurezza, ma quanto alla morte tutti gli uomini abitano città senza mura». 
La mitologia biografica. 
Un ultimo cielo ci sta, qui, sopra la testa. L’uomo in rivolta ha negato il cielo del sacro, ma gli resta da fare un altro passo, il più difficile. 
«Se l’uomo volgare – osserva Nietzsche – prende questa spanna di essere in modo così melanconicamente serio, quelli [che] seppero giungere [...] a un riso olimpico, o per lo meno a un sublime scherno, spesso scesero nella tomba con ironia – poiché che cosa c’era in loro da sotterrare?». 
Il soggetto soprattutto, l’io soprattutto merita ironia e autoironia. Anch’esso è un cielo, l’estremo Assoluto. Così almeno appare, al di qua della sua maschera. Al di là, invece, è un artificio che unifica, “puntualizza” l’accadere dell’esperienza. È un prodotto di sintesi, l’io, è un’illusione tanto radicata (e tanto utile) da avere dalla sua il potere enorme del linguaggio: l’io è un pregiudizio della grammatica, come ben sa Nietzsche. Io, diciamo, e in quello stesso istante ci immaginiamo come un centro immobile di un accadere altrimenti privo di ordine e di significato. 
Ma – ci ha insegnato Stirner – il solo io di cui facciamo esperienza è l’io momentaneo, l’io transitorio e dell’istante, che-maiè. Ogni biografia ha dietro di sé un’ingenua fiducia in un qualche supporto metafisico dell’accadere. Noi ci pensiamo come eroi: abbiamo una storia, veniamo da un inizio, avremo una fine e un fine, ossia avremo un significato suggellato dalla morte. Il nostro significato ci appare, in ogni istante, il riflesso di quel significato che ci attende. Ogni biografia in fondo è una mitologia.
Questa mitologia – seguendo e interpretando quel che scrive Jean Fallot – è legata al costituirsi del «problema dell’essere», opposto a quello della felicità, anzi di esso sostitutivo: «rafforzando o creando artificialmente un desiderio della vita [meglio, diremmo noi, della sopravvivenza] [...] si crea anche il timore della morte. L’io sostituisce al suo bisogno di un piacere puro quello di una sussistenza pura, di un essere puro dalla morte». «Chi si preoccupa solo di vivere – scrive Stirner – dimentica facilmente, a causa di questa preoccupazione angosciosa, il godimento della vita. Se gli interessa solo di vivere e pensa: ‘Purché resti in vita!’, non dispiega tutte le sue forze per usare la vita, cioè per goderla». 
L’io-che-è, l’io-ente è l’eroe della mitologia biografica: garantisce la sopravvivenza ed è il cielo più pesante sopra di noi. Ci induce a prenderci troppo sul serio. Contro di esso si infrange l’ironia di molti ironisti. Anche il tordo di Bukowski smette di motteggiare il gatto, quando questi lo tiene in bocca: chiede, implora... Non così fa Don Giovanni, troppo aristocratico per cedere al nemico. E infatti affronta il Convitato di pietra pur sapendo di non avere scampo. 
«Io farò quel che potrò», dice il Don Giovanni di Lorenzo da Ponte e Wolfgang Amadeus Mozart, accettando la sfida del suo strapotente antagonista. E qui, in questa consapevole accettazione, in questo orgoglioso rifiuto del pentimento estremo, sta la sua vittoria, per quanto impossibile. 
Non siamo sicuri, però, che Don Giovanni sfugga all’altro pericolo dell’io-ente che non riesce a essere autoironico. 
L’ironista inconseguente si arresta di fronte al fantasma dell’io, pronto ora a un’adorazione del tutto non ironica. Eccolo, il pericolo estremo: che egli diventi a sua volta un chierico. La religione che è tentato di professare è "personale", ma non per questo meno assoluta e estranea. Come ogni altra, anche questa religione fonda e legittima un dominio del sacro, una gerarchia: l’io momentaneo e mai-ente è pronto a negarsi, a “morire” affinché l’io assoluto, l’io-ente sopravviva. 
L’individualismo – questo individualismo sacro – è il calco, l’impronta, il negativo dell’osservanza o eteronomia à la Sganarello. Dunque, è anch’esso eteronomo, e per identiche ragioni.
La sola differenza è che il rapporto di dominio e la gerarchia dell’obbedienza sono prima di tutto interni al singolo. La sua rivolta s’è infilata in un vicolo cieco. Anche l’ironista individualista si lascia determinare da un valore assoluto, o dal valore di un Assoluto. Anche in lui l’heilige Scheu è dei questo cisivo. È cinismo, la sua ironia: si manifesta a danno degli altri, perché sulla loro svalorizzazione, talvolta sulla loro morte, ancora una volta fonda la sopravvivenza, la propria valorizzazione. In questo modo, la gerarchia interna al singolo viene proiettata all’esterno, e può anche tradursi in gerarchia politica vera e propria, in dominio.


Ridiamo insieme 

Per non prendersi troppo sul serio – per non ricostituire dentro di sé lo stesso rapporto di dominio che si rifiuta fuori di sé –, occorre leggerezza, occorre avere «della farfalla e della bolla di sapone». Cercando, amando la superficie si evitano le abissali contraddizioni del sottosuolo. Come «animule lievi scioccherelle leggiadre volubili» uccidiamo lo spirito di gravità che ci trascina per sprofondarci. «Chi sale sulle vette dei monti più alti, ride di tutte le tragedie, finte e vere». 
Essere leggeri significa fuggire? significa condurre la rivolta ad acquietarsi nel giardino della nostra solitudine? Se anche l’io è osservato dalle vette dei monti più alti, anche di esso si riderà. Ne verrà una rinnovata capacità di vedere, sentire, ammirare gli altri, di incuriosirsi delle loro ragioni: non più per rispettare un precetto del cielo, ma perché questo sarà parte del nostro godere la vita. Non importa se l’estate, ogni estate deve finire. Importa ogni attimo vissuto in questa bella terra. 
Sisifo – ce lo insegna Albert Camus – si contrappone agli dèi; addirittura, incatena la morte. Per questa sua rivolta, per questa sua colpa al cospetto del cielo, è condannato a sospingere un masso, che continuamente torna a rotolare a valle. L’Olimpo lo condanna a essere quello che è, un uomo. Gli uomini – che non siano puri accidenti dell’Uomo – non possono non essere uomini. Di fronte alla morte, non possono non essere città senza mura. 
Sisifo ha tentato, con coraggiosa ironia. La sua sconfitta è necessaria? In ogni caso, la sua sconfitta può essere anche la sua vittoria. Quello che conta non è la meta, perché una meta gli è preclusa, che non sia la morte. Conta invece il cammino: lungo quel cammino – ironico e coraggioso – c’è «la sûreté toute humaine de deux mains pleines de terre».
Certo, Sisifo continuamente deve tornare a valle, in una fatica senza fine – una fine e un fine. Ma questo ritorno, che sembra una sconfitta, è la sua vittoria: «quest’ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dèi, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno». 
Durante il ritorno Sisifo è ironico: la sua coscienza soggettiva, astratta, negatrice, dissolve la superiorità dei suoi aguzzini. Giunto a valle, libero da qualsiasi gerarchia, può tornare a salire. Ora egli sente suo il compito – tutto umano – di risospingere il masso. La sua rivolta supera la cieca e stupida necessità con il disprezzo: «Il n’est pas de destin qui ne se surmont par le mépris». 
Ma il disprezzo e l’ironia non sono una prigione in cui Sisifo si lasci incatenare. Se così accadesse, egli sarebbe davvero sconfitto: abiterebbe in negativo quello stesso cielo che bestemmia. Al termine della sua discesa ironica, al culmine del momento "negativo" della sua rivolta, dal no nasce un sì. Sisifo si congeda dagli dèi, si sottrae all’ombra minacciosa che dall’Olimpo si allunga sul suo (e nostro) mondo. In questo modo, non più solo ateo, ma ormai compiutamente se stesso, Sisifo sa che il macigno è cosa sua e che il destino gli appartiene: «Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere padrone dei propri giorni». 
Questa consapevolezza è la grande vittoria della sua rivolta conseguente, del suo fedele coraggio di fronte ai lampi e alla messa in scena rumorosa di dèi e convitati di pietra. Se nella discesa Sisifo è distruttore, nella salita è creatore: crea il suo mondo come un artista eironikòs, o come un fanciullo che gioca, che ride.
La sua misura non è più l’obbedienza, la sua dimensione non è più il dominio. Non ha bisogno di valori "celesti" per darsi e per praticare una morale, per condividerla e per con-crearla con gli altri. Egli sa bene, ormai, che «la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». Era questo, era questa felicità, che Sganarello intuiva come immensa possibilità nel destino del suo padrone? Se così fosse, ce lo spiegheremmo bene, quel suo tal moralistico dispetto.

Roberto Escobar 

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