Il tempo della natura, ben noto e discusso com’è, ha fornito finora il terreno sul quale basarsi per spiegare il tempo. Se l’essere umano fosse nel tempo in un senso eminente, in modo che da esso si potesse ricavare che cos’è il tempo, allora si dovrebbe caratterizzare questo esserci nelle determinazioni fondamentali del suo essere. L’essere temporale – rettamente compreso – dovrebbe quindi essere l’asserzione fondamentale dell’esserci relativamente al suo essere. Ma anche così occorre un’indicazione preliminare di alcune strutture fondamentali dell’esserci stesso.
1) L’esserci è l’ente che viene caratterizzato come essere-nel-mondo. La vita umana non è un soggetto qualsiasi che deve fare un qualche artificio per entrare nel mondo. Esserci in quanto essere-nel-mondo vuol dire: essere nel mondo in modo che questo essere significhi: avere a che fare con il mondo; rimanere nel mondo in una modalità dell’eseguire, dell’operare, dello sbrigare, ma anche del considerare, dell’interrogare, del determinare mediante l’osservazione e la comparazione. L’essere-nel-mondo è caratterizzato come prendersi cura (Besorgen).
2) L’esserci in quanto siffatto essere-nel-mondo è contemporaneamente un essere-l'uno-con-l'altro, un essere con altri: un avere qui con altri lo stesso mondo, un incontrarsi l’un l’altro, un essere l’uno con l’altro nel modo dell’essere-l’uno-per-l'altro. Ma questo esserci è al tempo stesso un essere lì davanti(Vorhan-densein) per altri, ossia un essere al modo in cui è lì davanti una pietra che non ha mondo e non se ne prende cura.
3) L’essere l’uno con l’altro nel mondo, l’avere il mondo essendo uno con l’altro, possiede una determinazione d’essere eminente. Il modo fondamentale dell’esserci del mondo, l’avere qui il mondo l’uno con l’altro, è il parlare (Sprechen). Considerato in senso pieno, il parlare è parlare di qualcosa esprimendosi (aussprechend) con un altro. L’essere-nel-mondo dell’uomo si svolge prevalentemente nel parlare. Questo lo sapeva già
Aristotele. Nel modo in cui l'esserci parla, nel suo mondo, della maniera di avere a che fare con esso, è implicita un’autointerpretazione dell’esserci. Essa dice come l'esserci di volta in volta si comprende, per che cosa esso si prende. Nel parlare l'uno con l'altro, in ciò che così si dice e si fa circolare, è insita di volta in volta l'autointerpretazione del presente che soggiorna in tale colloquio.
4) L’esserci è un ente che si determina come «io sono». Per l'esserci l'essere di volta in volta (Jeweiligkeit) dell'«io sono» è costitutivo. L’esserci dunque, così com’è un essere-nel-mondo, è in modo altrettanto primario anche il mio esserci. Esso è ogni volta mio proprio e in quanto mio proprio è di volta in volta. Dovendo venire determinato nel suo carattere d’essere, questo ente non può venire astratto dall’essere di volta in volta che è ogni volta mio. Mea res agitur. Tutti i caratteri fondamentali debbono ritrovarsi così nell’essere di volta in volta in quanto ogni volta mio.
5) Essendo l'esserci un ente che io sono, ed essendo al tempo stesso determinato come un essere-l'uno-con-l'altro, per lo più e mediamente non sono io stesso il mio esserci, ma lo sono gli altri; io sono con gli altri, e gli altri con altri ancora. Nessuno nella quotidianità è se stesso. Ciò che egli è, e il modo in cui lo è, non lo è nessuno: nessuno, eppure tutti insieme, senza che nessuno sia se stesso. Questo Nessuno, da cui nella quotidianità noi stessi veniamo vissuti, è il «Si» («Man»), Si dice, si sente dire, si è a favore di, ci si prende cura. Nell’ostinato dominio di questo Si si trovano le possibilità del mio esserci, ed emergendo da questo appiattimento è possibile l’«io sono». Un ente che è la possibilità dell’«io sono» è per lo più, in quanto tale, un ente che si è.
6) L’ente così caratterizzato è tale che nel suo quotidiano e rispettivo essere-nel-mondo ne va del suo essere. Come in ogni parlare del mondo è insito un esprimersi dell’esserci in merito a se stesso, cosìogni avere a che fare che si prende cura è un prendersi cura dell’essere dell’esserci. Ciò con cui ho a che fare, ciò di cui mi occupo, ciò a cui la mia professione mi incatena sono in qualche modo io stesso, e in questo si svolge il mio esserci. La cura dell’esserci gli ha ognora addossato la preoccupazione dell’essere, nel senso in cui quest’ultimo è noto e compreso nell’interpretazione dominante dell’esserci.
7) Nella medietà dell’esserci quotidiano non è insita una riflessione sull’io e sul sé, eppure l’esserci ha se stesso. Si trova presso di sé. Incontra se stesso in ciò con cui comunemente ha a che fare.
8) L’esserci in quanto ente non può essere dimostrato, ma nemmeno mostrato. Il riferimento primario all’esserci non è l’osservazione, bensì «E'sserlo». L’esperire-se-stesso, come il parlare-di-sé, l’autointerpretazione, non è che un determinato modo eminente in cui l’esserci di volta in volta ha se stesso. Mediamente l’interpretazione dell’esserci è dominata dalla quotidianità, da ciò che in genere si crede e si tramanda dell’esserci e della vita umana; è dominata dal Si, dalla tradizione.
Neil’indicare questi caratteri d’essere tutto dipende dal presupposto che siffatto ente sia in se stesso accessibile a un’indagine interpretativa mirante al suo essere. Questo presupposto è giusto o può essere messo in discussione? Effettivamente è possibile, ma la difficoltà non nasce dall’obiezione che l’osservazione psicologica dell’esserci finisce per brancolare nel buio. Si deve far vedere una difficoltà ben più seria che non la limitatezza del conoscere umano, cioè il fatto che noi ci mettiamo nella possibilità di cogliere Vesserei nell’autenticità del suo essere proprio se non eludiamo l’aporia.
L’autenticità dell’esserci è ciò che costituisce la sua possibilità d’essere estrema. L’esserci è determinato in modo primario da questa estrema possibilità dell’esserci. L’autenticità in quanto estrema possibilità dell’essere dell’esserci è la determinazione d’essere nella quale tutti i caratteri summenzionati sono ciò che sono. L’aporia del coglimento dell’esserci non sta nella limitatezza, nell’insicurezza e nell’imperfezione della capacità di conoscere, ma nell’ente stesso che deve essere conosciuto: in una possibilità fondamentale del suo essere.
Si è nominata, tra l’altro, la seguente determinazione: l’esserci è nell’essere di volta in volta; in quanto l’esserci è ciò che può essere, esso è ogni volta il mio esserci. In questo essere, tale determinazione è totale, costitutiva. Chi la cancella ha perso nel suo tema ciò di cui parla.
Ma come si deve fare per conoscere questo ente nel suo essere, prima che sia giunto alla sua fine? Nel mio esistere, infatti, io sono sempre «ancora in cammino». Rimane sempre qualcosa che non è ancora arrivato alla fine. Alla fine, quando vi si è giunti, esso appunto non è più. Prima di questa fine, esso non è mai propriamente ciò che può essere; e se lo è, allora non è più. Non può l’esserci degli altri sostituire l’esserci in senso proprio? L’informazione sull’esserci di altri che erano con me e che sono giunti alla fine non è una buona informazione. Anzitutto esso non è più. La sua fine sarebbe appunto il niente. Perciò l’esserci degli altri non può sostituire l’esserci in senso proprio, se si deve tenere fermo l’essere di volta in volta in quanto mio. Io non ho mai l’esserci dell’altro in modo originario, nell’unico modo adeguato di avere l’esserci: io non sono mai l’altro.
Quanto meno ci si affretta a sottrarsi inosservati a questa aporia, quanto più a lungo la si sostiene, tanto più chiaramente si può vedere che l’esserci si mostra nella sua possibilità estrema proprio in ciò che provoca in lui tale difficoltà. La fine del mio esserci, la mia morte, non è qualcosa per cui a un certo momento un decorso continuo di colpo si arresta, bensì una possibilità di cui in ogni caso Tesserci sa: è l’estrema possibilità di se stesso, che egli può cogliere e fare propria come imminente.
L’esserci ha in sé la possibilità di incontrare la propria morte come l’estrema possibilità di se stesso. Questa estrema possibilità d’essere ha il carattere di essere imminente come certezza, e tale certezza è a sua volta caratterizzata da una completa indeterminatezza. L’autointerpretazione dell’esserci che supera per certezza e autenticità ogni altra asserzione è l’interpretazione in relazione alla sua morte, lacertezza indeterminata della possibilità più propria dell’essere-alla-fine. Che cosa significa tutto ciò per la nostra questione, cioè che cos’è il tempo, e in particolare per la questione immediatamente successiva, ossia che cos’è l’esserci nel tempo? L’esserci, sempre nell’essere di volta in volta dell’ogni volta mio, sa della sua morte, e lo sa anche quando non ne vuole sapere niente.
Che cos’è l’avere ognora la propria morte? È un precorrimento dell’esserci che va al suo non più (Vorbei ) quale possibilità estrema di essere se stesso che è imminente nella sua certezza e completa indeterminatezza. L’esserci in quanto vita umana è primariamente un essere possibile, è l’essere della possibilità del non più, certo eppure indeterminato. L’essere della possibilità è sempre una possi-bilità tale da sapere della morte per lo più nel senso del «lo so già, ma non ci penso». Della morte io so per lo più nel modo del sapere che indietreggia di fronte ad essa. In quanto interpretazione dell’esserci, tale sapere è subito pronto a contraffare questa possibilità del suo essere.
L’esserci ha persino la possibilità di eludere la propria morte. Siffatto «non più», che come tale io precorro, in questo mio precorrerlo fa una scoperta: è il non più di me stesso. In quanto è tale non più, esso scopre il mio esserci come d’un tratto non più qui; d’un tratto non sono più qui, in queste e queste altre cose, con queste e queste altre persone, in queste vanità, in questi pretesti, in questa verbosità. Il non più scaccia ogni brigare e ogni affaccendarsi, trascina tutto con sé nel nulla.
Il non più non è un evento né una vicenda che capiti nella mia esistenza. È appunto il suo non più, non un «che cosa» che accada in essa, che le capiti e la modifichi. Questo non più non è un «che cosa», ma un «come», e precisamente il « come » autentico del mio esserci. Questo non più, che in quanto mio io posso precorrere, non è un «che cosa», ma il come del mio esserci puro e semplice. In quanto il precorrere che va al non più tiene fermo quest’ultimo nel «come» dell’essere di volta in volta, l’esserci stesso diventa visibile nel suo «come». Il precorrere che va al non più è il correre incontro alla propria possibilità estrema da parte dell’esserci; e nella misura in cui tale « correre incontro » è serio, in questo correre Tesserci viene rigettato nel suo esserci-ancora.
È il ritornare dell’esserci alla sua quotidianità, che c’è ancora, e precisamente in modo che il non più, in quanto «come» autentico, scopre anche la quotidianità nel suo «come», la riprende – nel suo affaccendarsi e industriarsi – nel «come». Ogni «che cosa», ogni preoccupazione e programmazione vengono riportati nel «come».
Questo non più (Vorbei-von) in quanto «come» porta Tesserci, senza indulgenza, alla sua unica possibilità di essere se stesso, lo rimette completamente a se stesso. Questo non più può spaesare Tesserci nel bel mezzo della gloria della sua quotidianità. Il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette Tesserci di fronte alla sua possibilità estrema, è Tatto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci. Il precorrimento conquide il riguardo fondamentale sotto cui Tesserci si pone.
Esso mostra al tempo stesso che la categoria fondamentale di questo ente è il «come». Forse non è un caso che Kant abbia definito il principio fondamentale della sua etica in modo tale che esso meriti di essere detto formale. Sapeva forse, per una familiarità con Tesserci stesso, che esso è il «come». È rimasta invece una prerogativa dei profeti di oggi organizzare Tesserci in maniera da occultare il «come». L’esserci è autenticamente presso se stesso, èdavvero esistente, se si mantiene in questo precorrere. Questo precorrere non è altro che il futuro unico e autentico del proprio esserci. Nel precorrere l’esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere futuro, sul suo passato e sul suo presente.
L’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo.L’essere futuro così caratterizzato è, in quanto «come» autentico dell’essere temporale, il modo d’essere dell’esserci nel quale e in base al quale esso si dà il suo tempo. Attenendomi, nel precorrere, al mio non più, io ho il tempo.
Ogni chiacchiera, ciò in cui essa si mantiene, ogni irrequietezza, ogni affaccendarsi, ogni rumore e ogni affannarsi vengono meno. Non avere tempo significa gettare il tempo nel cattivo presente del quotidiano. L’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e consente di ripetere il passato nel « come » del suo essere stato vissuto. Riguardo al tempo questo significa che il fenomeno fondamentale del tempo è il futuro. Per vedere ciò senza spacciarlo come un paradosso interessante, il rispettivo esserci deve mantenersi nel suo precorrere. Qui diventa chiaro che l’originario avere a che fare con il tempo non è un misurare. Il ritornare che ha luogo nel precorrere è esso stesso il « come » del prendersi cura, nel quale io appunto permango.
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