Tutta la storia, teoricamente, gli puzzava di favola. Ma la voce del giovane, quegli accenti, quel gesto, erano la voce della verità. Il mondo delle cosiddette verità, filosofò, non è che un contesto di favole, di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può avere nome di verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce. C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana
1. Il mito: la parola del divenire
Nietzsche rileva come il problema fondamentale che assilla la grecità arcaica sia invece quello di riuscire a spiegare cause e modalità del divenire, dell’instabilità del movimento cosmico che tanto preoccupa gli uomini per la sua imprevedibilità, le trasformazioni che apporta alla vita, al mondo, alle persone, nella enigmatica alternanza di vita e morte, crescita e diminuzione, alternanza di giorno e notte, stagioni, fenomeni atmosferici e esistenziali. L’ansia di spiegazione accomuna in questo senso, come già rilevava Aristotele nel libro A della Metafisica, filosofia e mito, appaiati nell’esigenza di dar conto di come le cose avvengano, da dove traggano origine e, eventualmente, in quale direzione vadano. Aristotele reputa però la filosofia un superamento del mito per le modalità di spiegazione che essa utilizza, procedendo secondo ragione, cioè con un rigore dimostrativo di cui il mito difetta. Nietzsche identifica invece il mito come risposta artistica al sacro orrore che le incontrollabili trasformazioni della natura nel suo insieme e nei suoi individui suscitano negli uomini, preferibile, grazie alla sua poliedricità creativa, al rigido schematismo logico della filosofia e della scienza.
Per dare corpo alla sua teoria, Nietzsche plasma i concetti del suo filosofare nel materiale mitico della grecità, attribuendo loro il nome di Apollo e Dioniso. Quest’ultima, in particolare, è la figura mitica per eccellenza della filosofia di Nietzsche, il dio con cui il filosofo, nel delirio della follia che lo condurrà alla morte, si identifica. Il filosofare attraverso figure mitiche, e più in generale attraverso il racconto, non caratterizza solo la Nascita della tragedia, ma tutta la riflessione niciana, culminando nel Così parlò Zarathustra, là dove i concetti portanti del superuomo e dell’eterno ritorno, ma anche la denuncia della decadenza contemporanea, la falsità dei valori correnti, la morte di Dio diventano figure di un racconto con uno stile a metà tra il romanzo di formazione e la predicazione evangelica, di rara potenza immaginifica.
Nelle pagine della Nascita della tragedia, Nietzsche presenta quest’ultima, nella sua versione eschilea e sofoclea, come il prodotto artistico che esprime l’apice della civiltà greca, svalutando in modo esplicito la produzione successiva, in particolare quella euripidea, inquinata dal nefasto influsso della riflessione socratica. Nietzsche esplicitamente segnala che ciò che provoca la fine (per suicidio, cioè per opera di un tragediografo, Euripide) della tragedia è proprio il venir meno del mito. Euripide viene infatti accusato di aver tradito l’autentico spirito tragico: il dramma non aveva lo scopo di pacificare gli animi e dare soluzione alle vicende narrate, né tanto meno di far salire sul palco, come personaggi, gli uomini comuni, i borghesi ateniesi, ma aveva il compito di mantenere alta la tensione drammatica, di radicare la convinzione nella complessità e parziale inspiegabilità delle trasformazioni cosmiche, di confermare la precarietà umana, di dare un nome alla sofferenza e al dolore, non di far credere che essi non esistessero o fossero sempre e comunque risolvibili per via razionale. In questo senso, la tragedia di Euripide sarebbe solo un riflesso dell’ottimismo teoretico di Socrate, cioè della convinzione di quest’ultimo e di tutta la riflessione filosofica che l’ha seguito, della capacità umana di comprensione esaustiva, e conseguente controllo, delle dinamiche cosmiche. Ma, agli occhi di Nietzsche, questo ottimismo corrisponde solo a un abbaglio che acceca lo sguardo sincero e gagliardo del vero filosofo, partecipe invece dello spirito mitico delle origini.
Che cosa rappresenterebbe infatti il mito? Esso è innanzitutto parola: conferisce un nome, un senso, agli eventi cui l’uomo si trova ad assistere e partecipare. La parola, dando nome alle cose, è in sé cosmopoietica, costruisce un ordine, arreda un mondo le cui componenti e la cui struttura ricevono grazie a essa un significato. Il mito spiega l’azione mediante il canto, la parola poetica, il racconto, corrispondendo a un’esigenza di mettere ordine. Di mettere ordine in che cosa? In quello che Nietzsche, nell’Inattuale sulla storia, definisce “il selvaggio fiume del divenire”. Ecco allora entrare in scena Dioniso e Apollo.
2. Il mito di Dioniso
Il mito di Dioniso (Διονυσος), come spesso accade ai miti in virtù della loro trasmissione orale,
presenta numerose varianti: il dio, rappresentato solitamente come un giovane bellissimo, secondo la tradizione era figlio di Semele, figlia del re di Tebe Cadmo, e Zeus. Semele, mentre era incinta, fu indotta dalla gelosa Era a chiedere a Zeus di manifestarsi a lei ed egli, per accontentarla, le apparve circondato da lampi e folgori che con la loro potenza incenerirono Semele e il suo palazzo. Zeus riuscì però a salvare l’embrione di Dioniso e, per evitare le insidie della consorte, lo cucì alla propria coscia, allevandolo sino al giorno della nascita. Anche in epoca tarda Dioniso sarà spesso designato con l’appellativo di “concepito nel fuoco”, a ricordare la folgore di Zeus; del resto la prima parte del suo nome (Διο-) sembra rinviare a una filiazione dal dio celeste indoeuropeo (il genitivo di Ζευς è Δι(ƒ)ος).
Il mito, forse di origine asiatica, rimanda all’arcaica struttura matriarcale della società e dunque anche del pantheon, cui forse si sarebbe sovrapposta la trasformazione patriarcale: occorreva allora attribuire a Dioniso una discendenza diretta da Zeus, dio-padre. La filiazione da una mortale, inoltre, avvicinava il dio agli uomini, e in particolare alle donne, che vedevano il figlio di una di loro elevato al rango di divinità.
Dopo la nascita dalla coscia di Zeus, Dioniso venne allevato dalle Ninfe nella valle di Nisa (nome che forse rimanda all’equivalente nome trace per “figlio”) e, divenuto adulto, percorse il mondo insegnando la viticoltura e istituendo ovunque il suo culto, spesso avversato con l’accusa di seminare disordine e immoralità, come accade nelle Baccanti di Euripide o con lo storico divieto dei Baccanali a Roma del 186 a.C.. Il culto dionisiaco si caratterizzava infatti per una sorta di trance religiosa da cui erano presi i fedeli, per lo più donne (le menadi o baccanti), indotta attraverso danze vorticose e sicuramente facilitata dal vino. Il culto si svolgeva in ambienti dove la natura era incontaminata, preceduto da una processione di salita al monte. Gli attributi di Dioniso sono non a caso emblemi della natura selvaggia e indomita: il capro, il leone, il toro, il carro trainato da pantere, oltre alla vite, all’edera e al serpente.
Il culmine del rito era costituito dalla caccia a un animale (un capro o un cerbiatto) delle cui carni crude gli adepti si cibavano, realizzando in tal modo la comunione con il dio. Il suo nome, secondo una delle tante letture etimologiche, potrebbe infatti anche significare “nato due volte” (la prima parte del nome viene in questo caso letta come (δις, “due volte”): l’allusione sarebbe all’episodio, che tanto influenzò le credenze orfiche, dello sbranamento di Dioniso ad opera dei Titani, forse rievocato nel rito omofagico dello sparagmòs. Il piccolo Dioniso, infatti, giocando con i suoi ninnoli, sarebbe rimasto affascinato, tra questi, da uno specchio, che rifletteva la sua immagine, non accorgendosi della presenza, alle sue spalle, dei terribili Titani che, approfittando del suo incantamento, l’avrebbero aggredito e sbranato. Zeus, tuttavia, si vendicò incenerendo i Titani, dai cui resti sarebbero poi nati gli uomini, e ricompose i frammenti di Dioniso. Ecco allora che il mito di Dioniso si colora di tinte forti: da un lato egli è il dio della natura e della vita selvaggia, è colui che induce la follia (baccheuein, da cui Bacco) e al tempo stesso ne libera (lysios, colui che scioglie), che provoca l’estraniazione dal quotidiano, riconducendo a uno stadio di vita primitivo (il cibarsi di carni crude) in cui la parola ancora non ha luogo: le danze vorticose e le formule rituali sono piuttosto caratterizzate dalla ricorsività incantatoria che dal senso. Tuttavia il suo sbranamento e la sua rinascita connotano immediatamente il dio anche di una dimensione differente, di sofferenza e sapienza: en pàthei màthe, recita la tragedia (ad esempio l’Agamennone di Eschilo), e Dioniso bambino è costretto precocemente a rendersi conto che la vita non è solo infanzia e spensieratezza, ma anche pericolo, durezza, sofferenza, rischio dell’annientamento.
La tragedia greca viene interpretata da Nietzsche, sulla scorta di alcune fonti antiche, come evoluzione del ditirambo dionisiaco, cioè degli originari cori bacchici con cui un gruppo di satiri rispondeva a un altro durante il culto, narrando le vicende della vita di Dioniso. La tragedia sarebbe la rappresentazione concretamente visibile della visione dei satiri corrispondente alle vicende biografiche dionisiache. Dioniso con il suo smembramento e la sua rinascita viene a rappresentare un cammino iniziatico che è il cammino di ogni uomo che impara a conoscere il terribile segreto del mondo che lo circonda: la possibilità della morte, il mutamento inesorabile, l’assenza di ogni parametro definitivo in cui acquietarsi. Il gioco di Dioniso rappresenterebbe l’innocenza della fanciullezza cui deve seguire la necessaria formazione-iniziazione alla vita adulta, consapevole del suo strato passionale, di inganno, bramosia, necessità. Secondo un’interpretazione suggestiva, lo straniamento di Dioniso dovuto all’immagine riflessa nello specchio non sarebbe dovuto allo stupore di vedere il proprio volto riflesso, quanto al fatto che il giovane dio, guardando nello specchio, vede ciò che sta dietro alle sue spalle, cioè il mondo nella sua molteplicità di infiniti fenomeni, cogliendo come in un lampo che il mondo variopinto è lui stesso, cioè che la molteplice apparenza del mondo è la sua stessa immagine, quindi, ancora, che in ogni frammento del mondo è raccolto tutto l’universo, come in ogni frammento dello specchio. Specialmente, in quel mondo di cui è espressione, Dioniso vede i Titani, e comprende che essi sono lui, cioè la vita. Dioniso viene all’essere, a se stesso, in quanto guardato dai Titani, ma più profondamente gli stessi Titani prendono coscienza di sé vedendosi riflessi nella luce e nell’immagine dello specchio di Dioniso, cioè nel suo mito. “Diventa ciò che sei”, proclamerà Zarathustra.
3. Dioniso e Apollo
A questo punto del mito Nietzsche fotografa Dioniso associandolo a un’iniziazione violenta quanto necessaria, che costruisce il sapere di ogni uomo: la coscienza della propria mortalità, della propria “colpa” dovuta al fatto di aver interrotto, con la propria individuazione, il flusso continuo della natura, imponendosi come oggetto a sé stante, concrezione momentanea, che si vorrebbe però definitiva, del ciclo della natura inarrestabile. Dioniso è, nella Nascita della tragedia e in tutta la riflessione di Nietzsche, un sapere terribile e che si vorrebbe in qualche modo poter cancellare. Per sopravvivere a tale visione, per ricomporre le membra spezzate di Dioniso e rinascere come il marinaio della Ballad of the ancient mariner di Coleridge “a sadder and wiser man”, consapevole del proprio essere solo una ferita, un ritaglio di un tessuto unitario che prima o poi ci riassorbirà, l’uomo greco crea il mito e dà spazio alla tragedia: entra in scena in questo modo, nell’universo mitico niciano, il dio Apollo, fratello e rivale di Dioniso, solare artista della forma compiuta, dio del sogno quanto Dioniso lo è dell’ebbrezza. Apollo è colui che mette ordine, che dà la veste di parole e racconti comprensibili a quello che nella notte del culto bacchico è solo grido animalesco e musica indemoniata e convulsione. La visione terribile che fa cogliere al satiro o alla menade il proprio esistere come momentaneo arresto di un flusso vitale inarrestabile e che lo fa, grazie a tale scoperta, disperare e a un tempo ricercare forsennatamente la riunione immediata con il tutto della natura, viene “razionalizzata”, fissata in un racconto, prende forma in una immagine, quella degli attori sul palco e del racconto tragico in cui questa sofferenza indicibile della perdita e dello spossessamento viene in qualche modo affermata e con ciò chiarita:
Il mito tragico può essere compreso solo come una simbolizzazione della sapienza dionisiaca attraverso mezzi artistici apollinei; esso conduce il mondo ell’apparenza ai limiti, dove esso nega se stesso e cerca nuovamente rifugiarsi nel grembo dell’unica vera realtà.
Ecco allora che l’interpretazione niciana è quella secondo cui la tragedia è liberazione del dionisiaco, in quanto esprime in parola dotate di senso quell’esperienza ineffabile e terribile in cui l’individuo si coglie come transeunte passaggio di un processo di cui è solo un infimo granello, e dal dionisiaco, cioè presa di coscienza, senno di poi, che consente di riprendere la propria vita in modo rasserenato, ormai consapevoli che la vita del singolo è solo uno dei frammenti dello specchio di Dioniso rotto all’atto dello sbranamento: in ogni frammento, individuo, c’è tutto il mondo, ma mai un frammento è il mondo una volta per tutte. Il mondo, la vita è ogni frammento, ma da nessuno di essi è circoscritto. Ogni concrezione, sia esso individuo, immagine, tesi filosofica, valore morale o fede, ogni società, ogni forma in cui si fissa per un istante o per secoli la vita del mondo è solo un nuovo modo di manifestarsi di quel
calderone ribollente che è la forza dionisiaca. Più volte Nietzsche, anche a distanza dai suoi scritti sui greci, richiama aspetti del mito di Dioniso (lo sbranamento, i frammenti dello specchio…) in relazione proprio al divenire, con toni che sfiorano talora le descrizioni schopenhaueriane del Wille. Il “principio”, paradossalmente è proprio questa onda diveniente mai uguale a se stessa, che trova solo soste momentanee in forme apollinee. Apollo, allora, più che fratello rivale di Dioniso, è una sua espressione, una sua maschera: ogni oggetto cui si dà (apollineamente) nome e forma, ogni racconto, sia esso favola o mito o teoria scientifica, con cui si cerca di spiegare il reale è solo un nuovo modo di esprimere Dioniso, è ancora lui a governare il gioco: Apollo è Dioniso interpretato, tentativo di addomesticamento sempre fallito, ma di cui l’uomo ha bisogno per dare una qualche stabilità, un qualche riferimento al proprio vagare nel mondo.
La figura di Dioniso presentata da Nietzsche è dunque debitrice del mito che ne racconta la vicenda, usata dal filosofo tedesco allo scopo di dare corpo a quella che è la sostanza del suo filosofare, il tentativo di condurre l’uomo all’accettazione del divenire, del cambiamento, dell’inconsistenza del sé. La posizione che assumerà Zarathustra, quella di concepirsi come passaggio e il suo vedere l’uomo come cavo teso tra la scimmia e il superuomo concretizzano ancora una volta proprio l’esigenza niciana di presentare il reale e le teorie con cui si cerca di spiegarlo come passaggi, mai definitivi, che testimoniano piuttosto la multiformità e poliedricità della forza dionisiaca. Il prospettivismo dell’ultimo Nietzsche, quella volontà di potenza che si afferma come capacità sempre rinnovata di interpretazione del mondo secondo la propria prospettiva non sarà che l’ultimo nome dato alla forza di Dioniso.
4. Le favole del mondo vero: il mito e la scienza
Che cosa però caratterizza la sapienza di Dioniso che si concretizza in forme, in parole, apollinee? Che cosa caratterizza la sapienza mitica? La risposta si può riassumere in una parola: consapevolezza.
Tale soluzione, che rappresenta la tesi centrale della prima produzione niciana, è ricavabile da numerosi scritti del giovane Nietzsche, in particolare da Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), sul capitolo 23 della Nascita della tragedia (1872) e su alcuni spunti della Considerazione inattuale “Sull’utilità e il danno della storia per la vita” (1874).
4.1 La favola della conoscenza e della filosofia
Il saggio Su verità e menzogna inizia, significativamente, con quella che Nietzsche stesso definisce una favola, la favola della conoscenza: con toni che ricordano da vicino le Operette morali leopardiane, e in particolare il “Dialogo di un folletto e di uno gnomo” Nietzsche racconta con toni apocalittici la marginalità e precarietà della posizione umana nell’universo, presa di posizione importante se si considera che nelle pagine successive si affermerà che l’intelletto costruisce linguaggio e categorie proprio dimenticando tali tratti essenziali: Nietzsche descrive l’astro che ospita la nostra specie come angolo remoto tra gli infiniti sistemi solari, contraendone l’esistenza temporale in un solo minuto e in pochi respiri della natura: “Vi furono molte eternità in cui esso [l’intelletto, ma, per estensione, il mondo umano] non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole”. Gli fa eco il folletto leopardiano: “Ora che ci sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla (…) e le stelle e i pianeti non mancano di nascer e tramontare”. Ora, la misera umanità, nella propria breve permanenza nel cosmo, scopre la conoscenza: “Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo”. Senza dubbio l’accostamento tra conoscenza, tracotanza e menzogna compare inaspettatamente. La favola rappresenta l’autopercezione dell’uomo-scienziato che ha perso la sua creatività cosmogonia e la luce negativa in cui è posta la conoscenza è dovuta al suo patetico antropomorfismo, dovuto all’oblio scientista della marginalità e transitorietà della presenza umana nel cosmo. La conoscenza è allora il sommo inganno: illusione di controllare il mondo da parte di ciò che non è che un granello dell’universo. La superbia, la tracotanza, la hybris dell’intelletto sono esercitati all’estremo dal più orgoglioso degli uomini, il filosofo, che crede che gli occhi dell’universo siano rivolti a lui e che egli sia deputato, in virtù della propria esclusiva potenzialità conoscitiva, a decidere le direzioni di sviluppo del mondo. Non solo il filosofo mira a carpire i segreti della natura, ma anche si arroga un’autorità predittiva e prescrittiva rispetto all’organizzazione del mondo intero. L’intelletto sarebbe uno strumento di autoconservazione concesso agli esseri più infelici, deboli, transitori, con il medesimo scopo per cui altre specie, più forti dal punto di vista biologico, sono muniti di corna o si difendono con morsi. Occorre forse allora privare l’inganno e la finzione di etichette morali, interpretando ogni architettura concettuale come narrazione, sorgente creativa di una visione del mondo.
Come il mondo vero alla fine è diventato favola è anche il titolo assegnato a un capitolo del Crepuscolo degli idoli in cui è ripercorsa in sei punti la storia della filosofia. In quel contesto l’espressione mondo vero si riferisce al platonico mondo delle idee, ricondotto al suo carattere favolistico e artificiale dal filosofare niciano: “Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? … Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!”, tuona Nietzsche in quella sede. Unico è l’atto distruttivo che trascina con sé i due mondi: la favola, costituitasi tale per una sorta di rimbalzo in opposizione a ciò che è invece riconosciuto come vero, non si oppone più ad esso, ma ha diritto al medesimo statuto di verità (o falsità). Se l’incipit è una favola è pur vero che è tale, cioè finzione e inganno, solo per uno spirito ordinatore che abbia posto una certa soglia di accettabilità dei contenuti del dire da cui questa narrazione risulta esclusa.
4.2 Il mito: consolazione e riscossa
Il racconto che l’intelletto costruisce sul reale dandogli il nome di conoscenza vera è una maschera, a tutti gli effetti un mito. Anche il mito partecipa di questa natura di maschera ambigua. Infatti, nella Nascita della tragedia il mito ha un doppio volto: il suo carattere consolatorio può assumere la forma dell’autoinganno, del non voler vedere, sotto la solarità armonica e equilibrata delle divinità olimpiche sottolineata dal neoclassicismo, la terribile verità di Dioniso. Il mito può allora decadere a “canzone da organetto” della verità presentata in luce ottimistica come possibilità dell’uomo di ingabbiare, spiegare, tutto ciò che accade con limpidi concetti fissati una volta per tutti: il mito potrebbe dunque essere la cifra della decadenza seguita all’instaurarsi della visione teoretica e del dominio apollineo sull’oscuro e veritiero “calderone ribollente” del dionisiaco, processo che provoca la morte della tragedia per mano di Socrate. Il travestimento irrigidito nelle forme della scienza, corrisponde all’edificio delle belle immagini apollinee che nella tragedia si determina come velamento del dolore, come necessario medicamento per sopportare l’esistenza (“Quanto dovette soffrire quel popolo per poter diventare così bello?”). Ma il racconto mitico non si genera solo dal dolore e dalla paura: non si spiegherebbe, infatti, l’esuberanza della capacità metaforica e immaginifica. Se il dionisiaco è concepito solo come dissolutore di forme, la vita è sforzo vano di dimenticare la terribile realtà del passare e del perire; se invece il dionisiaco è forza liberamente poetante, anche la lotta per l’esistenza diviene solo un momento, il caso particolare in una vicenda più vasta che è la generale produzione di forme. Il mito è allora un armonizzarsi con il divenire proprio perché il racconto esplicita il movimento-svolgimento delle cose e con il suo narrare dà luogo al fissarsi di forme labili, sempre passibili di variazione. Apollo, secondo una prospettiva interpretativa che trova molti agganci in Nietzsche e sostenuta, tra gli altri, da Gianni Vattimo, non è altro da Dioniso, non ne è il fratello o il nemico, bensì una sua manifestazione, un modo di declinarsi della “libertà poetante dionisiaca”. Ora, l’errore e la maschera cattiva non risiederebbero tanto nel considerare Apollo una verità, quanto piuttosto nell’assolutizzare tale verità in nome di una sua pretesa corrispondenza al mondo reale. Proprio la relativizzazione della figura di Apollo segnala “il carattere non naturale, quindi storico e mutevole, del mondo dei simboli dentro cui si muove l’uomo greco e in cui siamo ancora noi”: il mondo apollineo delle forme è un effetto di Dioniso e in questo senso, nella tragedia, “Dioniso parla la lingua di Apollo, ma infine Apollo parla la lingua di Dioniso”. Vattimo può affermare:
Questa nozione di una dionisia greca, che produce simboli e tuttavia resta dionisia, è molto importante perché è l’unica via che permette a Nietzsche di pensare la differenza del mondo delle forme artistiche dal linguaggio concettuale comunicativo, e su questa base, di immaginare il modello di una civiltà oltreumana, dove la liberazione dalla schiavitù della ragione socratica non equivalga semplicemente alla regressione nell’animalità della dionisia barbarica.
Nietzsche si chiede dunque come dal gioco illusionistico dell’intelletto possa sorgere l’impulso verso la verità il suo bersaglio polemico è chiaramente la pretesa egemonica del sistema simbolico apollineo, il suo caratteristico presentarsi come l’unica verità.
4.3 Odisseo: l’inganno della verità e la verità dell’inganno
Una verità che si pretenda unica si mostra chiaramente come un effetto di riduzione e irrigidimento: ciò significa girare il coltello nella piaga della metafisica, presentare come inganno e convenzione, in senso completamente negativo, il tentativo di tutta una tradizione di dare nomi che siano condivisibili e validi perché in grado di dar conto dell’essenza delle cose e capaci di uniformare il molteplice. Tale volontà, apparentemente encomiabile, di spiegare le cose è frutto, in realtà, di un impulso verso la verità decisamente dubbio quanto a purezza e disinteresse, anzi, di una volontà di stare nell’inganno, in un certo inganno che consente di sopravvivere. Ma non è sempre stato così: Nietzsche riconosce che l’eroe emblema della grecità è Odisseo, il polumétis, l’uomo dal multiforme ingegno, re dell’astuzia, dell’inganno e del travestimento. Ora, come è possibile che Odisseo sia un modello e un esempio, se è strutturalmente menzognero? Nietzsche non si fa scrupoli, in un aforisma di Aurora, nell’indicare i motivi di un tale privilegio:
Ideale greco. Che cosa ammiravano i Greci in Odisseo? Innanzitutto, la capacità di mentire e quella della scaltra e terribile rappresaglia; il suo essere all’altezza delle circostanze; l’apparire –all’occorrenza – più nobile di nobilissimi; il poter essere quel che si vuole; l’eroica perseveranza; il procurarsi la disponibilità di ogni mezzo; l’aver spirito – il suo spirito riscuote l’ammirazione degli dei, essi sorridono nel pensarci: - tutto questo è l’ideale greco! La cosa più notevole sta nel fatto che qui il contrasto tra apparire ed essere non è affatto avvertito e non è quindi neppure oggetto di una valutazione etica. Ci furono mai attori così perfetti?.
E’ una sottile forma di realismo, quella greca, che convive con una volontà di apparenza nella misura in cui quest’ultima non si oppone a una verità terroristica, canonica, che è insieme minaccia e rassicurazione. La forza di Odisseo è quella della disponibilità al reale nella sua multiforme presenza, laddove il pensiero metafisico è per sua natura selettivo, schematico e si lascia così sfuggire l’esistenza concreta. Perchè il naso di Odisseo non si allunga allorché egli mente, come accade al burattino Pinocchio? Perché la sua menzogna non è moralmente riprovevole, ma, anzi, salva Itaca dai Proci e porta gli Achei alla vittoria su Troia? Semplicemente, parrebbe di capire, perché altra è la verità del greco che ascolta l’aedo cantare di Odisseo. Il “multiforme ingegno” di Odisseo, come l’intelletto inesauribilmente metaforico di Nietzsche, è ingannatore solo per una verità che si pretenda fissa, immutabile, che non accetti traduzioni, trasferimenti, slittamenti, per una verità pietrificata. Il mito stesso di cui Odisseo è protagonista vive delle sue varianti e del suo possibile intrecciarsi con altri racconti e solo la fissazione pisistratea dei testi omerici situa da un lato Omero e dall’altro coloro che ne sono i detrattori, i ripetitori, i traditori. Solo da quel momento esiste, visibile, uniforme, una vera Odissea, solo allora ogni aggiunta o variazione è ritenuta apocrifa. Nietzsche intuisce tutto questo, comprendendo di conseguenza la portata ideologica della richiesta socratica di definizione e della nozione platonica di idea, anticipando molte conclusioni dei molti studiosi e filosofi contemporanei che, da Ong a Havelock a Derrida e Sini hanno sottolineato il passaggio epocale costituito in tal senso dall’invenzione e diffusione della scrittura alfabetica.
Anche rispetto all’inganno platonico è Odisseo la figura di riferimento positiva, ancora una volta l’eroe menzognero diviene campione della verità perché, con Edipo, capace di guardare in faccia la realtà:
Ritradurre cioè l’uomo nella natura (...) fare in modo che d’ora in avanti l’uomo stia di fronte all’uomo così come già oggi, indurito nella disciplina della scienza, sta di fronte all’altra natura, con gli occhi impavidi di Edipo e le orecchie sigillate di Odisseo, sordo alle arie adescatrici dei vecchi uccellatori metafisici, che con voce flautata gli hanno sussurrato fin troppo a lungo ‘Tu sei di più! Tu sei superiore! Tu hai un’altra origine!’.
Nietzsche intravede la risposta al problema dell’opposizione favola-verità nel riconoscimento del carattere strutturale e ineliminabile della “multiformità” dell’intelletto, perché la verità filosofica stabile è solo un riflesso di quello specchio sfaccettato, una metafora tra tante. L’identificarsi con Odisseo è insomma ammettere in modo oscuro, da buoni “figli di Dioniso”, che si sta giocando un ruolo sul palcoscenico della poetante libertà dionisiaca, che può cambiare, e la sapienza mitica è proprio la coscienza che ciò che è fisso è solo una forma temporanea assunta dal mutamento.
L’uomo cerca il punto fermo che dia senso al fluire della storia, del fiume eracliteo, e trova la sua risposta in un’architettura fragile e meravigliosa: la scienza. In essa le metafore, da cui anche le singole parole del linguaggio trovano la loro origine, sono come raggelate, dice bene Nietzsche, sminuite, risolte in schema, si organizzano in un ordine piramidale di caste e gradi, vengono incasellate in un reticolo artificioso cui la loro natura mobile e intrinsecamente individuale e irripetibile sembrerebbe irriducibile. La scienza appare quindi come un colombario romano, che contiene solo le ceneri del defunto, così come il concetto è solo residuo della metafora. Il fatto è che in questa forma transitoria di verità l’uomo non riconosce più il lascito artistico, ma solo un concetto necessariamente osseo, immutabile, con il suo significato rigidamente definito. Tuttavia, avverte Nietzsche, la presunta inalterabilità della tabella di marcia è costantemente minacciata dall’inesauribile vitalità del vero, la maschera apollinea è ancora un gioco, seppure un gioco munito di regole rigidissime.
4.4 Il carnevale dell’intelletto
Parlare di metafore, di figure di verità, di maschere o di favole è il medesimo. La scienza crolla per dissoluzione interna, scoprendosi di una stoffa nient’affatto differente rispetto ai suoi assedianti: l’impulso a formare metafore, sostiene Nietzsche, non è mai sopito e se per un istante sembra compiacersi di una sua creazione più meravigliosa di altre, quella della scienza e del linguaggio codificato, esso non può venir meno, “poiché in tal modo si prescinderebbe dall’uomo stesso”. La metafora riempie di sé il mito e l’arte, accostati da Nietzsche al sogno, e anche al gioco, di cui la scienza è una variante mummificata. In questi spazi, sorta di “riserve” in cui sopravvive una civiltà perduta, “l’intelletto celebra i suoi Saturnali” dove, conformemente a quel che succede nelle massime espressioni artistiche del popolo greco, si assiste a una mascherata degli dei in un instancabile succedersi di metamorfosi ingannevoli. L’ispirazione di fondo che ha creato la scienza non è sostanzialmente diversa, ma la superiorità del mito e dell’arte consiste nella consapevolezza della propria ingannevolezza. In questo senso essi sono un “sognare più vero” rispetto alla scienza. Nella Nascita della tragedia il popolo greco presenta una saggezza superiore all’umanità moderna, come quella dell’artista rispetto allo scienziato, in quanto si lascia coinvolgere dall’inganno artistico, anzi, lo crea per far fronte alla terribile scoperta della verità dionisiaca, ma non perde coscienza del suo carattere fittizio.
Inoltre arte, mito, metafora, gioco e sogno sono, nella Nascita della tragedia, fenomeni posti sotto il segno di Apollo, come la scienza: Apollo finisce sempre per parlare la lingua di Dioniso e questo i Greci lo sanno bene. Lo scompaginamento delle categorie e delle gerarchie, tipico del sogno, la variabilità caratteristica del mito (la cui la fissazione scritta è un “tradimento”) e l’abbellimento artistico in tutte le sue forme si presentano non tanto come risposte e contromosse alla visione terribile resa possibile dall’ebbrezza dionisiaca, ma come sue raffigurazioni o traduzioni metaforiche. Il mito e l’arte non sono rigidi quanto la scienza perché mantengono aperta la loro comunicazione con Dioniso, esaltandolo nella loro poliedricità, che risulta terribile soprattutto per chi non ne abbia compreso o ne tema lo spirito fanciullesco di creatore di mondi e vi veda una minaccia all’ordine costituito, ordine che si rivela invece, nell’analisi nietzscheana, dionisiaco per origine, votato al movimento e alla trasformazione: “Dioniso non si presenta mai altrimenti che in una forma di autointerpretazione, ovvero con una delle infinite maschere apollinee del divenire vitale. Il germinare, il manifestarsi della vita ora in una e ora in altre prospettive, indica che la vita è sempre prospettiva sulla vita e non mai vita universale in sé”. Il sogno è la veglia di un popolo stimolato dal mito che vede il mondo come mascherata degli dei; infatti nel mito tutto è possibile e in esso si confondono ordine divino e ordine umano: il dio è un toro o sta sul carro accanto a Pisistrato, il re diviene mendicante e la divinità si fa ospitare dai mortali sono gli esempi di Nietzsche tratti dalla mitologia greca; ma reggere il gioco del mito richiede un potente volere di illusione e mascheramento. Nietzsche esclama, nella conferenza Socrate e la tragedia:
E’ ridicolo pretendere che una Musa così piena di mistero e così seriamente ispirata com’è la Musa della musica tragica debba cantare nell’aula del tribunale, nelle pause tra le contese dialettiche.
La tragedia euripidea, risolvendo il dramma con l’interevento del deus ex machina, introducendo il prologo e le “contese dialettiche” si avvia verso un tentativo di spiegazione di ciò che accade che trascende l’intento del racconto mitico e toglie la profondità al movimento del principio cercando di fissarlo in categorie e concetti che non gli corrispondono a causa della loro rigidità. E allora, scrive Nietzsche nella Nascita della tragedia:
E perciò l’immagine di Socrate morente, come dell’uomo sottratto dal sapere e dalla ragione alla paura della morte, è l’insegna che, posta sulla porta d’entrata della scienza, ricorda a ognuno la destinazione di essa, che è quella di far apparire l’esistenza intelligibile e quindi giustificata: a questo, comunque, quando le ragioni non basta, deve servire in definitiva anche il mito, che io ho or ora persino indicato come conseguenza necessaria, anzi come scopo della scienza
5. Un mito per il presente
5.1 Il “grembo materno”
Il mito non rappresenta nella riflessione niciana soltanto un riferimento indispensabile per occuparsi adeguatamente della cultura greca, ma costituisce una vera e propria modalità conoscitiva, una forma di sapere, con cui approcciarsi alla realtà al punto che la presenza o assenza del mito in una certa epoca determina un giudizio positivo o negativo su di essa. La mancanza del mito nella contemporaneità è infatti uno dei tratti che fa giudicare a Nietzsche il proprio tempo come decadente e malato. In particolare, la conoscenza e la cosmologia mitiche vengono opposte alla mania storicistica ottocentesca, sostanziando l’opposizione tra umanità integrale e umanità frammentaria dello specialismo moderno, opponendo ai giganti dell’antichità gli spensierati ingegneri e la cultura borghese delle gazzette, la caparbia capacità di affrontare la terribile verità dionisiaca con la pusillanimità di chi si appiglia ai valori consolidati come baluardo contro il selvaggio fiume del divenire, di chi ritiene che ormai tutto sia avvenuto e niente resti più da fare, che l’umanità sia ormai perfetta e felice e non una concrezione apollinea da superare ancora un’altra volta.
La fusione di apollineo e dionisiaco realizzatasi nella tragedia corrisponde a un risultato socio-culturale fondamentale che spiegherebbe la grandezza della cultura greca: l’opera tragica riesce a strutturare al proprio interno un mito, vale a dire una coerente forma di narrazione e raffigurazione di una visione cosmica, quella dionisiaca, terribile e così coinvolgente e totalizzante da apparire a tutta prima non formulabile in termini umani, in parole che non siano grida animalesche. Proprio l’intreccio tra la possibilità dell’ordinamento rappresentativo-concettuale e l’assoluta inafferrabilità del divenire deve essere salvaguardato.
Il Capitolo 23 della Nascita della tragedia mostra esemplarmente la distanza colta da Nietzsche tra il passato tragico e il presente sommerso dal senso storico. La capacità di raccogliere in un mito, vero e proprio schema cosmico, le esperienze di un popolo contraddistingue la cultura viva e pulsante, che sa guardare in modo dinamico all’universo che la vede protagonista, che sa artisticamente prendere atto delle proprie illusioni. Con la tragedia l’uomo greco non fa valere un’istanza di verità intesa nel senso della corrispondenza oggettiva della rappresentazione ad un dato, ma piuttosto tesse i fili di un racconto, della propria strutturazione di un mondo in tutte le sue diramazioni religiose, morali, politiche, naturali: il mito è per Nietzsche senza residui “immagine concentrata del mondo” o “abbreviazione dell’apparenza”, un modo di mettere ordine e orientarsi nel flusso degli eventi e dei pensieri da parte di un popolo che voglia strutturare una cultura unitaria e globale, dotata di una forma definita. Ironicamente, Nietzsche chiede al suo lettore di valutarsi come spettatore: si sente empaticamente coinvolto da quanto vede sulla scena della tragedia oppure appartiene alla cerchia degli spettatori “socratico-critici” che si sentono offesi dall’assenza di una causalità psicologica rigorosa e concedono il loro assenso conciliante e benevolo a tale espressione artistica quasi si trattasse di un peccato di gioventù dell’umanità?
Ma è probabile che quasi tutti, ad un esame rigoroso, si sentano talmente disgregati dallo spirito critico-storico della nostra cultura, da concepire come credibile l’esistenza passata del mito forse solo per via erudita, mediante la mediazione di astrazioni. Senza mito, però ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza naturale: solamente un orizzonte attorniato da miti può raccogliere in unità un intero movimento di civiltà. […]Si metta ora accanto a ciò l’uomo astratto, non guidato da miti, l’educazione astratta, il costume astratto, il diritto astratto, lo Stato astratto; s’immagini il vagare senza regole della fantasia artistica, non frenato da alcun mito patrio; ci si rappresenti una cultura senza alcuna sede originaria fissa e sacra, condannata a consumare tutte le possibilità e a nutrirsi miseramente di tutte le culture – questo è il presente, il risultato di quel socratismo teso all’annientamento del mito. E ora l’uomo privo di miti sta in mezzo a tutti i passati, eternamente affamato, e scavando e frugando cerca radici, anche a costo di rintracciarle nelle antichità più remote. Cosa esprime l’enorme bisogno storico dell’insoddisfatta cultura moderna, il sovrapporsi di innumerevoli altre culture, la divorante volontà di conoscere, se non la perdita del mito, la perdita della patria mitica, del mitico grembo materno? Ci si chiede se il movimento febbrile e così perturbante di questa cultura sia qualcosa di diverso dall’avidità di un uomo affamato che cerca di afferrare e di ghermire cibo – e chi vorrebbe dare ancora qualcosa ad una tale cultura, che da tutto ciò che ingoia non è mai saziata, e al cui contatto il nutrimento più sostanzioso e salubre suole mutarsi in “storia e critica”.
Il brano mostra una evidente contrapposizione tra mito e storia dove il polo positivo coincide innegabilmente con il primo. Al mito corrisponde una cultura unitaria, in cui l’individuo riesce a collocarsi, a dare e costruire senso, mentre una cultura impregnata di storia è connotata come ricerca inesausta e avida di un kòsmos in cui posizionarsi, che di fatto finisce per disperdersi nei mille rivoli del reperimento di dati, degli studi settoriali e specialistici, una sorta di fame senza requie, golosa di nuovi oggetti da porre nella bacheca della conoscenza. La cultura storica di cui in queste pagine è invece associata all’immagine di morte del colombario concettuale di cui si è parlato: il sapere storico è insaziabile, fruga ovunque, ma al fondo di tutto questo scavare sta una mancanza apparentemente incolmabile, l’assenza di un mito fondatore, materno, originario, sentito e condiviso entro cui tutti questi saperi sgretolati e specialistici possano trovare un coordinamento e in cui soprattutto possa trovare posto un passato, senza che la disseminazione disorientante prenda il sopravvento. La storia è dunque da un lato sintomo dell’assenza di un mito unitario per la civiltà contemporanea, dall’altro tentativo sempre frustrato, perché mal impostato, di dar risposta alla ricerca di un “grembo materno”.
Tale ambiguità del sapere storico resta costante in Nietzsche: utilità e danno sono congiunti al termine storia nel titolo della Seconda Inattuale. L’assenza di una “mappa” mitica, d’altra parte, fa sì che si annientino tutte le forze creative di un’epoca, che non trova né un centro né un fine e, disperdendosi, riesce solo ad avvelenare anche il nutrimento più prezioso, le sue radici, traducendolo proprio in storia e critica. Il sostituirsi della storia al mito finisce dunque per provocare un irrigidimento e inaridimento delle forze vitali: il mito può sempre ricrearsi, rimodellare i propri racconti, operare nuovi tagli prospettici, mentre la storia sembra condannata a collezionare reperti, fissare contenuti, operare un distacco dal pathos della vita (l’accostamento della storia alla critica non è affatto casuale), che di fatto si tramuta in sradicamento dal grembo materno.
Paradossalmente, il gran numero di ricerche maschera un’assenza di cultura, un ripiegamento su se stesso di chi, osservando tutto ciò che sta attorno con la venerazione che si attribuisce ai classici, ritiene che non vi sia più nulla da produrre, che non si debba più cercare e creare, bensì semplicemente fruire delle scoperte fatte in passato.
Questo modo di fare storia inibisce l’azione, sottrae entusiasmo al presente, crea un passato che è meramente passato e come tale morto, lontano dalla vita e, celebrato o vituperato che sia, non fornisce quell’humus materno necessario perché la storia possa fungere da concime del presente. Tutto assume un proprio senso nell’alveo del racconto mitico: centrale è in questo contesto il mito tragico, quella trasfigurazione plastica in personaggi e vicende del sostrato dionisiaco dell’universo che si offre come puro fluire di eventi inseparabili l’uno dall’altro, privi di ordine e linearità, avulsi da quel principium individuationis che sta al fondo della possibilità dell’arte come della scienza, e della scienza storica tra le altre, cioè di quella forma dai contorni definiti che si sviluppa in modo puro e assoluto nell’arte apollinea della scultura. Il mito sa però operare questa trasfigurazione mantenendosi vicino all’unità originaria del dionisiaco, non lo tradisce trasformando la propria costruzione apollinea in feticcio, ma traduce in forme comprensibili sul palco la visione dei satiri.. I Greci vivevano tutto quanto accadeva loro comprendendolo entro un racconto mitico, che dava ordine, scandiva i ritmi della vita e in tal modo “anche l’immediato presente appariva loro sub specie aeterni e in certo senso come privo di tempo”, mentre nella cultura ottocentesca si può osservare “una frivola divinizzazione del presente oppure un ottuso e sordo distacco, tutto sub specie saeculi”. L’epoca attuale, pur sempre alla ricerca di una “forma metafisica” che sappia occupare il trono lasciato vuoto dalla rete di ancoraggio costituita dal mito, trova tuttavia tale forma nel sapere storico concretizzantesi in una febbrile ricerca che si smarrisce letteralmente in una congerie di miti e superstizioni. Ciò che si perde, in tale passaggio, è in primo luogo la giusta prospettiva nei confronti del tempo: il presente del greco è eternizzato nel mito e diventa così la scaturigine del proprio racconto sul passato e sul futuro, per cui il momento presente si inserisce armoniosamente in un quadro perfetto. Le cerimonie che ricordano gli eventi della nostra storia, gli anniversari, gli altari della patria e i monumenti ai caduti sono il tentativo, in effetti, di ricreare un pantheon, di dare a un popolo una vicenda collettiva in cui riconoscersi, un padre e una madre, un nome. Il mito difende dal non senso e dalla paura di agire perché offre un grembo accogliente in cui ritrovare “il sigillo dell’eterno” da imprimere sul proprio presente; la concezione storica della modernità, invece, sa solo accumulare particolari, dettagli, senza riuscire a connetterli in una rete ordinata. Tutti questi frammenti restano isolati fili sparsi che impediscono una visione unitaria del tempo, il sentirsi parte di una tradizione e di un mondo di cui si riesce a vedere solo qualche fotogramma isolato e non lo svolgimento. E’ chiaro che il passato, nell’epoca dello spezzettamento, non può offrirsi all’intellettuale nella sua fecondità: egli non può cogliervi alcuna radice per il presente dal momento che non sa adottare la giusta prospettiva unificante.
Il disprezzo aristocratico per l’epoca presente come decadenza rispetto a un passato classico così come la divinizzazione dello stesso presente nella cultura giornalistica dello scoop, in una precoce epocalizzazione degli eventi, immediatamente definiti mitici e eccezionali solo per distanziarsene non sono che volti della medesima miopia nei confronti della storia, della “buona” storia. Come ha scritto bene Jacques Derrida, l’uomo contemporaneo tende a allontanare da sé, dalla propria casa, gli eventi più sconvolgenti, in particolare la nascita e la morte (spostate negli ospizi e negli ospedali), ma anche la povertà e il disagio, per non subirne la carica dirompente, per non essere costretto, da essi a rivedere la propria pacata routine.
5.2 Il mito e l’azione
L’effetto del teoreticismo socratico sulla storia dell’Occidente è stato quello di portare a una sempre più efficace struttura di categorie e concetti entro cui inquadrare la natura, il proprio tempo, il proprio spirito così da non far sentire mai l’uomo infondato, fortuito, arbitrario, ma da riuscire sempre a dargli un nome e un posto. Tale griglia ha finito però per diventare una gabbia, imponendosi come vera struttura del mondo, indiscutibile e rigidamente applicabile in ogni luogo e tempo. L’uomo teoretico ha così potuto classificare ogni minimo dettaglio nel proprio reticolato concettuale offrendo a se stesso il miglior travestimento possibile contro la paura del caos. La negatività del percorso non risiede tanto nella produzione dello schema, quanto nel suo imporsi come unica e assoluta realtà di riferimento. Il travestimento operato dall’apparenza è infatti per altri versi necessario alla sopravvivenza, proprio perché in esso consiste la possibilità di strutturare un orizzonte delimitato, condizione necessaria perché si possa dare l’azione. Il dramma del presente storicistico è però l’irrigidimento delle categorie, cioè quel “travestimento dell’uomo decadente che non sa prendere iniziative e si maschera assumendo ruoli stereotipati”. La malattia storica si manifesta come uno smisurato accrescersi del nozionismo storico cui non corrisponde alcuna capacità di mobilitazione, azione. Il sapere storico, se è collezione di nomi e date, resta privo di effetti, scrive Nietzsche, e dunque un uomo che conosce a menadito la storia di tutti i popoli non sa necessariamente trasferirne gli insegnamenti nell’azione, ma, anzi, proprio per l’incapacità di orientarsi in essa e di tradurla in “sangue” e “nutrimento”, per usare la semantica biologica dell’Inattuale, mantiene al di fuori una formalità e un’etichetta impeccabili, un adeguamento alle mode e alle forme volute dal presente. Nietzsche trova immagini emblematiche per delineare lo stato di questi uomini di cultura, come privati di un’atmosfera, di una nube avvolgente di illusione o di un “grembo materno” culturale che davvero appartenga loro, che hanno meramente acquisito e non interiorizzato i contenuti della loro cultura.
Tutto ciò che è vivo ha bisogno di avere intorno un’atmosfera, una misteriosa sfera vaporosa; se gli si toglie questo involucro, e si condanna una religione, un’arte, un genio a girare come un astro senza atmosfera, non ci si deve più meravigliare del loro rapido inaridirsi, irrigidirsi e isterilirsi.
L’individuo storicamente acculturato sembra a Nietzsche incapace di farsi carico del reale, che gli scorre sopra senza lasciare traccia. La storia dunque è un bagaglio enorme e pesante che confonde, rumoreggia senza dare armonia, e resta totalmente privo di effetti sul reale, da cui, anzi, distoglie pericolosamente.
L’uomo contemporaneo, scisso tra un’ipertrofia di sedicente sapienza interiore e la sua inerzia sul versante dell’azione trasformatrice, è il frutto del diluvio di informazioni sul passato che lo ricoprono. Ma anche questo presente soffre di una storicizzazione tanto precoce quanto effimera: i fatti del presente “pompati” e diffusi in migliaia di copie dai giornali (e il giornalista, si ricordi, è bollato come “cartaceo schiavo del giorno”) divengono immediatamente memoria, prima ancora di essersi conclusi. Lungi dall’essere la prova di una memorabilità di tali eventi o di una stima da parte dei contemporanei per se stessi, al punto da ritenersi degni di poter far compagnia ai grandi del passato, tale operazione corrisponde piuttosto alla volontà di rendere subito distante, sterile, privo di effetti l’evento, così come lo sono i comodi e venerabili fatti storici, di cui non ci si deve far carico, ma che ci si può limitare a ammirare.
Colui che è storicamente sapiente, anche nel senso di colui che conosce tutto del presente per averlo letto sui giornali, diventa un serbatoio di morti fatti. La storia così conosciuta e non vissuta è il risultato dell’oggettivazione del fatto storico, ridotto in tal modo all’“impotenza”, anche nel significato sessuale del termine, incapace di generare alcunché, ma solo ulteriore aggiunta alla catena di anelli indistinguibili di ciò che fu. Una storia per la vita deve essere in grado di scegliere, di riattivare i momenti della storia, non di classificarli in scaffalature inerti. Anzi, deve essere capace di una speciale e selettiva forma di oblio.
6. Raccontare la filosofia
6.1 Il “romanzo” di Zarathustra
Si può attribuire l’aggettivo mitico al pensare niciano non solo in quanto il mito è in esso importante oggetto di riflessione e di giudizio sul presente, ma anche perchè la peculiarità della scrittura niciana è quella di raccontare la filosofia: non è con lo strumento del trattato che Nietzsche espone la sua filosofia, ma con la narrazione. I grandi contenuti della riflessione niciana trovano infatti esposizione sotto forma di episodi di un ideale romanzo filosofico, il cui esperimento più compiuto è indubbiamente il Così parlò Zarathustra di cui non è qui possibile analizzare tutte le sfaccettature favolistiche e mitiche. Basta accennare che chiarissimo è il rimando di Zarathustra alla figura di Cristo e alle forme della predicazione evangelica. Come Gesù, Zarathustra inizia la sua predicazione a trent’anni, dopo un periodo di meditazione sui monti (corrispondenti al deserto del Vangelo), come lui ha dei discepoli, come lui è un profeta itinerante di un regno “a venire”, come lui è sbeffeggiato e deriso per la rivoluzionarietà del suo messaggio, come lui spesso si esprime mediante parabole, che talvolta assumono la struttura di racconto entro il racconto. La filosofia di Nietzsche è un viaggio, innanzitutto un viaggio nella storia della filosofia, favola delle favole, capace di creare un mondo vero di idee e concetti ultraterreni che occorre far implodere dall’interno, passandoci attraverso; un viaggio nella decadenza “morale” della contemporaneità; è il cammino di Zarathustra che diffonde la sua buona novella annunciando il superuomo e la sua dottrina
Occorre segnalare come molte parabole di Zarathustra siano veri e propri miti nel loro intento: secondo l’interpretazione niciana del mito che è venuta sinora emergendo, essi sono spiegazioni del divenire che non ne vogliono tradire l’intima insensatezza e sono manifestazioni di un’acuta consapevolezza della propria condizione, che consente (a differenza della cultura storica) di prepararsi all’agire tenendo conto delle condizioni “divenienti” in cui l’azione si colloca.
Ma i discorsi di Zarathustra sono mitici anche per la loro capacità di generare miti, che non a caso hanno affascinato, pur nelle loro distorsioni e semplificazioni, l’immaginario della cultura novecentesca: come i miti greci essi hanno saputo dar forma a un mondo. Basti pensare alla ripresa dannunziana, a quella, volutamente superficiale, del nazionalsocialismo, alla fama acquisita, dai concetti chiave della filosofia niciana proprio grazie alla loro plastica e narrativa configurazione, che li rende affascinanti e indimenticabili.
6.2 Il tempo mitico dell’eterno ritorno
Il racconto scandisce il tempo, con la sequenza del prima e del poi, dà ordine, dettando un ritmo che riproduce il respiro del mondo, ma al tempo stesso ne prende le distanze: raccontare è un contare una seconda volta, un ripetere, riprodurre, rifare a distanza, una replica che dà nome e senso all’originale. E la filosofia, per sua natura, è riflessione sulla vita mentre si è nella vita, capacità di prendere distanza da sé (dal proprio vivere) mentre si sta vivendo, ri-contare, darsi ancora una volta l’origine, riandare con la memoria e il necessario oblio che non paralizza l’azione a quello che dell’origine si vuole ricordare, richiamare e custodire in sé (nel cuore), per prendere lo slancio andando oltre: così fa la madre con il figlio raccontandogli la sua nascita o la sua attesa; così, in una storia d’amore, in un momento di crisi o di gioia si raccontano le tappe che hanno condotto fin lì i due innamorati, per fare il punto e avanzare. È nel qui e nell’ora che avviene la ripetizione del conteggio, il racconto di ciò che è stato allora, in origine. “Fai un respiro e conta fino a dieci”, si dice a chi è troppo coinvolto o in ansia per qualche situazione, cioè: “Prendi le distanze, pensa prima di agire, osserva da una prospettiva nuova quanto accade”.
Ecco allora l’enigma dell’eterno ritorno, enigma del tempo di cui Nietzsche fornisce nello Zarathustra diverse rappresentazioni mitiche. Mi soffermerò su due, affiancate nelle celebri pagine di “Della visione e dell’enigma”. Zarathustra è in viaggio su una nave e, richiesto dall’equipaggio, inizia a raccontare un episodio della sua vita, sospeso tra il sogno e la veglia:
1) Zarathustra narra di essersi trovato su un sentiero che lo conduceva in alto, impervio e in cattivo stato, accompagnato, o meglio oppresso, dalla presenza di un nano sulla sua spalla, lo spirito di gravità. Il nano rappresenta nella sua piccolezza e deformità l’umanità rattrappita, incapace di innalzarsi alla vera comprensione del divenire, arroccata su valori ormai consunti, incapace di una visione abissale, dionisiaca, drammatica, ma liberatoria. La gravità, in tutto lo Zarathustra, è ciò che connota l’ultimo uomo, opponendosi allo spirito libero che ride, danza, gioca. Il nano propone a Zarathustra un nichilismo improduttivo: gli dice di non affaticarsi a salire in alto, poiché tutto è destinato a ricadere, come un sasso lanciato e allo stesso modo il cammino di ogni uomo e di ogni cosa non ha senso e dunque non vale la pena di affaticarsi e agire. Questa fiacchezza dell’azione che Nietzsche altrove attribuiva allo storicismo del suo tempo diventa in questo racconto una terribile tentazione. Il nano non si fida più dei valori ultraterreni e neppure delle favole della filosofia, è la pusillanimità che alberga ancora dentro Zarathustra, è la visione deteriore dell’eterno ritorno. Infatti il nano non lo nega come conferma la sua celebre battuta: “Tutto ciò che è diritto mente. Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo”. Ma il nano dà solo una lettura possibile dell’eterno ritorno, come un inesausto tornare delle medesime cose inalterate, insensate sofferenze di un umanità ormai provata. Il rischio, a quel punto, è la caduta in un fatalismo per cui, se tutto ritorna, significa che tutto è già accaduto e, pertanto, qualunque azione risulta vana ai fini del cambiamento. Ma l’immagine che si presenta davanti a Zarathustra è quella di una porta con la scritta “ATTIMO”, alla confluenza di due strade inscindibili che si congiungono in quel punto: un’eternità davanti e un’eternità dietro. Il tempo del superuomo si concretizza proprio sotto la porta dell’attimo e lì assume il suo senso più autentico, quello espresso dalla seconda visione….
2) D’improvviso scompaiono il nano, la strada, la porta e Zarathustra si trova vicino un cane ululante e un pastore scosso da convulsioni dalla cui bocca pende un serpente che lo sta uccidendo: Zarathustra comprende in un lampo che cosa occorre fare e urla al pastore: “Mordilo!”. In quell’urlo si schiude il senso autentico dell’eterno ritorno. Il serpente è infatti il cerchio che può soffocare con le sue spire la volontà di agire. Lo spirito libero riesce a mordere l’eterno ritorno, a attaccarlo, nel senso che in ogni attimo racconta nuovamente la propria origine, ritrova il proprio passato e in esso lo slancio per ciò che ancora c’è da fare. Il significato del raccontare mitico come racconto dell’origine si incarna anche nel mito che spiega l’eterno ritorno: il mito è vita perché consente di inquadrare nel divenire eterno l’entità e il ruolo del proprio agire, qualificandolo come concrezione di quel flusso diveniente, attribuendogli questo valore passeggero, ma non per questo annullandone la forza e soprattutto affermandone l’inesauribile creatività. Al tempo stesso l’adeguata comprensione dell’eterno ritorno afferma la possibilità sempre aperta di darsi un’origine e una storia, un possibile appiglio per la propria azione
Va innanzitutto elaborata nell’animo umano un’accettazione dell’eterno ritorno, posto come ipotesi capace di trasformare l’uomo e come esperimento mentale per setacciare il suo atteggiamento verso la storia, in primo luogo inteso come passato della propria vita e azione futura del singolo. L’eterno ritorno si abbatte sull’uomo come una eterna sanzione (così, con un altro racconto dialogico, viene presentato nella Gaia scienza) che discrimina sulla base dell’amore per la vita. In altre parole, l’eterno ritorno libera l’attimo dalla catena rettilinea del tempo, facendolo eternamente tornare, e donando a ogni singolo atto umano un respiro eterno. Infine, l’eterno ritorno dell’identico implica una piena accettazione della vita, con le gioie e i dolori indistricabilmente intrecciati.
E sapete che cos’è per me “il mondo”? Ve lo devo mostrare nel mio specchio? Questo mondo: un mostro di forza, senza principio e senza fine, una salda, bronzea massa di forza, che non diviene né più grande né più piccola, che non si consuma ma soltanto si trasforma, un complesso di grandezza immutabile, un’amministrazione senza spese né perdite, ma del pari senza accrescimento, senza entrate […] questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso del perpetuo distruggere se stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è uno scopo nella felicità del circolo, senza volontà, se un anello non ha buone volontà verso se stesso – volete un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? Una luce anche per voi, i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impavidi, i più notturni? – Questo mondo è la volontà di potenza - e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!
Con questo grandioso aforisma in cui, scrive Fink, “tutto si trova riunito”, Nietzsche osa guardare nello specchio cosmico per vedervi un ribollire di forze limitate il cui configurarsi deve necessariamente ritornare identico, data la finitezza del numero delle forze rispetto all’eternità del tempo. Egli associa ambiguamente la figura del circolo e dell’anello all’inesauribilità della volontà di potenza e trova la composizione del conflitto, non nel senso dell’annullamento, ma della compresenza dei contendenti, nella figura di Dioniso. Il concetto di affermazione e lotta fa da contrappunto rispetto all’apparente ripetitività della circuitazione, introducendo la componente più propriamente creativa e innovativa. L’intuizione essenziale è la necessità della convivenza dell’eterno ritorno con la volontà di potenza entro il gioco del mondo: il cosmo non ha senso e meta proprio perché i sensi sono in esso, sgorgano entro il suo gioco, sono “voluti” in esso, ma mostrano il loro aspetto finito nella necessaria dinamica di oltrepassamento richiesta dalla temporalità. L’apertura al futuro promossa dalla volontà di potenza si determina come superamento incessante di mete raggiunte, pertanto il creare stesso è distruggere l’esistente per il non ancora presente. Tuttavia il tutto cosmico è concepito al tempo stesso come eterno ritorno dell’uguale. La volontà di potenza è desiderio di forma e stabilità, mentre l’eterno ritorno travolge le forme, rende ogni futuro già ripetizione e dunque già passato.
Il recupero, con il concetto di eterno ritorno, della ricorsività temporale, reintroduce la significatività della singola azione, alleviando il peso di poter essere solo epigoni di un “già stato”, ma affidando all’umanità la nuova responsabilità di costruirsi il proprio tempo, così da poter nell’attimo concentrare l’insegnamento del passato e la decisione per il futuro, pronti a ricostruire in ogni istante tutto il cerchio daccapo: ogni evento ci appare sotto una luce differente a seconda del punto del cerchio in cui ci troviamo, e di questa impossibilità di dare una lettura univoca della storia bisogna farsi carico, sapendo che in tal senso in ogni secondo ci si gioca la propria esistenza, ma, anche, che in ogni secondo si può cambiare il corso degli eventi. La storia condiziona il nostro modo di porci rispetto al presente e al futuro, ma è d’altra parte lo stesso presente a proiettare la sua luce sul passato, scegliendo di illuminarne ora un aspetto, ora l’altro.
Come Platone, dunque, Nietzsche utilizza il mito per dare forma ai concetti più complessi rendendone intuitivamente chiara la struttura di fondo; e come Platone, Nietzsche sfrutta il pathos del mito, la sua capacita di coinvolgimento emotivo, per il suo insegnamento, così che le rappresentazioni si incidano in profondità nello sguardo e nel cuore del lettore, inducendolo letteralmente a cambiare vita.
Un particolare della raffigurazione merita attenzione, come esempio della complessità e a un tempo immediatezza della raffigurazione mitico-narrativa: sin dalle prime pagine dello Zarathustra il serpente, assieme all’aquila, accompagna Zarathustra. Nietzsche vede dunque in esso una minaccia, ma anche l’astuzia (l’aquila rappresenta invece la superba potenza del superuomo), la capacità di prendersi gioco e mettere in scacco il possibile soffocamento della circuitazione eterna. È interessante il rovesciamento ambiguo del ruolo del serpente rispetto alla mitologia cristiana: il serpente, specie quello della conoscenza, resta temibile…se non lo si sa mordere. Se invece lo si morde esso diventa un prezioso alleato nella strutturazione della propria esistenza. Si ricordi, poi, che il serpente è tra gli attributi di Dioniso, la figura mitica niciana per eccellenza.
6.3 La metamorfosi
L’altra narrazione cruciale su cui vorrei soffermarmi è quella che apre la prima parte dello Zarathustra, il celebre discorso “Delle tre metamorfosi”. Intento del discorso è quello di presentare il percorso che va dall’uomo al superuomo e Zarathustra utilizza uno strumento narrativo che si ritrova in numerosissimi miti: la metamorfosi. Lo Zarathustra nel suo complesso è un grande invito al cambiamento, sia nel senso che prospetta e invita a un diverso atteggiamento dell’umanità nei confronti della realtà, che fuoriesca dalle secche della fissità delle griglie metafisiche, scientifiche, morali e recuperi la creatività umana nell’ambito dei valori, delle azioni e delle scoperte, sia nel senso che invita all’accettazione del cambiamento, del divenire, come struttura chiave del reale. Spesso nei miti greci e nelle favole si assiste alla trasformazione (di divinità in uomini o fenomeni naturali, di uomini in fiori e stelle, di re in mendicanti, di rospi in principi, di zucche in carrozze…), punizione o manifestazione di potenza o innalzamento al rango divino. La metamorfosi è perfezionamento o degrado, esattamente come l’ultimo uomo è un nano, il superuomo stella danzante e così via. Interessante, nel discorso delle tre metamorfosi, è la forma evolutiva assunta dal percorso metamorfico: da cammello, a leone, a fanciullo. Ma il punto d’arrivo non è l’uomo adulto, bensì un fanciullo: il superuomo è un uomo capace della catabasi nell’inferno della distruzione dei propri valori, di cui si fa carico come un animale da soma, capace del passaggio al rifiuto leonino, ancora solo negativo e non produttivo. Il leone resiste alle adescanti proposte, apparentemente rassicuranti perché di nuovo propongono uno schema valoriale, del drago del “tu devi”. Il drago, mostro terribile di ogni favola, ha squame lucenti, ma il leone ha la regalità selvaggia della forza di affermazione. Il leone, si ricordi, è uno degli animali associati a Dioniso. La catabasi si chiude con il tornare “a riveder le stelle”, con un’innocenza nuova: la capacità, scovate, in un modo terribile e lacerante, le origini umane, troppo umane dei propri valori e delle proprie certezze, di accettare il divenire cosmico. Questa nuova libertà è quella del fanciullo che gioca e che, come il fanciullo dei mondi eracliteo, nell’interpretazione niciana, costruisce e distrugge i propri castelli con spensierata innocenza. Un fanciullo è Dioniso quando, giocando, viene sbranato dai Titani, un fanciullo è il superuomo: entrambi sono bambini “sapienti”, che conoscono l’origine del proprio agire e sanno vivere armonizzandosi con la sua mancanza di senso che consente di creare sempre un senso nuovo, dare sempre linfa vitale a quello che si sta compiendo.
E’ interessante scoprire, in questo fanciullo, Dioniso-superuomo, un archetipo mitico antichissimo che agisce anche, sicuramente, nel frammento eracliteo che Nietzsche apprezzava, come tutta la filosofia dell’oscuro pensatore di Efeso. Il bambino, e con lui l’uomo, diventa dio creatore allorché scopre l’innocenza del proprio gioco e sposta le pedine, nella consapevolezza della loro sempre arbitraria disposizione. La figura del fanciullo-dio è un archetipo mitico di grande forza e diffusione, che passa poi nella tradizione favolistica di diverse civiltà. Nel suo studio sul “fanciullo divino” Kàroly Kerényi rimarca ripetutamente che la fanciullezza della divinità non rappresenta nel racconto mitico un momento biografico, quanto piuttosto una condizione esistenziale della divinità (o anche dell’eroe) che ne segnala l’eccezionale forza e abilità oltre che il ruolo cosmico, dal momento che ogni divinità crea, con la propria nascita, un nuovo mondo. Il dio bambino, precisa Kerényi, non è perciò meno potente, ma è nel pieno della vita e del suo senso divino. La caratteristica comune dei fanciulli divini protagonisti degli antichi mitologemi è da ritenere, dati i risultati dell’analisi comparata di poemi epici di tradizioni differenti, dal finnico Kalevala all’indico Mahābhārata, la loro condizione di orfani abbandonati, per lo più in una situazione di grave pericolo in cui il padre è il maggiore nemico (come Chronos per il neonato Zeus) oppure risulta colpevolmente assente (come nel caso di Zeus allorché Dioniso è sbranato dai Titani).. Lo scandaglio dell’immaginario mitico antico consente l’emergenza di un sottofondo comune riassumibile in due tratti:
La solitudine del fanciullo divino e, d’altra parte, la sua familiarità con il mondo primordiale. Situazione che ha un doppio aspetto: situazione del fanciullo orfano e, nello stesso tempo, del figlio amato degli dei.
Il fanciullo divino, inoltre, affrontando inaudite peripezie, dimostra una forza fisica e un’abilità assolutamente incompatibili con la sua età anagrafica, producendo una compresenza paradossale della massima forza nell’estrema debolezza dell’infanzia. La triste solitudine dell’orfanello coincide dunque con la solitudine dell’essere elementare-primordiale, e infatti molto spesso sono proprio gli elementi fondamentali aria, acqua, terra e fuoco che esaltano la forza dei fanciulli mitici. Questa solitudine primordiale spesso trova un’immagine potente nell’emergenza epifanica del dio bambino dall’acqua (oppure su una nave, miticamente equivalente):
E’ il Fanciullo nella Solitudine del Primo Elemento, il Fanciullo che è una forma di sviluppo dell’Uovo, come tutto il mondo è una sua forma di sviluppo.
Nelle pagine successive del suo saggio, inoltre, prendendo in considerazione le figure di bambini divini più note della grecità da Apollo a Hermes, da Eros ad Afrodite, sino a Dioniso e Zeus, Kerényi accenna, a proposito di Hermes alla sua connessione, da un lato, con Afrodite, nata dalle acque per opera del fallo di Urano, evirato da Chronos, nell’essere bisessuato primordiale (ermafrodito), dall’altro alla sua prima impresa infantile: una tartaruga, essere che rimanda nel mito alla sterminata antichità, portatrice del più profondo strato cosmico, il Tartaro, diviene giocattolo e vittima del piccolo dio ingegnoso che con il suo guscio fabbrica la prima lira, anch’essa dotata di valenza cosmica, poiché tra le mani del bimbo esprime la musicalità del mondo, il suo ordinamento ritmico-musicale. Il mito di Zeus, fanciullo che ha nel padre, timoroso di perdere il regno, il suo primo nemico, presenta con la massima evidenza il nascere in lui e con lui di un nuovo ordinamento cosmico. Tuttavia l’infanzia non ha tanta importanza nel culto di alcuna altra divinità – a prescindere da Zeus – quanta ne ha nel culto di Dioniso. Anch’egli ha la sua epifania acquatica (l’acqua come elemento materno) e la sua raffigurazione, come quella di Hermes, è spesso nella forma di un fallo (a segnalare la fecondità potente e creatrice) e spesso presenta una natura bisessuata. La sua primordialità, unita alla sua presenza anche nelle raffigurazioni sepolcrali, quasi alludendo alla similarità tra bambini e morenti nella loro condizione di confine tra esistenza e non esistenza, gli conferisce la patente di fanciullo cosmico per eccellenza.
Il fanciullo-superuomo è un’altra trasfigurazione di Dioniso, che si manifesta così la cifra concettuale e iconica della filosofia niciana che si iscrive così a tutti gli effetti nell’orizzonte del mythos.
Micol Guffanti
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