BREVIARIO DEL CAOS
(parte terza)
Poiché
la morte è il senso di ogni cosa, è lecito supporre che la Storia, essendo incominciata,
dovrà finire. Ci fu un mondo prima della Storia e si presume che la Storia,
essendo viva, non abbia il privilegio dell'eternità, mentre la Salvezza ha
inizio dove cessa la nostra Storia. Giacché la Metafisica esisteva da ben prima
della Storia e l'uomo è anzitutto un animale metafisico, lo era da almeno
centomila anni quando si è aperta la parentesi della Storia, e quando si sarà
richiusa, l'uomo vivrà senza di essa, con il proprio fine ultimo. Allora e
soltanto allora la Storia acquisterà senso acquistando forma e, divenuta un
tutto, sarà oggetto delle meditazioni senza tempo della specie, ma oggi
possiamo solo interrogarci su di essa e subirla al pari delle nostre opere, pur
sapendo che ci porta alla rovina. In verità noi corriamo verso la morte lungo
un piano sempre più inclinato, le rotoliamo incontro, ci precipitiamo verso di
lei, ebbri e consenzienti, perché quanto più gli uomini sono virili, tanto meno
temono di perire e tanto più la morte sembra loro una festa in cui sono riposte
le loro ragioni di vita. Giacché lo scotto delle nostre virtù sarà sempre
soltanto l'olocausto.
Non
potremo cambiare le nostre città se non distruggendole, fosse pure insieme agii
uomini che le popolano, e verrà il giorno in cui plaudiremo a quest'olocausto.
Allora non indietreggeremo più davanti a nulla e faremo a chi si mostrerà più
barbaro, diventeremo i sacerdoti del caos e della morte, la nostra vittima sarà
l'ordine e lo immoleremo perché cessi l'assurdo, supereremo i flagelli naturali
raddoppiandone la perniciosità. In questo modo puniremo coloro che sono nati
indesiderabili e che si illudevano di continuare a moltiplicarsi, insegneremo
loro che vivere è un abuso, mai un diritto, e che meritano di morire, perché
occupano troppo posto aumentando la "bruttezza del mondo, oberato di
uomini in soprannumero. Noi vogliamo restaurare e perciò progettiamo di distruggere,
vogliamo ritrovare un'armonia e perciò armiamo il caos del nostro amore,
vogliamo rinnovare tutto e perciò non risparmieremo più nulla. Giacché se i
viventi scelgono di essere insetti e di pullulare nelle tenebre, nel frastuono
e nel tanfo, noi siamo qui per impedirglielo e salvare l'Uomo sterminandoli.
Quando
gli uomini sapranno che non vi è più rimedio se non nella morte, benediranno
coloro che li ammazzano, perché così non dovranno uccidersi da sé. Poiché tutti
i nostri problemi sono insolubili e altri se ne aggiungono in continuazione a
quelli che non riusciamo già più a risolvere, bisognerà pure che la smania di
vivere in cui ci consumiamo si esaurisca e la prostrazione faccia seguito
all'ottimismo criminale, che mi pare l'ignominia di questi tempi. La prosperità
dei paesi ricchi non durerà eternamente in un mondo che affonda nella miseria
assoluta, e poiché è troppi) tardi per far sì che ne esca, essi non avranno
altra scelta che sterminare i poveri o essere poveri a loro volta, e nel caso
in cui decidano per la soluzione più barbara, neanche loro eviteranno più il
caos e la morte. Quindi, qualunque cosa si intraprenda, si arriverà solo
all'orrore, e poiché l'ingegno dei mezzi non si comunica a noi,
ineluttabilmente seguiremo Icaro nella sua caduta o Fetonte nel suo abisso, non
credo più nel futuro della scienza, e poiché il mutamento dell'uomo non è che un'ingannevole
chimera, i nostri discendenti dovranno riprendere il sopravvento sul caos e
sulla morte in cui noi ci perderemo.
Il
mondo è brutto, lo sarà sempre di più, le foreste cadono sotto la scure, le
città dilagano inghiottendo ogni cosa e dappertutto i deserti si espandono,
anche i deserti sono opera dell'uomo, la morte della terra è l'ombra che
gettano a distanza le città, e ora vi si aggiunge la morte dell'acqua, poi sarà
la morte dell'aria, ma il quarto elemento, il fuoco, rimarrà perché gli altri
siano vendicati, è per opera del fuoco che noi moriremo a nostra volta. Stiamo
andando verso la morte universale e i più accorti lo sanno, sanno che non vi è
rimedio a queste calamità scatenate dalle opere, essi sono tragici tra i
frivoli, osservano il silenzio in mezzo ai ciarloni, lasciano sperare agli uni
ciò che gli altri promettono loro, non si danno più pensiero di avvertire i
primi né di, confondere i secondi, ritengono che il mondo meriti di perire e
che la catastrofe sia preferibile a questo rigoglio nell'orrore assoluto e
nella laidezza totale, che ci saranno risparmiati solo a prezzo della rovina.
Ben venga allora la rovina, e la dissoluzione si compia! Preferiamo
l'irreparabile alla sopravvivenza in un aborto perpetuo.
Tutto
si sgretola e tutto si disgrega, le nozioni - che ritenevamo acquisite - si
disfanno, il grande rivolgimento ha inizio e tutti distruggono gli strumenti di
cui si servivano i nostri padri. Nei paesi in cui regna la censura ci si
affanna a negar e l'evidenza; nei paesi in cui è stata abolita si dice
qualsiasi cosa: la differenza appare impercettibile, giacché mentire o perdersi
è lo stesso, e si suppone che chi mente andrà a raggiungere un giorno o l'altro
chi si è perduto. Le Muse hanno abbandonato la Terra e ormai da parecchie
generazioni le belle arti sono morte, gli impostoli hanno campo libero e mai se
ne videro di più incredibili, ma la cosa più triste è che coloro che si
oppongono alla loro impostura non hanno niente da proporci, nient'altro che
banalità. Le nostre città sono incubi, i loro abitanti diventano simili alle
termiti, tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non
sappiamo più costruir e templi, palazzi o tombe, piazze trionfali o anfiteatri.
A ogni passo la vista è offesa, l'orecchio assordato e l'olfatto messo a dura
prova, presto ci chiederemo: «A che serve l'ordine?».
Diecimila
leghe non ci faranno avanzare di un passo, visto che il mondo è sempre di più
lo stesso, a parte la miseria, che crea un po' di differenza tra le nazioni. A
che prò viaggiare? A che prò evadere? Altrove noi ritroviamo tutto"quello
che lasciamo qui, la prigione torna a chiudersi e ne usciremo solo morti, la
Luna e i Pianeti sono inabitabili. E mai possibile credere ancora nella bontà
del Cielo, quando gli Infèrni sono una miriade, Inferni di fiamme come Infèrni
di ghiaccio? Che razza di Creazione è mai questa in cui la vita non è che un
epifenomeno e l'uomo un accidente? Che razza di ordine naturale è mai questo in
cui per una sola riuscita mille aborti preludono a mille agonie? Il Bello, il
Buono, il Giusto e tutto quello che giudichiamo mirabile non sono il riflesso
di una Provvidenza - ahimè - immaginaria, ma qualcosa che si genera in noi, ha le
sue radici solo in noi, e non dobbiamo pili cercarne altrove il modello e il
fine, esso è frutto della nostra stessa sovrana eccellenza, esso prova altresì
che gli uomini non possono essere eguali e che c'è un abisso tra la massa di
perdizione, fatta a immagine del caos e sempre degna di perire, e gli eletti,
nei quali albergano la luce e l'ordine.
I
nostri scienziati riempiranno il mondo di giocattoli costosi, sono bambinoni
che giocano a violentare la natura, e che noi ammiriamo talvolta a torto, visto
che i servigi che ci rendono sono sempre più discutibili. Nessuno ormai può
prevedere dove ci portino questa o quella scoperta, sono altrettante strade
aperte alla Fatalità e non più al genere umano, per quanto la sorgente sgorghi
fra le nostre mani, il corso del fiume ci sfugge, il mondo ridiventa
inconoscibile e noi non possiamo prenderne atto, a meno di accasciare i
semplici, che si attendono il miracolo, non la catastrofe. Un riassetto è ormai
impossibile, il mondo è in brandelli, né è più immaginabile una sintesi nel
pieno di un cambiamento perpetuo, bisognerebbe arrestare il movimento per poter
considerare metodicamente tutto con distacco: ma non è in nostro potere frenare
il flusso che ci travolge, i più accorti sentono da anni che è troppo tardi,
stiamo andando verso il caos, stiamo andando verso la morte, stiamo preparando
la più colossale catastrofe di tutta la Storia, quella che chiuderà la Storia e
da cui i sopravvissuti saranno segnati sino alla fine dei tempi.
Noi
odiamo un mondo pieno di insetti, e chi ci assicura che sono uomini mente: la
massa di perdizione non è mai stata costituita da uomini, ma da reprobi, e
perché mai un automa spermatico dovrebbe essere il mio prossimo? Se il mio
prossimo deve essere questo, allora dico che non esiste e che è mio dovere non
assomigliargli in nulla. La carità è solo un raggiro e coloro che me la
vogliono insegnare sono miei avversari, la carità non salva un mondo pieno di
insetti, che sanno soltanto divorarlo imbrattandolo con il loro lerciume: non
si deve né prestar loro assistenza né ostacolare le malattie che li decimano,
più ne muoiono e meglio sarà per noi, giacché non avremo bisogno di
sterminarli. Stiamo entrando in un futuro barbaro e dobbiamo armarci della sua
barbarie, per adeguarci alla sua dismisura e resistere alla sua incoerenza, non
abbiamo altra scelta che mantenere o abdicare, non abbiamo altra scelta che
contenere o cedere, dobbiamo colpire oggi chi colpirebbe domani, questa è la Tegola
del gioco, e coloro che ci implorano ci punirebbero subito per averla
dimenticata.
A che
prò illuderci? Diventeremo atroci, verranno a mancarci terra e acqua, forse
verrà a mancarci l'aria e ci stermineremo per campare, finiremo per divorarci
l'un l'altro e i nostri spirituali ci faranno compagnia
in questa barbarie, siamo stati teofagi e saremo antropofago, non sarà che un
ulteriore compimento. Allora si vedrà, e in modo lampante, quanto avevano di
barbaro le nostre religioni: e sarà l'incarnazione dei nostri imperativi
categorici, la presenza fattasi reale dei nostri dogmi, la rivelazione dei
nostri misteri spaventosi e l'applicazione delle nostre leggende sette volte
più disumane delle nostre leggi penali. Le arti ci nascondevano questi orrori
funebri e sanguinosi, domani assaporeremo questi orrori nella loro crudezza, ne
moriremo, i rari superstiti li proscriveranno insieme con i mostri che li
accreditano e li perpetuano. Che cosa sono mai i nostri mezzi più micidiali
paragonati alle nostre tradizioni? E queste tradizioni, alle quali teniamo più
che a noi stessi, troveranno mezzi ormai alla loro altezza e ci costringeranno,
per la prima volta, a porgere la gola, affinché tutto sia consumato.
Siamo
alla fine dei tempi e perciò tutto si dissolve, il nostro futuro si annuncia
moltiplicando i disordini, la lezione della Storia è che il cambiamento si paga
e il prezzo della metamorfosi è il più alto che ci sia: ora, noi ci
trasformiamo, fosse pure nostro malgrado, non sappiamo che cosa diveniamo e le
parole che servono a definirci ci abbandonano strada facendo. Le forme si
aprono e i contenuti sfuggono, i pesi e le misure sono falsati, il giudizio
degli uomini più accorti si smarrisce e la bassa lega trionfa impunemente
insieme agli impostori che la accreditano. Le nostre lingue degenerano e le più
belle si fanno brutte, le più conosciute si fanno oscure, la poesia è morta, la
prosa può solo scegliere tra il caos e la banalità. Le arti sono svanite già da
molte generazioni e i nostri artisti più rinomati assomigliano solo a grandi
saltimbanchi, che il futuro disprezzerà. Non sappiamo né costruire né scolpire
né dipingere, la nostra musica è un abominio, e perciò restauriamo i monumenti
antichi anziché distruggerli, perciò diveniamo conservatori di tutti gli stili,
duplice ammissione di impotenza.
La
simultaneità degli stili accresce la confusione delle forme, il secolo ha voluto
scegliere tutto e perciò non abbiamo trovato niente, siamo come i moribondi, la
Storia ci sì rivela interamente facendoci toccare il fondo della nostra
impotenza. In verità, siamo in piena agonia nel momento in cui sopravvalutiamo
la nostra forza, perché una forza che non conosce se stessa ha come fine il
caos. Il nostro futuro è una passione, e malgrado la smania che ci anima, la
mancanza di coesione ci impedirà di giungere ad alcunché, insomma giriamo in
tondo, diventando preda di contenuti mentali più liberi di noi. Siamo ormai
perduti, abbiamo rinunciato all'idea di sintesi e arriviamo al punto di
supporre un accomodamento tra l'ordine e l'incoerenza, crediamo di poter
sopravvivere impunemente a ciò che ci distrugge, siamo in brandelli e lo
vedremo alla prima prova, non ci ristabiliremo più e l'orrore ci attende, un
orrore indicibile, che lascerà intatto solo l'elemento intemporale, di cui non
abbiamo cognizione. Giacché stiamo per morire insieme con le nostre opere e per
causa loro.
Elevo
un canto di morte sull'universo, e prevedo l'annientamento da un polo all'altro
del mondo che abitiamo e di quelli che ci hanno preceduto e che stiamo finendo
di portare alla luce affinché siano distrutti insieme con il nostro. Le cento e
più città morte che abbiamo risuscitato da un capo all'altro dell'universo
moriranno una seconda volta, senza resurrezione possibile, e se ne perderà
anche il ricordo, i nostri musei saranno distrutti insieme con i tesori che
contengono. Tutte le nazioni perderanno il loro passato, poiché la specie umana
non può sopravvivere se non si osserva questa condizione preliminare, ognuna di
esse deve immolare le sue profusioni, le sue leggende, le sue speranze. Questo
è il senso del Giudizio Universale, in cui compariremo nudi, per ritornare sia nel
nulla sia nella vita nuova, allora vedremo se i fedeli delle religioni rivelate,
che da tanti secoli le loro tradizioni preparano alla prova, vorranno
spropriarsi di buon grado e rispettare i loro impegni, ammireremo il loro
spirito di sacrificio. Elevo un canto di morte e saluto il caos che sale
dall'abisso e il terrore antico riemerso dal profondo dei tempi!
Canto
il caos con la morte, la morte e il caos stanno per celebrare il loro matrimonio,
l'incendio dell'ecumene illuminerà le nozze, le nostre città andranno in rovina
e le loro case saranno la tomba degli insetti che le popolano e le insozzano.
Giacché la soluzione dei nostri problemi sarà il fuoco, solo il fuoco ci
libererà di mille paradossi insolubili e farà crollare le mura del labirinto in
cui vaghiamo in preda all'equivoco, è nel fuoco che si concentra ormai la
nostra speranza. Noi aspiriamo alla semplicità, la semplicità verrà a noi
quando il caos sarà passalo, quando la morte avrà trionfato, quando non resterà
che un uomo dove se ne vedevano brulicare a centinaia, quando la "ferra,
quasi vuota, sarà restituita alla verginità, nel tempo beato in cui le foreste
inghiottiranno i resti carbonizzati delle città, in cui le acque rinasceranno e
i fiumi scorreranno di nuovo trasparenti, nel futuro in cui non vi sarà più
massa, perché ogni massa è una massa di perdizione. Il caos e la morte ce ne
separano, ma noi non temiamo né la morte né il caos, è l'universo attuale
quello che aborriamo e che non vogliamo più, per nessuna ragione.
Noi
invochiamo il caos e la morte sull'universo attuale e plaudiamo alla loro
venuta, la perpetuità dell'ordine sarebbe peggiore, e se esso non si disgregasse,
tramuterebbe gli uomini in insetti. La massa di perdizione: ecco il peccato
dell'ordine, e se la massa ha invaso tutto, contaminato tutto, deterioralo
tutto, ammorbato tutto, offuscato tutto, se ha reso tutto peggiore del caos
stesso al punto da rendere il caos più desiderabile è perché l'ordine aveva
bisogno di lei. L'ordine, che noi serviamo e che ci manda al supplizio, l'ordine
ha bisogno di produttori e di consumatori, non già di uomini integri, gli
uomini integri lo intralciano, a loro esso preferirà sempre gli aborti, i
sonnambuli e gli automi, questa è la sua colpa, l'ordine è insieme peccatore e
criminale, noi gli dobbiamo soltanto le fiamme, è grazie al fuoco che l'ordine
morirà. Santo, santo, santo è il fuoco, che ci libererà dal mostro e dalle sue
opere mostruose! Com'è amabile il caos vendicatore! E com'è bella la morte
seconda! E come siamo lieti di attenderli e di sapere che l'uno e l'altra sono
inevitabili! In verità, noi siamo già ora i conformisti del nostro domani.
L'ordine
è fragile e anzi lo è sempre di più, perché riflette la sua dismisura e non
supera la sua incoerenza, l'ordine è gravido della sua morte, perché riflette
la sua soggettività sempre più caotica e sempre più destituita di qualsiasi
ragione d'essere. I superstiti della prossima catastrofe chiameranno mondo alla
rovescia quello che abitiamo, un mondo sempre più assurdo a forza di
conformarsi a un ordine inaccettabile e che manteniamo a scapito del nostro
fine ultimo. Giacché ritorno non è quaggiù per produrre e per consumare,
produrre e consumale sono sempre stati soltanto un fatto accessorio, ciò che
conta è essere e sentire che si esiste, il resto ci abbassa al rango di
formiche, di termiti e di api. Noi rifiutiamo la sorte di insetti socievoli
alla quale le ideologie di moda ci votano, preferiamo il caos e la morte, e
sappiamo che sono in cammino, sappiamo che le nostre ideologie, dal canto loro,
si precipitano immancabilmente incontro alla morte e al caos, quando si illudono
di instaurare il Paradiso in Terra, il Paradiso perduto che ritroveremo sulla
tomba delle masse, delle masse di perdizione.
Siamo
già troppo numerosi per vivere, per vivere non da insetti ma da uomini; noi
moltiplichiamo i deserti a forza di esaurire il suolo, i nostri fiumi sono
ridotti a sentine e l'oceano entra a sua volta in agonia, ma la lède, la
morale, l'ordine e l'interesse materiale si uniscono per condannarci alla
tribù: alle religioni occorrono fedeli, alle nazioni difensori, agli
industriali consumatori, il che significa che a tutti occorrono bambini, non
importa quello che ne sarà una volta diventati adulti. Ci spingono incontro
alla catastrofe e non possiamo mantenere i nostri fondamenti se non andando
alla morte, mai si è visto paradosso più tragico, mai si è vista assurdità più
palese, mai ha ricevuto più universale conferma la prova che l'universo è una
creazione del caos, la vita un epifenomeno e l'uomo un accidente. Non abbiamo
mai avuto nessun Padre in Cielo, siamo orfani, sta a noi comprenderlo, a noi
uscire dall'infanzia, a noi rifiutarci di obbedire a chi ci fuorvia e immolare
chi ci vota all'abisso, giacché nessuno ci redimerà se non ci salveremo da soli.
Ma a
che serve predicare a quei miliardi di sonnambuli che vanno verso il caos con
passo uniforme, sotto il pastorale dei loro seduttori spirituali e sotto il
bastone dei loro padroni? Sono colpevoli perché innumerevoli, le masse di
perdizione devono morire affinché una restaurazione dell'uomo sia possibile. Il
mio prossimo non è un insetto cieco e sordo, il mio prossimo non è neanche un
automa spermatico, il mio prossimo non sarà mai un anonimo in preda a idee
oscure e confuse, questi sono i vari aborti dell'uomo e noi lasceremo che
confondano nella notte la loro gioia e il loro dolore egualmente assurdi. Che
ci importa del nulla di questi schiavi? Nessuno li salva né da se stessi né
dall'evidenza, tutto si appresta a farli precipitare nelle tenebre, furono
concepiti dai capricci degli accoppiamenti, poi nacquero alla stregua di
mattoni che escono dallo stampo, ed eccoli formare file parallele in cumuli che
arrivano alle stelle. Sono uomini? No. La massa di perdizione non si compone
mai di uomini, giacché l'uomo ha inizio soltanto a partire dal momento in cui
la folla, tomba dell'umano, si estingue.
Potremo
ricostruire l'universo quando sarà distrutto e gli uomini saranno divenuti più
rari delle cose. Allora e soltanto allora il nostro Umanesimo non sarà più una
vana parola in mezzo ai sordi e ai ciechi, giacché non moriremo più pei' il
solo l'atto di udire e di vedere, come avviene ai nostri giorni, in cui non ci
è concesso di concepire noi stessi nel timore di occupare troppo posto. Dove
l'uomo è in eccesso, l'alienazione è il primo dovere, e le moltitudini lo
adempiono, esse sono alienate e consenzienti ad un tempo, sono impotenti e
possedute. Potremo ricostruire l'universo sulla tomba delle masse di
perdizione, quelle masse generate dal caos e votate alla morte, che tutti i
salvatori messi insieme, moltiplicati per mille, non riusciranno più a tirar
fuori dall'abisso, giacché la salvezza non ha più senso quando si è in molti
miliardi a pretenderla. Non si raddrizzano i mattoni in un muro, e l'ordine è
un caos di muri che formano ormai un labirinto. Che cos'è l'uomo lì dentro? Un
elemento sostituibile senza difficoltà, un elemento intercambiabile, sfornato
in massa da un medesimo stampo.
I
nostri peggiori nemici sono coloro che ci parlano di speranza e ci prospettano
un futuro di gioia e di luce, di lavoro e di pace, in cui i nostri problemi
saranno risolti e i nostri desideri appagati. A loro non costa niente rinnovare
le promesse, ma a noi costa enormemente ascoltarli, e quel che abbiamo da
guadagnarci sono solo idee sbagliate, più andiamo avanti e più queste idee
diventano dominanti e più il giogo dell'equivoco ci piega, noi vacilliamo sotto
un cumulo di nozioni o- scure e confuse, che vorrebbero essere scientifiche e
ci fanno smarrire il ricordo di tutto quello che da ormai tre secoli ci aveva
disincantati. La logomachia, chiamata dialettica, permette di dimostrare
qualsiasi cosa, secondo le necessità del momento e l'interesse dei suoi
dimostratori, perché abolisce i punti di riferimento insieme con le possibilità
di resistenza: è la macchina per produrre il caos, fosse pure in nome
dell'ordine, è davvero l'ultimo sforzo del nostro intelletto messo al servizio
dell'assurdo e grazie al quale, la dissoluzione ha campo libero, con i suoi
promotori che saranno gli ultimi a perire, dopo aver immolato tutto,
continuando a sentirsi importanti nel nulla.
L'ordine
prepara metodicamente la propria liquidazione osservando la disciplina che ci
predica; gli scienziati moltiplicano le scoperte e l'ordine se le appropria, in
preda alla follia; insomma, tutto si mette al peggio e noi perseveriamo, in
nome della morale e della fede, nelle strade che a esso conducono; le
tradizioni rivaleggiano in impostura e le invenzioni in malvagità, non
sfuggiremo più a tale concorso di cose e l'ordine presiede all'accomodamento,
in fondo al quale si spalanca il precipizio. L'assurdo ha la sua logica e noi
ne sposiamo le fasi, magari crediamo di improvvisare, mentre non facciamo nulla
che non rimandi a quel piano generale, che - senza volere - mettiamo in atto: è
un meccanismo le cui migliaia e migliaia di ingranaggi discettano a lungo su
una libertà che ritengono attributo dell'uomo, con l'ordine che si accontenta
di farsene assurdamente portavoce. Siamo ciechi per dovere e ci affidiamo all'ordine,
più cieco di noi e persuaso di essere chiaroveggente: è un raggiro a partita
doppia e ormai nessuno sfugge al fallimento che tale operazione prepara in
egual misura a tutti i popoli.
Le
lezioni della Storia sono piene di eloquenza, ma noi non vogliamo più farci
illuminare da esse, noi ricusiamo la Storia, al solo scopo di poter negare
l'evidenza e di perseverare nelle nostre illusioni, noi crediamo nel miracolo,
fosse pure abbandonandoci alla fatalità, ci lasciamo andare a ciò che ci
trascina, sperando in un cambiamento che nulla giustifica, tranne la fede che
abbiamo nell'utopia. È una sorta di delirio, che si è impadronito delle menti
più fredde, più matematiche e più ciniche, è questo Io scotto che pagano
all'idealismo, e il futuro si farà beffe di questi grandi calcolatori e di
questi cosiddetti dialettici, in balia di idee oscure e confuse. Tra noi non vi
è nessun responsabile che abbia il colaggio di prevedere la catastrofe e meno
ancora di prenderne atto, l'imperativo categorico del nostro tempo è
l'ottimismo, fosse pure sull'orlo del baratro, siamo ritornati alla magia
verbale, scongiuriamo ed esorcizziamo, la cosa più strana è che la
ridicolaggine dei nostri atteggiamenti sembra ormai nell'ordine delle cose, i
nostri Capi dì Stato non sono più nient'altro che taumaturghi e noi, sotto di
loro, non saremo nient'altro che vittime consenzienti.
Albert Caraco
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