lunedì 24 settembre 2012

RICORDI DEL ‘20



RICORDI DEL ‘20

Nel 1920, all’età di 16 anni, cominciai a lottare contro la società borghese e contro i bolscevichi, odiosi rappresentanti del nuovo ordine, totalitario e demagogico, che doveva raccogliere l’eredità del capitalismo morente.
Ero allora fuggito di casa, sottraendomi alla disciplina paterna che pesava duramente su me e avevo raggiunto a Milano Errico Malatesta, ritornato pochi mesi 
prima da Londra.
Nato a Caserta in una famiglia borghese, cresciuto in mezzo a gente che andava in chiesa tutte le domeniche e aveva il culto delle istituzioni e della conservazione sociale, io, studente quindicenne, ero divenuto anarchico per effetto delle letture filosofiche e letterarie alle quali appassionatamente mi dedicavo e, sopratutto, per il mio temperamento ribelle, insofferente d’ogni freno e d’ogni comando.
Quando i miei parenti conobbero le mie idee e seppero che le manifestavo pubblicamente, furono colpiti dalla folgore dello stupore e dell’ira.
« Com’è possibile, Ninnillo, che vuoi fare il petroliero, tu che sei nato un signore ? » mi chiedeva, angosciata, la mia buona, vecchia nonna.
Mio padre, professore di lettere nei licei dello Stato, temuto dagli studenti per la sua severità e l’inflessibile disciplina che manteneva nella scuola, pretendeva impormi la rinunzia delle idee e m’infliggeva i pili spietati castighi nella speranza di piegarmi.
Non ottenne altro esito che quello di farmi fuggire di casa, dopo cinque o sei mesi di litigi feroci.
Mi ricoverai prima a Salerno, dove fui ospitato dal segretario socialista della Camera del Lavoro, Nicola Fiore; poi andai a Milano da Errico Malatesta per il quale mi consegnò una lettera di presentazione il dentista napoletano G. I.
Col vecchio agitatore anarchico mi trovai d’accordo nei primi tempi: lo accompagnavo nel giro di propaganda che faceva per l’alta Italia e parlavo insieme a lui, nei comizi, impressionando le folle con la mia giovane età e con l’entusiasmo rivoluzionario che trasfondevo nei miei discorsi.
Ma poi, trascinato dal mio temperamento che mi spingeva sempre più a sinistra, divenni un anarchico individualista e criticai aspramente la costituzione dell’Unione Anarchica Italiana, sorta sotto gli auspici del Malatesta e dei due luogotenenti Luigi Fabbri e Camillo Berneri.
Sebbene fossi un ragazzo io ero più logico dei papaveri dell’anarchia ufficiale e comprendevo che, organizzandosi, i libertari sarebbero fatalmente caduti sotto una disciplina e sotto la direzione di capi ed avrebbero cosi finito d’essere senza governo. Comprendevo che il partito soffocava l’anarchia e mi ribellavo a questa miserabile degenerazione che minava l’idea per la quale ero fuggito dalla famiglia e avevo interrotto gli studi. Mi ruppi perciò con Malatesta e mi trasferii a Vigevano presso i compagni di quella città che mi de sideravano come propagandista.
Allora credevo ancora che le folle, convinte dalla mia parola, potessero aiutarmi a realizzare il grande sogno nichilista, distruggendo tutte le catene materiali e spirituali, tutte le istituzioni e i dogmi, ed instaurando nel mondo la libertà sconfinata per tutti. Non coltivavo l’illusione dell’armonia sociale futura ma ritenevo che la lotta libera, temperata dalle alleanze e dalle intese spontanee, sarebbe stata preferibile all’insopportabile giogo delle leggi e delle morali. Pensavo che nella società odierna l’uomo, prostrato dall’ubbidienza, non si difende contro i tiranni che l’opprimono e diventa la vittima dei loro soprusi ed angherie. Ma quando ciascuno non vorrà più sottomettersi all’altro e cercherà vivere indipendentemente, nessuno riuscirà a piegarlo. In un mondo anarchico ogni individuo, senza dio e senza padrone, accrescerà con ogni mezzo la propria forza per servirsene nei casi nei quali non riuscirà ad accordarsi con i vicini. I forti rimarranno tali ma i deboli, spronati dalla necessità e svincolati da ogni ritegno etico e legale, svilupperanno maggiore energia. L’uomo potrà morire in battaglia: ma fin quando rimarrà vivo sarà libero. E se l’ordine sociale si sfascerà, tanto meglio. Per troppo tempo abbiamo vegetato nel gregge: ora occorre che la vita sia pericolosa ed intensa. E’ più bello vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora. Malatesta condanna Bonnot ma questi è il vero anarchico a cui dobbiamo inspirarci.
Animato da tali idee che erano tanto diverse da quelle dei compagni ( ?), spronavo gli schiavi al rovesciamento dell’esistente. « Ma non basta travolgere i padroni attuali — aggiungevo — bisogna impedire che ne vengano altri, che s’instauri la dittatura socialista o comunista. L’uomo deve diventare libero, non deve riconoscere padroni o capi. L’onta maggiore, per un individuo, è quella di ubbidire perché, ubbidendo, dimostra di non sapersi reggere da sé, d’essere come un bambino al quale occorre la tutela e la guida del papà. Ma noi vogliamo fare quello che ci piace, desideriamo intenderci o divergere a nostro estro. Voi proletari gridate spesso: Venga Lenin ! Ma non pensate che anch’egli sarà un tiranno che, coi pretesto di mantenere l’ordine, vi farà filare sotto la sferza ? »
Naturalmente questi discorsi garbavano poco ai capoccia socialisti che facevano professione di disinteresse e dichiaravano ipocritamente d’aspirare al potere solo per il bene del proletariato. Ma io li rimbeccavo in tutti i comizi e gridavo altamente ch’erano dei farabutti e volevano governare per riempirsi il portafogli ed opprimere gli operai. E quand’essi mi rispondevano che tendevo al disordine, replicavo: « Sì, meglio il disordine perché questo non arrecherà all’umanità danni tanto gravi quanto quelli che apporterebbe la vostra dittatura ».
A Vigevano ero diventato la bestia nera dei demagoghi. Quando apparivo nei comizi e chiedevo la parola, al segretario della Camera del Lavoro veniva la febbre. Il 6 giugno 1920 in una pubblica riunione indetta per protestare contro l’aumento del prezzo del pane, mi espressi tanto violentemente che il commissario di pubblica sicurezza m’arrestò. La folla, invitata da me ad abbattere tutte le autorità e a strappare le ricchezze ai borghesi, assalì i poliziotti. Il commissario fu bastonato, i carabinieri disarmati. Due deputati socialisti, il segretario della Camera del Lavoro e tutti i rappresentanti del P.U.S. se la diedero coraggiosamente a gambe. Io, ragazzo di sedici anni, mi misi alla testa della sommossa. Rimasi padrone della città fino alla sera. Poi arrivarono le guardie regie da Pavia e cominciò la reazione. Mi sottrassi, per miracolo, alle ricerche e fuggii a Milano. Continuai a svolgere la mia azione di agitatore ma finii per convincermi che la rivoluzione non si sarebbe scatenata.
La temperatura era salita ad alta pressione, le folle bramavano la ricchezza della borghesia e scendevano nelle piazze con propositi minacciosi ma bastava un aumento di salario, una concessione insignificante, per calmare i bollenti spiriti e allontanare il pericolo. Rivoluzionarismo da osteria era quello d’allora. Prorompeva nell’invettiva contro il pescecane ed il governo, tumultuava nei comizi, si esauriva negli scioperi ma non si decideva mai ad imbracciare il fucile e a costruire le barricate. I socialisti, che dirigevano il movimento, si servivano dello spauracchio insurrezionale per terrorizzare i borghesi e ricattare Giolitti. Ottenevano così tutto quello che volevano, spadroneggiavano nel Parlamento e nel Paese, si assicuravano laute prebende e lucrosi impieghi e a fare sul serio la rivoluzione non ci pensavano nemmeno. La predicavano nelle piazze per impaurire i capitalisti e costringerli a cedere alle continue richieste ; ma poi quando vedevano la massa disposta ad agire la frenavano essi stessi, dicendo che non era ancora il momento buono, la calmavano col contentino della paga migliorata e la mandavano nelle bettole a cantare «bandiera rossa» e a gridare, fra un quarto e l’altro, « Lenin verrà ». I proletari pecoroni si mostravano terribili quando i capi rossi posavano ad incendiari, ma si ammansivano subito e rinunziavano al 48 se un qualunque arruffapopolo del P.U.S. saliva su di un tavolo e diceva che bisognava, sì, abbattere la borghesia ma non subito, bensì domani o dopo, quando i capi avrebbero dato il segnale. La gazzarra continuava, gli operai schiamazzavano e scioperavano ma non si spingevano più in là, i borghesi impauriti riprendevano coraggio e tutti quei demagoghi, quegli opportunisti, quei cerca-pagnotte che s’erano riuniti intorno al vessillo socialista, mangiavano a crepapancia e si riempivano il portafogli. Privi d’ogni idea e spronati soltanto dall’insaziabile fame essi pensavano che sarebbe stata una sciocchezza affrontare la guardia regia e il piombo dei suoi moschetti ora che la greppia era piena e il governo condiscendente. La rivoluzione doveva servire per i discorsi dei comizi ma tradurla nella realtà era tutt’altra cosa. Perché guastarsi la digestione e sfidare i pericoli invece di contentarsi della pappatoria assicurata e della medaglietta carpita ?
I comunisti, ancora uniti coi socialisti, tuonavano contro i dirigenti del P.U.S. e li accusavano di tradimento; ma, in sostanza, non facevano nulla nemmeno loro e rimanevano disciplinati agli ordini dei capi.
Gli anarchici erano pochi e non potevano, da soli, trascinare le masse. Malatesta s’illudeva nella speranza del fronte unico e si lasciava rimorchiare dai socialisti, portando con sé tutti i compagni organizzati, sotto la sua direzione, nell’Unione Anarchica Italiana.
La situazione non appariva promettente ed io comprendevo che la rivoluzione non sarebbe avvenuta e che socialisti e popolari avrebbero continuato ad imperare, adescando le lolle e ricattando la borghesia la quale, alla fine, si sarebbe abbandonata alla reazione. Intuivo che al potere dei demagoghi e dei preti, dei D’Aragona e dei don Sturzo, sarebbe seguito, a breve scadenza, un governo forcaiolo che avrebbe stroncato ogni velleità di sovvertimento e ripristinato l’ordine. E seppur non si fossero avverate queste nere previsioni e la rivoluzione improvvisa avesse travolto il vecchio mondo, che cosa ne sarebbe venuto? L’anarchia che anelavo? No, la dittatura di Bombacci e di Misiano, il despotismo bolscevico di cui io sarei stato la prima vittima.
Malgrado ciò continuai a lottare e mi sforzai di infiammare le masse e di spingerle contro tutti, contro la società borghese, il socialismo ed il comunismo, per la realizzazione dell’ideale libertario. Divenni a Dio spiacente ed ai nemici suoi e mentre le guardie regie mi sparavano addosso a Milano, Malatesta mi attaccava su « Umanità Nova » e, poco dopo, in Lomellina, i socialisti organizzavano contro me un’aggressione alla quale sfuggii per puro caso. Il 29 luglio 1920, a Voghera, commemorai in un pubblico comizio Gaetano Bresci e fui denunciato per apologia di regicidio. Parlai in altri due comizi e piovvero contro me altre denunzie per istigazione a delinquere ed eccitamento all’odio tra le classi sociali. Fui rinviato al giudizio della Corte d’Assisi di Voghera e costretto a fuggire onde evitare l’arresto.
Ormai ero profondamente disilluso e comprendevo che le masse non solo non avrebbero instaurata l’anarchia ma nemmeno fatta la rivoluzione. Del resto a cosa sarebbe servita una rivoluzione addomesticata che avesse mandato via il re e i borghesi per sostituirli con Turati e con don Sturzo o, anche, con Bombacci e con Misiano? Quale beneficio ne sarebbe venuto se al posto del volpone di Dronero si fosse messo Giacinto Menotti Serrati, colui che era stato chiamato spia n. 8 ed accusato di aver denunziato in America Luigi Galleani alla polizia ?
La trasformazione radicale della vita, la grande metamorfosi alla quale aspiravo, non poteva tradursi nei fatti perché le folle erano gregarie, non sapevano stare senza il pastore e non lo mandavano via se non per mettersi sotto la tutela di un altro. Non dovevo quindi sperare più nel Muspell sociale dalle cui fiamme sarebbe nata la giovinezza eroica dell’unico, ma considerare l’anarchia come l’eterna rivolta dell’individuo irriducibile contro tutte le società che si succedono nella storia. Dovevo comprendere che l’eccezione prometea è destinata a combattere non solo gli Stati e le autorità, ma anche l’istinto conservatore delle folle adagiate in un’abitudine millenaria d’ignavia. Dovevo — nell’estrema risolutezza della mia tragica disperazione — accettare questa lotta eterna del reprobo contro tutti e inebriarmi col nepente che dal suo seno stilla.
« L individualismo — ha detto Maurizio Barrés — è il sentimento dell’impossibilità che esiste di conciliare l’io particolare con l’io generale ».
E nel crepuscolo delle mie ultime illusioni, sulla bara dei miei sogni di rigenerazione universale, fissavo gli occhi aperti nella notte paurosa della battaglia senza soste e mi preparavo a tuffarmi nell’insidia delle sue tenebre per cercare le stelle lontane e morire.
Spronato da questi sentimenti li espressi in alcuni articoli che furono pubblicati nella rivista «L’Iconoclasta» di Pistoia. Ma, in tutta Italia, uno solo fu d’accordo con me, un giovane autodidatta, intelligentissimo e ribelle, Renzo Novatore che, due anni dopo, cadde sotto il piombo della sbirraglia feroce.
Invece la miserabile congrega dei pennaioli, semi-anarchici e malatestiani, mi saltò addosso e, dai suoi giornali, fulminò l’anatema. Quei pallidi libertari che sognavano la zuccherata quiete di un’immancabile città del sole di cui aspiravano diventare i direttori d’orchestra dell’armonia generale, si scagliarono furibondi contro me e Novatore che propugnavamo un’anarchia individualistica e prometea, un’insurrezione personale che disfaceva ogni organizzazione sociale, sia pure ipocritamente camuffata con la maschera anarchica. Alla testa della congrega si piazzò il professore di filosofia Camillo Berneri che possedeva un’anima veramente pretina e tendeva alla costituzione di una chiesa libertaria diretta dalla sua autorità di grande sacerdote.
Berneri, che voleva sostituire un dogma ad un altro dogma, una religione ad un’altra religione, una società, organizzata e moralizzata, ad un’altra società, organizzata e moralizzata, doveva necessariamente odiare chi, come me e Novatore, voleva distruggere tutti i dogmi, tutte le religioni, tutte le organizzazioni etiche e sociali, per fare trionfare la libertà naturale dell’individuo, sciolto da ogni ceppo e restituito alla spontaneità. Quindi, contro me e Novatore, Berneri vomitò tutta la sua acredine. Ed ebbe gli elogi della chiesa osannante al nuovo inquisitore che chiedeva la testa degli eretici maledetti.
In seguito Berneri divenuto, dopo la morte di Malatesta, pezzo ancora più grosso della congrega anarchica, riparò in Francia dov’ebbe rapporti, non troppo chiari, con una spia fascista, un certo Menapace. E infine, nel 1937, fu ucciso in Ispagna dagli sgherri staliniani, per motivi di rivalità fra le chiese contrastanti.
Intanto in Italia, in quell’ormai lontano autunno del 1920, io vivevo giorni tristi ed indimenticabili. Costretto a fuggire continuamente, a spostarmi da un luogo all’altro per evitare l’arresto; boicottato subdolamente dai compagni in Caino; privo di mezzi e non disponendo che dei poveri aiuti che mi forniva qualche raro amico; sentivo che il cerchio mi stringeva sempre più da vicino e non sarei riuscito a sottrarmi alle grinfie della polizia. Malgrado ciò, di passaggio per Pistoia, conobbi Alfonsina Angioli e m’innamorai di lei. Era una giovane diciannovenne, dagli occhi languidi e sensuali che scatenavano una tempesta nelle mie vene, un uragano a cui non potevo resistere. La volli e fu mia. Quando partii pretese seguirmi. Sapeva in quale condizione disperata mi trovassi, ma ad onta di questa, non volle separarsi da me. Né io, che l’amavo tanto, ebbi la forza d’allontanarla. Pure, stringendola al petto sul sedile di un treno che filava nella notte, pensavo con raccapriccio che, da un istante all’altro, potevo perderla. Bastava solo che un poliziotto mi riconoscesse e tutto sarebbe finito.
A Napoli ci nascondemmo e trovai il modo come accordarmi con un marinaio che ci avrebbe fatti imbarcare su di una nave diretta a Marsiglia. Ma, per occultarci a bordo, egli voleva duemila lire: ed io non disponevo nemmeno di duemila centesimi. Mi rivolsi al vecchio ed enfatico leader degli anarchici napoletani ma rispose che non possedeva denaro. Infatti mentre Ciccio Cacozza moriva di fame ed io stavo per finire in galera, lui, l’altruista, il libertario dal cappello alla Gori, lasciava tutte le sere, con un codazzo d’amici, il suo appartamento di via Duomo e se ne andava a gozzovigliare in una birreria di piazza Garibaldi. E pagava can i soldi che gli mandavano gli anarchici d’America per aiutare le vittime politiche…
Messo alle strette, dopo il rifiuto dei compagni partenopei, fui costretto a rivolgermi a mia madre. Le chiesi che m’inviasse i soldi all’insaputa di mio padre. Alfonsina servì da intermediaria perché io a Caserta, dov’ero tanto noto, non potevo andare. Lei invece non era conosciuta e poteva abboccarsi segretamente con la mia genitrice senza nessun pericolo.
Ma, malauguratamente, un bravo parente fece la spia a mio padre. Il professore consegnò la ragazza nelle mani dei poliziotti. In questura Alfonsina si rifiutò di parlare, non volle dire dove mi trovavo e la passarono al carcere. Intanto a Napoli, non vedendola ritornare, io ero in preda all’angoscia, al più terribile spasimo, e intuivo l’accaduto.
Il leader anarchico, l’altruista della birreria, mi presentò un guercio, «un buon compagno comunista che simpatizza per l’anarchia». «Egli — mi disse il leader — è disposto d’andare a Caserta e di informarsi. Se Alfonsina è stata arrestata, incaricheremo un avvocato che la farà rilasciare. Lei non deve rispondere di nulla e non possono trattenerla. E tu la riavrai presto e ve ne andrete insieme in Francia».
Le parole del leader mi sollevarono un poco, il guercio comunista parti per Caserta e ritornò la sera con mio padre e coi poliziotti che mi arrestarono. Il mio amato genitore preferì mettermi nelle mani dei questurini anziché lasciarmi fuori « a fare l’anarchico », come diceva con disprezzo. Sapeva benissimo che dovevo rispondere alla Corte d’Assisi della mia attività rivoluzionaria; ma, per la sua coscienza borghese, era meglio che fossi arrestato perché così «sarebbe finito lo scandalo e il decoro della famiglia non avrebbe ricevuto altre offese ».
Il guercio comunista, per premio, ebbe da mio padre una diecina di lire. E se la bevve la sera, all’osteria, inneggiando a Lenin, coi compagni. 
Io dovevo essere rinchiuso in un carcere di minorenni nell’attesa dei processi; ma siccome ci era già la domanda d’internamento in una casa di correzione, avanzata dalla mia famiglia, fui mandato al riformatorio di rigore « Ferrante Aporti » di Torino.
Li, poco dopo, il direttore ritenendo che in mezzo agli altri potessi propagandare le mie idee, m’isolò in una cella di punizione. E vi rimasi sei mesi.
A diciassette anni, sepolto vivo in quella tomba nella quale mancavano l’aria e la luce che filtravano appena attraverso la finestra tagliata a bocca di lupo e difesa da una robusta inferriata, io, cosi sensibile e già scosso da tante emozioni, mi sentivo impazzire. L’angustia mi soffocava, non potevo fare che cinque passi avanti e cinque indietro: dalla porta al muro e dal muro alla porta. Non vedevo mai nessuno all’infuori del guardiano che veniva a portarmi la zuppa ; anche all’aria, nel cortiletto, mi ci mandavano solo durante l’ora regolamentare. Non mi davano libri, non mi permettevano di fumare, mi trattavano col massimo rigore. L’inverno era venuto, mancava il riscaldamento nella cella ed io gelavo letteralmente. La mattina, alle sei, mi costringevano ad alzarmi, ripiegavano la branda al muro al quale l’assicuravano con un lucchetto, e m’impedivano cosi di sdraiarmi durante il giorno e di cercare un po’ di caldo fra le coperte. In quell’orribile buco, tanto stretto e triste, privo d’ogni distrazione che dirigesse altrove i miei pensieri e assillato dalla nostalgia e dai ricordi, soffrivo spaventosamente nell’idea fissa di Alfonsina. Comprendevo che non l’avrei rivista più perché sarei uscito dal riformatorio sol per passare in un carcere, dopo i processi e la condanna, e rimanervi parecchi anni. Immaginavo che lei sarebbe finita fra le braccia di un altro e la gelosia mi rodeva. Rammentavo i suoi baci, le sue carezze, i suoi teneri abbandoni, e ne sentivo il prepotente bisogno; poi pensando che non li avrei nuovamente goduti, piombavo in una tetra, mortale malinconia che mi prostrava fisicamente e moralmente.
« Per me si è rovinata — dicevo di continuo — per me ha abbandonata la famiglia che non l’accetterà più in casa. Ed ora che io sono qui come farà per vivere? Sarà costretta a prostituirsi e finirà luetica in un ospedale? E la polizia continuerà, in odio mio, a perseguitarla? E quale fine, quale abisso, quale tormento le sarà riservato? ».

Lo spasimo mi rendeva folle, le crisi nervose e i disperati scatti che mi spingevano talvolta a picchiar la testa nel muro con la speranza di sfasciarla, erano seguiti da cupi abbattimenti in cui rimanevo, per giorni interi, annientato, avvilito, abbandonato al dolore che mi straziava con la sapiente perfidia di un carnefice esperto.
In quell’orribile cella dove l’Italia liberale di Giovanni Giolitti mi aveva relegato, i primi fili argentei si stesero nella mia chioma. E non avevo che diciassette anni!
Intanto in una birreria di Napoli il leader anarchico e la spia comunista tracannavano bicchieri alla salute della rivoluzione. E pagavano con i soldi del Comitato pro vittime politiche, con quei soldi che avrebbero dovuto servire anche a me per mettermi in salvo all’estero.

Enzo Martucci "La setta rossa"

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