mercoledì 17 ottobre 2012

SECONDO CONFINO


SECONDO CONFINO


DOPO tre anni finii il confino e ritornai a Napoli. Ma non vi rimasi che quattro mesi. Il leader anarchico, il settantasettenne altruista che, da mezzo secolo, inneggiava alla fratellanza universale, mi rispedì all’isola come, nel 1920, mi aveva mandato in galera, negandomi i mezzi per salvarmi in Francia.
Sfinito dalla lotta impari che da un ventennio sostenevo, speravo riposarmi, dopo tante battaglie e riacquistare un po’ di fiato. Ma feci l’imperdonabile corbelleria di visitare il vecchio compagno che non vedevo dal ‘32. E questa visita mi costò altri cinque anni di confino.
Enfatico e simulatore, cuor d’oro a chiacchiere ma cuor di piombo nei fatti, l’uomo dell’abbraccio universale mi strinse al seno e dichiarò, fra le lacrime, che si sentiva felice di ritrovare il maestro dell’anarchia, « il giovane ma valoroso lottatore che non s’era piegato sotto la travolgente bufera ». Avendo saputo che, per vivere, davo lezioni private a qualche studente delle scuole medie superiori, egli volle che preparassi anche il figlio suo per gli esami di ammissione al liceo. Dovetti perciò frequentare giornalmente la casa del caro dottore e, vivendo nella sua intimità, mi convinsi meglio di quanto già sapevo dal 20 e cioè che il leader nascondeva sotto il vello dell’umanitarismo e dell’utopismo la feroce avidità del lupo famelico. Tutte le sue svenevolezze per il prossimo, l’esagerato altruismo, l’amore della povera gente, non erano che una maschera che celava l’ingorda brama della pagnotta, la sete insaziabile di denaro. I. posava ad anarchico, a socialista libertario, a rigeneratore del mondo, per ingannare e tosare tutti. Cosi aveva potuto mangiare i soldi che i compagni d’America gli mandavano per le vittime politiche e la propaganda a Napoli. Cosi, ai tempi del liberalesimo, s’era cattivato l’appoggio e la protezione della Massoneria. Venuto il fascismo aveva esposto la bandiera tricolore al balcone, nelle feste nazionali, e, durante la guerra di Abissinia, aveva anch’egli offerto l’oro alla patria. Però questo non gl’impediva ancora — quando lo rividi — di dire peste e corna di Mussolini e del suo regime con gli antifascisti che lo visitavano. Da cinquanta anni tutti coloro che frequentavano la sua casa, venivano arrestati all’uscita, ma lui viveva indisturbato e in carcere non c’era stato che una volta e per pochi giorni. Molti dicevano che, segretamente, faceva la spia della questura. Io non volli credere a questa voce e me ne pentii, a mie spese. La sua amante che, per età, poteva essergli figlia, sfruttava i meccanici del gabinetto dentistico, maltrattava le cameriere, posava a despota, a tiranna, a Messalina capricciosa e feroce. Egli, l’umanitario, lasciava correre. La contadina rifatta che alla prepotenza del carattere univa la boria e l’arroganza della parvenu, schiaffeggiava la povera serva perché aveva sbucciato male le patate e la mandava via senza pagarla. La serva piangeva, chiedeva perdono, protestava che, subito, non poteva trovare altro lavoro e si raccomandava affinché non la mettessero sul lastrico. La ganza del demagogo, la villana di Lucania, rimaneva irremovibile e indicava l’uscio. E lui, l’altruista, l’uomo dal cuore d’oro, non interveniva, anzi approvava che alla fantesca non fossero pagati i servizi prestati. Poi, cinque minuti dopo, cominciava ad imprecare contro i capitalisti che sfruttano gli operai ed i fascisti che opprimono il proletariato.
Una sera, in casa sua, discutevo con un ingegnere e dicevo che, per l’individualista, non esistono che due concezioni logiche della vita: l’anarchia o l’imperialismo. Il dottore protestò; io spiegai il mio pensiero.
«La libertà dell’individuo non finisce dove comincia quella degli altri. Essa termina solo dove si arresta la sua forza. Per soddisfare le mie passioni o per fare trionfare le mie idee, io debbo necessariamente combattere e vincere chi ha passioni o idee contrarie alle mie. Se gli altri mi resistono, se sono individualisti come me e non vogliono riconoscere nessuna autorità, allora fra le libere forze guerreggianti si produce spontaneamente un equilibrio che oscilla. Ora un piatto della bilancia pende da un lato, ora l’altro piatto pende dal lato opposto. Ciascuno sviluppa il massimo della potenza per contenere l’avversario e non possono più verificarsi sovrapposizioni definitive, stabili comandi ed ubbidienze rassegnate. Questa è l’anarchia. Ma se invece gli altri cedono all’attacco, se il loro gregarismo li spinge a curvarsi dinnanzi all’uomo superiore, è naturale che questi eserciti sulla massa amorfa il suo imperio e della massa si serva come materiale per la costruzione del capolavoro della sua grandezza. Tal’è l’imperialismo. Contro ogni despota insorgono, nel generale servaggio, i pochi uomini che non intendono adattarsi alla schiavitù; ma il despota ed il ribelle sono manifestazioni equivalenti della vita intensa, tropicale, esuberante che non tollera freni e limitazioni. Perciò l’anarchia e l’imperialismo si avvicinano più di quanto si creda».
« Ma la tua è la morale della forza », osservò, scandalizzato, l’ingegnere socialista.
« E non é l’anarchia — protestò il vecchio leader — l’anarchia è amore, fratellanza, libero accordo fra gli uomini in una società perfetta ed egualitaria ».
«Si, l’anarchia dei frati, di Sant’Errico Malatesta e del principe Kropotkine. Perché fosse realizzabile occorrerebbe che nell’uomo esistessero solo le passioni che la morale ha convenuto chiamare buone. Ma dal fondo oscuro della nostra natura, da quello che Dostoevskij definisce il fondo sotterraneo e Nietzsche il fondo dionisiaco dell’io, erompono, ad ogni istante, impulsi diversi che ci spingono all’amore o all’odio, alla generosità o alla crudeltà, all’accordo o alla lotta. L’io è una realtà complessa e tenebrosa non un essere semplice, facilmente conoscibile e classificabile tra gli animali socievoli. Se mi ricordate, con Aristotele, che l’antropos est politicon, io vi rispondo citandovi la « Favola delle api » di Mandeville. L’uomo è sociale ed antisociale a seconda dei momenti, delle circostanze, delle passioni. L’io, che vuole soggiogare il non io, si palesa talvolta sotto sembianze angeliche, tal’altra sotto il ceffo di Satana.
Per questo il vostro sogno idilliaco è una utopia. L’impulso all’unità, quell’impulso biologico, fondamentale, di cui parla Bakunin, manca nel genere umano ».
Un avvocato socialista che si diceva filosofo e, come tale, insegnava al dottore che Voltaire era stato ateo e lo storico Buonarroti, fratello di Michelangelo, portò nella discussione la sua illuminata sapienza. Egli cominciò a dimostrarmi che l’uomo è buono, per natura, ma la società lo rende cattivo, e perciò bisogna trasformare la società e distruggere i dittatori, i capitalisti, gli egoisti, ossia tutti coloro che vogliono il male. Cosi, nella società, prevarrà l’ordine perfetto « che già esiste nella natura.
« Questa è un’altra sciocchezza — risposi sorridendo — la natura non è idilliaca, come credete, e nemmeno diabolica come asseriscono i cristiani. La natura che noi conosciamo fenomenicamente, ossia nel modo che comporta la conformazione dei nostri sensi e del nostro intelletto, è un insieme di fatti diversi e irriducibili l’uno all’altro. E’ una realtà che abbraccia in sé, che comprende nel suo seno, lo spirito e la materia, il cosmo e il caos, l’ordine e il disordine, l’intesa e la lotta. Questi elementi sono tutti necessari ed equivalenti: non esistono leggi fisse che li governano e stabiliscono che alcuni debbano sempre rimanere subordinati agli opposti. Quindi se ora, nella realtà, predomina l’ordine, questo non c’impedisce di prospettarci l’ipotesi che, nel futuro, la natura possa cambiare e che, per effetto del movimento di bilancia, il disordine, che oggi è ridotto, possa riprendere il sopravvento e cacciare l’ordine in uno stato d’inferiorità. Gli elementi sono equivalenti: l’ho detto e lo ripeto. O come manifestazioni di sostanze diverse, necessariamente o fortuitamente associate; o come manifestazioni di una sostanza unica che non può esprimersi se non in forme opposte che sono irriducibili all’unità, in quanto forme, e non potrebbero identificarsi se non annientandosi ossia rientrando nella indifferenziata realtà della sostanza semplice. Dunque non si comprende perché fra questi elementi equivalenti, tutti necessari alla natura, alcuni dovrebbero sempre rimanere alla, testa, con funzioni direttive, ed altri assolvere il compito dei gregari ubbidienti e disciplinati. Nella realtà che conosciamo, e in noi stessi che ne siamo parte, si rivelano, fianco a fianco, in uno stato di continua oscillazione, l’ordine ed il disordine. Perché non volete vedere che il primo ed ignorare il secondo ».
« Ma via, lascia stare le sottigliezze metafisiche — protestò l’avvocato. — In verità il disordine non esiste, non è che una nostra illusione. In natura non v’è che l’ordine, costante e progressivo, la regola eterna. Del resto anche la scienza ci dimostra che l’universo, che esiste da miliardi di anni, è stato sempre ordinato ».
« Bravo, avvocato ! — replicai. — Non ti accorgi che stai sostenendo una tesi molto vicina a quella teleologica di Tommaso d’Aquino. Però ti chiedo, entrando nel campo della metafisica in cui proprio tu mi spingi: quest’universo ordinato, che esiste da dieci, venti, trenta miliardi di anni, da cosa è venuto? Da una realtà anteriore, certamente. Ebbene, questa realtà anteriore non poteva essere il nulla assoluto perché dal niente nasce niente e nessuna bacchetta magica di padreterno poteva operare il miracolo. Dunque doveva essere un nulla relativo, il non essere dell’essere, la stessa realtà attuale che esisteva in modo opposto a quello in cui esiste ora (1). Era il caos in cui tutti gli elementi turbinano confusamente. Poi, in seguito, tale caos ha ordinato nel suo seno gli elementi confusi ed ha generato una nuova realtà, l’universo. Ma nel suo fondo ultimo, nella sua essenza, il caos è rimasto caos, non si è trasformalo ma, unito a quell’altra parte di sé che si è metamorfosata, che è diventata universo, ci presenta ora lo spettacolo della natura in cui l’essere ed il non essere sono l’uno accanto all’altro e li troviamo in noi e fuori di noi.
Per questo motivo l’uomo non riesce mai a stabilire l’armonia nella sua anima fra le opposte tendenze che in essa si sfrenano. Vivere come si sente significa abbandonarsi al sentimento o alla passione che, nel momento presente, si rivela più forte, soggiogando altri sentimenti e passioni che, in seguito, prenderanno il sopravvento. Perciò se l’armonia non possiamo fissarla in noi, come vuoi che possiamo stabilirla, definitiva e perfetta, fra noi e gli altri uomini vicini e lontani?».
L’avvocato ed il leader anarchico rimasero zitti. Ma la contadina lucana, che non aveva compreso nulla di tutto quanto ascoltato, intervenne nella discussione dichiarando che io «dicevo storie» e l’amore, che è l’impulso fondamentale dell’essere umano, finirà per trionfare. Imperativamente, con quel tono autoritario che faceva tremare le cameriere, sentenziò che il bene doveva divenire obbligatorio e i fautori del male, i borghesi sfruttatori, i fascisti assassini che avevano massacrato i poveri negri in Abissinia e i compagni spagnoli, dovevano essere tutti fucilati. Poi sarebbe venuto l’Eden, il paradiso di lattemiele, la società futura della pace e dell’accordo.
In quell’istante la fantesca si avvicinò e mostrando un piede, spaventosamente gonfio, chiese alla signora il permesso di mettersi a letto.
« No, perché dovete ancora spazzare il salotto e dare la cera ai pavimenti» rispose la contadina rifatta.
« Ma, signora, guardi il mio piede. Mi duole terribilmente e non posso più sopportare questa pena. Se continuo a strapazzarmi, domani non potrò lavorare ».
« Ed io vi manderò via perché chi sta qui deve guadagnarsi il pane. Se siete ammalata andate all’ospedale. Ma se rimanete in casa dovete assolutamente fare il vostro lavoro ».
La poverina sospirò e si allontanò zoppicando. Io mi alzai nauseato. Rivolgendomi al vecchio impostore, dissi:
« Un amoralista che accetta la vita senza esclusioni e riconosce la naturalità e l’equivalenza delle passioni, buone e cattive, ha compassione di quella disgraziata e se ne va per non vederla soffrire. La tua femmina che posa a umanitaria e vuole il trionfo incondizionato del Bene, nega il riposo a un’ammalata. Se i borghesi non conoscono la pietà, lei la conosce meno di loro. E voi tutti, moralisti, altruisti, utopisti, non siete altro che un branco di canaglie e di farabutti ipocriti». Presi il cappello e uscii. Nei giorni che seguirono mi ruppi definitivamente con I. del quale ero stomacato. Il sospetto che fosse una spia era stato confermato da nuovi indizi e io non volevo mantenere nessun rapporto con un individuo del suo genere.
In una lettera che gl’inviai per significargli il mio disprezzo, dopo aver ricordalo tutte le bassezze che commetteva, conclusi con questa osservazione:
« Tutto ciò mi dimostra che tu non sei anarchico perché, se lo fossi come me, ti comporteresti in modo diverso ».
Il dottore consegnò la lettera alla questura. Immediatamente i poliziotti eseguirono una perquisizione in casa mia, sequestrarono la copia del mio scritto ad I. e mi tradussero in carcere. La Commissione Provinciale di Napoli, con un’ordinanza in data 25 aprile 1937, m’inflisse cinque anni di confino politico, per professione di fede anarchica.
Ed io ritornai, con le manette ai polsi, a Tremiti.

* * *

Quel maledetto scoglio che, se potessi, farei saltare con la dinamite, mi accolse per la seconda volta, nel suo grembo infecondo. E ripresi la vita di prima, vita fatta di noia, di disgusto, di ribellioni represse. Noi confinati non potevamo scendere al porticciolo e dovevamo stare tutto il giorno sulla cima dello scogliaccio, arido ed inospitale, fra le quattro casupole del paese schiacciate dall’imponente vetustà del medioevale castello che le sormonta. E andavamo in su e in giù, dalle case al castello e dal castello alle case, muovendoci in uno spazio fin troppo angusto e camminando su certi ciottoli aguzzi che sfondavano le piante dei piedi. E tutti i giorni non si poteva fare che quello, vedere sempre le stesse cose, incontrare sempre le medesime persone, ascoltare le voci rauche degli ubriachi che cantavano: « La violetta la va, la va, la va » e le concioni esasperanti dei comunisti che ripetevano monotonamente, con le parole obbligate, le lodi della Russia e il panegirico di Stalin.
Intorno poliziotti dalla grinta dura e dallo sguardo inquisitore, mastini feroci che spiavano ogni gesto e ogni parola, pronti per arrestarci. Poi altri nemici ancora più insidiosi, i confinati che facevano la spia o inventavano calunnie a danno dei compagni per guadagnarsi così il proscioglimento. I bolscevichi riuniti in conventicola, si prestavano mutuo appoggio, si guardavano le spalle reciprocamente, costituivano un blocco compatto contro il quale l’azione sbirresca-spionistica poteva avere minore presa. Ma quelli che, come me, erano isolati, all’infuori della setta rossa, e contro la polizia e i suoi ruffiani, si trovavano nelle condizioni degl’ignavi nel vestibolo dell’inferno: a Dio spiacenti ed ai nemici suoi. E ricevevano botte da tutte le parti.
Il giorno ci si annoiava. Io studiavo ,altri conversavano o scendevano e risalivano al castello o si trattenevano nelle bettole. Al tramonto suonava la tromba e tutti dovevamo rientrare nei cameroni dove ci chiudevano e ci lasciavano stare fino al mattino, in compagnia del prurito che procuravano le cimici e del fetore nauseante che le latrine mandavano.
Bella vita era quella, non c’è che dire … Mussolini non ci passava che sei lire al giorno per ciascuno. E con tale misera somma dovevamo vivere e non bastava per pagare la porcheria che ci davano da mangiare nella mensa o nell’osteria di Ciociò. Però i capi comunisti si arrangiavano diversamente. Con i soldi del soccorso rosso. E, viva sempre Stalin, per loro la vita non era troppo dura.
La setta bolscevica, all’epoca del mio ritorno a Tremiti, era diventata più numerosa e padroneggiante. Alcuni settari continuavano a fare la spia al direttore; non solo per ritrarne vantaggi personali, ma anche per incarico del « partito », per meglio colpire, con l’arma della delazione, gli avversari politici. Ma la setta, ufficialmente, manteneva nel suo complesso un atteggiamento di opposizione, legalitaria e formale, all’autorità dell’isola costituita da sbirri venduti al fascismo. Di tale atteggiamento che, praticamente, consisteva nell’indurre i confinati alla sopportazione rassegnata del regime di confino unita alla inutile ostentazione di certe forme di protesta passiva, s’impermalì il direttore Fusco. Era costui il più bel tipo d’idiota presuntuoso che abbia mai conosciuto. Lo stesso che mi mandò in punizione a S. Domino quando volevo rompere gli occhiali dell’onorevole Costa.
Fusco che fisicamente, sembrava un pupazzetto da boite a surprise, con due baffettini tirati all’insù e certi occhietti che sprizzavano vampate di vanagloria, non poté tollerare che gli armigeri bolscevichi non lo salutassero quando lo incontravano in istrada. Non capì che quella era tattica e che gli stessi truculenti staliniani che, pubblicamente, ostentavano noncuranza o disprezzo per lui, dimostrando così di non essersi piegati, quando poi, isolatamente, entravano nel suo ufficio, si profondevano in inchini e salamelecchi facendo ammenda della loro colpa. Non comprese nulla il povero fesso. Non intuì che coloro che impedivano i tentativi di fuga, le rivolte individuali e anche le sommosse dei molti, spronati dalla disperazione, erano proprio Graziadei, Vincenzi e gli altri caporali di Stalin che predicavano l’attesa paziente del gran giorno della rivincita, per effetto della politica internazionale. E intanto costringevano i loro seguaci ch’erano la maggioranza dei confinati, a sottostare a tutte le vessazioni, esprimendo soltanto, con gesti beneducati, una contegnosa riprovazione morale e sociale. Fusco, accecato dalla sua megalomania di gendarme semianalfabeta, non si contentò della disciplina, ma volle addirittura la schiavitù e l’abiura. E decretò che i confinati dovevano salutare romanamente, lui ed i suoi agenti, agli appelli giornalieri.
Questo ukase suscitò l’indignazione generale. Anche l’asino, quando è troppo bastonato, finisce per tirare calci e la provocazione poliziesca risvegliò, per un istante, i confinati di Tremiti. Tutti si agitarono e i comunisti e gli anarchici dichiararono subito che si sarebbero ribellati all’ingiunzione.
« Noi non saluteremo e non potranno denunziarci perché la legge di pubblica sicurezza non stabilisce che dobbiamo alzare la mano » — affermarono.
« Ma — replicai — il direttore c’infliggerà successivamente tante consegne e punizioni che, alla fine, tutti si stancheranno e, prima o dopo, capitoleranno. La resistenza passiva, il gandhismo, segnerà la nostra sconfitta. Per conseguenza, se non vogliamo sopportare l’imposizione, non abbiamo altra via che quella d’insorgere improvvisamente, disarmare i pochi agenti che presenziano l’appello, occupare di sorpresa le tre casermette dei carabinieri nelle quali non incontreremo che scarsa resistenza da parte degli attaccati che, non sospettando la rivolta, non saranno pronti a fronteggiarla. Contemporaneamente un altro gruppo occuperà l’ufficio telegrafico e distruggerà gli apparecchi. Siccome a Tremiti non v’è stazione radiotrasmittente né alcun altro mezzo di comunicazione, all’infuori del telegrafo, in Italia non giungerà subito la notizia della sommossa e non partiranno rinforzi. Noi, padroni dell’isola, attenderemo l’arrivo del vapore che, proprio domani, deve giungere da Manfredonia, ce ne impadroniremo e, saliti su, fileremo verso la Dalmazia. Il piano ha molte probabilità di riuscita, data anche la scarsa forza che c’è qui e la sorpresa che sarà il nostro migliore ausiliario. Riacquisteremo la libertà ed infliggeremo un grave smacco a chi ce ne ha privati. Del resto, anche se un fatto imprevisto farà fallire il colpo, soccomberemo ma lottando e restituendo le botte ».
I capi comunisti e gli anarchici bocciarono la proposta che definirono pazzesca. Cercarono tutti i pretesti, indicarono tutti i pericoli, anche i più lontani ed i meno verosimili, per dimostrare che la rivolta sarebbe fallita. Cosi nel ‘20, si prospettarono tutte le difficoltà per rimandare continuamente la rivoluzione; così tutte le volte che c’è stata da compiere un’azione hanno sempre trovato la scusa plausibile per tirarsi indietro. A certa gente piace complottare, lavorare nell’ombra, ma non affrontare il pericolo apertamente, alla luce del sole. I bolscevichi sanno sfidare il confino e la galera, ma non la morte. Sono troppo attaccati alla pellaccia per diventare eroi. Pensano che dall’isola si ritorna, dal carcere si esce con l’aureola del martirio e con maggiori probabilità di diventare un grande o piccolo Stalin della prossima dittatura. Ma la morte è la fine d’ogni speranza: occorre quindi schivarla. Il comunista vuole vivere per mangiare e comandare. Il comando non è per lui, come per il superuomo nietzschiano, un mezzo per indiarsi, per realizzare un superbo sogno di grandezza personale; ma è bestiale libidine di oppressione, foia tigresca di stringere tra gli artigli, d’imporre il proprio dominio, il proprio fanatismo, la propria barbarie, soddisfacendo tutti gli istinti e gli appetiti del bruto.
Il giorno seguente, all’appello, vi fu un banale scambio di pugni fra confinati e poliziotti, ma non si andò più avanti. La direzione ordinò un centinaio di arresti; quelli rimasti fuori si affrettarono a salutare. I capi bolscevichi, con l’avvocato Corrado Graziadei alla testa, non levarono il braccio nel saluto romano, per non discreditarsi presso i seguaci; però salutarono togliendosi il cappello. Invece pochi riottosi non fecero alcun saluto, ed io fui tra questi. Arrestati e rinchiusi in un camerone per scontarvi la consegna aggravata, rimanemmo, gandhisticamente, nell’inerzia, per incitamento dei capi comunisti che erano stati rinchiusi con noi. Il caldo ci soffocava, la mancanza d’aria dava i tormenti dell’asfissia, un giovane staliniano, già tubercolotico, mori dopo quindici giorni, e i generali rossi continuarono a predicare la calma e la resistenza passiva. Nauseato di quella sciocca commedia che non metteva capo ad alcun risultato, io, finito il mese di consegna, mi separai dai ribelli alla Gandhi. I bolscevichi mi criticarono aspramente, ma, dopo pochi giorni, il loro duce, l’avvocato Graziadei, salutò romanamente, per salvarsi. E fu prosciolto dal confino. Io, invece, rimasi relegato E trasferito da Tremiti a Ventottenne.

* * *

Nell’isola che Settembrini ricorda nelle sue « Rimembranze » trovai maggiore rigore poliziesco e una più seria opposizione fra bolscevichi e direzione. Quanto più la polizia gravava la mano, tanto più i marxisti serravano le file, irrigidivano la disciplina, esasperavano il settarismo e la ferocia. Molti gregari disertavano spaventati dalla severità della sbirraglia o nauseati dalla tirannia dei capi rossi; e questi, furibondi per i quotidiani abbandoni, esigevano un’obbedienza cieca da parte dei fedeli e invelenivano, con rabbia idrofoba, la calunnia, il boicottaggio, la persecuzione dei non staliniani. Quando un nuovo confinato giungeva a Ventottenne i comunisti lo circondavano immediatamente, l’attiravano nella loro orbita, gli dettavano la norma di condotta e la regola di pensiero. Tre o quattro propagandisti lo sottoponevano a continue iniezioni di dottrina moscovita, gl’implacabili censori, preposti alla sorveglianza e alla direzione dei neofiti, lo accompagnavano dappertutto, nel camerone, in istrada, agli appelli, gli spiegavano il dovere e la necessità di aderire al partito e di uniformarsi alla sua disciplina, e gli mostravano i vantaggi che gliene sarebbero derivati e il danno che avrebbe ricevuto mettendosi contro il gruppo più forte del confino. Il nuovo giunto, stordito, assillato, suggestionato, cedeva; e da quell’istante faceva parte dell’armata dei devotissimi e dei fedelissimi, delle macchine umane che sentivano, volevano ed agivano come disponeva lo stato maggiore bolscevico.
Ma se il neofita resisteva, se non si lasciava assorbire e conservava la propria indipendenza, la più accanita persecuzione si scatenava contro lui. I comunisti si passavano la parola d’ordine e cercavano, con tutti i mezzi, di rendergli la vita impossibile. Nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno lo avvicinava, tutti gli esprimevano il disprezzo e l’avversione. Gli aggettivi «spia», «manciuriano», venivano soffiati nel suo orecchio ad ogni istante. Il più penoso isolamento e lo spregio più duro pesavano sul reietto, l’avvilivano, lo schiacciavano. Nel camerone e nella mensa ognuno si ingegnava di fargli qualunque dispetto, di mortificarlo, di offenderlo. Il poverino inghiottiva veleno, masticava amarezza, si torceva sotto il tallone di ferro che pesava sul suo petto, poi finiva per capitolare. I poliziotti avevano un bel ripetergli che, se si fosse unito ai comunisti, non sarebbe più tornato a casa; ma lui viveva lì, in quell’ambiente, non poteva rassegnarsi lungamente all’onta del reprobo, dell’appestato, non poteva sopportare che i compagni gli sputassero sempre sul viso e lo trattassero come una cosa immonda. Quindi, anche a costo di rovinarsi maggiormente e di allontanare il suo ritorno in famiglia, doveva diventare comunista. Se per tanto resisteva, se mostrava i denti agli aguzzini, allora questi escogitavano altri mezzi; qualcuno, in sua assenza, nascondeva nella sua branda un oggetto di proprietà di un bolscevico; poi il proprietario comunicava ai poliziotti la sparizione dell’oggetto. Gli agenti eseguivano le perquisizione in tutte le brande del camerone, trovavano il corpo del reato in quella del povero ignaro e lo arrestavano per furto. La polizia era gabbata e l’anticonformista punito.
Malgrado ciò molti abbandonavano i comunisti ma, dopo poco tempo erano prosciolti o trasferiti altrove; gli staliniani invece rimanevano sempre a Ventottenne, costituivano un gruppo compatto, organizzato, disciplinato, possedevano l’eccedenza del numero e riuscivano a dominare il confino e a boicottare chi non si piegava al loro giogo.
Nessuno parlava, nessuno protestava contro i soprusi dei bolscevichi: la potenza della paura chiudeva la bocca di tutti. Le spie non mancavano ma il controspionaggio comunista paralizzava la loro azione e faceva si che i fatti più gravi non arrivassero all’orecchio di quelli che si confidavano con la questura. I seguaci di Stalin agivano con tale subdola maestria che, solo raramente, i poliziotti riuscivano a coglierli in flagranza. Ma anche quando si scopriva qualche cosa, cadevano i gregari, gli esecutori; i capi davano gli ordini e rimanevano nell’ombra, spingevano gli altri avanti ma non si compromettevano personalmente, rendendosi cosi inattaccabili. Essi avevano gli informatori che giornalmente stendevano rapporto di tutto quanto si diceva e si faceva nell’isola; comandavano i fedeli soldati che, con pecorile sottomissione, obbedivano sempre, sia che ci fosse da versare soldi al soccorso rosso o da perseguitare i non comunisti, sia che si dovesse protestare contro la direzione o creare una infamia per rovinare qualcuno. E i generali, i papaveri, le eminenze rosse, tirando i fili dietro le quinte, stalineggiavano. C’era da picchiare un nemico? Mandavano gli armigeri. Volevano propalare una calunnia contro un inviso? Passavano la parola e, in un momento, lo sciame dei seguaci aveva sparsa la voce. Intendevano avanzare un ricorso al ministero attaccando la polizia? Essi dettavano ed un X fesso firmava attirando su sé il risentimento dei questurini e la loro malevolenza. I docili gregari si privavano delle sigarette per versare la quota obbligatoria al soccorso rosso, e i capi, con quei soldi, prendevano il tè, mangiavano la marmellata, si rimpinzavano di crema e di pollo e offrivano il vermout alle tre o quattro Theroigne di Mérincourt, a scartamento ridotto, che rappresentavano il comunismo femminile in Ventottenne. Per la grandezza di Stalin e la redenzione dell’umanità i soldati digiunavano e i generali facevano le scorpacciate. Ad majorem dei gloriam.
Fra i capi spiccava la figura del lumacone zoppicante, del torinese Roveda, reduce dalle patrie galere e perciò adoralo come martire in Italia e all’estero. Alla sua boria ridicola si univa l’arroganza plebea dell’indivisibile compagno Vincenzo Baldazzi, ex comandante, in sott’ordine di Mingrino, degli arditi del popolo e repubblicano alla Stalin nell’interesse del fronte popolare e della propria ambizioncella. Questo tozzo Don Chisciotte ricordava, con la sua grinta, il feroce sonetto col quale il Rapisardi fece il ritratto del Carducci nella memorabile polemica fra i due scrittori: «In canin ceffo occhio porcino». Egli era il vero tipo del capo popolo, del Masaniello insolente, presuntuoso, volgare. Raccontava a tutti le vittorie dei bei tempi quando, alla testa dei suoi prodi, sbaragliava i fascisti e schiaffeggiava i consoli della milizia in mezzo alle loro legioni. Non si comprendeva — ascoltandolo — come Mussolini fosse potuto entrare in Roma; ma l’arcano lui lo spiegava con la scempiaggine di Facta che non aveva voluto affidargli .... i forti della città.
Amico di Roveda e, forse, più settario e tracotante dei suoi alleati comunisti, egli era a Ventottenne un’autorità fra i confinati che salutavano sulla sua testa il berretto gallonato del futuro generalissimo dell’armata rossa italiana. Accanto a lui ed al santone bolscevico si presentava, alla rispettosa distanza di tre passi, il ragioniere Calogero Barcellona, sotto-capo di vaglia, con la compostezza e la regolarità dell’impiegato di banca che ha trascorso l’intera vita a Milano economizzando sullo stipendio di 500 lire mensili. Un po’ dietro, secondo l’ordine gerarchico, appariva « frate» Caprioli, piccolo, sfuggente, ipocrita, vero tipo di domenicano dell’Inquisizione e di fanatico provveditore degli autodafé. E al suo fianco, marziale ed indomabile come conviensi all’attendente del generale Baldazzi, marciava Alfonso Failla, barbiere siracusano, intelligentino ed autodidatta ma mafioso, prepotente ed ambizioso, che si diceva e si dice anarchico ma cucinava l’anarchia con tutte le salse nella speranza di diventare qualcuno.
Questi erano i componenti lo stato maggiore bolscevico che dirigeva i confinati politici nell’isola di Ventotene. Erano i tirannelli di quei poveri diavoli che avevano avuto la pretesa di ribellarsi, coi fatti o con le chiacchiere, a Mussolini per poi diventare gli umili schiavi di cinque nullità, despotiche ed esigenti.
Naturalmente, ai generali ed ai soldati, io dissi subito ciò che sentivo. Chiamai «Stalin di cartapesta» i capi, «pecoroni dalle corna ricurve» i gregari. Il ragioniere Barcellona che dormiva nel camerone, dirimpetto a me, divenne il bersaglio dei feroci strali che il mio sarcasmo gli lanciava. Quando vedevo ogni sera il suo attendente, un certo Stokovic, triestino, che, in omaggio alla disciplina comunista, gli faceva il letto, gli preparava il tè e si sorbiva le strapazzate senza rispondere, chiedevo allora all’autoritario Calogero perché non si decideva a provvedersi di un orinale che il servo fedele gli avrebbe, la mattina, vuotato. I capi bolscevichi pretendevano comandare nei cameroni e nelle mense, imponendosi, non solo, ai loro seguaci, ma a tutti. Stabilivano l’ora in cui i confinati dovevano alzarsi, l’ora nella quale bisognava studiare e quella destinata al riposo. Volevano trasformare il confino in una caserma ed esserne i caporali. Tutti ubbidivano, il solo che mostrava i denti ero io.
La prima mattina che gli armigeri di Mosca mi destarono, invitandomi a levarmi, afferrai una scarpa e dichiarai che avrei rotto gli occhiali del ragioniere Barcellona se non fossi stato lasciato in pace. Ma la mia anarchica strafottenza acuì l’odio che i comunisti mi portavano e non valse a svegliare gli altri. Sessanta secoli di vita gregaria hanno trasformato gli uomini in pecore e qualunque esempio, qualunque esortazione, non serve a ridestare nel loro cuore la fierezza personale, il senso dell’indipendenza. Incaproniti fino alla nausea, i gregari marxisti continuavano ad obbedire supinamente ai capi, subivano rimbrotti e castighi, si facevano consegnare nel camerone col divieto di uscita e si attenevano all’ordine di non parlare per un dato tempo con un compagno al quale era stata inflitta una punizione solenne. Erano come tanti fantocci i cui fili venivano tirati dai vari Bonelli, Roveda, o Baldazzi, cioè dai vari caporalicchi che si allenavano all’esercizio dell’autorità staliniana. Il comunista, divorato dalla libidine del comando, ubbidisce servilmente al superiore attendendo che possa salire qualche gradino nella gerarchia del partito e prendere il suo posto. Cosi Stokovic faceva il letto a Barcellona sognando il giorno nel quale qualche altro lo avrebbe fatto a lui. Così Franzoni, a Tremiti, usciva di casa lasciando sola la moglie col generale recatosi a visitarla e pensava che, in avvenire, con la greca sul berretto, avrebbe anche lui visitato le mogli dei compagni.
Mentre i rapporti fra me e i comunisti si facevano sempre più tesi, seppi che Roveda, l’eroe, il martire, il simbolo della resistenza bolscevica, aveva segretamente inoltrato al governo una domanda di grazia, un vero e proprio atto di sottomissione nel quale inneggiava a Mussolini e al regime, datando con l’anno XV° dell’Era Fascista. Nauseato dall’ipocrisia di quel santone che predicava l’intransigenza e spronava gli altri a rimanere sulla breccia, mentre poi, di nascosto, cercava salvarsi recitando la commedia del ravvedimento, comunicai a tutti la notizia: « Ecco cosa sono i comunisti — dichiarai — vili e simulatori. Impongono l’inflessibilità, bollano e perseguitano chi si piega, lanciano le più feroci ingiurie e rendono la vita impossibile a quei poveri diavoli senza idea e senza passato politico che, capitati qui per sbaglio, invocano la clemenza del dittatore; poi, all’insaputa di tutti, inviano anch’essi le domande di grazia e se ne ritornano a casa senza che la platea veda la loro calata di brache. Per la massa rimangono i puri, gl’indomabili, ma a Mussolini hanno chiesto segretamente perdono ».
Roveda, da me interrogato prima che rendessi nota la sua defezione, non poté negare di avere chiesto al duce il proscioglimento dal confino. Ma cercò pretesti per attenuare il suo atto e si allontanò masticando amaro; poi con quella perfidia e ipocrisia che sono speciali doti dei comunisti, diede ordine ai suoi seguaci di sferrare contro me la più schifosa campagna di calunnie e d’infamia. Baldazzi, il Masaniello romano, il generale degradato degli arditi del popolo, si assunse la direzione dell’attacco. Failla, l’anarchico di Mosca, l’attendente di Baldazzi, si schierò al fianco del superiore e gli passò gli strali avvelenati che avrebbero dovuto colpirmi. Abituato a baciare la mano degli alleati comunisti che hanno scannato i suoi compagni libertari in Russia e in Spagna ma che a lui daranno il bastone del comando nella natia Siracusa quando Baffone verrà, il barbiere siciliano cercò trafiggermi in tutti modi con l’arma vile della diffamazione, sebbene fino al giorno prima si fosse dichiarato mio amico. La disciplina del fronte popolare gl’imponeva la lotta contro me, quantunque sapesse che avevo indubbia ragione; ma il settarismo, l’influenza di Baldazzi, la necessità dell’accordo con i capi bolscevichi con i quali è stato sempre cucito a filo doppio, a Ponza ed altrove, lo spingevano a lanciare spruzzi di bava idrofoba che non raggiungevano nemmeno la suola delle mie scarpe.
Al seguito dei generali i pecoroni gregari, senza cervello e senza volontà, i docili fessi che credono tutto quello che i papaveri dicono e agiscono supinamente come i superiori comandano, tentarono boicottarmi, ubbidendo alla parola d’ordine venuta dall’alto. Allo scopo di farmi il vuoto intorno indussero, con la persuasione o con le minacce, quanti più confinati potevano a non parlare con me. Inventarono sul mio conto le più strane frottole e le più basse calunnie che poi si sussurravano nelle orecchie, furtivamente. Cercarono esasperarmi con i più vili dispetti e le più sleali manovre e uno di loro, che spadroneggiava nell’infermeria, come aiutante del medico, giunse al punto di negarmi, con i più stupidi pretesti, le medicine che mi spettavano. La squadra d’azione organizzò un’aggressione che avrebbe dovuto svolgersi in questo modo: di notte, mentre dormivo, quattro armigeri si sarebbero avvicinati al mio letto e, lanciatami una coperta sulla testa, avrebbero picchiato. All’ultimo istante giunse un contro ordine e l’aggressione fu rimandata: l’intero confino e anche la direzione, erano al corrente della mia campagna contro Roveda e della contro-campagna che i comunisti conducevano per vendicarsi. Se fossi stato bastonato e ferito tutti avrebbero ritenuto come mandanti i capi bolscevichi che si sarebbero compromessi. Temendo il pericolo essi fermarono le mani già pronte a colpire.
In quei giorni, mentre l’azione subdola degli staliniani tentava prendermi alle spalle, un individuo che si faceva passare per anarchico ma era invece una spia, si tolse, con me, la maschera e mi confidò che, insinuatosi fra i comunisti e venuto a conoscenza di tutte le loro magagne (armi nascoste, corrispondenza clandestina, ecc.) le avrebbe denunziate alla direzione. Mi disse pure che, per incarico di Failla e Baldazzi, mi aveva rubato un quaderno nel quale i papaveri del fronte popolare; sospettavano scrivessi il libro antibolscevico da me preannunziato. Baldazzi, ricevuto il quaderno e pagate dieci lire di compenso al ladro-spione, era rimasto deluso trovando, al posto della critica politica, dei semplici appunti sulla « Storia del materialismo » di Lange. Non ne aveva capito gran che, nella sua crassa ignoranza, e s’era rimesso ai lumi di Failla che doveva dargli la spiegazione.
Riferendomi tutti questi particolari e la sua intenzione di denunziare i comunisti, il pseudo anarchico, già confidente della questura di Genova, credeva che conservassi il silenzio perché, in fin dei conti, egli voleva colpire i miei più feroci nemici. Voleva colpirli, ben s’intende, nella speranza del proscioglimento dal confino che il ministero gli avrebbe concesso; ma, a prescindere da ciò, vendicava, a parer suo, anche me ed io dovevo aiutarlo dando una forma letteraria all’esposizione scritta che intendeva inviare alla direzione.
Invece io chiamai « frate » Caprioli e lo misi al corrente di tutto. Io odio i comunisti, sono sempre pronto ad affrontarli, ma combatto apertamente, lealmente, e non voglio che nemmeno i miei più accaniti avversari, siano colpiti a tergo. In questo libro potrei narrare cose, ben più gravi, dei bolscevichi ma, facendolo, denunzierei indirettamente qualcuno e perciò me ne astengo.
Quando seppi che una spia stava per vendere coloro che mi calunniavano e mi combattevano con le armi più vili, li avvisai e li salvai. Agii cosi per cavalleria, per quello stesso sentimento che, a Parigi, mi spinse a proteggere una donna sconosciuta, nel caffè della Nation, a rischio della vita, e che a Tremiti mi spronò a difendere il fascista Neri contro i falsi testimoni. Come risposta alla mia generosità le serpi comuniste intensificarono la campagna di diffamazione contro me e provocarono ed aggredirono due anarchici, Francesco Ticchi ed Amedeo Bassi, che mi davano ragione.
Il santone Roveda non concedeva tregua ma, praticamente, applicava le lezioni di settarismo e di gesuitismo ricevute dal suo superiore, il pontefice Gramsci. Sul conto del quale sarebbe opportuno leggere quanto ha scritto il vecchio ed ardito anarchico Paolo Schicchi, ch’è stato in galera con lui. E ne ha detto peste e corna.

(1) Questa ipotesi è tutt’altro che inammissibile. Perfino uno scienziato cattolico, sir Edmund Whittaker, ha concluso le sue indagini intorno all’età del mondo con queste parole: « Questi differenti calcoli convergono nella conclusione che vi fu un’epoca, circa uno o dieci miliardi di anni fa, prima della quale il cosmo, se esisteva, esisteva in una forma totalmente diversa da qualsiasi cosa a noi nota: cosi che essa rappresenta l’ultimo limite della scienza. Noi possiamo forse, senza improprietà, riferirci ad essa come alla creazione» (Space and Spirit, 1946). Ma siccome la creazione dell’assoluto nulla è inconcepibile, si può meglio ritenere che alle origini, la realtà esisteva in modo opposto all’attuale, ossia come caos da cui poi è sortito il cosmo. O per propria intima necessità; o per azione ordinatrice di un elemento demiurgico (controbilanciabile, nell’eternità, con l’azione di elementi opposti); o per altre cause a noi ignote e, forse, mai conoscibili.



 E. Martucci 
"La setta Rossa" 

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